Copertina
Autore Tomás Hirsch
Titolo La fine della preistoria
SottotitoloUn cammino verso la libertà
EdizioneNuovi Mondi, Modena, 2008 , pag. 204, cop.fle., dim. 14x21x1,2 cm , Isbn 978-88-8909-153-1
OriginaleEl fin de la Prehistoria [2007]
TraduttoreAnna Polo
LettoreFlo Bertelli, 2008
Classe politica , globalizzazione , economia finanziaria , storia: America
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Indice


Prefazione                                9

Prima Parte
È tornato Sisifo

  Il bivio                               17
  I signori del denaro                   27
  La globalizzazione, un vicolo cieco    51
  L'assurdo economico                    61
  Il tradimento dei vertici              79
  Appendice                              96

Seconda parte
La trasformazione sociale

  L'essere umano, questo sconosciuto    103
  La fine della preistoria              125
  Verso una società realmente umana     147
  Il motore del cambiamento             169
  America Latina, crogiolo del futuro   185

Alla fine, un breve racconto            197

Epilogo                                 199


 

 

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Pagina 17

IL BIVIO



                            Quello che si ottiene con la violenza
                            si può mantenere solo con la violenza.
                                                           Gandhi



Facciamo parte di un sistema

In tempi come quelli attuali, per un cittadino comune è molto difficile vedersi come fautore di cambiamento del corso degli eventi sociali. "Cosa mai potremmo fare?" ci chiediamo, rassegnandoci al ruolo di passeggeri, più o meno fortunati, di una nave di cui ignoriamo nel modo più completo itinerario e destinazione. Le urgenze del presente poi ci fanno spesso dimenticare che viaggiamo insieme ad altri, diretti da qualche parte, e ci immaginiamo il domani come la ripetizione infinita dell'oggi. Così tendiamo a credere che il cambiamento globale si produrrà attraverso l'accumulo di milioni di impegni individuali, smettiamo di preoccuparci per il destino dell'insieme e ci rinchiudiamo nella nostra cella di ape, svolgendo in modo più o meno brillante il ruolo che le circostanze ci hanno assegnato all'interno dell'alveare. Tuttavia la Terra non smette di muoversi solo perché noi non percepiamo il suo movimento... Che lo sappiamo o no, il destino di ognuno dipende dal sistema di cui fa parte e non il contrario. È come se fossimo a bordo di un treno diretto verso un precipizio; non è spostando i sedili all'interno dei vagoni che eviteremo un incidente. Per questo dobbiamo arrestare il convoglio o cambiare la sua direzione.

Come individui facciamo parte di una struttura sociale più ampia, che inoltre è in movimento, ossia sottomessa a cambiamenti e trasformazioni che non sempre comprendiamo o siamo in grado di interpretare. L'unica cosa chiara è che noi (e i nostri figli e nipoti) andremo dove essa va. Tener conto di questo fatto ci porta per forza a chiederci dove ci conduce: verso una situazione migliore o peggiore? E se la direzione imboccata dal sistema fosse distruttiva, come sembra indicare l'esperienza quotidiana diretta, cosa possiamo fare per modificarla?

È difficile rispondere a queste domande e ancor di più oggi, con un sistema che non è locale, ma globale: non si tratta già più di un paese o di una regione, ma del mondo intero e questo costituisce un'enorme sfida per un "povero mortale", la cui vita ne subisce comunque l'influenza, per quanto remoto sia il luogo dove abita. Se però oggi siamo alquanto ciechi rispetto a dimensioni quali le strutture e i processi, non significa che sia sempre stato così; sono molti i fattori che hanno contribuito a questa cecità. Fin dai tempi più remoti, comunque, gli esseri umani hanno sempre cercato di comprendere le leggi che reggono la Storia per poter dare a tale processo una direzione intenzionale e non casuale. Oggi questa comprensione è più necessaria che mai, prima che sia troppo tardi. Non è la prima volta che l'essere umano si trova in una situazione storica simile a quella attuale; è già successo molte volte in passato, ma a nostro parere la differenza risiede nel fatto che ora la risposta non verrà da leader illuminati che la imporranno dall'alto alle popolazioni. La risposta la troveranno i popoli nel loro insieme, come veri protagonisti della Storia. Ci sono vari indicatori del fatto che questo sta avvenendo in diversi ambiti ed è necessario prestare attenzione a tali segnali. Intendiamo collaborare a questa ricerca, cercando di ampliare la prospettiva rispetto al momento in cui ci tocca vivere. Quando saliamo in cima a un monte vediamo più cose e comprendiamo relazioni che eravamo incapaci di percepire restando in basso.


Si può superare la violenza sociale?

Da questa distanza, come vediamo la nostra epoca?

La prima cosa che risulta evidente è l'altissimo livello di violenza che soffoca la società. Incorporando la prospettiva del tempo, salta all'occhio un fatto notevole e allo stesso tempo assurdo: grazie allo sforzo titanico di innumerevoli generazioni, l'essere umano ha costruito un ambiente sociale e culturale per sfuggire al dolore e alla violenza imposti dall'ambiente naturale, eppure, come se si trattasse di una pesante zavorra che non può lasciarsi alle spalle, non è mai riuscito a liberarsi in modo definitivo di questo comportamento aggressivo. Così le società che ha creato continuano a portare questo tragico segno. La violenza fisica, razziale, religiosa, psicologica, sessuale e soprattutto economica, derivata dall'ingiustizia sociale e dalla disuguaglianza di diritti e opportunità, è arrivata fino al presente come un sinistro lascito. Questa ostinata eredità risulta difficile da capire, eppure continua a esistere; dato poi l'enorme potere delle armi nucleari moderne, oggi si è trasformata in una sicura minaccia di distruzione di massa.

È possibile sradicare una volta per tutte la maledizione della violenza dalle società umane? Alla luce dell'esperienza storica, saremmo tentati di rispondere di no e considerarla una speranza illusoria. Tuttavia è evidente che in diversi momenti sono esistite persone e cause che hanno raggiunto i loro obiettivi senza percorrere il cammino del sangue e della distruzione; essi ci servono da modello e riferimento per orientare la nostra azione e ci restituiscono la fede in una lotta in grado di realizzare questa antica aspirazione umana.

Per l'Umanesimo Universalista, corrente di pensiero a cui apparteniamo e in base alla quale parliamo, il problema della violenza personale e sociale è stata una preoccupazione centrale fin dall'inizio, nel 1969, nel cuore della Cordigliera delle Ande. Quando il pensatore latinoamericano Mario Rodríguez Cobo, detto Silo, ha dato origine a questo movimento – nel discorso chiamato La Guarigione della Sofferenza – rifletteva già sulle diverse forme di violenza che pregiudicavano la vita personale e la convivenza sociale in tutto il mondo e proponeva vie d'uscita a questa spirale distruttiva. Trentotto anni dopo, la situazione del mondo non è cambiata in modo drastico, così che il progetto originale del Nuovo Umanesimo è ancora valido e assai più forte che all'inizio. Nella sua ultima opera, pubblicata di recente, Silo torna ancora una volta sul tema, questa volta proponendo la possibilità di considerare configurazioni di coscienza avanzate ed essenzialmente non-violente e lascia aperta l'ipotesi che questo nuovo attributo psichico possa giungere a diffondersi nelle società come una conquista culturale profonda. Uno degli interrogativi centrali da cui prende spunto questo libro e che lo attraversa dall'inizio alla fine si riferisce dunque alle cause della violenza sociale e ai percorsi che sarà necessario seguire per superarla in modo definitivo.

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Pagina 31

La democrazia si basa sull'equilibrio dei poteri e sul contrappeso stabilito da una società civile forte e organizzata per porre dei limiti allo Stato e controllare il suo funzionamento. Quando un potere rimane privo di controllo perché non esistono contro-poteri che lo regolino, l'equilibrio si rompe e il sistema democratico si distorce completamente, acquisendo un carattere del tutto formale, giacché le decisioni che erano in mano al popolo nel suo insieme passano a questo potere indecente gestito da una minoranza. Questo è il caso del potere economico.

Dalla Rivoluzione Industriale in poi, l'aumento della ricchezza sociale nel mondo per effetto della rivoluzione tecnologica è andato di pari passo con un processo di accumulazione di tale ricchezza in sempre meno mani, fino ad arrivare a un livello attuale di concentrazione così estremo da trasformarsi in un mostruoso potere parallelo, in un para-stato. Il potere politico appare così come un semplice intermediario o esecutore delle intenzioni delle grandi concentrazioni economiche, le quali senza alcun pudore hanno introdotto il codice secondo cui i governi possono solo "amministrare" il paese, giacché il modello economico e sociale universale che stabilisce le regole del gioco da essi imposto è immodificabile. In altre parole, hanno trasformato l'illustre funzione di governare in una specie di magister ludi, che si occupa di far osservare le regole, senza alcuna autorità di cambiare il gioco. Non è certo un ruolo dignitoso per i nostri politici, però così stanno le cose.

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Pagina 34

In teoria suonava bene, però nessuno aveva previsto l'effetto contrario rispetto a queste belle aspettative prodotto dal fenomeno della concentrazione del capitale; attraverso la speculazione in borsa e l'usura bancaria, questo ha finito per accumulare - un'altra volta, come Sisifo - i mezzi di produzione in poche mani, aumentando il potere di questa minoranza economica sulle società fino a un livello aberrante e incompatibile con qualsiasi concezione e pratica democratica. Parafrasando Churchill, mai prima d'ora così pochi hanno comandato così tanti. Almeno lo Stato era un nemico chiaro e visibile e questo permetteva di organizzare la lotta sociale intorno a obiettivi precisi. Il capitale invece ha il dono dell'ubiquità; inoltre non esiste un centro di potere a cui riferirsi, cosa che indebolisce la mobilitazione sociale e la riduce a richieste puntuali o settoriali, privandola del suo carattere collettivo, ossia quello da cui le rivendicazioni e le lotte traggono maggiore forza. A rigor di logica bisogna precisare che quello che ha la capacità (o la compulsione?) di concentrarsi è il cosiddetto "capitale speculativo" o "capitale finanziario", per differenziarlo dal capitale produttivo: quest'ultimo tipo d'investimento rimane legato al luogo in cui sorge l'infrastruttura produttiva e al suo indotto sociale, arricchisce la catena del valore associata ai processi di produzione e contribuisce in modo efficace alla distribuzione della ricchezza. Al capitale speculativo, invece, non interessa la produzione come contributo sociale concreto, che avvantaggia un insieme ampio di esseri umani. La sua unica preoccupazione è quella di usare i procedimenti produttivi come mezzi per trasformare tutto in altro capitale finanziario, un fenomeno che si può osservare con chiarezza nei paesi dell'America Latina. Allegorizzando, potremmo dire che assomiglia a un "buco nero", che va divorando la diversità del mondo reale e umano per convertirla in un'astrazione uniformante e disumana. Tra l'altro, la relazione che si può stabilire tra questo comportamento economico insensato e la progressiva perdita di senso, osservabile nelle nostre società, soprattutto tra i più giovani, può costituire un interessantissimo argomento di studio per gli antropologi. Di sicuro tutti noi ci siamo fatti quattro risate vedendo quel cartone animato che trasmettono alla televisione, con due patetici topi che vogliono conquistare il mondo. La megalomania è una patologia sempre associata al ridicolo e per questo è così comica. C'è addirittura un'immagine universale che la illustra, quella di Napoleone con una mano nascosta nelle pieghe dell'uniforme. A cosa dovrebbe servire conquistare il mondo? Si tratta di un progetto smisurato e sterile, che non porta a niente di utile. Eppure, per quanto assurdo suoni, questo è il progetto dei signori del denaro; potremmo seguire i loro passi ad uno ad uno, dalle privatizzazioni forzate, alla quasi completa distruzione degli stati nazionali, alla schiavitù mascherata delle società attraverso il credito usuraio, per finire con la globalizzazione e i trattati di "libero" commercio ad essa associati. Se leghiamo il capitale produttivo alla catena del valore aggiunto (prodotti più complessi, che richiedono maggiore tecnologia e posti di lavoro più qualificati, con salari più alti, elevando la qualità della vita dei lavoratori), il capitale finanziario va invece nella direzione contraria, giacché toglie valore invece di aggiungerlo: è la catena del vuoto. Il problema è che sembra che stiano raggiungendo il loro obiettivo, grazie a tecnologie di punta e a un'intenzionale manipolazione della soggettività attraverso i mezzi di comunicazione di massa, soprattutto la televisione.

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Pagina 38

3. Se vogliono ottenere la tua presenza, devi esigere condizioni che ti assicurino il massimo rendimento

I paesi e le società subiscono una vera e propria estorsione da parte del capitale finanziario, deciso a ottenere condizioni favorevoli per i propri investimenti. Questo esige fondamentalmente tre cose: legislazioni deboli in campo lavorativo, fiscale e ambientale, che gli permettano di sfruttare i lavoratori, non pagare imposte e devastare l'ambiente. Ci sono molti esempi in questo senso; basta citare il caso del rame in Cile, in Perù e in altri paesi nei quali le leggi sull'estrazione di minerali sono state modificate così da permettere alle multinazionali di portarsi via il guadagno senza praticamente pagare tasse. Qualsiasi tentativo di questi paesi di applicare una qualche tassa o royalty come minima retribuzione per l'estrazione dei propri minerali suscita l'immediata minaccia di spostare gli investimenti da un'altra parte. Se le leggi non bastano, si può sempre utilizzare metodi meno delicati, come sanno bene in Medio Oriente.

Viene da chiedersi perché si accettino condizioni così vantaggiose per il capitale e dannose per i paesi. Se supponiamo che i governanti siano uomini e donne realmente interessati al benessere dei loro popoli, non c'è modo di capirlo. Dunque la logica è un'altra ed esiste un'unica risposta possibile: ci sono funzionari pagati dal capitale, con accesso ai livelli decisionali, che fanno pendere la bilancia a suo favore. Pertanto è illusorio pensare che, mantenendo questo sistema, si possa ottenere una migliore distribuzione del reddito. Questo è impossibile, perché minaccerebbe il massimo rendimento del capitale.

Non si tratta naturalmente di rifiutare gli investimenti stranieri per una questione di principio, ma per le condizioni in cui questi avvengono. Di fatto, saremo i primi a dar loro il benvenuto, sempre che adempiano a cinque requisiti fondamentali: che si investa in attività produttive nuove, invece di acquisire semplicemente azioni di ciò che già esiste; che si paghino le tasse per gli utili ottenuti, come fa qualsiasi impresa nazionale; che si creino posti di lavoro abbondanti e di buona qualità; che la gestione produttiva sia sostenibile per l'ambiente e che venga trasferita tecnologia alle università locali. A queste condizioni, molto diverse da quelle attuali, un investimento è un contributo e si trasforma in un fattore di sviluppo per i nostri paesi.

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