Copertina
Autore Bohumil Hrabal
Titolo Una solitudine troppo rumorosa
EdizioneEinaudi, Torino, 1999 [1991], Tascabili Letteratura 621 , pag. 122, dim. 120x195x9 mm , Isbn 978-88-06-15209-3
OriginaleKluby poezie: Prilis hlucná samota [1981]
TraduttoreSergio Corduas
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe narrativa ceca , libri
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Indice


p. v     Dopo Hrabal, una rumorosa solitudine
         di Giorgio Pressburger

         Una solitudine troppo rumorosa

   3     1.
  10     2.
  20     3.
  30     4.
  44     5.
  56     6.
  70     7.
  79     8.

  89     Adagio lamentoso

         Appendice

 103     Hrabaliana  di Sergio Corduas

 115     Intervista con un Pierrot incrudito

 

 

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Pagina 3

                    Soltanto il sole ha diritto
                    alle sue macchie.
                                         Goethe
Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story. Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri, da trentacinque anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle enciclopedie, delle quali in quegli anni avrò pressato sicuramente trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e cosí in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e cosí in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me cosí a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari. Cosí in un solo mese presso in media venti quintali di libri, ma per trovar la forza per questo mio benedetto lavoro, allora in questi trentacinque anni ho bevuto tanta birra che questa lager formerebbe una piscina da cinquanta metri, un parco di peschiere per le carpe di Natale. Cosí contro la mia volontà sono diventato saggio e sto adesso accertando che il mio cervello è fatto di pensieri lavorati dalla pressa meccanica, di pacchi d'idee. Una noce di Cenerentola è la mia testa, alla quale i capelli sono bruciati e io so come dovevano essere ancor piú belli i tempi in cui tutto il pensiero era iscritto soltanto nella memoria umana, quella volta se qualcuno avesse voluto pressare libri avrebbe dovuto pressare teste umane, ma anche questo non sarebbe servito a nulla, perché i pensieri veri provengono da fuori, accanto all'uomo sono come tagliolini in una gavetta, sicché i Koniás di tutto il mondo vanamente bruciano libri, e quando quei libri hanno registrato qualche cosa che vale, si sente solo la risata silenziosa dei libri bruciati, perché un libro come si deve rimanda sempre altrove e fuori. Ho comperato quella piccola calcolatrice e moltiplicatrice ed estrattrice di radici, quella piccola macchina non piú grande di un portafogli, e dopo essermi fatto coraggio ho staccato con un cacciavite il tassello posteriore e ho avuto un fremito di gioia, perché con soddisfazione ho trovato dentro la calcolatrice una minuscola placchetta non piú piccola di un francobollo e non piú spessa di dieci fogli di libro e poi niente piú altro che aria, aria carica di variazioni matematiche. Quando gli occhi mi capitano su un libro come si deve, quando rimuovo le parole stampate, del testo anche qui non restano che pensieri immateriali, i quali svolazzano per l'aria, poggiano sull'aria, dall'aria sono nutriti e nell'aria ritornano, perché tutto in fin dei conti è aria, cosí come contemporaneamente nell'ostia santa il sangue c'è e non c'è. Da trentacinque anni imballo carta vecchia e libri e vivo in un paese che da quindici generazioni sa leggere e scrivere, abito in un ex Regno nel quale era ed è mania pressarsi pazientemente dentro la testa pensieri e immagini che apportano una indescrivibile gioia e un ancor píú grande dolore, vivo fra uomini che per un pacco di pensieri pressati sono capaci di dare anche la vita. E adesso tutto si ripete dentro di me, da trentacinque anni pigio i bottoni verde e rosso della mia pressa, da trentacinque anni però bevo anche brocche di birra, non certo per il bere, io ho orrore degli ubriachi, io bevo per aiutare il pensiero, per arrivare meglio al centro stesso dei testi, perché quello che io leggo non è né per divertimento né per far passare il tempo o addirittura per addormentarmi meglio, io, che vivo in un paese in cui quindici generazioni sanno leggere e scrivere, io bevo per poter non dormire mai piú a causa della lettura, perché la lettura mi faccia venire il tremito, poiché io condivido con Hegel quell'opinione che un uomo nobile è poco un nobile e un criminale è poco un assassino. Se io sapessi scrivere, scriverei un libro sulla maggiore felicità e sulla maggiore infelicità dell'uomo. Attraverso i libri e dai libri ho appreso che i cieli non sono affatto umani e che un uomo che sa pensare, anche lui non è umano, non che non lo voglia, ma ciò contrasta col giusto modo di pensare. Sotto le mie mani e nella mia pressa meccanica periscono libri preziosi e io non posso impedire questo flusso e corso. Non sono nulla piú di un tenero macellaio. I libri mi hanno insegnato il gusto e la gioia della devastazione, io amo i nubifragi e le squadre di demolizione, sto fermo ore intere per vedere come i pirotecnici, con un movimento sincronizzato, come se pompassero giganteschi pneumatici, fanno saltare blocchi interi di case, intere vie, fino all'ultimo non mi sazio di guardare quel primo attimo che solleva tutti i mattoni e le pietre e le travi, perché poi sopravvenga il momento in cui le case scivolano giú silenziose come un vestito, con la velocità di un transatlantico sul fondo del mare dopo lo scoppio delle caldaie.

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Pagina 15

[...] E io sorrido e agito la mano tiepida e vado via con l'idea dell'aspetto che avrà il mio prossimo pacco. Cosí da trentacinque anni spingo in situazioni di stress ogni pacco, mi segno ogni anno e ogni mese, e nel mese ogni giorno, per quando andremo ambedue in pensione, la mia presso ed io, ogni giorno a sera mi porto a casa nella borsa i libri e la mia casa al secondo piano di Holesovice è colma di libri e solo di libri, piena la cantina e la soffitta non è bastata, la mia cucina è piena, la dispensa e il gabinetto pure, solo i passaggi per le finestre e i fornelli sono liberi, in gabinetto c'è solo quello spazio sufficiente per potermi sedere, sopra il vaso del water all'altezza di un metro e cinquanta già ci sono le travi e le tavole e sopra fino al soffitto si ergono libri, cinque quintali di libri, basta un unico movimento imprudente nel sedersi, basta un imprudente gesto in alto e io urto la trave portante e mi vola addosso mezza tonnellata di libri e mi stritola coi calzoni abbassati. Ma anche qui non si può aggiungere nemmeno un libro, e cosí nella camera, sopra i due letti vicini, ho fatto mettere travi e tavole portanti, e cosí ho creato un baldacchino e dei cieli di letto, sui quali sono allineati fino al soffitto libri, due tonnellate di libri ho portato a casa in questi trentacinque anni, e mentre mi addormento, due quintali di libri opprimono come un incubo di venti tonnellate il mio sognare, a volte, quando mi giro senza fare attenzione oppure caccio un urlo dormendo e ho un sussulto, ascolto con terrore come i libri slittano, basta solo un leggero tocco del ginocchio, magari solo un grido e come una valanga tutto precipiterà dai cieli sopra di me, la cornucopia ripiena di libri preziosi si riverserà sopra di me e mi spiaccicherà come un pidocchio, piú di una volta mi capita di pensare che quei libri tessono contro di me un intrigo e cosí come io ogni giorno presso centinaia di topi innocenti, cosí i libri sopra di me preparano il giusto compenso per me, perché ogni malefatta ama tornare.

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Pagina 54

[...] Cosí lanciammo ancora alcune volte l'aquilone ai cieli, la zingara s'era fatta coraggio e reggeva i fili e tremava tutta proprio come me, tremava come tremava anche l'aquilone sotto i colpi del vento, reggeva il filo col ditolino e gridava per l'entusiasmo... Una volta a sera tornai a casa, la zingara non mi aspettava, accesi la luce, uscii e riuscii fino al mattino davanti alla casa, ma la zingara non venne, non venne neanche il giorno dopo, non venne mai piú. La cercai, ma non la vidi mai piú, la zingara bambinella piccolina, semplice come un legno non sgrossato, la zingara come respiro dello Spirito divino, la zingara che non voleva niente piú che accendere la stufa con la legna che portava sulle spalle, quei pali e tavole pesanti dei cantieri di demolizione, legni grandi come una croce, davvero non voleva piú che cucinare gulasch di patate con salame di cavallo, aggiungere carbone nella stufa e in autunno lanciare l'aquilone ai cieli. Soltanto dopo venni a sapere che l'aveva presa la Gestapo con gli altri zingari e l'aveva portata in un lager dal quale non tornò piú, la bruciarono da qualche parte a Majdanek o Osvètim nei forni crematori. I cieli non sono umani eppure io quella volta ero ancora umano. Dopo la guerra, quando non venne, bruciai nel cortile l'aquilone con tutti i fili, la lunga coda la cui colombella aveva fatta la zingara piccolina il cui nome ho ormai dimenticato. Quando finí la guerra, ancora negli anni cinquanta avevo il magazzino pieno di letteratura nazista, pressavo con enorme gusto, alla luce della leggiadra sonata della mia piccola zingara, quintali di quegli opuscoli e libretti sempre sullo stesso tema, pressavo centinaia di migliaia di pagine con le fotografie di uomini e donne e bambini esultanti, vecchi esultanti, operai esultanti, contadini esultanti, SS esultanti, soldati dell'esercito esultanti, nel tino della mia pressa meccanica gettavo di gusto Hitler e il suo seguito che entrava in Danzica liberata, Hitler che entrava in Varsavia liberata, Hitler che entrava in Praga liberata, Hitler che entrava in Vienna liberata, Hitler che entrava in Parigi liberata, Hitler nel suo appartamento privato, Hitler alla festa del raccolto, Hitler col suo fedele cane lupo, Hitler coi suoi soldati al fronte, Hitler che passava in rassegna il vallo atlantico, Hitler in partenza per le città conquistate all'Est e all'Ovest, Hitler chino sulle mappe militari, e quanto piú pressavo le donne e gli uomini e i bambini esultanti, tanto piú pensavo alla mia zingara, che non esultava mai, che non voleva niente altro che aggiungere carbone nella stufa e cucinare gulasch di patate con salame di cavallo e andare a prendere la birra dalla brocca grande, non voleva altro che spezzare il pane come l'ostia santa e poi guardare attraverso lo sportellino aperto della stufa le fiamme e i raggi, lo scoppiettio melodioso del fuoco, il canto del fuoco che lei conosceva dall'infanzia e che era sacralmente unito con la sua razza, il fuoco la cui luce lascia sotto di sé ogni dolore e evoca in viso il sorriso malinconico che era il riflesso dell'idea che aveva la zingara della perfetta felicità...

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Pagina 56

Per trentacinque anni ho imballato carta vecchia alla pressa meccanica, per trentacinque anni ho pensato che non si possono pressare cascami e putridume diversamente da come lo facevo io, ma ora sono venuto a sapere che a Bubny hanno costruito una gigantesca pressa idraulica, che sostituisce venti presse di quelle con cui lavoro io. E quando dei testimoni oculari mi hanno detto che quel gigante fa pacchi del peso di tre e quattrocento chili e che quei pacchi vengono trasportati nei vagoni a mezzo di carrelli elevatori, mi dico, questo, Hanta, lo devi andare a guardare, questo lo devi vedere, farai una visita di cortesia. E quando fui a Bubny e vidi quella enorme sala vetrata grande quasi quanto la piccola stazione Wilson, e udii rimbombare quella enorme pressa, allora mi misi a tremare e non riuscivo a guardare quella macchina, per un attimo stetti lí e guardai altrove, poi mi allacciai una stringa delle scarpette e non riuscivo a guardare negli occhi quella macchina. Questa era sempre stata una cosa tipica mia, quando scorgevo nel mucchio della carta vecchia il dorso o la copertina di qualche libro prezioso, non andavo mai a prenderlo subito, ma prendevo una pezzetta e pulivo il rullo della pressa, soltanto dopo guardavo il mucchio di carta e verificavo se avevo forza sufficiente per prendere e aprire quel libro, e dopo che m'ero fatto la verifica, soltanto allora sollevavo il libro e quel libro mi tremava nelle mani come il mazzolino della sposa all'altare. Ero cosí, anche quando giocavo ancora al calcio per il nostro club di paese, sapevo che la formazione veniva affissa nella vetrina dell'Osteria di sotto soltanto il giovedí, ma io arrivavo col cuore che mi batteva già il mercoledì, sedevo a gambe divaricate sulla bicicletta e non riuscivo mai a guardare subito la vetrina, osservavo il lucchetto e le cornici della vetrina e poi leggevo lungamente il nome del nostro club e soltanto dopo guardavo la formazione, ma al mercoledì la formazione era sempre quella della settimana precedente, e cosí ripartivo per star seduto a gambe divaricate presso la vetrina il giovedí a guardare lungamente tutto, solo la formazione no, e quando m'ero calmato, soltanto allora leggevo lentamente e lungamente la formazione della prima squadra e poi la formazione della riserva, e alla fine la formazione dei ragazzi, e quando poi vedevo il mio nome come riserva, soltanto allora ero felice. Proprio cosí stavo accanto alla gigantesca pressa idraulica di Bubny, e quando la mia confusione fu diminuita mi feci coraggio e guardai quella macchina che si ergeva fino al soffitto in vetro della sala come l'immenso altare nel tempio di San Nicola a Malá strana. Era quella pressa ancor piú grande di quanto mi aspettassi, il grande nastro era cosí largo e lungo come il nastro che nella centrale elettrica di Holesovice versava gradatamente il carbone sotto le griglie, su questo nastro si spostavano gradatamente carta bianca e libri, quei libri li caricavano giovani operai e operaie, vestiti del tutto diversamente da come ero vestito io e gli altri imballatori di carta vecchia, avevano guanti arancioni e azzurro chiaro e berretti americani gialli con una visierina, indosso avevano una tuta fino al petto e poi delle bretelle sulle spalle e incrociate sulla schiena, degli overalls, che facevano risaltare i maglioncini e i girocollo, e da nessuna parte vedevo lampadine accese, attraverso le pareti e il soffitto in vetro fluiva la luce e il sole e sul tetto c'erano degli aereatori, quei guanti colorati aumentavano la mia umiliazione, perché io lavoravo sempre a mani nude per gustare sulle dita la carta, ma qui nessuno desiderava vivere tattilmente quell'irripetibíle fascino della carta vecchia, e il nastro trasportava margini bianchi e libri in su, come la scala mobile porta i passanti dal sottopassaggio di piazza Venceslao su alle strade, [...]

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Pagina 60

[...] Quella vacanza in Grecia, quella mi scosse, io mi proiettavo nell'antica Grecia soltanto con la lettura di Herder e di Hegel e la concezione dionisiaca del mondo attraverso Friederich Nietzsche, io in realtà non ho mai fatto vacanze, io ho sempre passato quasi tutte le vacanze in turni perduti, quando per un solo giorno di lavoro perduto senza giustificazione il capo mi tratteneva due giorni, quelle poche volte che un giorno o due mi restavano, io me li facevo pagare e lavoravo, perché io avevo sempre pendenze con quel mio lavoro, sotto il cortile e nel cortile c'era sempre tanta carta, piú carta di quanto io fossi in grado di imballare, sicché per trentacinque anni ogni giorno ho sperimentato e vissuto il complesso di Sisifo, come me ne hanno scritto bene il signor Sartre e ancora meglio il signor Camus, quanti piú pacchi mi portavano via dal cortile, tanta piú carta vecchia mi cadeva in magazzino, all'infinito, mentre la brigata del lavoro socialista qui a Bubny è sempre à jour, ora tutti lavorano, sono abbronzati e il sole accresce durante il lavoro il bruno dei loro corpi greci, non sono scossi neppure un poco dal fatto che in vacanza andranno in Ellade senza sapere alcunché di Aristotele e Platone e di Goethe, braccia prolungate dell'antica Grecia, lavorano tranquillamente e continuano a strappucchiare il nucleo dei libri dalle copertine e gettano le pagine inorridite e ritte dall'orrore sul nastro trasportatore, con indifferenza e tranquillamente, senza vivere tutto quel che un libro del genere significa, qualcuno ha pur dovuto scrivere quel libro, qualcuno l'ha dovuto correggere, qualcuno l'ha dovuto leggere, qualcuno l'ha dovuto illustrare, qualcuno l'ha dovuto comporre, qualcuno l'ha dovuto refusare, e qualcuno l'ha dovuto di nuovo ricomporre, e qualcuno l'ha dovuto refusare, e qualcuno l'ha dovuto definitivamente comporre, e qualcuno l'ha dovuto mettere in macchina e qualcuno ha dovuto leggerlo per l'ultima volta in strisce, e qualcuno l'ha dovuto di nuovo mettere in macchina e metterlo, striscia dopo striscia, in un'altra macchina che ha legato il libro e qualcuno ha dovuto prendere quei libri e fare di loro un pacco, e qualcuno ha dovuto scrivere il conto per il libro e per tutto il lavoro sul libro, e qualcuno ha dovuto decidere di quel libro che non è da leggersi, qualcuno ha dovuto condannare il libro e dare l'ordine che andasse al macero e qualcuno ha dovuto riporre i libri in un deposito e qualcuno ha dovuto caricare nuovamente i libri su un camion e qualcuno ha dovuto portare i pacchi fin qui, dove gli operai e le operaie in guanti rossi e azzurri e gialli e arancioni strappano le interiora dei libri e le gettano sul nastro trasportatore, il quale, sordo ma preciso, porta via con movimenti a strappo le pagine ritte sotto la gigantesca pressa che le pressa in pacchi e i pacchi vanno alle cartiere, dove dei libri si fa carta innocente, bianca, senza macchie di caratteri, perché su di essa vengano stampati altri e nuovi libri...

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Pagina 68

[...] E mentre il vecchio artista stava sulla scala e lottava per raggiungere l'espressione del volto alla luce della luna, che era sbucata e splendeva per indicare la via dello scalpello all'artista, Mancinka mi mostrò la sua villetta dalla cantina fino al solaio e mi raccontò con voce bassa come le era apparso un angelo e lei l'aveva ascoltato e aveva conquistato uno sterratore e con gli ultimi soldi aveva comprato un terreno ai margini del bosco, e quello sterratore aveva scavato le fondamenta e dormiva con lei in tenda, poi l'aveva mollato e aveva conquistato un muratore e quel muratore dormiva con lei e l'amava nella tenda e aveva eretto tutti i muri, e poi Mancinka aveva conquistato un falegname e quello le aveva fatto tutti gli infissi e di notte dormiva con lei già in una stanza su un unico letto, anche quello lo aveva mollato e aveva conquistato un idraulico, che dormiva con lei in quello stesso letto del falegname ma le aveva fatto tutti i lavori di idraulica, per poi mollare anche quello dopo la fine dei lavori di idraulica, e conquistare un copritetti, che l'amava nel letto e intanto le aveva fissato sul tetto tegole di eraclite, per poi mollare anche lui e conquistare un imbianchino che le aveva pitturato tutti i muri e tutti i soffitti e in cambio dormiva con lei nel letto e poi mollare anche quello e conquistare un ebanista che le aveva fatto i mobili, e cosi con l'amore nel letto e con uno scopo prefissato Mancinka si era costruita questa villetta, e per di piú aveva conquistato un artista che l'amava di un amore platonico e per di piú costruiva e scolpiva in rappresentanza di Dio Mancinka come angelo. E cosí eravamo ritornati là da dove eravamo partiti, avevamo fatto il cerchio della vita di Mancinka e per la scala scendevano le scarpine bianche e i pantaloni bianchi, mentre la mantella azzurra chiara si fondeva con la notte di luna e il vecchio dai capelli grigi mi porse la mano e mi disse... che Mancinka gli aveva raccontato tutto di me e di lei, che Mancinka era la sua Musa, che Mancinka l'aveva fertilizzato a tal punto che era capace di scolpire in rappresentanza di possibilità superiori un tenero gigantesco angelo... Cosi ritornai con l'ultimo treno da Klánovice, del tutto ubriaco mi sdraiai sul mio letto, sotto il baldacchino sopra il quale si ergevano due tonnellate di libri, stavo disteso e vidi come Mancinka, senza volerlo, era diventata quella che non aveva neppure mai sognato, che Mancinka era andata piú lontano di tutte le persone che avevo incontrato in vita mia, piú lontano, mentre io, benché incessantemente leggessi e cercassi segnali nei libri, ebbene i libri avevano congiurato contro di me e io non avevo ricevuto un solo messaggio dai cieli, mentre Mancinka odiava i libri ed era diventata quella che era, era diventata quella di cui si scrive, anzi ancora di piú, s'era involata con le sue piume in pietra, piume che mentre partivo brillavano là nella luce della luna come due finestre illuminate di un castello stile impero nella profondità della notte, su quelle ali Mancinka aveva soffiato via, lontano da sé, la nostra love story coi nastri e le fettucce e anche il proprio sterco, quello che si era portato dietro sugli sci davanti alla compagnia dell'albergo Renner alle falde del Colle dorato...

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