Copertina
Autore Michel Houellebecq
Titolo La carta e il territorio
EdizioneBompiani, Milano, 2010, Narratori stranieri , pag. 364, cop.fle.sov., dim. 15x21x2,8 cm , Isbn 978-88-452-6581-5
OriginaleLa carte et le territorie
EdizioneFlammarion, Paris, 2010
TraduttoreFabrizio Ascari
LettoreGiorgia Pezzali, 2011
Classe narrativa francese
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Jeff Koons si alzava dalla sua sedia, le braccia protese in uno slancio di entusiasmo. Seduto di fronte a lui su un divano di pelle bianca parzialmente ricoperto di un tessuto di seta, un po' incurvato, Damien Hirst sembrava sul punto di formulare un'obiezione; il volto rubicondo aveva un'aria cupa. Entrambi indossavano un abito nero – quello di Koons, a righe sottili – una camicia bianca e una cravatta nera. Fra i due uomini, sul tavolo basso, era posato un cestino di frutta candita cui né l'uno né l'altro prestavano attenzione; Hirst beveva una Budweiser Light.

Dietro di loro, una vetrata dava su un paesaggio di edifici alti che formavano un intrico babelico di poligoni giganteschi, fino ai confini dell'orizzonte; la notte era chiara, l'aria di una limpidezza assoluta. Ci si sarebbe potuti trovare nel Qatar o a Dubai; l'arredamento della stanza era in effetti ispirato a una fotografia pubblicitaria, tratta da una pubblicazione tedesca di lusso, dell'hotel Emirates di Abu Dhabi.

La fronte di Jeff Koons luccicava leggermente; Jed la sfumò con il pennello e indietreggiò di tre passi. C'era decisamente un problema con Koons. Hirst, in fondo, era facile da cogliere: lo si poteva fare brutale, cinico, del genere "vi disprezzo dall'alto della mia ricchezza"; lo si poteva anche fare artista ribelle (ma pur sempre ricco) che prosegue un lavoro angosciato sulla morte; c'era infine nel suo volto qualcosa di sanguigno e di pesante, tipicamente inglese, che lo avvicinava a un tifoso dell'Arsenal. Insomma, c'erano differenti aspetti, ma si potevano combinare nel ritratto coerente, rappresentabile, di un artista britannico tipico della sua generazione. Koons invece sembrava portare in sé qualcosa di doppio, come una contraddizione insormontabile fra la scaltrezza ordinaria dell'agente di commercio e l'esaltazione dell'asceta. Erano già tre settimane che Jed ritoccava l'espressione di Koons che si alzava dalla sedia, le braccia protese in uno slancio di entusiasmo come se tentasse di convincere Hirst; era difficile quanto dipingere un pornografo mormone.

C'erano foto di Koons da solo e in compagnia di Roman Abramovitch, Madonna, Barack Obama, Bono, Warren Buffett, Bill Gates... Nessuna riusciva a esprimere qualcosa della personalità di Koons, ad andare oltre quell'aria da venditore di decappottabili Chevrolet che l'artista aveva scelto di sfoggiare di fronte al mondo; era esasperante; del resto, da un pezzo i fotografi esasperavano Jed, in particolare i grandi fotografi, con la loro pretesa di rivelare nei loro scatti la verità dei loro modelli; non rivelavano un bel niente, si limitavano a piazzarsi davanti al soggetto e a far funzionare il loro apparecchio per scattare ridacchiando centinaia di foto a casaccio, e in seguito sceglievano le meno brutte della serie, ecco come procedevano, senza eccezione, tutti quei sedicenti grandi fotografi; Jed ne conosceva alcuni personalmente e nutriva solo disprezzo per loro, considerandoli tutti quanti creativi pressappoco quanto una cabina per fototessera.


In cucina, alcuni passi dietro di lui, la caldaia emise una serie di schiocchi. Si irrigidì, paralizzato. Era già il 15 dicembre.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 27

I



Jed non ricordava più quando aveva cominciato a disegnare. Senza dubbio tutti i bambini disegnano, più o meno, ma non conosceva bambini, non era sicuro. La sua sola certezza attuale era che aveva cominciato a disegnare dei fiori, su quaderni di piccolo formato, con matite colorate.

I mercoledì pomeriggio di solito, e talvolta le domeniche, aveva conosciuto momenti di estasi, solo nel giardino pieno di sole, mentre la baby-sitter telefonava al suo amichetto del momento. Vanessa aveva diciotto anni, frequentava il primo anno di economia all'università di Saint-Denis/Villetaneuse, e per molto tempo fu l'unica testimone dei suoi primi tentativi artistici. Trovava i suoi disegni carini, glielo diceva ed era sincera, tuttavia gli lanciava talvolta degli sguardi perplessi. I ragazzini disegnano mostri sanguinari, insegne naziste e aerei da caccia (i più precoci, cazzi e fiche), di rado fiori.

Jed allora lo ignorava, e Vanessa altrettanto, ma i fiori non sono che organi sessuali, vagine variopinte che ornano la superficie del mondo, in balia della lubricità degli insetti. Gli insetti e gli uomini, e anche altri animali, sembrano perseguire uno scopo, i loro spostamenti sono rapidi e orientati, mentre i fiori rimangono nella luce, smaglianti e fissi. La bellezza dei fiori è triste perché i fiori sono fragili, e destinati a morire, come ogni cosa sulla terra naturalmente, ma essi in particolare, e come per gli animali il loro cadavere non è che una grottesca parodia del loro essere vitale, e come quello degli animali puzza – tutto ciò lo si comprende non appena si sono vissuti una volta il passaggio delle stagioni e il marcire dei fiori; Jed, dal canto suo, lo aveva capito fin dall'età di cinque anni e forse prima, poiché c'erano molti fiori nel parco attorno alla casa di Le Raincy, anche molti alberi, e i rami degli alberi agitati dal vento erano forse una delle prime cose che aveva scorto quando veniva spinto nella sua carrozzina da una donna adulta (sua madre?), oltre alle nuvole e al cielo. La volontà di vivere degli animali si manifesta con trasformazioni rapide – una lubrificazione dell'orifizio, un irrigidimento dell'asta e poi l'emissione del liquido seminale – ma questo lo avrebbe scoperto solo in seguito, su un balcone di Port-Grimaud, grazie a Marthe Taillefer. La volontà di vivere dei fiori si manifesta con la costituzione di macchie smaglianti di colore, che rompono la banalità verdastra del paesaggio naturale, come la banalità di solito trasparente del paesaggio urbano, nei comuni fioriti perlomeno.

La sera il padre di Jed rincasava, si chiamava Jean-Pierre, i suoi amici lo chiamavano così. Jed, invece, lo chiamava papà. Era un buon padre, era considerato tale dai suoi amici e dai suoi dipendenti; un vedovo ha bisogno di molto coraggio per allevare un figlio da solo. Jean-Pierre era stato un buon padre i primi anni, poi lo era stato un po' meno, pagava sempre più ore di baby-sitter, cenava spesso fuori (il più delle volte con dei clienti, talvolta con dei dipendenti, sempre più raramente con degli amici poiché il tempo dell'amicizia cominciava a declinare per lui, non credeva più veramente che si potessero avere degli amici, che il rapporto di amicizia potesse davvero contare nella vita di un uomo, o modificarne il destino), rientrava tardi e non cercava nemmeno di andare a letto con la baby-sitter, cosa che la maggior parte degli uomini tentava di fare, ascoltava il resoconto della giornata, sorrideva al figlio, pagava la cifra richiesta. Era il capo di una famiglia scomposta, e non progettava alcuna ricomposizione. Guadagnava molto: presidente-direttore generale di un'impresa di costruzioni, si era specializzato nella realizzazione di complessi balneari chiavi in mano; aveva clienti in Portogallo, alle Maldive, a Santo Domingo.


Di quel periodo Jed aveva conservato i suoi quaderni, che racchiudevano l'interezza dei suoi disegni dell'epoca, e tutto ciò moriva tranquillamente, senza fretta (la carta non era di ottima qualità, le matite nemmeno), poteva durare altri due o tre secoli, le cose e gli esseri hanno una durata di vita.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 42

L'indomani suo padre passò a prenderlo con la Mercedes. Verso le undici imboccarono l'autostrada A20, una delle più belle della Francia, una di quelle che attraversano i paesaggi rurali più armoniosi; l'atmosfera era limpida e dolce, con un po' di nebbia all'orizzonte. Alle tre, si fermarono in un autogrill un po' prima di La Souterraine; su richiesta del padre, mentre faceva il pieno, Jed acquistò una carta stradale "Michelin Départements" della Creuse, Haute Vienne. Fu lì, dispiegando la carta, a due passi dai sandwich di pancarré avvolti nel cellophane, che ebbe la sua seconda grande rivelazione estetica. Quella carta era stupenda; sconvolto, si mise a tremare davanti all'espositore. Non aveva mai contemplato un oggetto così magnifico, così ricco di emozione e di significato come quella carta Michelin 1/150.000 della Creuse, Haute-Vienne. L'essenza della modernità, dell'apprendimento scientifico e tecnico del mondo vi si trovava mescolata con l'essenza della vita animale. Il disegno era complesso e bello, di una chiarezza assoluta, utilizzando soltanto un codice ristretto di colori. Ma in ogni frazione, ogni villaggio, rappresentati secondo la loro importanza, si sentivano il palpito, il richiamo di decine di vite umane, di decine o di centinaia di anime – le une destinate alla dannazione, le altre alla vita eterna.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 49

III



Si è presentato spesso il lavoro di Jed Martin come il frutto di una riflessione fredda, distaccata, sullo stato del mondo, lo si è considerato come una sorta di erede dei grandi artisti concettuali del secolo precedente. Fu però in una condizione di frenesia nervosa che Jed, appena tornato a Parigi, comperò tutte le carte Michelin che poté trovare – oltre centocinquanta. Rapidamente si rese conto che le più interessanti appartenevano alle serie "Michelin Régions", che coprivano gran parte dell'Europa, e soprattutto "Michelin Départements", limitata alla Francia. Voltando le spalle alla fotografia argentica, che aveva praticato esclusivamente fino a quel momento, acquistò un Better Light digital back 6000-HS, che permetteva la cattura di un file RGB a 48 bit in un formato 6000x8000.

Per circa sei mesi uscì pochissimo di casa, se non per una passeggiata quotidiana che lo portava fino all'ipermercato Casino di boulevard Vincent-Auriol. I suoi contatti con gli altri studenti delle Belle Arti, già sporadici all'epoca della sua frequenza, si ridussero fino a divenire inesistenti, e fu con sorpresa che, all'inizio di marzo, ricevette una e-mail che gli proponeva di partecipare a una collettiva, Restiamo cortesi, che doveva essere organizzata in maggio dalla fondazione Ricard. Tuttavia accettò a stretto giro di e-mail, senza veramente rendersi conto che era stato proprio il suo distacco quasi plateale a creare attorno a lui un'aura di mistero, e a far sì che molti dei suoi vecchi compagni avessero voglia di sapere a che punto fosse.


La mattina del vernissage si rese conto di non avere pronunciato una parola da quasi un mese, a parte il "No" che ripeteva tutti i giorni alla cassiera (di rado la stessa, è vero) che gli chiedeva se avesse la carta Club Casino; ma all'ora fissata si diresse comunque verso rue Boissy-d'Anglas. C'erano forse cento persone, insomma non aveva mai saputo valutare quel genere di cose, gli invitati a ogni modo si contavano a decine, ed ebbe dapprima un moto d'inquietudine constatando che non ne riconosceva nessuno. Temette per un attimo di avere sbagliato il giorno o la mostra, ma constatò che la stampa della sua foto era proprio là, appesa alla parete di fondo, illuminata correttamente. Dopo essersi servito un bicchiere di whisky, fece parecchie volte il giro della sala, seguendo una traiettoria ellissoidale, fingendo più o meno di essere assorto nelle proprie riflessioni, mentre il suo cervello non riusciva a formulare alcun pensiero fuorché la sorpresa che l'immagine dei suoi vecchi compagni fosse scomparsa così completamente dalla sua memoria, fosse stata radicalmente cancellata; arrivava a chiedersi se appartenesse al genere umano. Geneviève almeno l'avrebbe riconosciuta, sì, era certo che avrebbe riconosciuto la sua ex amante, era una certezza cui poteva aggrapparsi.


Terminando il suo terzo giro, Jed notò una giovane donna che fissava la sua foto con molta attenzione. Sarebbe stato difficile non notarla: non solo era di gran lunga la donna più bella della serata, ma era senza dubbio la donna più bella che avesse mai visto. Con la sua carnagione molto chiara, quasi traslucida, i capelli di un biondo platino e gli zigomi sporgenti, corrispondeva perfettamente all'immagine della bellezza slava resa popolare dalle agenzie di modelle e dalle riviste dopo la caduta dell'URSS.

Quando ripassò, non c'era più; la scorse di nuovo verso la metà del suo sesto giro, sorridente, con un bicchiere di champagne in mano, in mezzo a un gruppetto. Gli uomini la divoravano con gli occhi con una bramosia che non cercavano nemmeno di dissimulare; uno di loro aveva la mascella semislogata.

Quando ripassò la volta successiva davanti alla sua foto, lei era di nuovo là, sola adesso. Jed ebbe un attimo di esitazione, poi partì per la tangente andando a piantarsi a sua volta davanti all'immagine che osservò scuotendo il capo.

La donna si voltò verso di lui e lo guardò pensierosa alcuni secondi prima di chiedere:

"È lei l'autore?"

"Sì."

Lei lo guardò di nuovo, più attentamente, per almeno cinque secondi, prima di dire:

"Trovo sia molto bella."

Lo aveva detto semplicemente, pacatamente, ma con vera convinzione. Incapace di trovare una risposta appropriata, Jed rivolse lo sguardo verso l'immagine. Doveva convenire che era, in effetti, abbastanza soddisfatto di sé. Per la mostra aveva scelto una parte della carta Michelin della Creuse, in cui figurava il paese di sua nonna. Aveva utilizzato un'asse di ripresa molto inclinato, a trenta gradi dall'orizzontale, regolando il dispositivo di basculaggio al massimo per ottenere una grandissima profondità di campo. Poi aveva introdotto la sfocatura di distanza e l'effetto azzurrognolo all'orizzonte, usando i livelli di Photoshop. In primo piano c'erano lo stagno di Le Breuil e il borgo di Chàtelus-le-Marcheix. Più lontano, le strade che serpeggiavano nella foresta fra i paesi di Saint-Goussaud, Laurière e Jabreilles-les-Bordes apparivano come un territorio di sogno, fiabesco e inviolabile. In fondo e a sinistra dell'immagine, come emergente da una coltre di nebbia, si distingueva ancora nettamente il nastro bianco e rosso dell'autostrada A20.

"Scatta spesso foto di carte stradali?"

"Sì... Sì, abbastanza spesso."

"Sempre delle Michelin?

"Sì."

Lei rifletté alcuni secondi prima di chiedergli:

"Ha fatto molte foto del genere?"

"Un po' più di ottocento."

Stavolta lei lo fissò, decisamente sconcertata, per almeno venti secondi, prima di proseguire:

"Dobbiamo parlarne. Dobbiamo vederci per parlarne. Forse la sorprenderà, ma... io lavoro alla Míchelin."

Estrasse da una minuscola borsetta di Prada un biglietto da visita che Jed osservò stupidamente prima di metterlo in tasca: Olga Sheremoyova, Pubbliche relazioni, Michelin Francia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 66

V



Aveva in effetti carta bianca e la utilizzò al suo meglio. Quando entrarono nella sala di avenue de Breteuil la sera del vernissage, Olga ebbe uno shock. "C'è gente..." disse infine, impressionata. "Sì, la gente è venuta," confermò Marylin con una soddisfazione sorda, che sembrava bizzarramente venata di una sorta di rancore. C'era un centinaio di persone, ma ciò che lei voleva dire era che c'erano persone importanti, e come fare a saperlo? L'unica persona che Jed conoscesse di vista era Patrick Forestier, il diretto superiore di Olga e direttore della comunicazione della Michelin France, un polytechnicien di tipo comune che aveva speso tre ore a cercare di vestirsi in modo artistico, passando in rivista tutto il guardaroba prima di ripiegare su uno dei soliti abiti grigi, portato senza cravatta.

L'ingresso della sala era sbarrato da un grande pannello, che lasciava ai lati dei passaggi di due metri, su cui Jed aveva attaccato fianco a fianco una foto satellitare scattata nei dintorni del Ballon de Guebwiller e l'ingrandimento di una carta Michelin "Départements" della stessa zona. Il contrasto era sorprendente: mentre la foto satellitare lasciava apparire soltanto una mescolanza di verdi più o meno uniformi disseminata di vaghe macchie blu, la carta sviluppava un affascinante intrico di provinciali, di strade pittoresche, di punti di vista, di foreste, di laghi e di colli.

Sopra i due ingrandimenti, in maiuscole nere, figurava il titolo della mostra: "LA CARTA È PIÙ INTERESSANTE DEL TERRITORIO".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 136

Una pioggia regolare scendeva su Shannon, e il tassista era un imbecille maligno. "Gone for holidays?" chiese, come se si rallegrasse in anticipo del suo disappunto. "No, working," rispose Jed, che non voleva dargli quella soddisfazione, ma l'altro, visibilmente, non gli credette. "What kind of job you're doing?" chiese, sottintendendo chiaramente con il suo tono che riteneva improbabile che gli affidassero un qualunque lavoro. "Photography," rispose Jed. L'altro tirò su col naso, ammettendo la propria sconfitta.

Bussò per almeno due minuti alla sua porta, sotto una pioggia battente, prima che Houellebecq venisse ad aprirgli. L'autore delle Particelle elementari indossava un pigiama a righe grigio che lo faceva vagamente somigliare a un ergastolano da sceneggiato televisivo; aveva i capelli arruffati e sporchi, la faccia violacea, quasi fosse affetto da acne rosacea, e puzzava un po'. L'incapacità di lavarsi è uno dei segni più sicuri della presenza di uno stato depressivo, si ricordò Jed.

"Mi dispiace per la mia insistenza, so che non sta molto bene. Ma sono impaziente di cominciare il suo ritratto..." disse, e fece un sorriso che sperava disarmante. "Sorriso disarmante" è un'espressione che si trova ancora in certi romanzi, e che deve dunque corrispondere a una qualche realtà. Ma Jed, personalmente, non si sentiva purtroppo abbastanza ingenuo da poter essere disarmato da un sorriso; e, sospettava, che nemmeno Houellebecq lo fosse. L'autore del Senso della lotta indietreggiò tuttavia di un metro, quel tanto che bastava per consentirgli di ripararsi dalla pioggia, senza comunque invitarlo veramente a entrare in casa.

"Ho portato una bottiglia di vino. Una buona bottiglia!..." esclamò Jed con un entusiasmo un po' falso, pressappoco come si offrono delle caramelle ai bambini, tirandola fuori dalla sua borsa da viaggio. Era uno Château Ausone 1986, che gli era costato comunque 400 euro – una dozzina di voli Parigi-Shannon con Ryanair.

"Una sola bottiglia?" chiese l'autore della Ricerca della felicità allungando il collo verso l'etichetta. Puzzava un po', ma meno di un cadavere; poteva andare anche peggio, dopotutto. Poi si voltò senza una parola, dopo avere afferrato la bottiglia; Jed interpretò tale comportamento come un invito a entrare.


La stanza principale, il living room, l'ultima volta, per quanto ricordasse, era vuota; adesso era arredata con un letto e un televisore.

"Sì," disse Houellebecq, "dopo la sua visita mi sono reso conto che lei era stato il primo visitatore a entrare in questa casa e che sarebbe stato probabilmente l'ultimo. Allora mi sono detto, a che pro mantenere la finzione di una stanza di ricevimento? Perché non fare la mia camera nella stanza principale? Dopotutto, trascorro la maggior parte delle mie giornate sdraiato; mangio di solito a letto, guardando i cartoni animati su Fox TV; non è come se organizzassi delle cene."

Pezzi di fette biscottate e brandelli di mortadella erano disseminati effettivamente sulle lenzuola, macchiate di vino e bruciate in alcuni punti.

"Andiamo in cucina, però..." propose l'autore di Rinascita.

"Sono venuto per scattare delle foto."

"La sua macchina non funziona in cucina?"


"Ci sono ricascato... Ho ricominciato ad abbuffarmi di salumi," proseguì cupamente Houellebecq. Infatti la tavola era cosparsa di involucri di chorizo, di mortadella, di pâté di campagna. Porse a Jed un cavatappi e, appena aperta la bottiglia, mandò giù un primo bicchiere tutto d'un fiato, senza annusare il bouquet del vino, senza nemmeno procedere a una parvenza di degustazione. Jed scattò una dozzina di primi piani, cercando di variare le angolazioni.

"Mi piacerebbe molto fotografarla nel suo studio... là dove lavora."

Lo scrittore emise un grugnito poco entusiasta, ma si alzò e lo precedette in un corridoio. Gli scatoloni del trasloco impilati lungo le pareti non erano stati ancora aperti. Dall'ultima volta aveva messo su un po' di pancia, ma il collo e le braccia erano sempre scarni; somigliava a una vecchia tartaruga malata.

Lo studio era una grande stanza rettangolare dalle pareti nude, quasi vuota a eccezione di tre tavoli da giardino di plastica verde bottiglia allineati contro un muro. Sul tavolo centrale erano posati un iMac 24 pollici e una stampante laser Samsung; dei fogli di carta, stampati o manoscritti, ricoprivano gli altri due tavoli. L'unico lusso era costituito da una poltrona da ufficio dallo schienale alto, munita di rotelle, di pelle nera.

Jed scattò qualche foto dell'insieme della stanza. Vedendolo avvicinarsi ai tavoli, Houellebecq ebbe un sussulto nervoso.

"Non si preoccupi, non guarderò i suoi manoscritti, so che lo detesta. Comunque..." rifletté un istante, "mi piacerebbe molto vedere come si presentano le sue annotazioni, le sue correzioni."

"Preferirei di no."

"Non guarderò affatto il contenuto. È solo per avere un'idea della geometria dell'insieme, le prometto che sul quadro nessuno riconoscerà le parole."

Con reticenza, Houellebecq estrasse qualche foglio. C'erano pochissime cancellature, ma numerosi asterischi in mezzo al testo, accompagnati da frecce che portavano ad altri blocchi di testo, gli uni a margine, altri su fogli separati. All'interno di tali blocchi, di forma vagamente rettangolare, nuovi asterischi rimandavano a nuovi blocchi, e ciò formava una sorta di arborescenza. La grafia era inclinata, quasi illeggibile. Houellebecq non tolse gli occhi di dosso a Jed per tutto il tempo degli scatti e sospirò con evidente sollievo quando questi si scostò dal tavolo. Lasciando la stanza, richiuse con cura la porta dietro di sé.

"Non è il testo su di lei, non ho ancora cominciato,» disse ritornando verso la cucina. "È una prefazione per una riedizione di Jean-Louis Curtis per Omnibus, devo consegnarla. Vuole un bicchiere di vino?" Adesso parlava con un'allegria esagerata, senza dubbio per far dimenticare la freddezza iniziale della sua accoglienza. Lo Château Ausone era quasi finito. Aprì con un gesto largo un armadio a muro, scoprendo una quarantina di bottiglie.

"Argentina o Cile?"

"Cile, per cambiare."

"Jean-Louis Curtis è completamente dimenticato oggi. Ha scritto una quindicina di romanzi, novelle, una raccolta straordinaria di pastiche... La France m'épuise contiene, a mio avviso, i pastiche più riusciti della letteratura francese: le sue imitazioni di Saint-Simon, di Chateaubriand sono straordinarie; se la cava benissimo anche con Stendhal e Balzac. Eppure oggi non ne resta nulla, più nessuno lo legge. È ingiusto, era un autore piuttosto buono, in un genere un po' conservatore, un po' classico, ma cercava di fare onestamente il suo lavoro, insomma quello che riteneva essere il suo lavoro. La Quarantaine trovo sia un libro molto riuscito. Ci sono una vera nostalgia, una sensazione di perdita nel passaggio dalla Francia tradizionale al mondo moderno; si può rivivere perfettamente tale momento leggendolo; di rado è caricaturale, a parte talvolta in certi personaggi di preti di sinistra. E poi Un jeune couple è un libro molto sorprendente. Affrontando esattamente lo stesso soggetto di Le cose di Georges Perec , riesce a non essere ridicolo in confronto, ed è già tanto. Ovviamente non possiede il virtuosismo di Perec, ma chi lo ha avuto, nel suo secolo? Ci si può meravigliare anche di vederlo schierato dalla parte dei giovani, delle tribù di hippy che a quanto pare attraversavano l'Europa all'epoca, con lo zaino, rifiutando la 'società dei consumi', come si diceva allora; il suo rifiuto della società dei consumi è però forte quanto il loro, e poggia su basi assai più solide, come si è poi visto fin troppo bene. Georges Perec, invece, accetta la società dei consumi, la ritiene a giusto titolo come il solo orizzonte possibile, le sue considerazioni sulla felicità di Orly sono ai miei occhi assolutamente convincenti. In fondo si è catalogato senza ragione alcuna Jean-Louis Curtis come reazionario; è solo un buon autore un po' triste, persuaso che l'umanità non possa cambiare molto, in un senso come nell'altro. Un innamorato dell'Italia, pienamente consapevole della crudeltà dello sguardo latino sul mondo. Ma non so perché le stia raccontando tutto ciò, lei se ne sbatte di Jean-Louis Curtis, e ha torto, dovrebbe interessarla, anche in lei sento una sorta di nostalgia, ma la sua è una nostalgia del mondo moderno, dell'epoca in cui la Francia era un paese industriale, mi sbaglio forse?" Estrasse dal frigorifero chorizo, salame, pane casereccio.

"È vero," rispose Jed dopo lunga riflessione. "Ho sempre amato i prodotti industriali. Non mi sarebbe mai venuto in mente di fotografare, per esempio... un salame." Tese la mano verso la tavola, si scusò subito. "È buonissimo, non voglio dire questo, lo mangio con piacere... Ma fotografarlo, no. Ci sono quelle irregolarità di origine organica, quelle venule di grasso diverse da una fetta all'altra. È un po'... scoraggiante."

Houellebecq scosse il capo, allargando le braccia come se entrasse in una trance tantrica – era, più probabilmente, ubriaco e tentava di assicurare il proprio equilibrio sullo sgabello di cucina su cui si era accovacciato. Quando riprese la parola, la sua voce era soave, profonda, piena di emozione ingenua. "Nella mia vita di consumatore," disse, "avrò conosciuto tre prodotti perfetti: le scarpe Paraboot Marche, il portatile con stampante integrata Canon Libris BN 750 (laptop + stampante), il parka Camel Legend. Questi prodotti li ho amati, appassionatamente, avrei trascorso la vita senza separarmene mai, riacquistando regolarmente, man mano che si usuravano, prodotti identici. Si era stabilito un rapporto perfetto e fedele, che faceva di me un consumatore felice. Non ero assolutamente felice, sotto ogni punto di vista, nella vita, ma almeno avevo questo: a intervalli regolari potevo riacquistare un paio delle mie scarpe preferite. È poco ma è molto, soprattutto quando si ha una vita intima abbastanza povera. Ebbene, questa gioia, questa gioia semplice, non mi è stata lasciata. I miei prodotti favoriti, dopo qualche anno, sono spariti dalle scaffalature, la loro fabbricazione è stata sospesa punto e basta — e nel caso del mio povero parka Camel Legend, senza dubbio il più bel parka mai prodotto, avrà vissuto una sola stagione..." Grosse lacrime cominciarono a rigargli il volto lentamente; si versò un altro bicchiere di vino. "È brutale, sa, tremendamente brutale. Mentre le specie animali più insignificanti impiegano migliaia, talvolta milioni di anni a scomparire, i manufatti vengono cancellati dalla superficie del globo in pochi giorni, non viene mai concessa loro una seconda possibilità, non possono che subire, impotenti, il diktat irresponsabile e fascista dei responsabili delle linee di prodotti che sanno naturalmente meglio di chiunque altro che cosa vuole il consumatore, che pretendono di cogliere un'attesa di novità nel consumatore, che in realtà non fanno che trasformare la sua vita in una ricerca estenuante e disperata, in un errare senza fine fra esposizioni di merci eternamente modificate."

"Capisco che cosa intende dire," intervenne Jed, "so che a molti si è spezzato il cuore quando è cessata la fabbricazione della Rolleiflex a doppio obiettivo. Ma forse allora... Forse bisognerebbe riservare la propria fiducia e il proprio amore ai prodotti estremamente costosi, che beneficiano di uno status mitico. Non mi immagino, per esempio, la Rolex che interrompe la produzione dell'Oyster Perpetual Day-Date."

"Lei è giovane... Lei è incredibilmente giovane... la Rolex farà come tutti gli altri." Prese tre fettine di chorizo, le dispose su un pezzo di pane, mandò giù tutto, poi tornò a versarsi un bicchiere di vino. "Ha comperato una nuova macchina fotografica, mi ha detto... Mi faccia vedere le istruzioni."

Diede una scorsa per due minuti alle modalità d'uso della Samsung ZRT-AV2, scuotendo il capo come se ogni riga confermasse le sue fosche predizioni. "Ebbene sì..." disse infine restituendogli il libretto. "È un bel prodotto, un prodotto moderno; può amarlo. Ma deve sapere che fra un anno, due al massimo, sarà sostituito da un nuovo prodotto, con presunti miglioramenti."

"Anche noi siamo dei prodotti..." proseguì, "dei prodotti culturali. Anche noi verremo colpiti da obsolescenza. Il funzionamento del dispositivo è identico — a parte che non c'è di solito alcun miglioramento tecnico o funzionale evidente; rimane solo l'esigenza di novità allo stato puro."

"Ma non è nulla, non è nulla..." proseguì con leggerezza. Cominciò a tagliare un secondo salame, poi, con il coltello in mano, s'interruppe per intonare con voce possente: "Amare, ridere e cantare!..." Con un gesto largo colpì la bottiglia di vino che fini in pezzi sul pavimento di piastrelle.

"Raccolgo io," intervenne Jed alzandosi di scatto.

"No, lasci, non è grave."

"Sì, ci sono schegge di vetro, potremmo tagliarci. Ha uno strofinaccio?" Si guardò attorno, Houellebecq ciondolava il capo senza rispondere. In un angolo, scorse uno scopino e una paletta di plastica.

"Apro un'altra bottiglia..." intervenne lo scrittore. Si alzò e attraversò la cucina zigzagando fra i pezzi di vetro che Jed stava raccogliendo come meglio poteva.

"Abbiamo già bevuto molto... Personalmente, ho scattato tutte le mie foto."

"Su, non vorrà andarsene adesso! Cominciamo appena a divertirci... Amare, ridere e cantare!..." intonò di nuovo prima di mandare giù tutto d'un fiato un bicchiere di vino cileno. "Foucra bouldou! Bistroye! Bistroye!" soggiunse con convinzione. Già da qualche tempo, l'illustre scrittore aveva contratto la mania di usare parole bizzarre, talvolta desuete o francamente improprie, quando non erano neologismi infantili alla maniera del capitano Haddock di Tintin. I rari amici che gli erano rimasti, come i suoi editori, gli perdonavano questa debolezza, come si perdona quasi tutto a un vecchio stanco in declino.

"È pazzesca l'idea che le è venuta di farmi il ritratto, davvero pazzesca..."

"Davvero?" si stupì Jed. Finì di raccogliere i pezzi di vetro, ficcò il tutto in un sacco della spazzatura destinato ai calcinacci (Houellebecq, a quanto pareva, non ne possedeva altri), tornò a sedersi a tavola e prese una fetta di salame.

"Sa..." proseguì senza smontarsi, "ho proprio intenzione di azzeccare questo quadro. Negli ultimi dieci anni ho cercato di rappresentare persone appartenenti a tutti gli strati della società, dal macellaio equino al presidente di una multinazionale. Il mio solo fallimento è stato quando ho tentato di rappresentare un artista – più precisamente Jeff Koons, non so perché. Insomma, ho fallito anche nel caso di un prete, non ho saputo come affrontare il soggetto, ma nel caso di Jeff Koons è peggio, avevo cominciato il quadro, sono stato costretto a distruggerlo. Non voglio fermarmi a questo fiasco, e con lei credo che ci riuscirò. C'è qualcosa nel suo sguardo, non saprei dire cosa, ma credo di poterlo trasferire..."

La parola "passione" attraversò all'improvviso la mente di Jed, e a un tratto si ritrovò indietro di dieci anni, durante il suo ultimo weekend con Olga. Erano sulla terrazza dello Château de Vault-de-Lugny, la domenica di Pentecoste. La terrazza dominava l'immenso parco, i cui alberi erano agitati da una brezza leggera. Scendeva la notte, la temperatura era di una mitezza ideale. Olga sembrava immersa nella contemplazione del pasticcio di astice, non aveva detto nulla da almeno un minuto quando sollevò il capo, lo guardò dritto negli occhi e gli chiese:

"Sai, in fondo, perché piaci alle donne?"

Jed borbottò una risposta indistinta.

"Perché tu piaci alle donne, sai," insistette Olga, "suppongo tu abbia avuto occasione di rendertene conto. Sei piuttosto carino, ma non è questo, la bellezza è quasi un dettaglio. No, è altro..."

"Dimmi."

"È semplicissimo: è perché hai un sguardo intenso. Uno sguardo appassionato. Ed è questo, innanzitutto, che le donne cercano. Se possono leggere nello sguardo di un uomo un'energia, una passione, allora lo trovano seducente."

Lasciandolo meditare su questa conclusione, Olga bevve un sorso di Meursault e gustò il suo primo. "Ovviamente..." disse qualche istante dopo con una leggera tristezza, "quando questa passione non si rivolge a loro, ma a un'opera artistica, sono incapaci di rendersene conto... all'inizio almeno."

Dieci anni dopo, osservando Houellebecq, Jed si rese conto che anche nel suo sguardo c'era una passione, qualcosa di allucinato persino. Aveva dovuto suscitare passioni amorose, forse violente. Sì, da quanto sapeva delle donne, era verosimile che alcune di loro si fossero potute innamorare di quel rottame tormentato che adesso dondolava la testa davanti a lui divorando fette di pâté casereccio, divenuto manifestamente indifferente a tutto ciò che poteva somigliare a una relazione amorosa, e verosimilmente anche a ogni relazione umana.

"È vero, non provo che un debole sentimento di solidarietà nei confronti della specie umana..." disse Houellebecq come se avesse indovinato i suoi pensieri. "Direi che il mio senso di appartenenza diminuisce un po' tutti i giorni. Tuttavia mi piacciono molto i suoi ultimi quadri, anche se rappresentano degli esseri umani. Hanno qualcosa... di generale, direi, che va al di là dell'aneddoto. Insomma, non voglio fare anticipazioni sul mio testo, altrimenti non scriverò nulla. A proposito, non le secca troppo se non finisco entro marzo? Non sono davvero molto in forma in questo momento."

"Nessun problema. Ritarderemo la mostra; aspetteremo il tempo necessario. Sa, lei è diventato importante per me, e inoltre è successo in fretta, nessun essere umano aveva mai prodotto questo effetto su di me!" esclamò Jed con un'animazione straordinaria.

"Lo strano, sa..." proseguì con maggiore calma, "ci si aspetta che un ritrattista metta in primo piano la singolarità del modello, ciò che lo rende un essere umano unico. È quanto faccio io, in un certo senso, ma da un altro punto di vista ho l'impressione che le persone si assomiglino assai più di quanto si dica di solito; soprattutto quando faccio le parti piane, i mascellari, ho l'impressione di ripetere i motivi di un puzzle. So bene che gli esseri umani sono il soggetto del romanzo, del great occidental novel, anche uno dei grandi soggetti della pittura, ma non posso fare a meno di pensare che le persone siano assai meno diverse fra loro di quanto generalmente credano. Che ci siano troppe complicazioni nella società, troppe distinzioni, troppe categorie..."

"Sì, è un po' bizantinesco..." ammise con accondiscendenza l'autore di Piattaforma. "Ma non ho l'impressione che lei sia veramente un ritrattista. Chi se ne fotte del ritratto di Dora Maar eseguito da Picasso? A ogni modo Picasso è brutto, dipinge un mondo orrendamente deformato perché la sua anima è orrenda, ed è tutto ciò che si può trovare da dire di Picasso, non c'è alcuna ragione di favorire ulteriormente l'esposizione delle sue tele, non ha niente da dare, in lui non ci sono luce, innovazione nell'organizzazione dei colori o delle forme, insomma in Picasso non c'è assolutamente nulla che meriti di essere segnalato, solo una stupidità estrema e uno scarabocchio priapico che può sedurre certe sessantenni con un grosso conto in banca. Il ritratto di Cornelius van der Geest, decano della gilda dei mercanti, eseguito da Van Dyck, è tutt'altra cosa; perché non è Cornelius a interessare Van Dyck, ma la gilda dei mercanti. Insomma, è ciò che capisco nei suoi quadri, ma forse mi sbaglio completamente, a ogni modo se il mio testo non le piace, non dovrà fare altro che gettarlo nella pattumiera. Mi scusi, divento aggressivo sono le micosi..." Sotto lo sguardo attonito di Jed, cominciò a grattarsi i piedi, furiosamente, finché cominciarono a imperlarsi di sangue. "Ho delle micosi, delle infezioni batteriche, un eczema atopico generalizzato, è una vera infezione, sto marcendo e tutti se ne sbattono, nessuno può fare nulla per me, sono stato vergognosamente abbandonato dalla medicina, che cosa mi resta da fare? Grattarmi, grattarmi senza sosta, ecco cos'è diventata la mia vita adesso: un interminabile grattamento..."


Poi si raddrizzò, un po' sollevato, prima di soggiungere: "Adesso sono un po' stanco, credo che andrò a riposare."

"Naturalmente!" Jed si alzò con prontezza. "Le sono già molto grato di avermi dedicato tutto questo tempo," concluse con la sensazione di essersela cavata piuttosto bene.

Houellebecq lo riaccompagnò alla porta. All'ultimo momento, poco prima che la notte lo avvolgesse, gli disse: "Sa, mi rendo conto di ciò che lei sta facendo, ne conosco le conseguenze. È un buon artista, senza entrare nei particolari lo si può dire. Il risultato è che sono stato fotografato migliaia di volte, ma se c'è una mia immagine, una sola, che resterà nei secoli a venire, sarà il suo quadro." Ebbe all'improvviso un sorriso giovanile, e questa volta realmente disarmante. "Vede, prendo la pittura sul serio..." disse. Poi richiuse la porta.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 157

VII



Infatti, la mattina del 31 ottobre, Jed ricevette una e-mail accompagnata da un testo senza titolo, di una cinquantina di pagine, che trasmise immediatamente a Marylin e a Franz, preoccupandosi: non era troppo lungo? Lei lo rassicurò subito: anzi, gli disse, era sempre preferibile "avere qualcosa di sostanzioso".

Anche se oggi è considerato piuttosto come una curiosità storica, questo testo di Houellebecq – il primo di tale importanza dedicato all'opera di Martin – contiene comunque alcune intuizioni interessanti. Al di là delle variazioni di temi e di tecniche, afferma per la prima volta l'unità del lavoro dell'artista, e scopre una profonda logica nel fatto che dopo aver consacrato i suoi anni di formazione a ricercare l'essenza dei manufatti del mondo, Jed si interessi, nella seconda parte della sua vita, ai loro produttori.

Lo sguardo che Jed Martin porta sulla società del suo tempo, sottolinea Houellebecq, è quello di un etnologo anziché di un commentatore politico. Martin, insiste lo scrittore, non ha nulla di un artista impegnato, e anche se L'ingresso in Borsa delle azioni Beate Uhse, una delle sue rare scene di folla, può ricordare il periodo espressionista, siamo molto lontani dal trattamento acido, caustico di un George Grosz o di un Otto Dix. I suoi trader in tuta sportiva e felpa con il cappuccio, che acclamano con una stanchezza disincantata la grande industriale del porno tedesco, sono gli eredi diretti dei borghesi in tight che si incontrano, interminabilmente, nei ricevimenti messi in scena dal Fritz Lang dei Dottor Mabuse; sono trattati con lo stesso distacco, la stessa freddezza oggettiva. Nei suoi titoli come nella sua stessa pittura, Martin è sempre semplice e diretto: descrive il mondo, concedendosi solo di rado un'annotazione poetica, un sottotitolo a mo' di commento. Lo fa, tuttavia, in una delle sue opere più riuscite, Bill Gates e Steve Jobs parlano del futuro dell'informatica, che ha scelto di sottotitolare La conversazione di Palo Alto.


Sprofondato in una poltroncina di vimini, Bill Gates allargava le braccia sorridendo al suo interlocutore. Portava pantaloni di tela, una camicia kaki a maniche corte, ai piedi delle infradito. Non era più il Bill Gates in abito blu scuro dell'epoca in cui Microsoft consolidava il suo dominio sul mondo, e in cui lui stesso, detronizzando il sultano del Brunei, si innalzava al rango di uomo più ricco del mondo. Non era ancora il Bill Gates sensibile, dolente, che visitava orfanotrofi nello Sri Lanka o esortava la comunità internazionale alla vigilanza davanti alla recrudescenza del vaiolo nei paesi dell'Africa occidentale. Era un Bill Gates intermedio, rilassato, manifestamente contento di avere abbandonato il suo posto di chairman della prima industria mondiale di software, un Bill Gates in vacanza, insomma. Solo gli occhiali dalla montatura metallica, dalle lenti spesse, potevano ricordare il suo passato di nerd.

Di fronte a lui, Steve Jobs, benché seduto alla turca sul divano di pelle bianca, sembrava paradossalmente un'incarnazione dell'austerità, della Sorge tradizionalmente associate al capitalismo protestante. Non c'era nulla di californiano nella maniera in cui la sua destra stringeva la mascella come per aiutarlo in una riflessione difficile, nello sguardo pieno d'incertezza che posava sul suo interlocutore; e persino la camicia hawaiana che Martin gli aveva messo addosso non riusciva a dissipare l'impressione di tristezza generale prodotta dalla sua posizione lievemente curva, dall'espressione di smarrimento che si leggeva sui suoi tratti.

L'incontro, evidentemente, aveva luogo da Jobs. Combinazione di mobili bianchi dal design raffinato e di tendaggi etnici dai colori vivaci: tutto nella stanza evocava l'universo estetico del fondatore della Apple, agli antipodi dell'orgia di gadget high-tech, al limite della science-fiction, che caratterizzava secondo la leggenda la casa che il fondatore di Microsoft si era fatto costruire alla periferia di Seattle. Fra i due uomini, una scacchiera dai pezzi artigianali in legno era posata su un tavolino; avevano interrotto la partita in una posizione molto sfavorevole per i Neri – cioè per Jobs.

In alcune pagine della sua autobiografia, La strada che porta a domani, Bill Gates lascia talvolta trasparire quello che si potrebbe considerare un cinismo totale – in particolare nel passo in cui confessa schiettamente che non è per forza vantaggioso, per un'industria, proporre i prodotti più innovativi. Nella maggior parte dei casi è preferibile osservare ciò che fanno le industrie concorrenti (e fa allora chiaramente riferimento, senza citarlo, al suo concorrente Apple), lasciare che mettano sul mercato i loro prodotti, che affrontino le difficoltà inerenti a ogni innovazione, che ne facciano per prime le spese in certo qual modo; poi, in un secondo tempo, inondare il mercato proponendo copie a basso prezzo dei prodotti della concorrenza. Questo cinismo apparente non è però, sottolinea Houellebecq nel suo testo, la verità profonda di Gates; questa si esprime piuttosto nei brani sorprendenti, e quasi toccanti, in cui egli riafferma la sua fede nel capitalismo, nella misteriosa "mano invisibile"; la sua convinzione assoluta, incrollabile, che, quali che siano le vicissitudini e gli apparenti controesempi, il mercato, alla fin fine, ha sempre ragione, il bene del mercato si identifica sempre con il bene generale. È allora che Bill Gates appare, nella sua verità profonda, come un essere di fede, ed è tale fede, tale candore del capitalista sincero che Jed Martin ha saputo rendere rappresentandolo con le braccia spalancate, caloroso e amichevole, con gli occhiali che brillano agli ultimi raggi del sole che tramonta sul Pacifico. Jobs, invece, smagrito dalla malattia, con il volto dall'aria preoccupata e la barba rada, dolorosamente posato sulla mano destra, ricorda uno di quegli evangelisti itineranti nel momento in cui, ritrovandosi per la decima volta forse a snocciolare le sue prediche davanti a un pubblico scarso e indifferente, viene invaso a un tratto dal dubbio.

Era tuttavia Jobs, immobile, indebolito, in posizione soccombente, a dare l'impressione di essere il padrone del gioco; questo era, sottolinea Houellebecq nel suo testo, il profondo paradosso della tela. Nel suo sguardo continuava a brillare la fiamma che non è soltanto quella dei predicatori e dei profeti, ma anche quella degli inventori descritti così spesso da Jules Verne. Guardando con maggior attenzione la disposizione degli scacchi rappresentata da Martin, ci si rendeva conto che non era necessariamente perdente; e che Jobs, lanciandosi in un sacrificio della regina, poteva concludere in tre mosse con un audace scacco matto con cavallo e alfiere. Si aveva anche l'impressione che, con l'intuizione folgorante di un nuovo prodotto, potesse imporre subitaneamente nuove norme al mercato. Dalla vetrata dietro i due uomini si scorgeva un paesaggio di prati, di un verde smeraldo quasi surreale, che scendevano in lieve pendenza fino a una fila di falesie, dove si congiungevano con una foresta di conifere. Più lontano il Pacifico dispiegava le sue onde interminabili dai riflessi dorati. Alcune bambine, in lontananza sul tappeto erboso, avevano iniziato una partita a frisbee. Scendeva la sera sulla California del Nord, stupenda, nell'esplosione di un tramonto che Martin aveva voluto quasi improbabile nella sua magnificenza arancione, e la sera scendeva sulla parte più avanzata del mondo; era anche questo, una tristezza indefinita degli addii, che si poteva leggere nello sguardo di Jobs.

Due assertori convinti dell'economia di mercato; due sostenitori risoluti, anche, del partito democratico, eppure due facce opposte del capitalismo, differenti fra loro quanto potevano esserlo un banchiere di Balzac e un ingegnere di Verne. La conversazione di Palo Alto, sottolineava Houellebecq concludendo, era un sottotitolo fin troppo modesto; Jed Martin avrebbe potuto intitolare il suo quadro Una breve storia del capitalismo; poiché era proprio questo, in effetti.

| << |  <  |