Autore Bohumil Hrabal
Titolo la perlina sul fondo
EdizioneMiraggi, Torino, 2020, Nová Vlna 8 , pag. 256, cop.fle., dim. 13,5x19x2 cm , Isbn 978-88-3386-111-1
OriginalePerlička na dně
EdizioneČeskoslovensky spisovatel, Praha, 1963
CuratoreAlessandro Catalano
TraduttoreLaura Angeloni
LettoreElisabetta Cavalli, 2020
Classe narrativa ceca









 

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Indice


Corso serale                              7

Molto amato                              19

I bei tempi andati                       37

Un pomeriggio uggioso                    43

La morte del signor Baltisherger         57

Emánek                                   81

Occhi d'angelo                           93

Gli impostori                           107

Il barone di Münchhausen                117

Il battesimo 1947                       169

La birreria U zeleného stromu           179

Presepe praghese                        191


Nota della traduttrice
    di Laura Angeloni                   217

Bohumil Hrabal, ovvero la nascita del
Rabelais dei tempi moderni.
Le peripezie editoriali che hanno
trasformato "L'allodola sul filo"
nella "Perlina sul fondo"
    di Alessandro Catalano              221

Opere principali di Bohumil Hrabal      250

Filmografia                             253


 

 

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Pagina 19

Molto amato


Prima di mezzanotte i canalisti avevano predisposto il sistema di colata. In tutto sei anime e trentasei conchiglie. Lavoravano silenziosi, concentrati, perché dove scorre l'acciaio rovente tutti i tubi devono essere refrattari o scrupolosamente spalmati di grafite. Dopo aver montato i cappelli sulle conchiglie e preparato il carbone di legna il caposquadra sentenziò:

«Allora ragazzi, si va in pausa, eh?», e correndo sopra un'asse traballante attraversò il canale.

Raggiunto l'altro lato si ricordò di una cosa: «Hans, chi pensi debba pulire al posto tuo i maiali di acciaio?» e indicò alcuni pezzi di acciaio inossidabile ormai solidificati, schizzi induriti dalle strane forme.

«Io» rispose Jenda indicando se stesso e si giustificò: «Ma è dall'inizio del turno che non trovo una gru mobile libera. E poi, alla Venti non c'è la gruista!»

«Potevi prenderli col becco, allora, quei maiali» gli disse il caposquadra indicando il soffitto dell'acciaieria, da cui pendeva la gru con la benna.

«Parla facile lei, col becco, ma il becco era occupato con le anime!»

«Allora dovevi aspettare che si liberasse!»

«Sì, aspettare... subito dopo l'hanno usato per sistemare i blocchi di cemento armato roventi... e ora, la sente?» Jenda piegò il dito che teneva dritto in direzione della campana che suonava, «senta! Il forno Esse sta suonando per la prova di imbutitura, quindi ancora niente gru mobile!»

«Non pensare di scampartela!» disse il caposquadra, dandogli scherzosamente uno schiaffetto sulla guancia.

Poi si sedettero in un angolo, dietro il mucchio di lingotti che lentamente si stavano raffreddando, il caposquadra rovesciò una cassa di cromo ormai vuota e ci si accomodò sopra. «Allora, Kudla, iniziamo?» Kudla sorrise: «Iniziamo!».

E tutti sbirciarono in alto verso il gruista, che si stava sporgendo dalla gru, stava ruotando tutte le manopole di controllo e, senza fermare la macchina, sollevò un crogiolo pieno di calce mentre allo stesso tempo spostava il vagone di calce sul lato dell'acciaieria.

«È contro il regolamento!» esclamò Jenda.

«Tontolone,» rispose condiscendente il caposquadra, «se il gruista si attenesse al regolamento l'acciaieria avrebbe un rendimento del quaranta per cento, tontolone!»

[...]


«L'esecutore?» sgranò gli occhi Jenda.

«Esatto, del tuo destino. Ascolta questa, zuccone. Al crematorio di Strašnice avevo un amico con cui eravamo molto legati, si chiamava Olda Tůma. Allevavamo insieme dei pesciolini e delle daphnie. Un giorno ci siamo ammalati, sia io che lui. Dopo esser guarito sono tornato al crematorio e mentre scendevo le scale sentivo attraverso il soffitto un coro, stavano cantando l'inno Boemia bella, Boemia mia... e portavano una bara! Allora vado dal capo e gli faccio: "Salve capo, dov'è Olda Tůma stamattina?". E lui ha preso la bara tra le tenaglie e, prima di spingerla col carrello di scorrimento nel calore rovente, l'ha indicata e ha detto: "Stamattina Olda Tůma è qui dentro!". E io sono schizzato via come un fulmine, mi sono fermato solo a Flora..., ma no, non è necessario» borbottò Kudla quando il caposquadra gli infilò delle monete in tasca.

Poi ripose rasoio, forbici e pettine dentro il camice adorno di sassofoni e fisarmoniche, tirò fuori un pezzo di pane dalla borsa e la sollevò di nuovo sul cavo.

E lentamente si avviarono verso il canale. Dall'altro lato stava lavorando una seconda squadra, impegnata a rimuovere i cappelli dai lingotti. La gru si abbassava finché i ganci risuonavano sull'acciaio, e a quel punto un operaio correva verso l'acciaio rosa e girando il viso dall'altra parte, gli occhi che guardavano di sbieco, fissava i ganci nei manici del cappello... e poi si allontanava velocemente. E la gru afferrava il cappello, lo estraeva e lo trasportava via... solo un cerchio grigio si librava attraverso il buio tenue sopra il canale ... come una bolla, un cerchio di fumo... e poi scompariva.

«Allora ragazzi» decise il caposquadra mettendosi il berretto, «ora prepariamo il canale di colata sotto l'Otto, però prima dobbiamo rimuovere maiali e radici. E se i maiali sono troppo pesanti, Hans, vai sul retro, dietro l'Esse, e dal bidone del manganese prendi i cerchi, ne metti uno da una parte e uno dall'altra del maiale, e lo tiriamo su con la gru, va bene?»

E con la scala a pioli scesero dentro il canale.

Jenda prese i picconi e le pale infilate dietro il blocco di cemento armato di sessanta quintali che sosteneva il canale. Prima di iniziare il lavoro aspettarono addossati alle pareti del canale il passaggio di una gru di colata che stava trasportando una tramoggia piena di scorie proprio sopra di loro. E su quelle scorie incandescenti la superficie piena di fosforo e scarti velenosi brillava come l'aurora polare... e il gruista, forse perché i vagoni non erano ancora arrivati, sistemò la tramoggia sopra il canale appoggiandola alla struttura del forno Martin. Il caposquadra si sputò sulla mano e: «Hans, ci va spesso a ballare?».

[...]

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Pagina 37

I bei tempi andati


Era mezzogiorno. Due vecchietti che avevano appena fatto il bagno se ne stavano stesi sulla passerella di assi di legno dello stabilimento U žluté plovàrny e il sole picchiava così forte che i loro costumi erano già quasi asciutti.

Il birraio, accarezzandosi i peli grigi sul petto, ricordò: «Il mio ultimo grande affare l'ho fatto nel quarantotto, quando mi sono presentato nel birrificio di Velké Popovice per prendere parte al raduno del Sokol. "Mi dia un acconto e avrà il chiosco più grande di tutto lo stadio di Strahov, perché mens sana in corpore sano", mi ha detto il presidente. E io: "Ma con un affitto del genere dovrei spillare almeno cento botti di birra!". E il presidente del birrificio ha replicato che Tyrš aveva avuto un'idea talmente ingegnosa che altro che cento botti, quattrocento ettolitri di birra avrei spillato! E, augurando un gran successo al raduno, ci siamo accordati con una stretta di mano!»

Il dottore smise di spalmarsi addosso la crema abbronzante Nubian. « Già,» disse, «il buon giorno si vede dal mattino! Per questo ricordo con piacere i primi giorni della mia carriera. Ah! Quando ho iniziato era il primo giorno di primavera. E mi è capitata una tale fortuna! Un ragazzo è stato morso da un cane rabbioso! Mentre lo stavamo trasportando in ospedale ha dato di matto, è saltato giù dal treno e si è ammazzato, ma essendo il mio primo paziente mi ha preannunciato una brillante carriera. E il giorno dopo ho avuto un'altra felice sorpresa! Un cavallo ha quasi staccato con un morso un orecchio a uno stalliere, era rimasto attaccato solo il lobo. E io ho fatto una sutura e gli ho salvato l'orecchio! Che primavera meravigliosa, quella dei miei esordi...»

«Lo credo bene» disse il birraio. Si alzò facendo leva sulle ginocchia, poi si infilò sotto la doccia e rimase per qualche secondo sotto il getto d'acqua fredda. Dopodiché tornò a sedersi sulle assi, con dei rivoletti luccicanti che gocciolavano sul legno... «Mia moglie mi ha detto: "Vai dritto per la tua strada, ma copriti le spalle!". Quindi ho comprato mezzo carro di patate e le ho immagazzinate sul campo di birilli, dopodiché ho girato per la città facendo scorta di tutto quello che potevo. Mi sono procurato delle conserve di maiale con le mele che risalivano all'UNRRA e parecchia colla di pesce, dalle parti di Na Bateriích un oste mi ha venduto alcune casse di sardine sott'olio, e poiché per la mia bella idea mi mancavano i soldi, mio fratello mi ha prestato duecentomila corone.»

«Io invece non ho avuto bisogno di niente per iniziare. Sa, eravamo ancora ai tempi dell'Austria-Ungheria e oltretutto ho avuto la fortuna di sposare una vedova, che mi ha portato due figli.» Il dottore rievocava con aria sognante quel passato che gli sembrava ancora di vedere davanti agli occhi. «Che giorno pieno di felicità, quello del mio matrimonio! Pensi che a un aggiunto, mentre sparava, è esplosa la canna del fucile e un pezzetto di ferro gli si è piantato nel seno frontale. Gli ho estratto un buon centimetro di canna! Persino il professor Jedlička mi ha fatto i complimenti.»

«Una bella fortuna! Ah, ma anch'io non scherzo! Alla fine mi hanno dato un chiosco subito sotto la tribuna, un telefono, dieci camerieri, solo che... c'erano i membri del Sokol, c'era l'idea, c'era la birra, purtroppo però mancava il bel tempo! Un freddo! Si gelava!» Si rabbuiò il birraio, scosso da un brivido. «Per quattro giorni sono andato avanti così, alla fine ho guardato mia moglie e le ho detto: "Ascolta, abbiamo spillato solo quaranta ettolitri di birra, il che rende la bella idea di Tyrš pericolante. Ho deciso di scommettere sulle tartine".» Il viso del birraio si rischiarò di nuovo. «Quindi ho chiesto in prestito una macchina, ho assunto sei donne per sbucciare le patate, ho preso duemila pagnotte, ho unito quattro tavoli della birreria e ci ho avvitato le macchine per tagliare il pane. E ho dato il via!»

Il dottore intrecciò le mani sotto un ginocchio e socchiuse gli occhi al sole.

«Io di come fosse il tempo non mi preoccupavo perché ai tempi dell'Austria-Ungheria era tutto più bello. Nel 1913 a Pasqua gli alberi erano già verdi e, a coronamento di quel trionfo della natura, il sabato santo mi hanno portato una domestica che mi ha vomitato nell'ambulatorio un intero verme solitario! In tutta la mia carriera medica non mi è più capitato niente di simile. E il lunedì di Pasqua un ragazzo ha ingoiato un fischietto a forma d'usignolo. Gli ho prescritto di mangiare un po' di pane e il giorno dopo i genitori sono venuti da me tutti contenti perché il figlio poteva di nuovo suonare il suo fischietto.»

«Interessante» rispose il birraio, spostandosi un po' più in là sulle assi arroventate. «Io invece ho preso la prima tartina e ho chiesto a mia moglie di farla assaggiare al comitato organizzatore. E ci hanno dato l'ok! E quindi ho subito portato a Strahov migliaia di tartine. I colleghi mi guardavano con tanto d'occhi, ma io intanto vendevo. I camerieri portavano le tartine anche dietro, dove c'era la fila dei membri del Sokol. Tiravano su settanta centesimi a tartina, quindi contribuivano allo sviluppo di quell'idea meravigliosa guadagnando bei soldi. E i colleghi venivano da me: "Non è che mi presteresti una cassa di sgombri? O di colla di pesce?". E io: "Nemmeno per sogno! Sarebbe contrario all'idea del Sokol secondo cui ad andare avanti sono i più forti!".»

Il birraio sollevò il busto, appoggiò i palmi delle mani sulle assi roventi e guardò il dottore dritto in viso. Poi, sottolineando ogni singola parola, continuò: «E quindi le tartine le vendevo praticamente solo io. Non avevo nemmeno il tempo di fare i conti. Ammucchiavo il mio incasso giornaliero sulla tovaglia, la annodavo e ci attaccavo un'etichetta con la data!». Il birraio si girò di nuovo supino, si accarezzò la fronte saggia e sorrise.

«Be', bel successo» commentò il dottore un po' invidioso, asciugandosi il sudore gocciolante col dorso della mano. «Una fortuna così a me è toccata dopo la notte di Valpurga. Scuoiando un animale abbattuto, il macellaio si è beccato il carbonchio. Per curarlo mi sono contagiato anch'io, dunque tutti i medici hanno cominciato a invidiarmi, perché perfino le riviste specializzate parlavano di me. È saltato fuori però un piccolo contrattempo. È suonata la campana a morto e il sindaco, pensando che il macellaio avesse tirato le cuoia, ha mandato un funzionario con la bara. Ma il macellaio è corso fuori col coltello in mano, ha distrutto la bara a calci e poi ha fatto irruzione nel mio ambulatorio. Ne sono passate di settimane prima che potessi di nuovo mostrarmi in pubblico» raccontò il dottore, e alzandosi vide che il sudore aveva stampato sulle assi le parti del suo corpo che poggiavano sul legno. Dunque si stese di nuovo sulle assi asciutte, accanto al birraio, e continuò: «Un altro bel caso mi è capitato quando al fabbro è entrata nell'occhio una scheggia di ferro che gli dava la sensazione di vedere perennemente la statua di una donna nuda. Allora la scheggia gliel'ho tolta, ma l'occhio è andato completamente distrutto. "Però peccato per quella statua meravigliosa" ha sospirato allora quel brav'uomo. Che giornata stupenda! Prima aveva piovuto, ma a un certo punto è spuntato il sole, e quando il fabbro se n'è andato pieno di bende, c'era l'arcobaleno... Tutta la mia vita è sempre stata colorata di poesia».

«Anche la mia. Tutti gli altri venditori ambulanti inveivano contro il raduno, e io gridavo: "Siete o non siete cechi? Vergognatevi!". Perché io sono un patriota. E, dopo il raduno, per tre giorni non abbiamo fatto che contare.» Il birraio balzò su, sembrava che dopo tutto quel tempo ancora non riuscisse a crederci. «Ci siamo chiusi dentro a chiave, abbiamo sciolto i nodi delle tovaglie, una per volta, a forza di contare mi girava la testa, ma andavo avanti, e finita la quarta tovaglia avevo già capito che l'idea di Tyrš era non solo bella, ma fantastica, perché tutte le tovaglie successive sarebbero state per me. Avevo guadagnato otto tovaglie... Trecentomila corone!» giurò il birraio in ginocchio, e guardò il dottore, che però non aprì gli occhi.

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Pagina 81

Emánek


Non aveva alcuna voglia di tornare a casa e così si disse, vado a prendere un caffè. Stava già imbrunendo, ma riuscì a riconoscere che la donna che gli zoppicava davanti era la vecchia Ziková.

«Che la sera sia di suo gradimento, cara mia» salutò.

«Eman, lasciami stare!»

Emánek però non desistette. «Dov'è stata ieri, eh? Se l'è spassata di nuovo con lo spazzacamino?»

«E se anche fosse? È un bravo ragazzo.»

«È uno sbruffone, se proprio vuole saperlo!»

«Eman, non dare di matto in mezzo alla strada. Qui mi conoscono!»

«Ah, all'improvviso si preoccupa della gente? Vuole che non lo sappia che se la lasciassi sola con lo spazzacamino gli farebbe subito gli occhi da pesce lesso?»

«Eman, ci stanno guardando tutti!»

«Per come la conosco io, cederebbe all'istante!»

«E invece no.»

«E invece sì. Guardi che lo vedo, appena pensa al corpo del suo spazzacamino gli occhi le ardono di desiderio peccaminoso.»

«E se anche fosse?» chiese divertita la signora Ziková.

«Allora la gita che ho organizzato solo per noi due può anche scordarsela.»

«Porco di un maiale, stai zitto!» rispose la signora Ziková in estasi.

«Le sarebbe piaciuto» le sussurrò Emánek nei suoi riccioli grigi, «avvinghiarmisi addosso come l'edera intorno a una pergola...»

«Eman, la gente! Mi coprirò di nuovo di vergogna davanti a tutti!»

«Ma si figuri! Avere qualcuno che ancora si incanta davanti alla magia delle sue pupille, la invidieranno tutti. Lei ha un collo morbido come il velluto!»

«Eman, guarda che lo dico a tua madre! Piuttosto, parlami ancora della gita!» mugolò la signora Ziková.

«Andremo a fare una bella passeggiata insieme, a piedi nudi ovviamente, e lei, col suo piedino alabastro, calpesterà...»

«Chiudi il becco! Santo cielo, almeno smettila di gridare!»

«E poi daremo inizio alla notte di Valpurga, la dolce notte...»

«Lasciami andare, mascalzone, lasciami!»

«La lascerò andare, ma prima deve ascoltarmi fino in fondo. Sa cosa ho sognato la scorsa notte?»

«Figurati che me ne importa, lo so benissimo che sarà un'altra zozzeria. Non ti è bastato che i nazisti ti abbiano spaccato la testa?»

«Non è per quello, signora Ziková, Io faccio solo per l'amore che sento nei suoi confronti. Il mio sogno su di lei era così vivido... »

«Non voglio saperne niente!»

«Nemmeno il sogno sulla conigliera fèlice?»

«No, guarda, preferirei un chilo di carne di maiale.»

«E che ne dice del sogno sulla felicità nella stalla?»

«Meglio un chilo di braciole» e la signora Ziková si irritò, perché le era appena tornato in mente che era in pensione già da due anni.

«Allora stanno così le cose, vecchia strega! Lo spazzacamino va bene però! Lui sì che ti piacerebbe, eh?»

«Magari sì. Trovatene una più giovane per le tue maialate, Emánek!»

«Ma se non ha nemmeno cinquant'anni!»

«Quanti?» Si ringalluzzì la signora Ziková.

«Cinquanta.»

«Sessantadue a gennaio. Ora lasciami andare, però. Lasciami la mano. Devo andare a mettere qualcosa in padella. Comunque quando incontro tua madre le racconto tutto.»

«Be', le crederà di sicuro!»

Emánek si fermò. Sapeva che per tornare alla sua casa ai margini estremi della città la signora Ziková avrebbe dovuto costeggiare a lungo la Rokytka. Le porse la mano e disse serio: «Buonanotte, signora...».

«Buonanotte. E la prossima volta che ci incontriamo, fai di nuovo un pezzetto di strada con me, fanfarone, che mi riscaldi il cuore. Stasera sotto le coperte mi starò ancora scompisciando...»

Gli strinse la mano con calore, e all'improvviso sembrava che avesse pianto. Poi si avviò zoppicando lungo il torrente gorgogliante.


Emánek attraversò la strada principale, entrò nell' automat e salì la scala verso la sala da ballo al piano superiore. Pur essendo in periferia c'era tutto, come in centro. Si sedette su uno sgabello alto da bar e, appoggiandosi al bancone, ordinò: «Il solito, gin e soda. Ma cosa vedono i miei occhi? Proprio lei! Con un'aria così triste!».

«Eh già, Emánek...» sospirò la barista, versando il gin controluce.

«Questioni di cuore, Olympie?»

«E cos'altro? L'ho perso, Emánek. Ho perso tutto... dice che vuole stare da solo.»

«Da solo? Lui? Ah ah!»

«Sì, da solo. Mi ha scritto che gli ho reso la vita sgradevole. Sono davvero un tale mostro?»

«Vede, Olympie, ora che la guardo bene... come posso spiegarle? Per farla breve, dietro il bancone di bariste così belle ne ho viste solo da Barbara o da Monica, ma degli occhi meravigliosi come i suoi non mi sono mai capitati, è come se lei fosse sempre illuminata da un bagliore... »

«Be', a quanto pare però gli ho reso la vita sgradevole. Io però lo capisco, le cose stanno diversamente. È che Joska è uno di carattere.»

«Ah ah, in che senso di carattere?» chiese Emánek, ma si rispose subito da solo. «Un tipo di carattere è uno che non si schioda dall'idea che si è fatto di sé. Io non sono assolutamente così. Vede, noi nati nel ventiquattro abbiamo dovuto imparare ad adattarci. Prima scena: Raid aereo di Düsseldorf, riaffioriamo dalle macerie. La strada asfaltata, i resti della città sullo sfondo. Un bambino emerge dai detriti sui pattini a rotelle. Ha in mano un bricco di latte. Seconda scena: Raid aereo su Gleiwitz. Cadono le bombe, guardo attraverso la feritoia del bunker. Siamo in periferia, c'è il circo Busch. Le gabbie sobbalzano e la leonessa, appena vede i ganci di chiusura che si sollevano, dà uno spintone con la zampa e otto leoni si lanciano di corsa fuori, verso la città in fiamme. Dunque ci ordinano di uscire a prestare soccorso. Le strade che bruciano. I leoni. César, il leone più grande, prende una donna svenuta e galoppa fino all'ultimo piano di un condominio in fiamme. E poi se ne sta lì alla finestra, con la donna tra le zanne, a guardare Gleiwitz che brucia ai suoi piedi... »

Emánek si batté la mano sulla fronte. «Ne ho impresse a migliaia di scene così qui dentro. Per questo sono anch'io uno di quei casi strani, mai uguali a se stessi. Di certo non sono un tipo di carattere!»

«Io invece, Emánek, non cambio mai, soffro sempre allo stesso modo.»

«Per lui?»

«Sì. Ha fatto caso, Emánek, a quanto sono antiquata?»

«Lei? Olympie, ma se potrebbe...»

«Avere uno stuolo di uomini ai miei piedi? Ma sa che mi sembrerebbe un sacrilegio? Se non amassi Joska in modo così... arcaico! Avrò versato almeno cinquanta millilitri di lacrime oggi per quella lettera.»

Emánek le accarezzò il dorso della mano. «Su, Olympie, coraggio... »

Ma la ragazza nuotava nelle sue lacrime. «... lui aspetta solo che mi metta con un altro. Così poi potrà scrivermi: "Era tutto qui il tuo amore?". Ma io l'ho capito, mi sta solo mettendo alla prova. Io però terrò duro. Piuttosto mi faccio murare viva!»

«Lei, Olympie? Murare viva?» disse Emánek, stava quasi per carezzarle di nuovo la mano, ma desistette. Accanto a lui si era seduto un gigante ed Emánek lo riconobbe subito. Era Alfréd Bér, il traslocatore.

«Il signore desidera?» gli chiese la barista.

«Un rum!» tuonò un vocione profondo.

«Signor Alfréd, come mai oggi è così...?» domandò Eman, guardando Olympie che riempiva il bicchierino.

«Sono stufo di questa vita» Si lamentò il signor Alfréd Bér, allungò la mano e, appena la barista gli mise davanti il rum, avvolse il bicchierino col palmo della mano come se fosse un uccellino.

«Oh, anch'io, signor Alfréd» disse Emánek. «Ma ognuno di noi ha qualcosa da amare, no?»

«Io oggi sono stufo di tutto, ti dico» rispose il gigante, si versò il rum in gola e sbatté il bicchierino sul bancone. Poi aprì le mani e si guardò ottusamente i palmi, sembravano le mappe di una catena montuosa asiatica.

«Olympie, guardi anche lei queste manine d'oro, non sono una meraviglia?» disse Emánek, e quando lo sguardo gli cadde sugli occhi tristi del signor Alfréd Bér sussurrò: «Non so che darei per avere le sue mani!»

«E per farci che? Oggi chi apprezza ancora...» scosse la testa il traslocatore.

«Per farci che? Solo per far vedere agli altri quanto sono abili a trasportare e sollevare gli oggetti che amano. Ognuno di noi ha qualcosa da amare... non è così?»

«E tu, Eman? Tu, per esempio, che cosa ami?» gli chiese Alfréd Bér, sollevando lo sguardo.

«Io amo il pianoforte. Ormai non lo suono più perché quello che suonavo non mi piaceva e per quello che avrei voluto suonare non ero abbastanza bravo. Ma ora avrei bisogno di portare il pianoforte a casa di mia sorella, a Vysočany. Lei ha un figlio e mi piacerebbe che potesse suonarlo lui. Ma detto tra noi, signor Alfréd... come potrei affidare il mio pianoforte a un traslocatore qualsiasi? Un oggetto così prezioso, di marca Georgswald?»

«È una cosa davvero così importante per te?» Si rianimò il signor Alfréd Bér e sorrise. «Sai cosa? Te lo trasporto io il tuo piano, con queste mani! Ma vorrei che tu fossi presente, per farti vedere cosa riesco a farci! Quando posso venire?»

«Olympie, due rum sul mio conto!» ordinò Emánek, poi rifletté un attimo e disse: «Domani. Torno dal turno a Kladno alle quattro. Quindi alle quattro e un quarto. Affare fatto?».

«Affare fatto!» esclamò il signor Alfréd, stringendo la mano di Emánek nella sua zampona. «Così potrai vedere coi tuoi occhi con che cura uso le mani, e come porto il tuo piano in strada caricandomelo sulla schiena.»

Quando ebbero finito di bere il traslocatore si alzò dallo sgabello e disse, come tra sé: «Ognuno di noi ha qualcosa da amare...».

«Esatto» sorrise Emánek e guardò il signor Bér volteggiare sul parquet dove ancora non stava ballando nessuno, perché la musica cominciava solo dopo le nove.

«Emànek» disse Olympie. «Emánek, lei dev'essere un uomo davvero istruito.»

«Ehm, veramente mi hanno bocciato al ginnasio.»

«Non importa, lei sa sempre che cosa c'è in gioco, è una persona sensibile. Joska dice di lei che è come se avesse dentro di sé una piccola allodola legata al filo... Mi ricordo che un giorno io e Joska eravamo al fiume e Joska ha tirato fuori un foglio scritto a macchina e ha detto: "Guarda, Olympie, questo l'ha scritto un mio amico, te lo leggo". E io ero stesa sull'erba e ascoltavo quelle storie guardando il cielo.»

«Che storie?» chiese Emánek, svuotando il bicchiere.

«Ora gliene racconto una.» Alitò nel bicchiere e lo pulì con un tovagliolo. «Alla fine della guerra i tedeschi stavano trasportando da Oranienburg un treno pieno di donne che venivano dal campo di concentramento. Ma un aereo americano mitragliò la locomotiva e colpì anche i vagoni e i nazisti fuggirono. Le donne scapparono via e due ebree, ferite da una scheggia, si rifugiarono nel bosco, dove si scavarono una fossa tra gli abeti, ci entrarono dentro e si ricoprirono di fronde. A un certo punto si sentirono arrivare dei soldati coi cani, ma non riuscirono a trovarle. Le due ebree rimasero allora lì acquattate fino al giorno dopo, ormai pensavano di morire lì sotto quando udirono delle voci parlare in ceco. Allora urlarono, ed erano i ragazzi del Nothilfe. Le tirarono fuori, le medicarono e le nascosero per la notte nel loro dormitorio, sotto i letti. Quando il fronte si avvicinò e tutti cominciarono a fuggire, un ceco, un certo Pepík, caricò una delle ebree ferite sopra un carretto e la portò fino a Budyšín. Lì attesero il passaggio del fronte nascosti in una cantina. E poi Pepík trascinò l'ebrea fino a Haida...»

«Olympie, ma come era scritto quel racconto? Si parlava di un altro o le cose le aveva vissute quello che raccontava la storia?»

«Era come quando qualcuno racconta una vicenda che è capitata a lui... Ma che stupida oca che sono! Ora capisco! Come ho fatto a non arrivarci subito?» Si batté la fronte con la mano. «È stato lui a scriverlo!»

«Sicuro» disse Emánek sarcastico. «Lasci che le racconti come va a finire, eh? Pepík portò la ragazza ebrea da Haida a Českà Lípa e lì fu presa in carico dalla Croce Rossa. E per ben quattro anni la donna aspettò il ritorno del suo eroe, ma siccome Pepík non si fece più vivo decise di sposarsi. Quanto le devo?»

Emánek terminò il suo racconto senza nemmeno guardare Olympie.

«Ma che le succede Emánek? Emánek, che cos'ha?» Gli prese la mano, ma Emánek percepì che era solo per pietà. Era lì lì sul punto di dirle che Pepík era lui, Emánek, che era stato lui a trasportare l'ebrea da Hoyerswerda a Českà Lípa, e aveva raccontato lui quella storia a Joska, ma quando guardò Olympie capì che quella rivelazione l'avrebbe forse rattristata ancora di più. Allora le disse, il più allegramente possibile: «Quando rivedrà Joska, gli porti i miei saluti!».

Emánek percorse il corridoio, scese le scale ed entrò nell' automat. Ordinò una granatina e si sedette vicino a una vecchietta di Libeň che conosceva da quando era piccolo.

«Allora nonnetta, come va?»

«Bene» gli rispose. «Oggi la zuppa è buona. Ma bollente. E tu, Emánek? Lavori ancora alle acciaierie di Kladno?»

«Sì, signora, sempre lì.»

«E come si mangia di questi tempi lì da voi?»

«Be', alla mensa della fabbrica, vuole dire?»

«E dove sennò. Com'è il menù?»

«Allora signora, il lunedì c'è la zuppa alla Poldi, il filetto alla Stroganoff, poi i bignè con glassa di cioccolato. Il martedì la zuppa JZD e il polmone alla viennese con i knedlíky»

«Uhm allora è migliorata. Sai, quando c'ero io queste cose non le servivano. Avevo sette figli da crescere e dovevo pure trovare il tempo per andare a lavare i defunti.»

«Questo, signora, non lo sapevo.»

«Già. Non c'è molta differenza tra un bambino piccolo e un uomo che muore. A volte se la fanno sotto dalla paura per quello che li aspetta. E il mercoledì che vi danno?»

«Lingua di bue con salsa alla polacca. Il giovedì guláš alla Esterhazy e il venerdì un bel caffè bollente e ciambelle. Ma, signora, i morti non le facevano paura?»

«Eh ragazzo, io da giovane non avevo paura di niente al mondo. Prendevo l'accetta e uscivo al buio, dove potevano esserci pure i banditi. Ma una volta mi sono spaventata davvero. Fuori dal villaggio era morta una vecchietta che viveva sola, faceva un freddo cane, arrivammo, poggiammo la bara su una panca e l'impiegato, un certo Franta, scostando la coperta mi fa: "Vammi a prendere il martello, ragazza!". Esco e proprio in quel momento arriva in bicicletta il nostro capo. Io tiro fuori il martello dalla cassetta e d'un tratto vedo il capo schizzare fuori dalla porta gridando: "Si è alzata!", e fuggire verso il campo... Io stringevo il martello tra le dita, mi dava forza. Entrai e ci rimasi quasi secca dalla paura. Meno male che avevo quel martello in mano! Invece di sabato che c'è?»

«Carne macinata con patate e torta di Linz. Ma signora...»

«E la zuppa? Emánek, che zuppa?»

«Di trippa. Ma mi racconti com'è andata a finire!»

«Entro e vedo Franta chino sul letto che spingeva giù le ginocchia della salma, e quella sembrava che provasse ad alzarsi.»

«E lei che ha fatto?»

«Mi sono solo messa a urlare. E Franta si è girato, ha fatto un balzo, mi ha spinto via dalla porta ed è scomparso in un amen. Ma io avevo in mano quel martello ché mi dava forza.»

«Signora, lei era meglio di un uomo.»

«Me l'hanno detto spesso. Senta, e quando c'è il turno di domenica che vi danno?»

«Quando, signora, che cosa? Ah già, la domenica! Il purè vellutato, la cotoletta alla parigina... però signora...»

«E la zuppa?»

«Minestra con la pastina, quella delle grandi occasioni, con la carne che nuota nel brodo. Mangi signora, che la zuppa si raffredda!»

«Ma guarda un po'... La minestra con la pastina? Quella mi piace un sacco. E addirittura con la carne?»

«Sì, con la carne.»

«Non mi starai mica prendendo in giro, vero Emánek?»

«Macché, con dei bei pezzi di carne...»

«Allora ti credo. E, insomma mi avvicino al letto e guardo la defunta in faccia. La guardo e sembra una culla, con le gambe accartocciate sotto il corpo. Succede quando si muore soli e abbandonati al freddo. Ti arrotoli come una palla, e poi come fanno a raddrizzarti, Emánek? Succederà pure a me, se morirò al freddo, nessuno riuscirà a raddrizzarmi. Sono sola anch'io...»

«Ma signora, lei ha sempre qualcuno intorno. Non ha detto che ha sette figli?»

«Eh sì, solo che non si fanno più sentire...»

«Allora signora sa che le dico? Chiederò a mia madre di venirla a trovare ogni tanto.»

«Be', è stato bello da parte tua, Emánek, sederti qui con me e raccontarmi tutti questi particolari. Sai, la vita mi ha insegnato cose che non possono essere raccontate nemmeno nei libri. Be', io ti conosco, sai essere una vera canaglia, ma almeno vuoi bene alla gente... Quindi tua madre verrebbe a trovarmi?»

«Io glielo dico, signora. Giuro che glielo dico. E buonanotte.»

«Notte, notte...» farfugliò la vecchietta, continuando a mangiare lentamente.

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Pagina 117

Il barone di Münchhausen


Haňťa andava presto al lavoro. Quel giorno si sedette sul tram, tirò fuori dalla borsa l'«Herald Tribune» e finse di leggere l'editoriale con interesse.

Poi gridò: «Questi capitalisti cercano rogne! Gliela do io la politica della forza!»

Ma la gente distoglieva lo sguardo. Haňťa intanto aveva aperto la «Frankfurter Allgemeine», fece finta di leggere per un attimo e poi commentò: «Miei cari signori! Leggo e mi prudono le mani cooosì. Chi è stato allora a vincere la guerra, e chi l'ha persa?».

E scoppiò a ridere: «Pensate un po'! Konrad Adenauer parla di difendere la cultura occidentale! Alla Columbia University, capite, gente? All'università. Peccato che noi non siamo novanta milioni».

Si guardò intorno in cerca di comprensione negli occhi che lo circondavano, ma vide solo occhi che lo attraversavano e si incrociavano in un punto dietro di lui, vide che gli altri fingevano che non ci fosse, era come trasparente. E Haňťa si sentiva bene, gli piaceva la sensazione di essere invidiato dagli altri per quello che sapeva. Dunque ripiegò il giornale della Repubblica Federale Tedesca e apri con entusiasmo «L'Humanité» e ancora una volta diede con quella grande testata la benedizione all'intero tram, peccato che le notizie non gli piacessero affatto.

Ripiegò il giornale e gli si inumidirono gli occhi: «Dov'è finito l'orgoglio francese? Brave persone! Speidel e von Manteufel, insieme a Guderian, quel vecchio sobillatore... in consultazione a Parigi. Che schifo!»

Pian piano ripiegò i giornali, quei tre giornali trovati in mezzo alla carta da macero di cui capiva solo nomi e cognomi, e scese dal tram.

Girato l'angolo entrò nella latteria in cui ogni giorno comprava il latte per le sue gattine.

«Ma quante ne ha di gatte?» gli chiese la lattaia.

«Quante? Dovrebbe vedere, signora, quando apro i magazzini! Se non faccio un balzo indietro mi travolge una nube di gatti. Ma ha già saputo?»

«Cosa?»

«Un enorme incendio al porto di Holešovice, stanotte. Sta bruciando un'imbarcazione che trasportava grano, e i chicchi infuocati schizzano da tutte le parti, per cui i pompieri non stanno spegnendo solo l'incendio sulla nave, ma anche i quartieri adiacenti, Libeň e Bubny. Che disastro terribile!»

«Ah, ci mancava solo questo!» La lattaia si scrocchiò le dita. «Ma insomma quante sono le sue gatte?»

«Signorina, mi scusi, signora... poche. Ora che i sei gatti hanno dato di matto, il calore gli ha dato alla testa, ne sono rimaste solo dodici. Quando ai gatti prendono le fregole è una catastrofe! Si arrampicano pure sui tetti.»

«Le fregole?»

«Sì, lo saprà anche lei, no? Il desiderio straziante, la frenesia, quella ionoforesi della natura e la smania delle bestioline di giocare ai tunnel.»

«Cioè?»

«Be', chiedo scusa... ma anche agli animali piace giocare a mamma e papà. E un gatto è una dinamo vivente!»

«Dodici gatte! E i nostri bambini vengono a portarle la carta al centro raccolta. Ci manca solo che anche quei gatti comincino a dare di matto. Se ne andrebbero in giro a mordere tutta la via.»

«Ah sì, e che morsi!»

Haňťa frugò nella borsa e tirò fuori «l'Unità».

«Qui da qualche parte c'è scritto... Dunque, le alluvioni del Po... il principe di Monaco che ha sposato la seduttrice americana Grace Kelly... scusi, l'attrice... ah, eccolo! A Firenze un branco di gatte inviperite è entrato negli Uffizi e ha morso quindici tedeschi che giravano nella galleria. Hanno sbrindellato a morsi anche i loro Baedeker.»

«Be', questa non la lascerò correre. Presenterò oggi stesso un rapporto al comitato genitori.» disse la lattaia, mentre, scuotendo la testa, osservava malinconica la strada.

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Pagina 215

La perlina sul fondo non racconta le avventure di un orecchino di perla precipitato sul fondo di un pozzo secco, né di un uomo soprannominato Perlina che ha toccato il fondo. La perlina sul fondo non contiene nemmeno testi che nel loro sovratesto e sottotesto nascondono allegorie o simboli. E tanto meno racconti che si basano su un punto di svolta. Piuttosto ne La perlina sul fondo ho spostato la perlina al di là del fondo del libro. Volevo piuttosto indurre il lettore a riflettere sul fascio di luce di questi racconti, in cui le persone entrano all'improvviso per poi uscirne altrettanto all'improvviso, come se, avendo percorso insieme un pezzo di strada sul tram, da frammenti di conversazione e pochi gesti fossimo riusciti a conoscerli in profondità. Lasciando poi al lettore, nel caso ne abbia voglia, il compito di depositare sul proprio fondo le proprie perline. Grazie a quest'esperienza così forte i valori delle biblioteche universitarie riprendono vita e ogni più incredibile avventura umana rappresenta di per sé un'allegoria, un simbolo, e nasconde il punto di svolta e la perlina sul fondo anche al di là del suo fondo.

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Pagina 217

Nota della traduttrice

di Laura Angeloni


Nessuno saprebbe dirlo meglio dello stesso Hrabal: «Quello che volevo era sporcarmi con l'ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l'esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell'essere umano». Ed è proprio di questo che si parla in questi racconti. Della perla. Quella che in fondo ognuno di noi porta nascosta dentro di sé, e che pochi (eletti, fortunati?) riescono a scorgere. I protagonisti di Hrabal non compiono grandi imprese, non hanno nulla dell'eroe tradizionale. Semplicemente lavorano, passeggiano, prendono il sole, bevono birra, vivono. E raccontano. Tutti, dal primo all'ultimo, si inondano l'un l'altro di parole. Perché è attraverso la parola che cercano di emergere dall'invisibilità in cui sono relegati e svelano la loro identità più profonda, composta di ciò che sono e che sono stati, ma anche di ciò che avrebbero voluto, o hanno sognato, di essere. Ed è in quel momento che il riflettore di Hrabal li illumina, mostrandoceli nell'attimo in cui «si sono strappati di colpo la camicia e mi hanno mostrato il cuore».

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Pagina 221

Bohumil Hrabal, ovvero la nascita del Rabelais dei tempi moderni. Le peripezie editoriali che hanno trasformato L'allodola sul filo nella Perlina sul fondo

di Alessandro Catalano


Nella divertente Ballata scritta dai lettori, curioso montaggio di frasi tratte da lettere inviategli da estimatori e denigratori dei suoi primi libri inserito nel volume Sanguinose ballate e miracolose leggende, Bohumil Hrabal ha riportato passi come: «Tu, sporco maiale che oggi tutti portano alle stelle, quando la smetterai di avvelenare le anime umane con le tue perversioni disgustose? Quanto vi siete bevuti tu e i tuoi "critici" e recensori nei bordelli, che ti lodano tanto?» E in un altro testo, pubblicato anch'esso nel 1968, intitolato Ballata su una pubblica esecuzione, ha inserito brani di una lettera anonima di questo tenore: «Sulla forca! È quello il posto di Bohumil Hrabal e dei maniaci simili a lui, purtroppo non è il solo, è così la maggior parte dei nostri scrittori e operatori culturali. Sulla forca! La letteratura è un letamaio, un allevamento per la produzione in serie di perversi assassini bestiali, di sifilitici in età giovanissima e infantile, di delinquenti e di ubriaconi in genere? Sulla forca!». Con grande efficacia Hrabal ha così fotografato la reazione di alcuni lettori cechi di fronte alla novità linguistica, stilistica e tematica rappresentata dai suoi testi letterari, apparsi nelle librerie ceche a partire dal 1963, dopo quindici anni di grigio realismo socialista.

Con i racconti di Hrabal hanno fatto prepotentemente ingresso nella letteratura ceca i "discorsi della gente", l'inventività linguistica e la creatività popolare di operai delle acciaierie, commessi viaggiatori, ferrovieri, assicuratori, notai, impiegati del macero della carta, macchinisti del teatro ecc., che, attraverso il loro lessico colorito, le loro espressioni regionali e i loro slang professionali, hanno restituito alle pagine dei libri, come ha scritto l'autore stesso, «lo splendore dei chiacchieroni e il loro sollazzarsi». E l'efficacia di questo lavoro sulla lingua parlata ci è confermata dalle parole di un lettore nel primo dei testi citati: «Tutte le sue cosiddette espressioni popolari sono da denuncia, in realtà vanno bene per una visita neurologica o per la buoncostume».

Com'è noto, il percorso verso il pubblico di Hrabal, che al momento del suo debutto editoriale aveva già quarantanove anni, è stato lungo e pieno di ostacoli. Già nel 1948, come diretta conseguenza della radicale trasformazione del sistema culturale cecoslovacco seguita alla presa del potere da parte del Partito Comunista, era stata bloccata la pubblicazione a proprie spese delle sue prime poesie, raccolte nel volumetto La stradina perduta. Hrabal stesso ha inscenato nel testo Un giorno feriale, del 1952, le paure e lo stato d'animo dei giovani autori non conformisti negli anni dello stalinismo dilagante, quando porsi fuori dal canone del più rigido realismo socialista poteva portare a conseguenze tragiche (in italiano in eSamizdat XII/2019). Ritrovando questo testo all'inizio degli anni Settanta, Hrabal ne aveva approntato, come scrive, «un originale e un paio di copie per completare il mio ritratto di un certo periodo, che credo sia ormai definitivamente alle nostre spalle, il periodo di paura in cui ho scritto questi testi, all'epoca della guerra e poi dei processi che facevano rabbrividire». Ancora a lungo infatti sarebbe stata del tutto vana qualunque velleità di pubblicazione da parte degli autori dell'underground praghese che, contrapponendo il "realismo totale" alla falsità della grande costruzione ideologica di una letteratura socialista, hanno svolto un ruolo importante nello sviluppo di un'arte indipendente non ideologica (le gesta di questa microcomunità alternativa, di cui fecero parte, oltre a Hrabal, Egon Bondy e Vladimír Boudník, sono state poi immortalate in Un tenero barbaro).

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