Autore Anne Holt
Titolo Quale verità
EdizioneEinaudi, Torino, 2014, Stile Libero Big , pag. 388, cop.fle., dim. 13,8x21,5x2,3 cm , Isbn 978-88-06-21532-3
OriginaleSannheten bortenfor. En Hanne Wilhelmsen-roman [2003]
TraduttoreMargherita Podestà Heir
LettoreMargherita Cena, 2014
Classe gialli , narrativa norvegese












 

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Pagina 3

Giovedí 19 dicembre


Era un cane ormai in là con gli anni. Le anche erano rigide, deformate dall'artrosi. La malattia gli aveva conferito l'aspetto di una iena per via del torace possente e del dorso molto sviluppato che terminavano bruscamente in un posteriore macilento. La coda era attorcigliata intorno ai testicoli.

Quella bestia rognosa andava e veniva. Nessuno ricordava quando fosse apparsa per la prima volta. In un certo senso faceva parte del paesaggio: un elemento sgradevole e inevitabile, come lo sferragliare dei tram, le auto parcheggiate male e i marciapiedi ghiacciati e scivolosi su cui non era stata sparsa la ghiaietta. Bisognava prendere le dovute precauzioni. Serrare le porte delle cantine. Tenere il gatto in casa durante la notte. Fare in modo che i bidoni dell'immondizia nei cortili sul retro fossero accuratamente chiusi con il coperchio. C'era chi reclamava con l'ufficio d'igiene, quando per tre mattine consecutive gli avanzi di cibo e altra spazzatura giacevano sparsi a terra vicino alle rastrelliere per le biciclette. Raramente riceveva risposta, né era mai stato fatto nessun tentativo per catturare l'animale.

Se qualcuno si fosse chiesto come viveva davvero quel cane, si sarebbe reso conto che si spostava per il quartiere seguendo una specie di modello che non si atteneva a giorni fissi e per questo era difficile da ricostruire. Se fosse importato a qualcuno, si sarebbe capito che il cane era sempre nelle vicinanze e che solo sporadicamente si spingeva oltre quell'area di soltanto quindici, sedici isolati.

Campava cosí da quasi otto anni.

Conosceva il suo territorio ed evitava il piú possibile il contatto con altri animali. Quando s'imbatteva in cagnolini dai variopinti guinzagli di nylon, si teneva alla larga e ormai aveva capito da un pezzo che i gatti di razza e con un campanellino legato al collo rappresentavano una tentazione a cui era meglio resistere. Era un bastardo, un randagio che si muoveva in uno dei quartieri piú esclusivi della Oslo bene, e quindi sapeva agire con discrezione.

Il tempo mite che accompagnava ogni anno il periodo prenatalizio aveva lasciato il posto a un freddo pungente che aveva ricoperto l'asfalto di una patina di gelo. Nell'aria si percepiva l'arrivo della neve. Il cane raschiava con le unghie la superficie ghiacciata e arrancava in avanti, trascinando le zampe posteriori. Il bagliore proveniente da un lampione illuminò lo squarcio che aveva sulla coscia sinistra. La ferita violacea che spuntava tra la pelliccia sparuta era macchiata di pus giallo. Si era impigliato a un chiodo la sera prima mentre era a caccia di un posto dove dormire.

La palazzina si ergeva a una certa distanza dalla strada. Un sentiero lastricato divideva in due il giardino antistante. Protette da un telo, l'aiuola di fiori e l'erba vizza e bagnata erano recintate da una catena dipinta di nero, ad altezza ginocchio. Davanti, su entrambi i lati della struttura, c'era un abete decorato con luci e addobbi natalizi.

Quella era la seconda sera che il cane tentava di entrare nell'edificio. Di solito esisteva un modo per riuscirci. Il piú semplice era rappresentato dalle porte non chiuse a chiave. Un leggero salto, un colpo con la zampa sul saliscendi. Se la porta si apriva all'interno o all'esterno aveva di regola poca importanza: si trattava di una bazzecola. Però era raro trovarne una e lui era costretto a cercare un'alternativa: seminterrati con le finestre socchiuse, pertugi che si aprivano sotto le scale ormai marce delle cantine. Non si trovavano dappertutto e capitava che le fessure fossero state riparate, le botole chiuse con un lucchetto e i muri cementati di fresco. Inaccessibili e impenetrabili. Allora doveva proseguire. A volte impiegava ore per trovare un posto dove passare la notte.

In quella palazzina c'era una via d'accesso. La conosceva, era semplice, ma non ne doveva abusare. Non dormiva mai nello stesso luogo per piú di una notte. Durante il primo tentativo era arrivato qualcuno. Poteva succedere. In quel caso si allontanava sempre, velocemente. Trotterellava per due o tre isolati. Si acquattava sotto un cespuglio, dietro una rastrelliera per le biciclette, nascosto agli occhi di tutti coloro che non scrutavano attenti. Poi ci riprovava. Un buon varco valeva bene un paio di sforzi.

Nell'ultima ora il freddo si era fatto piú intenso. Ora nevicava per davvero: fiocchi leggeri e asciutti stavano imbiancando i marciapiedi. Il cane tremava, non mangiava da piú di ventiquattro ore.

Adesso la palazzina era avvolta nel silenzio.

Le luci lo attiravano e lo spaventavano allo stesso tempo.

Aumentavano la possibilità di essere visti. Erano minacciose, ma al contempo erano anche sinonimo di calore. Il sangue gli pulsava dolorosamente nella ferita infetta. Esitante, il cane si diresse verso la catena che delimitava il giardino. Con un gemito alzò la zampa posteriore. Il varco, che gli avrebbe permesso di raggiungere il ripostiglio dove c'era un vecchio sacco a pelo buttato in un angolo, si trovava sul retro dell'edificio, tra la scala che portava giú in cantina e due biciclette che non venivano mai usate.

La porta d'ingresso principale era socchiusa.

Porte del genere erano pericolose. Poteva rimanere bloccato dentro. La luce invitante che proveniva dall'interno lo attirò ineluttabilmente. I vani scala erano meglio delle cantine. Soprattutto quello all'ultimo piano, dove le persone salivano di rado e non abitava nessuno. Lí faceva caldo.

A testa bassa si avvicinò ai gradini in pietra. Rimase immobile con la zampa anteriore sollevata prima di entrare lentamente ed essere illuminato dal cono di luce. Nessun movimento da nessuna parte, nessun suono che potesse metterlo in allarme, soltanto il ronzio lontano, sicuro della città.

Era dentro.

C'era un'altra porta aperta.

Si sentiva odore di mangiare, il silenzio era totale.

Fiutò con intensità quel profumo di cibarie. Senza esitare oltre, penetrò zoppicando dentro l'appartamento, ma nell'ingresso si fermò di colpo. Ringhiando minaccioso, mostrò i denti all'uomo che giaceva a terra. Non accadde nulla. Il cane si avvicinò, piú incuriosito che timoroso. Con cautela puntò il muso verso quel corpo immobile. Si mise a leccare con circospezione il sangue che circondava la testa dell'uomo. La lingua prese a muoversi in modo sempre piú frenetico, ripulí prima il pavimento e poi la guancia del morto coperta da una massa rappresa, infine penetrò dentro il foro che si trovava all'altezza della tempia. Il cane affamato leccò tutto quello che riuscí a estrarre dal cranio prima di rendersi conto che non aveva bisogno di affannarsi tanto per procurarsi da mangiare.

Nell'appartamento c'erano altri tre cadaveri.

Simile a una frusta, la coda cominciò a dimenarsi dall'eccitazione.

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Il defunto Karl-Oskar Wetterland era stato un avvocato vecchio stile. Alla sua morte possedeva uno spazioso appartamento a Oslo, una casetta al mare - sprovvista in inverno di acqua corrente - a Hvaler, una Volvo del 1992 e un piccolo ma nutrito portafoglio azionario, che era stato composto in modo alquanto conservatore e amministrato con cautela. Grazie a quello e ai tassi d'interesse altissimi dei tre conti correnti, i cui numeri erano riportati minuziosamente nella busta che Wetterland aveva lasciato sigillata e su cui spiccava in bella calligrafia il nome del figlio, la vedova avrebbe trascorso senza problemi i suoi ultimi anni.

Per il figlio tutto questo era fonte di grande consolazione.

Da vivo, suo padre aveva sempre provveduto ampiamente ai propri cari, e il modo ordinato e sistematico con cui aveva testamentato i suoi averi indicava che era preparato ad affrontare la morte. A lui, il suo unico figlio, non aveva lasciato neppure una corona. Terje Wetterland sorrise mentre si aggirava per l'ufficio paterno, toccando qua e là gli oggetti che lo riempivano. Era ovvio che sarebbe andato tutto a sua madre. Terje, che aveva quarantasette anni, si era stabilito in Francia con moglie e figli, e il suo reddito era di gran lunga superiore a quello che il padre avesse mai ricavato dal suo piccolo studio legale. La mamma doveva godersi la vecchiaia. Su questo lui e il padre erano d'accordo. Se voleva, l'anziana donna avrebbe avuto la possibilità di assumere una collaboratrice domestica. Di trascorrere lunghe estati in Provenza insieme ai nipoti senza che nessuno le pagasse il viaggio e la permanenza. Almeno, non apertamente. Ne avevano parlato una sera sei mesi prima. Seduti su uno scoglio, padre e figlio stavano sorseggiando un bicchierino avvolti dal sole di mezzanotte. Dalla spiaggia giungevano le grida dei bambini mentre la notte rimaneva chiara e luminosa. Si erano accordati proprio in quel momento su come procedere. E cosí sarebbe stato.

Terje Wetterland passò delicatamente le dita su una foto dalla cornice d'argento che ritraeva lui e suo padre, a torso nudo e bagnati: era estate inoltrata ed entrambi erano abbronzati. Sedevano sulla punta di un molo, il braccio del padre che lo stringeva intorno alla vita, un bimbo felice di quattro, cinque anni.

Con la manica della camicia tolse la polvere dal vetro prima di infilare l'immagine nella sua valigetta portadocumenti. Di tutti gli oggetti che affollavano la stanza, quella era l'unica cosa che voleva. Anche se suo padre aveva ancora qualche cliente, adesso era impossibile riuscire a occuparsene. Avrebbe chiesto chi fossero a sua madre. Non potevano essere molti, il vecchio aveva cessato la sua attività tre anni prima. Soltanto l'abitudine e alcuni clienti strambi e d'età avanzata lo avevano spinto a recarsi nello studio due volte alla settimana. Lui li avrebbe contattati dalla Francia per risolvere la questione. Se si trattava di qualcosa d'urgente, avrebbero sicuramente chiamato la vedova.

Lanciò un'occhiata superficiale in direzione di alcuni documenti che si trovavano sulla scrivania prima di riporli nella cassaforte. Poi, spenta la luce, chiuse a chiave l'ufficio per andare da sua madre.


Il gelo aveva ricoperto le piste da fondo. Nei boschi regnava il silenzio. Il vecchio cercò di infilare gli sci in un cumulo di neve, ma era troppo dura. Li appoggiò invece in un punto poco distante dal tracciato. Non che qualcuno glieli avrebbe rubati: era quasi mezzanotte. La gente se ne stava tappata in casa e, nei pochi giorni che precedevano il Natale, a nessuno sarebbe venuto in mente di andare a sciare nel Nordmarka con quel freddo polare. Sogghignò al solo pensiero. Però era meglio nascondere gli sci sotto un abete, in prossimità del sentiero. Non si poteva mai sapere.

Quelle escursioni notturne erano diventate un'abitudine. Trent'anni prima era tornato alla casa colonica della sua infanzia. Adesso ci viveva grazie alla benevolenza del proprietario terriero mentre in cambio si occupava del bosco. Uscire a fare una passeggiata prima di andare a letto gli conciliava il sonno. In estate girava a piedi avvolto dalla luce serale che si rifletteva nei tanti laghetti esistenti. Non appena arrivava la neve ad autunno inoltrato, usava i suoi vecchi sci di legno scrupolosamente catramati. Conosceva il suo bosco e i sentieri che lo attraversavano.

La morsa del freddo gli bruciava le guance facendogli lacrimare gli occhi. Quella sensazione aveva su di lui un effetto calmante. Mosse qualche passo di prova lungo un sentierino che portava a un laghetto dove spesso andava a nuotare quando faceva caldo. Si spostava con cautela. Un paio di volte rischiò di perdere l'equilibrio. Dopo solo cinquanta metri si trovò accanto a un arbusto di giunco delle creste che sbucava in tutta la sua bellezza dallo stagno gelato. Si udiva soltanto uno sciabordio dove sgorgava il ruscello. Per non scivolare sulla roccia liscia e nuda, la superò con attenzione e si fermò nel punto in cui zampillava l'acqua gelida. Accovacciatosi, vi infilò sotto una mano a mo' di tazza per berne un sorso. Le prime formazioni di ghiaccio scintillavano alla luce azzurrognola della luna. Ci sarebbe voluto ancora del tempo prima che i laghetti gelassero completamente: il freddo vero e proprio non era iniziato che negli ultimi giorni.

Si accorse di colpo che qualcosa si muoveva sulla riva opposta. S'irrigidí pensando che si trattasse di un animale, non voleva spaventarlo. La mano piena d'acqua che si era quasi portato alla bocca gli tremava leggermente per via del freddo e della tensione. In posizione eretta, aveva alle spalle il fitto bosco di abeti. Indossava abiti scuri che gli permettevano di mimetizzarsi con lo sfondo. Una leggera brezza soffiava contro di lui. Se non si decideva a muoversi, un animale lo avrebbe fiutato.

Non era un animale. Lo vide in quel momento. Si trattava di un uomo, o comunque di un essere umano. Se ne stava in piedi sul lago ghiacciato a qualche metro dalla riva. Poi si chinò a fare qualcosa.

Il vecchio aguzzò le orecchie. L'udito non era piú quello di una volta, sentiva soltanto il proprio polso e lo sciabordio del ruscello. Alla fine la persona misteriosa si diresse nuovamente verso il bosco, in silenzio. Sembrava vacillare, come se cercasse di ripercorrere lo stesso tratto servendosi delle orme che aveva lasciato prima. Scomparve quasi subito verso est.

L'anziano esitò. Non capiva perché non si era messo a gridare. Aveva avuto paura, pensò stupito, si era ritratto nell'oscurità per non essere visto, senza riuscire a spiegarsi il motivo del proprio comportamento. Si sforzò ancora una volta di cogliere qualche suono: piegata la testa di lato, mise la mano nuda, gelata dietro l'orecchio.

Nessun rumore. Silenzio totale.

Adesso era vigile, attento. Un po' impaurito, ma anche intenzionato a scoprire cosa fosse successo, che cosa ci facesse li quella persona, su un laghetto nel Nordmarka una notte di dicembre. Sentí risvegliarsi dentro di lui una curiosità antica, una sensazione repressa da tempo, dimenticata e accantonata per i tanti guai che gli aveva causato.

Gli sarebbero bastati pochi minuti per attraversare il lago ghiacciato, forse mezz'ora per costeggiarlo. Ripensò al clima piú mite che sin da ottobre si era alternato a periodi di gelo. Decise di rimanere sulla terraferma.

Quando raggiunse il posto, gli mancava il fiato. L'asma lo soffocava. Con circospezione segui le orme lasciate dall'altra persona. Si stagliavano nere sulla superficie bluastra coperta di neve. Se il ghiaccio aveva sorretto il peso dello sconosciuto, avrebbe fatto lo stesso con lui. Inoltre non doveva allontanarsi troppo dalla riva.

Un buco.

Non era grande, ma abbastanza per tirare su un pesce. Qualcuno era venuto a pescare, nel cuore della notte, in quel freddo pungente.

Rise sottovoce mentre scuoteva la testa pensando alla mancanza di buonsenso della gente di città.

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Alfred Stahlberg pativa ancora i postumi di una bella sbronza, anche se erano quasi le dieci e mezzo di mattina. Almeno, con la quantità d'alcol che aveva ingurgitato la sera prima, era riuscito ad addormentarsi. «O a spegnermi», pensò con la mente annebbiata. L'unica cosa che ricordava era che stava cercando disperatamente dell'altra vodka.

Il cervello gli pulsava in modo ritmico dentro la calotta cranica. A ogni movimento il dolore gli scivolava giú per la nuca impedendogli quasi di muovere la testa. Non si faceva la doccia da quattro giorni e lo sparato della camicia era sporco. Soltanto in quel momento avverti la puzza che emanava dal suo corpo: un odore acre e disgustoso. Fece una smorfia davanti alla propria immagine riflessa nello specchio. Quel piccolo gesto gli causò una fitta di dolore al capo che si diffuse fino alle cavità orbitali. Sporcò in giro quando si versò la vodka in un bicchiere da cucina. Ingollò tutto il contenuto in un sorso.

Il sollievo fu immediato.

Anche se minimo.

Si riempi di nuovo il bicchiere. Il mal di testa cominciò lentamente a mollare la presa. Si sforzò di respirare in modo calmo e profondo. Aveva bisogno di una doccia, di indumenti puliti. Era stanco morto, anche se erano passate dieci ore dall'ultima volta che aveva guardato l'orologio e almeno otto le aveva trascorse dormendo.

Nella doccia, abbassò lo sguardo su di sé. L'acqua scorreva sul suo corpo pallido e flaccido in modo lento, quasi vischioso, come se la pelle fosse appiccicosa. Lui era quello brutto. Il fratellino incapace e inutilizzabile. Il debole che aveva dissipato l'eredità paterna e non aveva mai avuto fortuna nella vita.

Era un buffone, che aveva utilizzato troppe energie per non ammetterlo a sé stesso.

Erano cosí tante le cose da sbrigare.

Adesso qualcuno doveva assumere il comando. Qualcuno doveva dirigere la famiglia, guidarla attraverso il ginepraio di leggi e pettegolezzi in cui si trovavano invischiati, visto che nessuno sembrava aver preso in mano le redini della situazione. Quel qualcuno avrebbe dovuto essere lui: l'ultimo maschio della generazione Stahlberg piú vecchia. Il pensiero si abbatté sul suo corpo come un macigno. Alfred fece per inginocchiarsi, ma dopo aver battuto la fronte sulle piastrelle si riportò vacillando in posizione eretta. L'acqua non lo ripuliva. Sotto la pancia enorme e cascante non era neanche piú in grado di vedere i propri organi sessuali. Prese a strofinarsi con entrambe le mani: si scorticò con veemenza fino a quando le unghie si riempirono di pelle morta e il sangue cominciò a zampillare sul ventre enorme.

Lui era un perdente. Un fallito stremato dall'eterno tentativo di reprimere quella verità.

Era finita l'acqua calda. Uscito dal box doccia, tentò di nascondere il proprio corpo avvolgendolo in un asciugamano gigantesco. Alfred Stahlberg era un buffone, per di piú brutto. Era in grado di vederlo da solo: scoppiò quasi a piangere, dal disprezzo che provava per sé stesso.

Di essere anche un criminale, era invece qualcosa che non riusciva ad ammettere.

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Pagina 214

Mercoledí 25 dicembre


Henrik Backe si svegliò presto. Il buio invernale lo confondeva: l'assenza di luce al mattino non gli permetteva di capire che ora fosse. Cercò a tentoni gli occhiali sul comodino. La sveglia indicava che erano le cinque e quarantanove. Troppo presto per alzarsi, ma al contempo sapeva che non sarebbe riuscito a riprendere sonno. Con indosso soltanto i pantaloni del pigiama raggiunse il bagno per costringersi a urinare nonostante la prostata gonfia e dolorante. Poi, dopo essere andato a prendere una bottiglia di cognac e un bicchiere capiente, tornò in camera lasciandosi tonfare sul letto.

Era il giorno di Natale, ma per lui non aveva nessuna importanza. Sei settimane prima era morta Unn. Senza di lei il Natale non contava piú nulla. Non avevano mai avuto figli. Senza Unn niente aveva piú valore. Natale sarebbe passato, come tutti gli altri giorni: privi di contenuto come le bottiglie vuote stipate in cucina.

Riempi il bicchiere, quasi fino all'orlo.

Il libro che stava leggendo era pessimo.

A volte la vista gli giocava qualche brutto scherzo. Gli bastava chiudere gli occhi per alcuni secondi, poi gli passava. Lo impauriva soprattutto che la memoria non fosse piú quella di una volta. All'inizio, circa un anno prima, erano soltanto bazzecole, dettagli pratici a svanire. Gli capitava di trovarsi in cucina senza sapere che cosa ci fosse andato a fare. Una banale distrazione, ma con il tempo la situazione era peggiorata. Adesso faticava a ricordare il contenuto di un libro appena letto. Si era messo a segnarli: una crocetta rossa sull'ultima pagina significava che l'aveva finito. Quella soluzione lo rendeva però molto ansioso quando apriva un volume che riteneva ancora intonso. Il terrore di trovare la crocetta rossa lo aveva costretto a ricorrere ad altri sistemi. Ora suddivideva i libri in pile diverse, secondo modelli sempre nuovi che dimenticava subito dopo. Il tavolo del soggiorno era diventato una specie di archivio e lo sforzo di avere tutto sotto controllo lo rendeva nervoso e frustrato.

L'edificio era avvolto nel silenzio. La canaglia che abitava nell'appartamento sopra di lui, quel ragazzino che teneva feste a tutto spiano fino a notte fonda, e che non si degnava neppure di aprire la porta quando qualcuno andava da lui a lamentarsi, era via. Backe lo aveva visto caricare il bagaglio in macchina l'antivigilia di Natale. O la vigilia. Non era sicuro, ma tanto faceva lo stesso.

I suoi dirimpettai erano morti.

Lui beveva e tossiva.

Erano antipatici e arroganti. Fatta eccezione, forse, per la signora Stahlberg. Gli dava l'idea di essere maltrattata. Henrik Backe aveva sempre provato un leggero disprezzo per il genere femminile. Quella donna era cosí servile. Il servilismo lo irritava, gli ricordava il suo fardello, il suo prosternarsi, il tradimento che gli era impossibile dimenticare. Neanche con l'aiuto dell'alcol, una sostanza maledetta.

Turid Stahlberg era servile, non gli piaceva. Quel suo sorriso appena abbozzato, per esempio, quando si ritraeva strisciando lungo la parete le volte in cui si incontravano sul pianerottolo: insopportabile.

Perlomeno Henrik Backe non era sottomesso.

Dopo aver sbuffato con disdegno, bevve ancora.

Unn era morta e la vita era finita. Bisognava soltanto aspettare. Il bere, contro cui aveva combattuto una battaglia dura e inutile per troppi anni, avrebbe potuto accorciare l'attesa. Cosí beveva.

Non c'era piú nessuno verso cui avere riguardi. All'improvviso scoppiò in una risata stridula.

Unn non c'era piú e nessuno aveva piú bisogno di essere protetto. Da lui e dal suo tradimento.

Adesso non c'era piú nessuno che volesse ascoltare.

Inorridito Henrik Backe fissò il libro che stringeva fra le mani. Era un romanzo di Sigrid Undset. Doveva averlo già letto. Con le dita rigide lo sfogliò fino ad arrivare all'ultima pagina. Nessuna crocetta rossa. Non poteva essere vero. Doveva averlo letto quando non aveva ancora inventato quel sistema, prima che tutto si aggrovigliasse e lui non fosse piú in grado di ricordare di che cosa parlava Kristin figlia di Lavrans.

La sveglia sul comodino segnava che erano quasi le sei e dieci. Fuori era buio.

Non capiva perché avesse indosso il pigiama, l'ora di cena era passata da un pezzo. Avrebbe aperto una zuppa di asparagi in scatola. Ne aveva voglia.

Ovunque c'era uno strano silenzio. In fondo i vicini erano morti.

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