Copertina
Autore Khaled Hosseini
Titolo Il cacciatore di aquiloni
EdizionePiemme, Alessandria, 2004 , pag. 394, dim. 130x210x30 mm , Isbn 978-88-384-8172-7
OriginaleThe kite runner [2003]
TraduttoreIsabella Vaj
LettorePiergiorgio Siena, 2006
Classe narrativa afgana , narrativa statunitense
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Pagina 9

Due



Da bambini Hassan e io ci arrampicavamo su uno dei pioppi lungo il vialetto che portava a casa mia e da lassù infastidivamo i vicini riflettendo la luce del sole in un frammento di specchio. Ci sedevamo uno di fronte all'altro su un ramo, le gambe nude a penzoloni, e mangiavamo more di gelso e castagne di cui avevamo sempre le tasche piene. Usavamo il frammento di specchio a turno, ci tiravamo le more e ridevamo come matti. Vedo ancora i raggi di sole che filtrano attraverso il fogliame illuminando il viso di Hassan: perfettamente tondo, come quello di una bambola cinese di legno, con il naso largo e piatto, gli occhi a mandorla, stretti come una foglia di bambù, giallo oro, verdi, o azzurri come zaffiri a seconda della luce. Ricordo le piccole orecchie dall'attaccatura bassa e il mento appuntito, che sembrava un'appendice carnosa, aggiunta al viso in un secondo momento. E quel labbro spezzato, un errore del fabbricante di bambole, cui forse era sfuggito lo scalpello, per stanchezza o disattenzione.

Talvolta, mentre ce ne stavamo nascosti sugli alberi, proponevo ad Hassan di estrarre la sua fionda e mitragliare di castagne il pastore tedesco del nostro vicino. Lui non voleva mai, ma se io glielo chiedevo, glielo chiedevo veramente, cedeva. Non mi avrebbe mai rifiutato nulla. E la sua fionda era infallibile. Quando suo padre Ali ci scopriva, si arrabbiava - per quanto si potesse arrabbiare una persona gentile come lui - e minacciandoci con il dito ci faceva scendere dall'albero. Poi ci requisiva lo specchio e ci ripeteva quello che sua madre diceva a lui quando era piccolo: che anche il diavolo usa gli specchi per distrarre i musulmani dalla preghiera. «E ride mentre lo fa» aggiungeva sempre, guardando severamente il figlio.

«Sì, padre» balbettava Hassan con gli occhi a terra. Ma non mi ha mai tradito. Non ha mai confessato che tanto lo specchio quanto le castagne erano idee mie.

Il vialetto di mattoni rossi che conduceva al cancello in ferro battuto continuava all'interno della proprietà di mio padre, terminando nel giardino sul retro della casa.

Tutti ritenevano che casa nostra, la casa di Babà, fosse la più bella di Wazir Akbar Khan, un quartiere nuovo e ricco nella zona nord di Kabul. C'era addirittura chi pensava che fosse la più bella della città. Il vialetto d'accesso, fiancheggiato da cespugli di rose, conduceva a una grande costruzione con pavimenti in marmo e finestre immense.

Il pavimento dei quattro bagni era rivestito da intricati mosaici di piastrelle, scelte personalmente da Babà a Isfahan. Alle pareti delle stanze erano appesi arazzi intessuti con fili d'oro, che Babà aveva acquistato a Calcutta.

Al piano superiore c'erano la mia camera da letto, quella di Babà e il suo studio, chiamato anche la "stanza del fumo", che profumava sempre di tabacco e cannella. Babà e i suoi amici se ne stavano lì, dopo cena, sdraiati sulle poltrone di pelle nera. Caricavano le pipe - Babà diceva "rimpinzare" - e discutevano dei loro tre argomenti preferiti: politica, affari, calcio. A volte chiedevo a Babà il permesso di rimanere con loro, ma lui ogni volta mi rispondeva: «Questo è il momento degli adulti. Perché non vai a leggere un libro?». Poi chiudeva la porta lasciandomi solo a domandarmi perché con lui fosse sempre il momento degli adulti. Mi sedevo in corridoio, le ginocchia piegate contro il petto, e a volte rimanevo lì un'ora, anche due, ad ascoltare chiacchiere e risate.

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Pagina 71

Attorno a me non facevano che cadere aquiloni, ma il mio stava ancora volando, stava ancora volando! Babà era sorpreso che io resistessi così a lungo? Se non tieni gli occhi fissi al cielo sei spacciato. Un aquilone rosso si stava avvicinando. Me ne accorsi giusto in tempo. Ci fu una scaramuccia, ma io vinsi quando, persa la pazienza, l'avversario cercò di tagliarmi da sotto.

Su e giù per le strade i cacciatori di aquiloni tornavano trionfanti esibendo i loro trofei. Ma tutti sapevano che il meglio del torneo doveva ancora arrivare. Il premio più ambito volava ancora alto nel ciclo. Tagliai un aquilone giallo con una coda bianca a spirale. Mi costò una ferita all'indice. Passai il filo ad Hassan, mi succhiai il sangue che mi colava nel palmo e mi asciugai la mano sui jeans.

Un'ora dopo il numero degli aquiloni sopravvissuti era sceso da una cinquantina a circa dieci. Il mio era tra questi. Sapevo che la parte finale del torneo sarebbe durata a lungo, perché i ragazzi che avevano resistito fino a quel punto erano in gamba e non sarebbero caduti facilmente in un trabocchetto.

Verso le tre del pomeriggio nel cielo era apparsa una nuvolaglia che aveva nascosto il sole. Le ombre si allungavano. Il pubblico sui tetti si proteggeva dal freddo con coperte e scialli. Gli aquiloni adesso erano una mezza dozzina, e il mio stava ancora volando. Mi facevano male le gambe e mi era venuto il torcicollo. Ma a ogni aquilone che cadeva nel mio cuore si accendeva una nuova speranza.

Tenevo gli occhi fissi su un aquilone azzurro che da un'ora seminava il terrore. «Quanti ne ha tagliati?» chiesi. «Ne ho contati undici» rispose Hassan. «Sai di chi è?»

Hassan fece schioccare la lingua e alzò leggermente il mento, con un gesto che gli era tipico. Non ne aveva la più pallida idea. L'aquilone azzurro ne tagliò uno color porpora disegnando nel cielo due ampi cerchi. Nei dieci minuti successivi ne abbattè altri due, cui diedero la caccia orde scatenate di ragazzini.

A distanza di mezz'ora in cielo erano rimasti solo quattro aquiloni. Il mio stava ancora volando. Sembrava che ogni folata di vento soffiasse in mio favore. Non mi ero mai sentito così fortunato, così padrone di me stesso. Era eccitante. Non osavo guardare il tetto di casa. Dovevo concentrarmi, giocare il tutto per tutto. Un quarto d'ora dopo, il sogno che il mattino mi era sembrato impossibile era diventato realtà. Eravamo rimasti in due: io e l'aquilone azzurro.

L'atmosfera era tesa come il filo smerigliato che impugnavo con le mani sanguinanti. La gente pestava i piedi, batteva le mani, fischiava e scandiva: «Boboresh! Boboreshf Taglialo! Taglialo!» Tra quelle voci c'era anche quella di mio padre? La musica era assordante. Dalle terrazze e dalle porte aperte delle case si spandeva un odorino di mantu al vapore e di pakora fritto.

Io, però, sentivo solo il pulsare del sangue alle tempie. Vedevo solo l'aquilone azzurro. Annusavo solo il profumo della vittoria. Salvezza. Redenzione. Se Babà si sbagliava e c'era un Dio, come mi insegnavano a scuola, allora lui mi avrebbe fatto vincere.

Non sapevo per cosa stesse lottando il mio avversario, forse solo per il diritto di vantarsi. Ma questa per me era la sola opportunità di essere guardato e non soltanto visto, di essere ascoltato e non soltanto udito. Se Dio esisteva, doveva guidare il vento, farlo soffiare in mio favore in modo che con uno strattone io potessi liberarmi del mio dolore e del mio tormento. Avevo sopportato troppo. Ed ecco che improvvisamente la speranza diventava certezza. Avrei vinto. Era solo questione di tempo.

Una folata di vento fece alzare il mio aquilone. Ero in vantaggio. Mi portai sopra quello azzurro e mantenni la posizione. Il mio avversario sapeva di essere nei guai. Tentò una manovra disperata per liberarsi di me, ma io non glielo permisi. La folla intuiva che la gara stava per concludersi. «Taglialo! Taglialo!»

«Ci sei quasi, Amir agha! Ci sei quasi» gridò Hassan ansimando.

Chiusi gli occhi e allentai la presa sul filo. Il vento lo faceva scorrere tra le mie dita incidendo tagli profondi. E poi... Non ebbi bisogno di ascoltare il boato della folla. Né di vedere quello che accadeva attorno a me. Hassan urlava di gioia e mi abbracciava. «Bravo! Bravo! Amir agha!» Aprii gli occhi e vidi l'aquilone azzurro scendere in una spirale impazzita, come una ruota che si fosse staccata da un'automobile in corsa. Cercai di dire qualcosa, ma nessun suono mi uscì dalle labbra. Mi sembrava di lievitare, di guardare me stesso dall'alto. Giacca di pelle nera, sciarpa rossa, jeans sbiaditi. Un ragazzino magro, pallido, piccolo per i suoi dodici anni. Le spalle strette e un accenno di occhiaie sotto gli occhi castano chiaro. La brezza gli scompigliava i capelli. Alzò lo sguardo verso di me e ci scambiammo un sorriso.

Un secondo dopo urlavo a perdifiato in un turbinio di colori e suoni. Gettai il braccio libero attorno alle spalle di Hassan e insieme ci mettemmo a saltellare, ridendo tra le lacrime. «Hai vinto Amir agha! Hai vinto!» «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!» Non riuscivo a dire altro. Poi vidi Babà sul tetto. Era in piedi e dimenava i pugni, tra grida e applausi. Quello fu il momento più felice dei miei dodici anni di vita. Mio padre finalmente era orgoglioso di me.

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Pagina 125

Una ventina di minuti dopo ci fermammo al posto di blocco di Mahipar. Il nostro autista saltò giù dal camion. Udimmo delle voci avvicinarsi. Passi sulla ghiaia. Scambio di battute, breve e soffocato. Lo scatto di un accendino. «Spasseba.»

Una risata stridula mi fece sussultare. La mano di Babà strinse la mia coscia. L'uomo che rideva si mise a cantare in modo stonato un'antica canzone di nozze afghana. Con voce impastata e un pesante accento russo. Ahesta boro, Mah-e-man, ahesta boro. Cammina lenta, mia graziosa luna, cammina lenta.

Battere di tacchi di stivali sull'asfalto. Qualcuno aprì di colpo il telone cerato e tre visi si affacciarono all'interno dell'autocarro. Uno era Karim, gli altri due erano soldati, un afghano e un russo con la faccia da bulldog sghignazzante e la sigaretta all'angolo della bocca. Dietro di loro, in cielo, una luna bianca come ossa. Karim e il soldato afghano si dissero qualcosa in lingua pashtu. Capii che parlavano di Toor e della sua sfortuna. Il soldato russo infilò la testa nel retro dell'autocarro. Bofonchiava la canzone tamburellando con un dito sul bordo del portellone. Nel fioco chiarore della luna vidi il suo sguardo allucinato scorrere sul volto dei passeggeri e fermarsi sulla giovane donna avvolta nello scialle nero. Disse qualcosa in russo a Karim senza toglierle gli occhi di dosso. Ci fu un secco scambio di battute. Anche il soldato afghano intervenne, parlando con voce bassa e suadente. Ma il russo rispose qualcosa che fece sussultare gli altri due. Sentivo Babà irrigidirsi al mio fianco. Karim si schiarì la gola e abbassò il capo. Spiegò che il soldato voleva passare mezz'ora con la donna.

La giovane si tirò lo scialle fin sopra al viso e scoppiò in lacrime. Anche il piccolo si mise a piangere tra le braccia del padre, che era pallido come la luna. Disse a Karim di pregare "il signor soldato sahib" di avere misericordia, forse aveva una sorella o una madre, forse aveva una moglie. Il russo ascoltò Karim e abbaiò qualcosa in risposta.

«È il prezzo del permesso di transito» tradusse Karim senza avere il coraggio di guardare il marito negli occhi.

«Ma abbiamo già pagato molti soldi.»

Karim e il soldato parlarono ancora.

«Dice... che su ogni prezzo c'è una tassa.»

A quel punto Babà si alzò. Allora fui io a stringere la sua coscia, ma lui liberò la gamba. «Voglio che tu chieda a quest'uomo» tuonò rivolto a Karim, ma guardando dritto in faccia il soldato russo «se non si vergogna.»

«Dice che siamo in guerra e in guerra non esiste vergogna.»

«Rispondigli che si sbaglia. La guerra non cancella il rispetto. Anzi, in guerra è ancora più necessario che in tempo di pace.»

Devi sempre fare l'eroe? Pensai con il cuore in gola. Non puoi lasciar perdere una volta tanto? Ma sapevo che non era nella sua natura. Solo che questa volta la sua natura ci avrebbe portati alla morte. Il soldato russo parlò rivolto a Karim con le labbra increspate in un sorriso. «Agha sahib» commentò Karim «questi russi non sono come noi. Non capiscono che cosa sia il rispetto, l'onore.»

«Che cos'ha detto?»

«Che gli piacerebbe piantarle una pallottola in testa quasi quanto...» Karim non terminò la frase, ma indicò con un cenno del capo la giovane donna. Il soldato buttò via la sigaretta e sfilò la pistola. Adesso lo uccide, pensai. Recitai mentalmente una preghiera che mi avevano insegnato a scuola.

«Digli che preferisco essere colpito da mille delle sue pallottole piuttosto che lasciare che si consumi questa nefandezza» ringhiò Babà. Il mio pensiero corse all'inverno di sei anni prima, quando ero rimasto nascosto dietro l'angolo del vicolo a spiare Kamal e Wali che inchiodavano Hassan a terra. A osservare i fianchi di Assef che si sollevano e si abbassavano ritmicamente. Tutto per un aquilone. Che eroe ero stato! Anch'io a volte mi chiedevo se fossi effettivamente figlio di mio padre.

Il russo con la faccia da bulldog alzò la pistola.

«Babà, per favore, siediti» lo supplicai tirandolo per la manica. «Questo ti spara sul serio.»

Mio padre allontanò la mia mano con uno schiaffo. «Non ti ho proprio insegnato niente?» Poi si rivolse al soldato. «Digli di prendere bene la mira, perché se non mi uccide con la prima pallottola lo faccio a pezzi.»

Il soldato russo non smise di sorridere quando sentì la traduzione. Tolse la sicura. Puntò la canna al petto di Baba. Con il cuore che mi batteva all'impazzata nascosi il viso tra le mani.

Ci fu un'esplosione.

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Undici



Fremont, California. Anni '80


L'idea dell'America piaceva a Babà.

Ma la vita in America gli fece venire l'ulcera.

A Fremont passeggiavamo nel parco del lago Elizabeth, non lontano dal nostro appartamento, e Babà mi illuminava con dotte disquisizioni sulle sue posizioni politiche. «A questo mondo, Amir, ci sono solo tre paesi che contano» mi diceva. E li enumerava sulla punta delle dita: l'America innanzitutto, la Gran Bretagna e Israele. «Gli altri...» faceva un gesto con la mano come per scacciare una mosca fastidiosa «...sono come delle vecchie pettegole.»

Il suo giudizio su Israele attirava le ire degli afghani di Fremont che lo accusavano di essere filoebraico e di fatto antiislamico. Babà si incontrava con i nostri connazionali nel parco e li faceva impazzire con le sue discussioni. «Quello che non capiscono» mi diceva tornando a casa, «è che la religione non c'entra niente.» Secondo Babà, Israele era un'isola di "veri uomini" in un mare di arabi troppo occupati a ingrassare con l'oro del petrolio per prendersi cura della loro stessa gente. «Israele fa questo, Israele fa quello» diceva scimmiottando l'accento arabo. «Allora fate qualcosa voi! Prendete l'iniziativa! Siete arabi, perché non aiutate i palestinesi?»

Detestava Jimmy Carter che chiamava "il cretino con i dentoni". Nel 1980, quando eravamo ancora a Kabul, gli USA avevano annunciato il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca. «Puah, puah!» esclamava con disgusto. «Breznev massacra gli afghani e tutto quello che sa dire quel mangiatore di noccioline è "Non vengo a nuotare nella tua piscina"». Babà credeva che, senza volerlo, Carter avesse promosso il comunismo più di quanto non avesse fatto lo stesso Breznev. «Non è in grado di governare questo paese. È come dare una Cadillac nuova a un ragazzino che non sa neppure andare in bicicletta.» Quello di cui aveva bisogno l'America, e il mondo intero, era un uomo forte, un uomo d'azione. Quell'uomo fu impersonato da Ronald Reagan. Dopo che, in un discorso alla televisione, Reagan aveva chiamato la Russia "L'Impero del Male" Babà comperò un ritratto del presidente esultante per la vittoria elettorale, lo fece incorniciare e lo appese nell'ingresso, accanto alla vecchia foto in bianco e nero in cui stringeva la mano al re Zahir Shah. La maggior parte dei nostri vicini erano autisti, poliziotti, addetti alle stazioni di servizio e ragazze madri che vivevano del sussidio di disoccupazione. Gente che apparteneva a quella fascia sociale che presto Reagan avrebbe soffocato con la sua politica economica. Babà era il solo repubblicano del palazzo.

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Pagina 243

Diciannove



Ancora il mal d'auto. Arrivati al cartello crivellato di proiettili con la scritta BENVENUTI AL PASSO KHYBER avevo già la bocca piena di saliva e lo stomaco in subbuglio. Farid, l'autista, mi lanciò uno sguardo gelido, privo di simpatia.

«Possiamo abbassare il finestrino?» chiesi.

Accese una sigaretta e la infilò tra le sole due dita che gli rimanevano nella mano sinistra, appoggiata al volante. Tenendo gli occhi fissi sulla strada, si chinò in avanti, prese un cacciavite che teneva tra i piedi e me lo passò. Lo infilai nel buco della portiera dove avrebbe dovuto esserci la manovella e lo feci girare per tirar giù il finestrino.

Farid mi tirò un'altra occhiata da cui trapelava una certa ostilità. Da quando eravamo partiti dal forte di Jamrud non aveva proferito più di una dozzina di parole.

«Tashakor» balbettai. Sporsi la testa dal finestrino e lasciai che l'aria fredda mi investisse il viso. La strada del passo Khyber attraversava le terre tribali, serpeggiando tra dirupi di argilla e calcare. Era esattamente come la ricordavo. Le montagne, aride e imponenti, alzavano nel cielo i loro picchi frastagliati separati da gole profonde. Qua e là sorgevano antiche fortezze in rovina, circondate da muraglie in mattoni crudi. Cercai di tenere gli occhi incollati alle cime innevate dell'Hindu Kush, ma non appena il mio stomaco trovava un momento di pace la macchina sobbalzava o imboccava una curva, procurandomi una nuova ondata di nausea.

«Provi col limone.» «Cosa?» «Limone. Fa bene» disse Farid. «Ne porto sempre uno quando faccio questa strada.» «No, grazie» risposi. La sola idea di aggiungere acidità al mio stomaco mi faceva aumentare la nausea.

Farid ridacchiò. «Non è sofisticato come le medicine americane, lo so, è solo un vecchio rimedio che mi ha insegnato mia madre.»

«In questo caso lo accetto.» Era un peccato sprecare l'occasione di fraternizzare.

Afferrò un sacchetto di carta da sotto il sedile e ne tirò fuori mezzo limone. Lo addentai e aspettai qualche minuto. «Hai ragione. Mi sento meglio» mentii. Come afghano sapevo che era meglio sentirsi male che essere scortese. Lo ringraziai con un pallido sorriso.

«Un vecchio trucco watani, non sono necessarie le medicine sofisticate» disse scontroso. Scosse la cenere dalla sigaretta e si guardò con soddisfazione nello specchietto retrovisore. Era un tagiko, alto, smilzo, la pelle scura, il viso segnato dal tempo, spalle strette e un lungo collo da cui, quando girava la testa, spuntava attraverso la barba un vistoso pomo d'Adamo.

Era vestito come me, anche se sarebbe più corretto dire che io ero vestito come lui: sotto una coperta di lana grezza indossava un pirhan-tumban grigio e la camicia.

Sul capo portava un pakol marrone, piegato di lato, come l'eroe tagiko Ahmad Shah Massoud, che i tagiki chiamavano il Leone del Panjsher.

Era stato Rahim Khan a presentarmi Farid. Mi aveva detto che aveva ventinove anni, anche se aveva il viso diffidente e rugoso di un uomo di vent'anni più vecchio. Era nato a Mazar-i-Sharif, dov'era vissuto sino a che suo padre si era trasferito con la famiglia a Jalalabad. A quattordici anni, insieme al padre, era entrato nella jihad contro gli shorawi. Per due anni avevano combattuto nella valle del Panjsher, finché il padre era stato falciato da una mitragliata partita da un elicottero. Farid aveva due mogli e cinque figli. Erano sette, mi aveva informato Rahim Khan, ma alcuni anni prima aveva perso le due figlie più piccole per lo scoppio di una mina appena fuori Jalalabad, la stessa esplosione nella quale lui aveva perso le dita dei piedi e tre dita della mano sinistra. Dopo l'incidente si era trasferito con la famiglia a Peshawar.

«Posto di blocco» borbottò Farid. Mi abbandonai sul sedile, con le braccia incrociate sul petto, dimenticando per un momento la nausea. Due militari pakistani diedero uno sguardo veloce all'interno della nostra Land Cruiser scassata e ci fecero segno di ripartire.

Passato il confine, apparvero dovunque i segni dell'estrema povertà in cui versava il paese. Sui lati della strada, in mezzo alle rocce, si intravedevano qua e là piccoli villaggi simili a giocattoli buttati via, case d'argilla mezzo diroccate, baracche consistenti in poco più di quattro pali infissi nel terreno con un telo lacero per tetto.

E fuori da quelle baracche, bambini vestiti di stracci prendevano a calci un pallone. Qualche chilometro dopo vidi un gruppo di uomini accucciati come corvi sulla carcassa di un carro armato sovietico, con il vento che faceva svolazzare gli angoli delle coperte in cui erano avvolti. Dietro di loro una donna in un burqa marrone con una grande brocca d'argilla su una spalla scendeva lungo un sentiero scosceso verso una fila di case.

«Strano» dissi.

«Cosa?»

«Mi sento come un turista nel mio stesso paese.» Seguii con lo sguardo un pastore seguito da una mezza dozzina di capre emaciate.

Farid ridacchiò. Gettò via il mozzicone della sigaretta. «Pensa ancora a questo posto come al suo paese?»

«Una parte di me considererà sempre l'Afghanistan il mio paese.»

«Dopo vent'anni in America!» disse sterzando bruscamente per evitare una buca.

«Ci sono cresciuto.»

Farid ridacchiò ancora.

«Perché continui a ridacchiare?»

«Lasci perdere» mormorò.

«No. Voglio saperlo. Perché?»

Nello specchietto retrovisore vidi passare un lampo nei suoi occhi. «Vuole saperlo?» chiese con un sorriso sardonico. «Posso immaginare la sua vita, agha sahib. Probabilmente viveva in una grande casa di due o tre piani con un bel giardino e alberi da frutto. Naturalmente tutto recintato. Suo padre aveva un'automobile americana. Avevate servi, probabilmente hazara. I suoi genitori si facevano addobbare la casa in occasione dei mehmanis che davano per i loro amici. Gli invitati bevevano, si vantavano dei loro viaggi in Europa e in America. E ci scommetterei gli occhi del mio figlio maggiore che questa è la prima volta che indossa un pakol.» Mi sorrise, mostrando due file di denti precocemente guasti. «Ci sono andato vicino?»

«Perché mi dici queste cose?»

«Perché vuole sapere» rispose pronto. Mi indicò un vecchio vestito di stracci che caracollava giù per un sentiero, con un enorme fascio d'erba sulle spalle. «Questo è il vero Afghanistan, agha sahib. L'Afghanistan che io conosco. Lei? Lei è sempre stato un turista qui, solo che non lo sapeva.»

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Pagina 283

Una folla straripante riempiva lo stadio Ghazi. Migliaia di persone andavano e venivano lungo le gradinate di cemento. I bambini giocavano a rincorrersi nei corridoi e sulle scale. L'aria era impregnata del profumo di salsa piccante misto a puzza di letame e sudore. Passammo vicino a tre ambulanti che vendevano sigarette, pinoli e biscotti.

Un ragazzo allampanato con una giacca di tweed mi afferrò per un gomito e mi sussurrò nell'orecchio se volevo comperare delle immagini "molto sexy".

«Molto sexy, agha» ripetè con gli occhi che dardeggiavano a destra e sinistra. Scostò una falda della giacca perché dessi un'occhiata alle foto. Erano cartoline tratte da film indiani che mostravano attrici, completamente vestite, abbandonate in modo languido tra le braccia dei loro uomini.

«Nay, grazie.» «Se lo beccano, gli danno delle frustate da far rivoltare suo padre nella tomba» commentò Farid.

Naturalmente i posti non erano numerati. E non c'era nessuno che ci accompagnasse al nostro settore, alla nostra fila, al nostro posto. Era sempre stato così, sin dai tempi della monarchia. Grazie alle gomitate e alle spinte di Farid, trovammo due buoni posti e ci sedemmo, appena a sinistra della metà campo.

Ricordavo che, negli anni 70, quando Babà mi portava allo stadio a vedere le partite di calcio, il tappeto erboso del campo era perfettamente verde. Adesso era un disastro. C'erano buchi ovunque. In particolare notai un paio di buche profonde scavate nel terreno dietro i pali della porta meridionale. Niente più erba, solo terra battuta. Finalmente le due squadre scesero in campo - tutti i giocatori indossavano calzoni lunghi nonostante il gran caldo - e la partita ebbe inizio. Era impossibile seguire il pallone nelle nuvole di polvere. Sulle gradinate facevano la ronda giovani talebani che colpivano con la frusta chiunque esprimesse il proprio entusiasmo a voce troppo alta.

Poco dopo il fischio della fine del primo tempo, entrarono nello stadio due Toyota rossi, simili a quelli che avevo visto pattugliare la città. La folla si alzò in piedi. Nel cassone di uno dei pick-up c'era una donna con un burqa verde, nell'altro un uomo con gli occhi bendati. I Toyota percorsero lentamente la pista come per permettere al pubblico di godersi lo spettacolo. Ottennero l'effetto desiderato. La gente allungava il collo, si metteva in punta di piedi, indicava i due passeggeri. Vicino a me Farid recitava una preghiera facendo sobbalzare il pomo d'Adamo.

I pick-up si diressero verso l'estremità del campo sollevando due nubi di polvere. Li aspettava un terzo Toyota con il cassone colmo di pietre. Improvvisamente capii il senso di quelle due buche dietro i pali della porta. Scaricarono le pietre. Dalla folla si alzò un mormorio di apprezzamento.

«Vuole rimanere?» chiese Farid. «No» risposi. Non c'era nulla che desiderassi più che andarmene da quel posto. «Ma dobbiamo restare lo stesso.»

Due talebani con il kalashnikov sulle spalle fecero scendere l'uomo e altri due la donna. Quest'ultima si afflosciò a terra. I soldati la rimisero in piedi, ma lei cadde di nuovo. Quando cercarono di rialzarla si mise a gridare e a scalciare. Erano le grida di un animale selvaggio che cerca di liberare la zampa intrappolata in una tagliola. Non le dimenticherò mai. Arrivarono altri talebani e tutti assieme la costrinsero a calarsi dentro una delle buche. L'uomo bendato non oppose resistenza e prese posto nell'altra. A quel punto i corpi dei due sporgevano dal terreno dalla vita in su.

Vicino alla porta c'era un religioso grassoccio e dalla barba bianca, vestito di grigio. Si schiarì la gola nel microfono che reggeva in mano. Dietro di lui, la donna nella buca continuava a gridare. L'uomo recitò una lunga preghiera dal Corano. La sua voce salmodiante risuonava nell'improvviso silenzio dello stadio. Mi tornarono alla mente le parole di Babà. Fregatene di quello che dicono quelle scimmie presuntuose. Non sanno fare altro che contare i grani del rosario e recitare un libro scritto in una lingua che neppure capiscono. Dio ci scampi e liberi se l'Afghanistan dovesse cadere nelle loro mani.

Conclusa la preghiera il religioso si schiarì di nuovo la voce. «Fratelli e sorelle!» esordì parlando in farsi. «Oggi siamo qui riuniti per assistere a un atto di ubbidienza alla sharia. Oggi siamo qui perché giustizia sia fatta. Oggi siamo qui perché il volere di Allah e la parola del profeta Muhammad, la pace sia con lui, guidino l'Afghanistan, la nostra amata patria. Ascoltiamo ciò che Dio ci dice e obbediamo, perché davanti alla grandezza di Dio non siamo che umili creature impotenti. E che cosa dice Dio? Dio dice che ogni peccatore deve essere punito in modo conforme al suo peccato. Non sono parole mie e neppure dei miei fratelli. Sono parole di Dio!» disse indicando il cielo con la mano libera. Mi scoppiava la testa. Il sole era insopportabile.

«Ogni peccatore deve essere punito in modo conforme al suo peccato» ripetè il religioso abbassando la voce e scandendo ogni parola con drammatica lentezza. «E quale punizione, fratelli e sorelle, spetta agli adulteri? Come puniremo coloro che disonorano la santità del matrimonio? Come dovremo trattare coloro che sputano in faccia a Dio? Come dovremo rispondere a coloro che gettano pietre nei vetri della casa di Dio? Risponderemo con le stesse pietre!» Spense il microfono. Un mormorio percorse la folla.

Accanto a me, Farid scuoteva la testa. «E si definiscono musulmani» sussurrò.

Un uomo alto con le spalle larghe scese dal pick-up. Gli spettatori lo accolsero con grandi ovazioni. Questa volta nessuno venne frustato per aver acclamato a voce troppo alta. La veste bianca dell'uomo brillava nella luce pomeridiana. Salutò la folla con le braccia spalancate. Quando si volse verso il settore dove ci trovavamo noi, vidi che portava occhiali scuri dalle lenti rotonde, alla John Lennon.

«Dev'essere lui» disse Farid.

Il talebano con gli occhiali scuri si diresse verso il mucchio di pietre, ne raccolse una e la mostrò al pubblico trepidante. Poi, assumendo l'assurda posizione di un lanciatore di baseball, scagliò la pietra contro l'uomo bendato colpendolo alla tempia. La donna continuava a emettere grida strazianti. Un improvviso «OOH!» si levò da un capo all'altro dello stadio.

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Ormai gli aquiloni erano già una dozzina. La gente si era raccolta in capannelli, con le tazze del tè in mano e gli occhi incollati al cielo.

«Mi aiuti a lanciare questo aquilone?» chiesi.

Lo sguardo di Sohrab rimbalzava da me all'aquilone. Poi tornava al cielo.

«Come vuoi» dissi scrollando le spalle. «Lo lancerò tanhaii.» Da solo.

Tenni il rocchetto nella mano sinistra e srotolai una bracciata di tar. L'aquilone giallo penzolava alla fine del filo a qualche centimetro dall'erba bagnata. «Ora o mai più» annunciai. Ma Sohrab guardava un paio di aquiloni i cui cavi si erano aggrovigliati su nel cielo sopra gli alberi.

«Pronti, via!» Mi misi a correre per il campo pieno di pozzanghere, sollevando schizzi di acqua a ogni passo, tenendo alta sopra la testa la mano che reggeva l'aquilone. Era passato così tanto tempo da quando ne avevo lanciato uno. Forse mi sarei coperto di ridicolo. Mentre correvo, lasciavo svolgere il rocchetto nella sinistra. Sentivo il filo che mi tagliava la carne scorrendo nel palmo destro. Ora, alle mie spalle, l'aquilone si stava alzando in ampi cerchi. Corsi ancora più forte. Il rocchetto girava velocemente e il filo smerigliato mi aprì un secondo taglio nella mano. Mi fermai e mi girai. Guardai in su. Sorrisi. In alto nel ciclo, il mio aquilone ondeggiava come un pendolo, producendo il suono che da sempre associavo ai mattini d'inverno a Kabul: il frullo d'ali di un uccello di carta. Non lanciavo un aquilone da un quarto di secolo, ma improvvisamente mi parve di avere di nuovo dodici anni. I miei gesti erano dettati da un antico istinto.

Sentii accanto a me una presenza. Era Sohrab. Le mani sepolte nelle tasche dell'impermeabile. Mi aveva seguito.

«Vuoi provare?» chiesi. Non disse niente. Ma quando gli tesi il filo, tirò la mano fuori dalla tasca. Esitante. Poi lo afferrò. Il cuore mi batteva all'impazzata mentre riavvolgevo il rocchetto. Rimanemmo uno accanto all'altro senza parlare. Con il viso rivolto al cielo.

Attorno a noi, i bambini si rincorrevano scivolando sull'erba. Qualcuno cantava, cercando di imitare la colonna sonora di un vecchio film indiano. Gli uomini anziani recitavano il namaz del pomeriggio genuflessi su un telo di plastica steso per terra. L'aria profumava di erba bagnata, fumo e carne alla griglia. Avrei voluto che il tempo si fermasse.

Poi mi accorsi che non eravamo soli. Un aquilone verde si stava avvicinando. Seguii il cavo e vidi che lo teneva un ragazzo a una trentina di metri da noi. Aveva i capelli tagliati cortissimi e indossava una maglietta con la scritta "LE REGOLE DEL ROCK" in stampatello nero. Vide che lo osservavo e mi sorrise. Mi fece un cenno con la mano. Risposi al saluto.

Sohrab mi restituì il filo.

«Sei sicuro?» gli domandai.

Prese il rocchetto che tenevo nella sinistra.

«Giusto!» esclamai. «Diamogli un sabagh, il ragazzo merita una lezione.» Lo osservai. Lo sguardo vitreo e vuoto era scomparso. I suoi occhi passavano veloci dall'aquilone verde al nostro, improvvisamente attenti. Svegli. Vivi. Il suo viso era leggermente accaldato. Chissà quando avevo dimenticato che, nonostante tutto, era ancora un bambino.

L'aquilone verde si preparava al combattimento. «Aspettiamo» dissi. «Lasciamo che si avvicini.» Fece un paio di picchiate e volò verso di noi. «Dai, vieni qui!» lo incitai.

L'aquilone verde si avvicinò ancora, inconsapevole della trappola che gli avevo teso. «Guarda, Sohrab. Ora ti mostro uno dei famosi trucchi di tuo padre, la virata con picchiata.»

Accanto a me Sohrab aveva il fiato corto. Il rocchetto si svolgeva veloce nelle sue mani, i tendini dei polsi feriti erano come corde di rubab. Chiusi gli occhi e per un attimo le mani che tenevano il rocchetto mi parvero quelle callose e con le unghie spezzate di un ragazzo dal labbro leporino. Sentii il gracchiare di un corvo. Il parco scintillava di neve fresca, così accecante nel suo candore che mi feriva gli occhi. La neve cadeva silenziosa dai rami degli alberi coperti di bianco. Sentivo odore di qurma di rape. Di more secche. Di arance amare. Di segatura e castagne. Il silenzio della neve era assordante. Poi, al di là di quella immobilità, una voce lontana ci chiamò a casa, la voce di un uomo che strascicava la gamba destra.

L'aquilone verde si librava proprio sopra di noi ora. «Ci siamo. Ogni momento è buono» annunciai, guardando alternativamente Sohrab e il nostro aquilone.

L'aquilone verde esitava. Teneva la sua posizione. Poi all'improvviso scese in picchiata. «Ecco che viene!» gridai.

Una mossa perfetta. Dopo tutti quegli anni. La famosa trappola della virata con picchiata. Allentai la presa e diedi uno strattone al filo. Il nostro aquilone si abbassò schivando il suo attaccante. Poi, con una serie di scatti, si alzò in senso antiorario, descrivendo un semicerchio. In un attimo si trovò sopra l'aquilone verde, che, preso dal panico, cercava di prendere quota. Troppo tardi. Il trucco di Hassan aveva funzionato anche questa volta. Tirai il filo con forza e il nostro aquilone scese in picchiata. Mi sembrava quasi di sentire il rumore del nostro tar che segava il suo.

Un attimo dopo l'aquilone verde scendeva in una spirale vorticosa.

Dietro di noi la gente ci acclamava con fischi e applausi. Io ero senza fiato. L'ultima volta che mi ero sentito così emozionato era stato quel giorno dell'inverno del 1975, quando avevo tagliato l'ultimo aquilone e avevo visto Babà applaudire raggiante.

Guardai Sohrab. Un angolo della sua bocca si era impercettibilmente sollevato. Un sorriso. Abbozzato, ma pur sempre un sorriso.

Dietro di noi si era già formata una mischia urlante di ragazzini, pronti a dare la caccia all'aquilone verde che ondeggiava alla deriva. Un attimo, e il sorriso era già scomparso. Ma c'era stato. L'avevo visto.

«Vuoi che dia la caccia all'aquilone?»

Vidi il piccolo pomo d'Adamo di Sohrab salire e scendere come per deglutire. Il vento gli scompigliava i capelli. Mi parve di vederlo annuire.

«Per te questo e altro» dissi senza rendermene conto. Poi mi voltai e mi misi a correre.

Era solo un sorriso, niente di più. Le cose rimanevano quelle che erano. Solo un sorriso. Una piccola cosa. Una fogliolina in un bosco che trema al battito d'ali di un uccello spaventato.

Ma io l'ho accolto. A braccia aperte. Perché la primavera scioglie la neve fiocco dopo fiocco e forse io ero stato testimone dello sciogliersi del primo fiocco.

Correvo. Ero un uomo adulto che correva con uno sciame di bambini vocianti. Ma non mi importava. Correvo con il vento che mi soffiava in viso e sulle labbra un sorriso ampio come la valle del Panjsher. Correvo.

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