Copertina
Autore Mary Higgins Clark
Titolo Ho già sentito questa canzone
EdizioneSperling & Kupfer, Milano, 2010 [2007], Paperback , pag. 400, cop.fle., dim. 12,3x19,5x2,2 cm , Isbn 978-88-6061-673-9
OriginaleI Heard That Song Before [2007]
TraduttoreMaria Barbara Piccioli
LettoreGiovanna Bacci, 2012
Classe gialli , thriller
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Prologo



Mio padre lavorava come giardiniere nella tenuta dei Carrington. Con i suoi venti ettari di terreno era una delle ultime residenze private di quelle dimensioni esistenti a Englewood, nel New Jersey, un'amena e tranquilla cittadina a cinque chilometri da Manhattan.

Un sabato pomeriggio dell'agosto di ventidue anni fa, quando io ne avevo sei, mio padre decise, benché fosse il suo giorno libero, di fare un salto alla tenuta per verificare il funzionamento del nuovo impianto di illuminazione esterna. Quella sera i Carrington davano una festa a cui avrebbero partecipato duecento persone. Già in difficoltà con i datori di lavoro a causa della sua dipendenza dall'alcol, sapeva che se le lampade installate in giardino avessero dato problemi, avrebbe potuto perdere il posto. Dato che vivevamo soli, dovette per forza portarmi con sé. Mi fece sedere sulla panchina più vicina al terrazzo, e mi ordinò di non muovermi fino al suo ritorno. «Potrei stare via un po' di tempo», aggiunse. «Se hai bisogno di andare in bagno, apri la porta a rete dietro l'angolo. Quello dei dipendenti è proprio lì.»

Era esattamente il genere di permesso che aspettavo. Avevo già sentito mio padre descrivere alla nonna i misteri della grande dimora in pietra, e avevo fantasticato mille volte su di essa. Edificata nel Galles nel diciassettesimo secolo, disponeva perfino di una cappella dove un sacerdote aveva vissuto e celebrato messa in segreto durante il sanguinoso periodo in cui Oliver Cromwell aveva cercato di sradicare ogni traccia di cattolicesimo in Inghilterra. Nel 1848, il primo Peter Carrington l'aveva fatta demolire, pietra su pietra, e ricostruire identica a Englewood.

Grazie a mio padre, sapevo che la cappella, munita di una massiccia porta di legno, si trovava al secondo piano.

Dovevo vederla.

Aspettai cinque minuti dopo che lui si fu allontanato, poi corsi alla porta che mi aveva indicato. Le scale di servizio erano alla mia destra; salii, attenta a non fare rumore. Se avessi incontrato qualcuno, avrei detto che stavo cercando il bagno, giustificazione che, mi persuasi, era almeno parzialmente vera.

Al secondo piano, fu con crescente ansietà che attraversai in punta di piedi una sala dopo l'altra, imbattendomi in un labirinto di svolte impreviste. Poi però la vidi: la grossa porta di legno che mio padre aveva descritto tante volte, del tutto fuori posto in quella casa completamente ristrutturata.

Incoraggiata per non aver incontrato nessuno, percorsi correndo gli ultimi metri e tentai di aprirla. Quando la spinsi i cardini cigolarono, ma si schiuse quanto bastava perché potessi insinuarmi all'interno.

Penetrare nella cappella fu come andare indietro nel tempo. Era molto più piccola di quanto mi aspettassi. L'avevo immaginata simile alla cappella di Nostra Signora nella Cattedrale di San Patrizio, dove, le rare volte che andavamo a fare spese a New York, la nonna si fermava sempre ad accendere una candela in ricordo di mia madre.

In quelle occasioni non trascurava mai di dirmi come fosse bella sua figlia il giorno in cui aveva sposato mio padre, proprio in quella chiesa.

Pareti e pavimento erano in pietra, e l'aria era fredda e umida.

Una statua malconcia e scolorita della Vergine era l'unico oggetto di natura religiosa, e le candele elettriche collocate di fronte a essa erano la sola fonte di luce. Due file di panche di legno stavano davanti al piccolo tavolo, pure di legno, che fungeva da altare.

Mentre ero intenta a contemplare quell'antro che a lungo aveva acceso la mia fantasia, sentii la porta cigolare di nuovo. Stava per arrivare qualcuno. Spaventata, feci l'unica cosa possibile... mi infilai tra le panche e mi stesi a terra, poi mi nascosi il viso fra le mani.

Il suono delle voci mi disse che a entrare erano stati un uomo e una donna. Le loro voci irate riecheggiavano nel piccolo ambiente. Stavano discutendo di soldi, un argomento che conoscevo bene. La nonna non faceva che tormentare papà, dicendo che se avesse continuato a bere, molto presto non avremmo più avuto un tetto sopra la testa.

La donna esigeva altro denaro, e l'uomo ripeteva di avere pagato già troppo. Poi lei sembrò quasi supplicarlo: «Questa è l'ultima volta, caro, te lo prometto». Al che lui rispose: «È una canzone che ho già sentito».

I miei ricordi sono precisi. Da quando mi ero resa conto che, a differenza dei miei amichetti, io non avevo una madre, avevo pregato la nonna di parlarmi di lei, di raccontarmi tutto quello che rammentava.

Fra i ricordi che acconsentì a condividere con me c'era quello di mia madre che nella commedia di fine anno alle superiori cantava È una canzone che ho già sentito. «Oh, Kathryn cantava così bene. Aveva una voce splendida. Tutti applaudivano e chiedevano il bis. E lei dovette cantarla di nuovo.» E a mezza voce accennava il motivo.

Non capii cosa si dissero i due dopo, ma captai le ultime parole che la donna pronunciò prima di uscire: «Non dimenticare». Lui era ancora lì, sentivo il suo respiro affannoso. Poi, molto piano, cominciò a fischiettare la melodia della canzone intonata da mia madre alla recita. Ripensandoci ora, credo che stesse cercando di calmarsi, perché dopo qualche nota si interruppe e uscì a sua volta.

Aspettai per quella che mi parve un'eternità prima di imitarlo. Corsi giù per le scale e fui di nuovo fuori, e naturalmente non raccontai a mio padre che mi ero intrufolata in casa, né quello che avevo udito.

Non so chi fossero quei due, ma ora, dopo ventidue anni, è importante che lo scopra.

La sola cosa che ho potuto appurare dai vari resoconti di quella serata, era che alcuni ospiti si fermarono per la notte, insieme con cinque camerieri e il responsabile del servizio di catering con i suoi collaboratori.

Ma questo potrebbe non essere sufficiente a salvare la vita di mio marito, ammesso che meriti davvero di essere salvata.

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SONO cresciuta all'ombra del rapimento Lindbergh.

Questo significa che sono nata e ho sempre vissuto a Englewood. Era il 1932 quando il nipote del residente più illustre della città, l'ambasciatore Dwight Morrow, venne sequestrato. Si dava il caso, inoltre, che il padre del bambino fosse l'uomo all'epoca più famoso del mondo, il colonnello Charles Lindbergh, il primo a sorvolare l'Atlantico a bordo del suo monomotore, lo Spirit of St. Louis.

Mia nonna, che allora aveva otto anni, ricorda i grandi titoli di testa, le folle di giornalisti radunatisi fuori Next Day Hill, la tenuta dei Morrow, e quindi l'arresto di Bruno Hauptmann e il processo che ne seguì.

Era trascorso molto tempo, i ricordi erano sbiaditi. Oggi la dimora di maggior spicco di Englewood è quella dei Carrington, l'antico edificio in pietra in cui da bambina ero entrata di nascosto.

Il passato si riaffacciava vivido alla mia memoria mentre, per la seconda volta nella mia vita, varcavo i cancelli della proprietà. Ventidue anni, mi dissi, rammentando la marmocchia curiosa che ero stata. Forse era il ricordo di mio padre, licenziato dai Carrington solo poche settimane dopo, a farmi sentire di colpo a disagio. La serena mattina di ottobre si era trasformata in un pomeriggio umido e ventoso, e rimpiangevo di non avere indossato una giacca più pesante. Quella che avevo scelto, ora mi sembrava troppo leggera e poco adatta all'occasione.

Parcheggiai la mia vecchia auto su un lato dell'imponente viale e mi soffermai un momento a dare un'occhiata in giro.

Mi ero raccolta i capelli in uno chignon, ma il vento me li scompigliò, mentre salivo i gradini e suonavo alla porta. Ad aprirmi fu un uomo sui cinquantacinque, magro, con una calvizie incipiente e labbra sottili che non sorridevano. Portava un abito scuro e non capii se fosse un maggiordomo o un segretario, ma prima che potessi parlare, e senza presentarsi, mi informò che il signor Carrington mi stava aspettando.

L'ampio ingresso era rischiarato dalla luce che filtrava attraverso le finestre piombate, con i vetri colorati. La statua di un cavaliere in armatura faceva bella mostra di sé accanto a un arazzo medievale che raffigurava una scena di battaglia. Mi sarebbe piaciuto esaminare l'arazzo con più attenzione, ma seguii docilmente la mia guida lungo un corridoio che conduceva alla biblioteca.

«È arrivata la signorina Lansing, signor Carrington», annunciò l'uomo. «Se ha bisogno di me, mi troverà nel mio ufficio.»

Da bambina, mi piaceva fantasticare sulla casa dei miei sogni. Una delle stanze che non poteva mancare, e che avrei voluto fosse arredata con particolare cura e attenzione, era la biblioteca. Doveva essere ampia e luminosa, con librerie che arrivavano al soffitto e comode poltrone dove potersi sedere a leggere, in un ambiente caldo e accogliente. Non ero capace di rappresentare ciò che avevo in mente, ma sapevo benissimo, quello che volevo. Volevo il tipo di stanza in cui mi trovavo ora. Peter Carrington sedeva in un'ampia poltrona di pelle. La lampada sul tavolo accanto a lui non illuminava solo il libro che stava leggendo, ma anche il suo profilo regolare.

Portava occhiali da lettura che gli scivolarono sul naso quando alzò la testa. Li prese, li posò sul tavolo e si alzò. Mi era capitato di incontrarlo in città e avevo visto delle sue foto nei giornali, così che me ne ero fatta un'idea approssimativa, ma trovarmi a pochi metri da lui era diverso. Emanava un'aura di pacata autorità che non si dissipò neppure quando sorridendo mi tese la mano.

«Sa scrivere lettere molto persuasive, Kathryn Lansing.»

«Grazie per avermi ricevuta, signor Carrington.»

La sua stretta di mano era salda. Sapevo che mi stava studiando come io studiavo lui. Era più alto di quanto avessi creduto, il corpo asciutto e muscoloso di chi pratica sport. Gli occhi erano più grigi che azzurri, e il viso sottile era incorniciato da capelli castano scuro un po' troppo lunghi, ma che gli donavano. Indossava un cardigan marrone con un filo ruggine che correva nella trama del tessuto. Se avessi dovuto giudicarlo solo dall'aspetto, lo avrei preso per un docente universitario.

Sapevo che aveva quarantadue anni, il che significava che doveva averne più o meno venti quando mi ero introdotta in casa sua. Mi chiesi se quella sera avesse partecipato alla festa. Era possibile... ad agosto non doveva ancora essere tornato a Princeton, dove studiava. O, se le lezioni erano già cominciate, aveva forse fatto un salto a casa per il fine settimana. Princeton, dopo tutto, distava solo un'ora e mezzo di viaggio.

Mi invitò a sedermi in una delle due poltrone identiche collocate davanti al camino. «Cercavo una scusa per accendere il fuoco», disse. «E questo pomeriggio il tempo ha collaborato.»

Forse si rese conto, a ragione, che la mia giacca color lime era troppo estiva per a una giornata autunnale. Nel sentire una ciocca di capelli sfiorarmi la guancia, tentai invano di infilarla di nuovo nello chignon.

Ho un master in biblioteconomia, perché la mia passione per i libri ne ha fatto la scelta più naturale. Dalla laurea, che ho preso cinque anni fa, lavoro presso la biblioteca pubblica di Englewood, e collaboro attivamente alle iniziative culturali della città.

E ora mi ritrovavo in una biblioteca a dir poco impressionante «mostrando deferenza», come avrebbe detto la nonna. Stavo organizzando una raccolta di fondi per un progetto di promozione alla lettura e volevo farne un evento spettacolare. C'era solo un modo per convincere la gente a sborsare trecento dollari per un cocktail party, ed era che la serata avesse luogo in quella casa. Da tempo la dimora dei Carrington era entrata a far parte del folclore della città e delle comunità circostanti; tutti ne conoscevano la storia e sapevano che era stata trasportata qui dal Galles. Ero certa che la prospettiva di vederne l'interno avrebbe fatto la differenza tra il successo e il fallimento dell'iniziativa.

Di solito mi sento a mio agio anche nelle situazioni più impreviste, ma mentre me ne stavo seduta lì, conscia di quegli occhi grigi e scrutatori, mi scoprii nervosa e imbarazzata. Di colpo ero di nuovo la figlia del giardiniere che beveva troppo.

Il passato è passato, mi rimproverai, piantala ora con queste sciocchezze da «piccola orfanella». Facendo forza su me stessa, pronunciai il discorso che avevo provato e riprovato tante volte. «Come le ho scritto, ci sono molte buone cause che meritano che si compili un assegno, e naturalmente è impossibile sostenerle tutte. So che sono tempi difficili, e che spesso sarà sollecitato a mettere mano al portafoglio, ma ciò che vorrei farle capire è l'importanza del progetto che le abbiamo presentato e la sua enorme valenza culturale, in una piccola comunità come la nostra.»

Fu quando mi lanciai nella supplica di metterci a disposizione la sua casa, che vidi la sua espressione cambiare e intuii il «no» che le sue labbra stavano per formulare.

Lo fece con grazia. «Signorina Lansing», cominciò.

«La prego, mi chiami Kay.»

«Credevo che il suo nome fosse Kathryn.»

«Solo sul certificato di nascita e per mia nonna.»

Rise. «Capisco.» Poi recitò la formula del diniego educato. «Kay, sarò lieto di farle un assegno...»

«Ne sono certa», lo interruppi, «ma come le ho scritto, non si tratta solo di denaro. Abbiamo bisogno di volontari che avvicinino gli studenti alla lettura, e il modo migliore per convincerli ad abbracciare la nostra causa è indurli a partecipare a una serata e quindi arruolarli. Già un importante servizio di catering ha promesso uno sconto sostanzioso se la manifestazione si svolgerà qui. Sarebbe solo per due ore, e significherebbe molto per tante persone.»

Peter Carrington si alzò. «Devo pensarci.»

L'incontro era terminato. Decisi che non avevo nulla da perdere aggiungendo un'ultima considerazione: «Ho svolto parecchie ricerche sulla sua famiglia, signor Carrington. Questa è stata una delle case più ospitali della contea di Bergen per molte generazioni. Suo padre, suo nonno e il suo bisnonno hanno sempre appoggiato le iniziative della comunità e gli eventi di beneficenza. Dandoci il suo aiuto, farebbe del bene, e per lei sarebbe così facile».

Non avevo il diritto di sentirmi delusa, e tuttavia era così che mi sentivo in quel momento. Il signor Carrington non rispose, e io, restia a farmi accompagnare alla porta da lui o dal suo assistente, tornai da sola sui miei passi. Giunta nell'ingresso, mi fermai a lanciare un'ultima occhiata alla parte posteriore della casa, pensando alla scalinata che avevo salito furtivamente così tanti anni prima. Poi uscii, certa di aver compiuto la mia seconda e ultima visita alla tenuta.

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