Autore William Henry Hudson
Titolo Il libro di un naturalista
EdizioneElliot, Roma, 2019, Antidoti , pag. 254, cop.fle., dim. 14,3x21x1,8 cm , Isbn 978-88-69937-56-9
OriginaleThe Book of a Naturalist
EdizioneJ.M. Dent, London, 1923
TraduttoreAndreola Vettori
LettoreDavide Allodi, 2019
Classe natura , animali domestici , zoologia , etologia , scienze naturali












 

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Indice


Prefazione                                             7

Vita in pineta                                         9

Alcuni suggerimenti a chi va in cerca di vipere       18

Pipistrelli                                           30

Bellezza della volpe                                  42

Dalla parte delle volpi                               45

Lo scoiattolo insoddisfatto                           50

Gli uccelli del mio vicino                            57

Il rospo viaggiatore                                  63

L'airone: un pennuto degno di nota                    69

L'airone gastronomico                                 78

Il problema delle talpe                               83

Un cavallo di nome Cristiano                          87

L'agnellino di Mary                                   90

La lingua del serpente                                97

La singolarità del serpente                          110

Il serpente contuso                                  124

Il serpente nella letteratura                        134

Vespe                                                151

Bellezza delle sfingidi                              156

L'energica talpa                                     162

Un topo amichevole                                   167

Il piccolo cane rosso                                171

Cani a Londra                                        177

La grande superstizione del cane                     189

Il mio amico maiale                                  210

La patata a casa sua e in Inghilterra                216

La barba di becco                                    225

La fritillaria e lo splendore dei fiori selvatici    232

I prati, e alcune casuali osservazioni sui lombrichi 239


 

 

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Pagina 18

Alcuni suggerimenti a chi va in cerca di vipere



Penso che alcuni suggerimenti o consigli per chi va in cerca di vipere possano dimostrarsi utili ad alcuni lettori di quest'opera, dal momento che esistono molte persone desiderose di fare la conoscenza con questo raro e inafferrabile rettile. Desiderano farne la conoscenza - a distanza di sicurezza - in natura, nel suo ambiente e hanno molto cercato ma non hanno trovato nulla. Assai di frequente - circa una o due volte alla settimana - qualcuno mi chiede consigli in materia.

Uno dei miei amici più amabili e di buon cuore che ama, o almeno crede di amare, ogni cosa grande o piccola, offre sei penny ai bambini del suo villaggio per ogni vipera o biscia morta che gli portano. Non fa alcuna differenza tra i due ofidi. Io spero che non siano simili amanti delle creature del Signore ad avvantaggiarsi di questi miei suggerimenti. Sarebbe sufficiente che chi trova una vipera la tratti a dovere, con rispetto, e l'averla trovata sarà utile a quella conoscenza rara e personale di cui non si può scrivere o darne notizie in alcuna maniera. Quel che noi cerchiamo non è la vipera, il soggetto dell'opera monumentale di Fontana, l'esile fune di creta o carne morta del British Museum, arrotolata nella bottiglia di alcol ed etichettata come «Vipera berus, Linn».

Noi cerchiamo l'aspide, colei che fu venerata ab antiquo, genitrice della sacra pietra viperina dei druidi, che non abita in una provetta di alcol nella quieta penombra e alla temperatura costante di un museo. È un'amante del sole e va cercata, dopo il letargo invernale, nei luoghi aridi e incolti, soprattutto nelle aperte radure dei boschi, sui fianchi pietrosi delle colline, e tra le eriche e i ginestroni dei campi. Con un po' di esperienza, il cercatore di aspidi riconosce un luogo da vipere dal suo aspetto. Non è comunque necessario andare alla cieca in cerca del terreno adatto, dal momento che tutti i luoghi abitati dalle vipere sono ben noti agli abitanti del circondario, sempre pronti a fornire le informazioni richieste.

Non esiste chi protegge le vipere sul campo e, per quanto ne so, una sola persona in Inghilterra si è levata in difesa di quell'innocua e bellissima creatura che è la biscia dal collare. Esiste qualcuno in grado di capire un simile hobby o piacere? Certo non quell'amico degli animali che paga sei penny per un serpente morto. Lui, il protettore dei serpenti, il nostro sconosciuto, piccolo Melampo, dava sei penny ai ragazzini del paese per ogni serpente vivo e illeso che gli portavano, e per ispirare loro confidenza, girava per la scuola del villaggio con una mezza dozzina di lunghi serpenti nelle tasche del soprabito, e tirando fuori da queste i suoi beniamini, giocava con loro, li metteva in mano ai bambini sottolineandone le belle forme e i movimenti. Questo amante dei serpenti possedeva ad Aldermaston uno dei più grandi parchi del Sud dell'Inghilterra, ricco di querce così antiche e di un portamento così nobile che costituivano oggetto di meraviglia per tutti coloro che le vedevano. Questo immenso parco era una riserva di serpenti e nei luoghi più verdi e umidi, accanto ad acque correnti, piantava boschetti che servissero loro da riparo. Ma quando giunse la sua ora e morì, il figlio che gli succedette pensò che si sarebbe guadagnato più gloria e divertimento facendone una riserva di fagiani, e arruolò quindi un piccolo esercito di uomini e ragazzi per estirpare i serpenti. Oggi, a ricordo del "bizzarro hobby" di quell'uomo defunto, non ci resta altro che una finestra in vetro dipinto - avrei preferito che fosse stata fatta da un artista migliore - posta dalla pia vedova nella bella chiesa parrocchiale, dove è raffigurato tra angeliche figure, circondato da una schiera di uccelli e animali e rettili di svariate forme, misure e colori, e tutt'intorno le ben note parole. He prayeth best who loveth best ecc.

Torniamo a noi. Il problema sorge su come trovare la vipera una volta arrivati alla sua tana.

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Pagina 30

Pipistrelli



Il pipistrello era considerato un tempo una sorta di strano uccello, e come tale veniva descritto nelle vecchie storie naturali. Oh, quelle deliziose vecchie storie naturali, e la visione del vecchio saggio naturalista che osserva un esemplare appena catturato attraverso lenti cerchiate di corno, e che annota gravemente nei suoi libri che è l'unico uccello conosciuto con la pelliccia al posto delle penne. O, come dice Plinio, l'unico uccello che dà alla luce e allatta i suoi piccoli, proprio come noi diciamo dell'ornitorinco australiano che è l'unico mammifero che depone le uova. Gli ornitologi moderni non vogliono avere niente a che spartire con quest'essere, ma dopo l'espulsione dal regno dei pennuti, ebbe la singolare fortuna di non precipitare al fondo della scala. Al contrario fu levato al rango dei mammiferi, o quadrupedi, come li chiamavano i nostri padri: poi, avendo scoperto che anatomicamente era imparentato con i lemuri, gli venne finalmente assegnato un posto nel nostro sistema, immediatamente dopo l'antico ordine delle scimmie a faccia di volpe. E così accade che se qualcuno scrive un libro sui mammiferi di quest'isola che non possiede né scimmie né lemuri e considerando che per convenzione e pregiudizio l'uomo non può essere incluso - si trova obbligato a dare un roboante primo posto a questo parente povero.

E quello scrittore è sfortunato perché il lettore comune avrebbe preferito trovare al primo posto una fiera imponente: il lupo estinto o il cinghiale, per esempio - o meglio ancora, i bianchi tori di Chillingham, o il mugghiante cervo dall'ampio palco. Quest'ultimo è certamente un sopravvissuto, uno che, incontrato in un luogo selvaggio dove vive in totale libertà allo stato selvatico, provoca in noi una strana gioia - una memoria ereditata e la visione di una terra preistorica e selvaggia, di cui noi siamo i veri nativi, molto più veri di quanto possiamo esserlo di questa levigata e sofisticata Inghilterra. La scienza della zoologia non può essere tale perché non prende, non può prendere in considerazione l'uomo e la sua posizione mentale verso le altre forme di vita - non può considerare il fatto che è egli stesso un animale da preda, alto un metro e mezzo e più, con grandi occhi adatti a guardare oggetti grandi, che misura e classifica tutte le creature secondo una regola istintiva e uno standard, gareggiano mentalmente con la propria forza e ferocia contro di essi. Quale discrepanza, allora, tra le cose viste dall'uomo naturale, e come invece queste appaiono nei nostri sistemi scientifici, dove il piccolo e insignificante pipistrello guida la processione degli animali inglesi - proprio questo repellente piccolo pipistrello, che svolazza fuori dalla sua tana ricca di miasmi infernali, con l'aspetto di un insetto malformato di dimensioni inusitate, per proseguire il suo contorto, disarticolato, stridente volo nell'oscurità della sera.

Immaginate l'effetto che questo moderno riordinamento avrebbe sui mammiferi stessi se ne fossero a conoscenza! Il toro bianco di Chillingham scuoterebbe la fronte aggrottata e il cervo agiterebbe il palco ramificato in segno di disprezzo, il lupo estinto ululerebbe per dispetto, la foca inglese abbaierebbe, il gatto selvatico lancerebbe sordi ruggiti mentre, davanti a un simile insulto, il tasso farebbe libero uso delle sue più nascoste manifestazioni di rabbia. Conigli e lepri si scambierebbero sguardi di stupore e apprensione, il riccio si rinchiuderebbe con disgusto nella sua palla, la talpa si immergerebbe nei suoi meandri sotterranei, la volpe ghignerebbe sarcastica e tutti, volgendo la schiena al disprezzabile capofila impostole, marcerebbero nella direzione opposta.

L'ipotesi immaginaria di questi animali offesi nella loro dignità ben rappresenta l'umanità furente per l'intollerabile insulto implicito nella teoria darwiniana. Ma ormai abbiamo da tempo superato quel sentimento, tanto da non costituire più un'offesa per lo zoologo il dirci che siamo imparentati non solo con il lemure dai luminosi occhi opalescenti o color topazio, simili agli occhi degli angeli, intrisi di una misteriosa intelligenza quando si posano su di noi con condiscendente benevolenza, come se sapessero quello che noi, dopo migliaia di anni di pensiero, abbiamo appena scoperto - non solo che quest'animale è un nostro parente, ma lo è anche una creatura come il pipistrello!

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Pagina 97

La lingua del serpente



«Ma ora» dice Ruskin, «questa è la prima cosa, a parer mio, da chiedere agli uomini di scienza: quale uso fa il serpente della propria lingua? Poiché non la usa per parlare o assaggiare o fischiare né, per quanto io ne sappia, per leccare o, in ultima analisi, per pungere. Eppure, per coloro che non conoscono la creatura, quel piccolo filo biforcuto e saettante che guizza fuori e dentro dalla bocca, veloce come il fulmine, costituisce la parte più sorprendente di quell'animale. Ma qual è l'uso? Ogni creatura, fatta eccezione per il serpente, può usare la propria lingua per arrecare danno. La donna se ne serve per infastidire, il camaleonte cattura le mosche, il gatto la usa per rubare il latte, la folade ci scava buchi nella roccia, mentre la zanzara la usa per pungere. Ma il povero serpente non è in grado di nuocere ad alcuno con la lingua: e dunque, perché la sua lingua è biforcuta?».

Lo stile dello scrittore in questa citazione e l'inaspettata, sarcastica domanda che balza fuori alla fine, suggeriscono l'ipotesi che siano presenti, nell'uomo, due sorte di lingue biforcute, e che una non sia usata per far danni. Certamente in letteratura alcuni di questi «fili biforcuti e saettanti» sono guizzati come fulmini sul bersaglio in modo assai più sensazionale dello stesso Ruskin. Il passaggio è ammirevole, sia per la forma che per il contenuto. Risplende anche in quella brillante conferenza su Living Waves da cui è tratto, e dove ci sono cose molto belle, frammiste ad altre di scarso interesse, e ad alcune francamente brutte. Ma questa è la sua colpa: dopo aver posto la domanda agli "uomini di scienza", Ruskin ammette che non c'è risposta possibile. Avendo scartato la possibilità di fischiare, leccare o pungere, la lingua del serpente non può fare in alcun modo del male, ed è del tutto inutile. Una conclusione assai improbabile, poiché salta agli occhi di chiunque che il serpente usa la propria lingua; ad esempio, la protrude facendola rapidamente vibrare ma perché faccia questo rimane ancora un mistero. È pur vero che nella lunga vita di una specie, un organo talvolta perde il proprio uso senza dissolversi, ma persiste come un'inutile appendice; è comunque molto improbabile che questo sia il caso della lingua del serpente: l'eccitabilità e l'estrema attività, a volte, di quest'organo ci fa piuttosto ritenere che ha solo mutato l'uso originale per uno nuovo, come è accaduto nel caso di alcune delle creature menzionate nel pezzo sopra citato.

«Il camaleonte» dice Ruskin «cattura le mosche con la lingua», volendo dire che il serpente non ha questo talento, mentre è stato spesso sostenuto il contrario. «L'uso principale della lingua» dice Lacépède nella sua Natural History of Serpents «è di predare insetti, che cattura grazie alla sua lingua doppia». Questa teoria sull'uso della lingua biforcuta è assai comune tra i vecchi ofiologi e da qui la convinzione che i serpenti si nutrano soprattutto di insetti. E qui non so resistere alla tentazione di citare a questo proposito qualche altro passo di Lacépède - un perfetto esempio di spirito teleologico applicato alla scienza che fiorì un secolo fa - e rese facili le cose al naturalista. «Non dobbiamo stupirci» egli dice «del gran numero di serpenti che vivono nei paesi tropicali in cui godono il calore congeniale alla loro natura e le specie più piccole trovano abbondanza degli insetti di cui si cibano. In queste regioni torride, dove la natura ha prodotto un'infinita moltitudine di insetti e vermi, ha prodotto allo stesso tempo un numero illimitato di serpenti per distruggere vermi e insetti i quali, altrimenti, si sarebbero smodatamente moltiplicati, tanto da distruggere ogni produzione vegetale e ridurre le più fertili regioni della terra in desolati deserti, inaccessibili all'uomo e agli animali. No, perfino questi nocivi e fastidiosi insetti sarebbero stati alla fine obbligati a distruggersi l'un l'altro, e nulla sarebbe rimasto se non le loro membra mutilate». Qui il naturalista francese fa una pausa, atterrito dall'atroce quadro da lui stesso evocato.

Nell'enumerare cosa non può fare il serpente con la lingua, Ruskin avrebbe benissimo potuto dire che non la usa come organo tattile. Che sia un organo tattile è una supposizione assai recente - una piccola ipotesi su di un piccolo argomento, ma con una storia curiosa e piuttosto divertente. Fu dapprima buttata là come una pura congettura, ma appena detta venne accettata come fatto irrefutabile da alcune delle nostre maggiori autorità. Così il dottor Günther, nel suo saggio sui serpenti nella Encyclopaedia Britannica, nona edizione, scrive: «La lingua protrude con il fine di toccare qualche oggetto, e talvolta sotto l'influsso di rabbia o paura». Indubbiamente, coloro che inventarono quest'uso per quell'organo furono fuorviati dallo studio dei serpenti in cattività, nei terrari di vetro in cui vengono usualmente tenuti; era molto facile sbagliare osservandoli in simili condizioni perché il serpente, nel muoversi, spinge fuori la lingua contro il vetro che ostacola í suoi movimenti. Va ricordato che il vetro è vetro, una sostanza che non esiste in natura e che è necessaria una lunga e talvolta penosa esperienza prima che anche il più intelligente tra gli animali sia in grado di capirne le caratteristiche. E infine, che la delicata, sensitiva lingua lo tocca per la stessa ragione per cui la mosca vi ronza sopra e l'uccello selvatico imprigionato vi si lancia contro in un disperato tentativo di fuga. In natura, quando il serpente viene avvicinato dalla sua preda o da qualche grande animale, la lingua protrude; e ancora, quando avanza cautamente tra l'erba, anche se non in stato di allarme, la lingua fuoriesce a intervalli frequenti. Ma posso affermare, dopo una lunga esperienza di serpenti, che l'organo protruso non tocca mai il terreno, o la roccia, o le foglie, o null'altro di simile, e di conseguenza non è un organo tattile.

Un'altra supposizione, meno improbabile rispetto a quella appena citata, è che la lingua, senza toccare nulla, può, in un qualche modo a noi non ancora noto, servire come organo di intelligenza. I sensi del serpente hanno scarse capacità. Quando, in presenza di uno strano oggetto o di un animale, il serpente protrude la lunga esile lingua - non per sentire l'oggetto, come è stato dimostrato - questo, non può forse servire ad analizzare l'aria, a cogliere un'emanazione da quell'oggetto che riveli al cervello, con processi ancora sconosciuti, il suo carattere, di essere animale o inanimato, a sangue freddo o caldo, uccello, animale, o rettile, o perfino la dimensione, eccetera? La struttura dell'organo non supporta questa supposizione: non sarebbe in grado di assaggiare un'emanazione senza quei particolari organi presenti nelle antenne concepite in modo così meraviglioso degli insetti. Ma di questi non è provvisto.

Solo mediante un'ipersensibilità alle onde e alle vibrazioni dell'aria emesse da altri esseri viventi vicini, a un livello infinitamente più acuto di quello delle ali del pipistrello - il cosiddetto sesto senso di quell'animale - la lingua del serpente sarebbe in grado di operare come organo di intelligenza. Qui, di nuovo, la struttura della lingua è contro una simile ipotesi: e se la struttura fosse diversa, resterebbe solamente da dire che lo strumento compie il proprio lavoro molto male.

Rimane da prendere in esame un'altra spiegazione sostenuta da due ben noti scrittori sulla vita dei serpenti, il dottor Stradling e la signorina Hopley. Questi osservatori giunsero, ciascuno per proprio conto, alla conclusione che il serpente usa la lingua come un'esca per attirare la preda.

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Pagina 134

Il serpente nella letteratura
Preambolo



Tra i mille e uno progetti da me, accarezzati in tempi diversi, c'era uno studio sui serpenti Il libro del serpente, un bel titolo certo, anche se alquanto ambizioso. Non era un lavoro qualsiasi, ma un libro su di'un argomento che aveva sempre avuto per me un fascino particolare, e che per anni, dentro di me, aveva implorato di essere scritto e che doveva infine essere scritto. Essendo un lavoro che necessitava di numerose ricerche avrebbe richiesto lungo tempo per essere portato a termine, lunghi anni, di fatto, perché andava scritto nei ritagli di tempo, mentre le ore, i giorni e le settimane bisognava dedicarli al duro lavoro di produrre libri per sbarcare il lunario. Raccogliere il materiale sarebbe stato un processo assai lento, perché avrebbe comportato un'attenta lettura e la consultazione di un migliaio di volumi, e forse diecimila tra periodici, annali, saggi e riviste di molte società di storia naturale, grandi e piccole, di molti paesi. Ma l'immane opera di ricerca, insieme alla classificazione e all'indice delle note, nulla sarebbe stata a paragone del successivo, duro lavoro di selezione - selezione e riduzione - perché Il libro del serpente doveva essere in un volume e non in sei. E alla selezione o, lasciatemi dire, alla deglutizione, avrebbe fatto seguito il lento processo di digestione e assimilazione. Se bene assimilate, le impressioni personali di un centinaio di studiosi dilettanti, naturalisti sul campo e viaggiatori, e di un centinaio di studenti di ofiologia, si sarebbero fuse, per così dire, insieme alle personali osservazioni e deduzioni dell'autore, in un unico amalgama.

Ora, anche se tutto ciò fosse stato portato a termine, il libro scritto con eloquenza e rivestito di nobili forme, mai avrebbe raggiunto il tanto idealizzato Il libro del serpente a causa dell'insufficiente conoscenza di un carattere tutto particolare - non intendo dire l'anatomia. Se avessi avuto i mezzi, prima di cominciare il mio lavoro - che mi avrebbe reso pallido ed esangue per il troppo studio su libri miserabili - me ne sarei andato via per cinque o dieci anni alla ricerca del serpente, per acquisire quel particolare tipo di conoscenza, avvicinando di persona tutti i più importanti ofiologi del globo. L'effetto a prima vista di una cosa, lo shock dell'emozione, la vivida e incancellabile immagine impressa nel cervello, vale assai più di tutto il sapere acquisito attraverso i libri, e questo è assai più vero per il serpente che per qualsiasi altra creatura. C'è davvero poca differenza tra un serpente morto o uno imprigionato. Fu il serpente che si muoveva sulla roccia ad apparire una meraviglia e un mistero al più saggio degli uomini. In uno dei miei libri sui serpenti, scritto da un naturalista francese delle Indie occidentali, si parla di un ferro di lancia tenuto prigioniero per studiarne le abitudini. Il naturalista lo osservava ora dopo ora, giorno dopo giorno, giacere sempre prono sul pavimento del terrario, come addormentato o stupefatto, fino a che si sentì a disagio e si stancò di vederlo in quell'opaco stato di depressione, per metà morto e per metà vivo: amareggiato, aprì la gabbia per lasciarlo libero. Stette a osservarlo. Il serpente girò lentamente la testa, poi lentamente, assai lentamente, cominciò a muoversi verso la porta aperta, trascinandosi fuori della casa, sulla distesa di terra nuda verso i cespugli e gli alberi del fondo. Ma una volta all'aria aperta i suoi movimenti e il suo aspetto subirono un cambiamento. Il lungo corpo, opaco di colore e disteso in tutta la sua lunghezza, che si trascinava fuori fu sferzato da una improvvisa ondata di vita e si fece sinuoso; l'incedere lento divenne più veloce, non si trascinava più ma scivolava via; la testa pericolosa con la lingua saettante, si sollevò alta, gli occhi di pietra brillarono, e lungo tutto il corpo le scaglie luccicarono come l'acqua al sole increspata dal vento e osservandolo, lo studioso si emozionò colpito dall'incredibile mutamento del suo aspetto.

Ecco come, anch'io, avrei voluto vedere il ferro di lancia in tutta la sua spaventosa potenza e bellezza; e anche il cribo, che gli dà battaglia, e vince, e lo divora nonostante i denti carichi di veleno. E i suoi nobili parenti, i serpenti a sonagli e i crotalidi, guidati tutti dal surucurù, il monarca dell'Ovest. E gli anaconda dalla stretta mortale, insieme alla più grande di tutte loro, la gigantesca camudi, "madre delle acque". E anche Pituophis e il Seminatrix, e quel colorato mortale arlecchino, il serpente corallo. Tutti questi vivono nel Nuovo Mondo. Mi sarei poi spostato nel Vecchio Mondo, alla ricerca degli azzurri serpenti di mare e dei magnifici, viridiscenti serpenti degli alberi e dei tanti serpenti storici - il ticpolonga, il cobra dal cappuccio, e il loro re e assassino, il tremendo cobra dagli occhiali.

Uno stupendo sogno tutto questo, come quello del povero, piccolo, pallido imbrattacarte al suo tavolo che raccoglie immagini su immagini, e che fantastica cosa sarebbe la sua vita tra diecimila anni. Tutti gli spinosi, sassosi e sabbiosi deserti, le oscure foreste dell'Amazzonia e dell'Arawhimi, gli immensi fiumi da risalire per cinquemila chilometri dal mare sino alla loro sorgente, le grandi catene montuose da attraversare, le Alpi e le Ande, l'Himalaya e le montagne della Luna, l'intero globo da esplorare alla ricerca di serpenti, dalle calde giungle tropicali e paludi malariche, ai desolati tetti del mondo spazzati dal vento - tutto ciò da cercare nel British Museum e in una o due altre oscure e soffocanti biblioteche, dove un uomo siede su di una sedia per tutto il giorno e per tutto l'anno con una pila di libri di fronte a sé.

Ahimè! In simili condizioni, senza il necessario, prezioso, personale sapere tanto desiderato, Il libro del serpente non avrebbe mai potuto essere scritto. Così mi dicevo e mi ripetevo, eppure portavo avanti il lavoro preliminare accumulato, ne avevo assai di più di quanto non ne potessi utilizzare, e decisi che avrei tentato di scrivere alcuni capitoli, ciascuno su di un aspetto particolare o un problema relativo al serpente. Ne scrissi circa dodici, buttati giù di getto, senza correzioni o rifiniture, perché tutti dovevano infine ritornare nel calderone. Poco per volta, ripresi in mano e finii tre o quattro di questi capitoli sperimentali, solo per vedere che effetto facevano una volta stampati. Apparvero in tre o quattro riviste mensili, ed è tutto quel che rimane del mio ambizioso libro.

Quel libro non fu scritto perché, come tentai di dirmi, era un lavoro troppo lungo per chi doveva mantenersi scrivendo, ma un'esile piccola voce mi diceva che mentivo a me stesso, che se fossi andato avanti, lentamente, assai lentamente, come il ferro di lancia lasciato libero, fino a uscire all'aria aperta e alla luce del sole - fino ad avere cioè un'idea completa e il pieno possesso del soggetto - sarei anch'io giunto trionfalmente alla fine. No, il compito non era troppo lungo e la segreta, vera ragione era un pensiero assai scoraggiante che non dico qui, perché è enunciato nelle pagine che seguono. Non ho altro da aggiungere a proposito, tranne che faccio dono del titolo - Il libro del serpente - a chiunque voglia usarlo e chiedo solo che non venga dato a un manuale sui serpenti, e neppure a una monografia - che Dio ce ne scampi! Come diceva Huxley! E anche se non ha usato questa particolare espressione, egli certamente inveiva contro il moltiplicarsi di simili lavori, temendo che noi tutti ne saremmo stati sepolti vivi - i ponderosi tomi che nessuno legge, corpi elefanteschi senz'anima, o carcasse vestite e sistemate nelle loro rilegature in tela sui ripiani dei freddi magazzini delle biblioteche di zoologia.

Quanto al saggio che segue, non avevo mai pensato di usarlo così com'è per il libro. È solo una piccola prova, e tocca di sfuggita la frangia, diciamo così, di un soggetto per un grande libro - non un'antologia (Dio ce ne scampi!), ma una storia e una rassegna della letteratura sul serpente, da Ruskin indietro nel tempo fino a Sanchoniathon. E ora generosamente regalo anche quest'altro titolo. Il serpente nella letteratura.

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Vespe



In una burrascosa giornata d'inizio autunno feci una sosta durante una passeggiata in un frutteto del Surrey per osservare una curiosa scena di vita di insetti - potrei battezzarla una piccola, graziosa commedia di insetti, se non mi avesse riportato alla memoria il ricordo dei tempi andati, quando la mia mente era oscurata dai dubbi e i modi di alcuni insetti, specialmente delle vespe, occupavano gran parte dei miei pensieri. Viviamo attraversando tempeste e ci dimentichiamo poi di gran parte di quelle che ci hanno squassato. Ma dopo molto tempo anche un niente - il profumo di un fiore, il grido di un uccello selvatico, persino la vista di un insetto - può servire a riportarci indietro nel tempo e a rivivere una sensazione che sembrava morta e ormai svanita.

Nel frutteto c'era un vecchio pero che produceva grossi frutti tardivi e, tra quelli che il vento di settembre aveva fatto cadere quella mattina, ce ne era uno assai maturo su cui le vespe avevano banchettato creando una profonda cavità a forma di coppa. All'interno della coppa sei o sette vespe gozzovigliavano nel dolce succo, stese piatte e immobili, strette insieme. Fuori della cavità, sulla pera, si erano riunite trenta-quaranta mosche blu, affamate di quel succo, ma apparentemente spaventate di cominciare a nutrirsene. Stavano tutt'intorno, in folla compatta, le più lontane premevano e si affollavano sulle altre: eppure, nonostante la pressione, la prima fila di mosche si rifiutava di avanzare oltre il bordo più esterno della parte mangiata. Di tanto in tanto, uno spirito più avventuroso allungava la proboscide e cominciava a succhiare sul margine: ma quel leggero movimento veniva immediatamente scoperto da una delle vespe, la quale si girava veloce a fronteggiare la presuntuosa mosca, sollevando le ali con fare minaccioso, e subito la mosca estraeva la proboscide dal bordo della coppa. Un occasionale affamato vinceva la paura: si produceva allora un gran movimento tra tutte le mosche, e alcune si davano a succhiare nello stesso istante; ma le vespe, che evidentemente ritenevano che in casi simili s'imponeva qualcosa di più di uno sguardo o di un gesto minaccioso, si alzavano in volo con irati borbottii e l'intera folla di mosche fuggiva turbinando tutt'intorno in una piccola nuvola azzurra con un sonoro eccitato ronzio, per sistemarsi nuovamente dopo alcuni istanti sulla grande pera gialla, affollandosi intorno alla cavità come prima.

Mai una volta, durante iI tempo che passai a osservarle, la vespa guardiana interruppe la sua opera di sentinella. Quando metteva la testa giù per succhiare insieme alle altre, i suoi occhi erano sempre in grado di rimandare a quel suo piccolo, vendicativo cervello, ogni movimento nella circostante folla di mosche. Era concesso alle mosche di strisciare intorno, e continuare a strisciare a loro piacere, sull'estremo limite del bordo, ma se una di esse osava succhiare, eccola tornare alla carica.

La domanda che mi posi fu: quanto di questo comportamento è dovuto all'istinto, e quanto all'intelligenza e al temperamento? La vespa certamente possiede un'indole da vespa, un rancore immediato, ed è quanto mai tirannica e vendicativa nei confronti di altri insetti inoffensivi. Ed è anche un'assassina e divora le proprie vittime, e insieme a loro si nutre di nettare e altri succhi dolci: ma quando uccide, quando la vespa solitaria paralizza ragni, vermi e insetti vari e li immagazzina in celle per provvedere di un orrido cibo le larve che infine nasceranno dalle uova ancora non deposte, la vespa agisce allora automaticamente, o per istinto, spinta, per così dire, da una forza estranea. Nel caso invece del comportamento delle vespe sulla pera e in innumerevoli altri casi che possiamo leggere o osservare di persona, appare esserci un notevole contributo della mente. Indubbiamente esiste in tutti gli insetti, ma in gradi diversi e alcuni ordini sembrano essere più intelligenti di altri. Così, qualsiasi persona abituata a osservare da vicino gli insetti e a notare ogni loro piccolo atto probabilmente direbbe che c'è, rispetto ad altri insetti, minore intelligenza nei coleotteri e maggiore negli imenotteri e che in quest'ultimo ordine le vespe occupano il gradino più alto.

La scena nel frutteto mi ha riportato anche alla mente una folla di vespe, assai diverse per dimensioni, colore e comportamento, anche se molto simili nel temperamento tirannico, che ero abituato a osservare durante la mia infanzia e giovinezza in terre assai lontane. Forse attrassero maggiormente la mia attenzione, più di altri insetti, grazie alla loro singolare e brillante colorazione e al formidabile carattere. Erano creature belle ma dispensatrici di dolore, e il dolore che mi causavano era innanzitutto fisico, quando interferivo nelle loro faccende o le tenevo in mano senza alcuna attenzione, ma passava velocemente. Più tardi fu un dolore mentale e più duraturo. Per chi è molto giovane, il colore è indubbiamente la qualità che più attrae in natura, e questi insetti erano smaltati di colori tali da renderli rivali delle farfalle e degli scintillanti, metallici coleotteri. C'erano vespe con anelli neri e gialli e con anelli neri e scarlatti; vespe di un uniforme color bruno dorato; altre, come le nostre libellule verginelle, sembravano appena uscite da un bagno in uno splendente blu metallizzato; altre con corpi blu acciaio e rosse ali brillanti; altre con corpi cremisi, testa e zampe gialle, e ali blu acceso; altre nere e dorate, con testa e zampe rosa, e così via attraverso ventine e centinaia di specie dato che «la natura si diverte a giocare con i suoi più piccoli», tanto da restare stupefatto davanti a una così grande varietà, a così tanti, singolari e bei contrasti prodotti da una mezza dozzina di sgargianti colori. Fu quando cominciai a scoprire il comportamento delle vespe con quegli insetti con i quali nutrono la loro prole che il piacere che mi davano si impastò di dolore. Perché esse non uccidevano immediatamente le loro prede come fanno invece i ragni, le formiche, le libellule, le cicindele e altre specie rapaci, ma le paralizzavano pungendo i centri nervosi, rendendole così incapaci di difendersi e le immagazzinavano in celle sigillate, cosicché la larva che stava per nascere avesse via via carne fresca con cui nutrirsi - non carne appena uccisa ma carne viva.

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Un topo amichevole



La maggior parte dei nostri animali, anche quelli che strisciano come «vermi selvatici dei boschi», rospi, rospi calamita, tritoni, e lucertole, e cosa ancor più strana, svariati insetti, sono stati addomesticati e tenuti in casa come animali domestici.

Tassi, lontre, volpi, lepri e arvicole sono facili da trattare. Ma sembra davvero curioso che qualcuno possa desiderare di vezzeggiare una creatura così spinosa come il porcospino, o quel diabolico piccolo mammifero, sempre assetato di sangue, con la testa piatta che risponde al nome di donnola. Anche i ragni sono compagni scomodi, non potete accarezzarli come fareste invece con un ghiro. Il massimo che si può fare è offrire loro una bottiglia di vetro trasparente in cui vivere, e insegnargli a uscire in risposta a una nota musicale, suonata su di un banjo o un violino, prendere una mosca dal vostro dito e far ritorno alla bottiglia.

La dimestichezza di chi scrive con le vipere, intese come compagni da tenere in casa, è certo parziale, e le maneggia con la stessa disinvoltura di uno scolaro con l'innocua biscia del collare. Benjamin Kidd ci ha dato una volta un delizioso racconto del suo beneamato calabrone, che volava libero nella sua stanza e, se chiamato, arrivava in cerca di cibo, e manifestava un interesse quasi doloroso nei confronti dei bottoni del suo mantello, perché li esaminava ogni giorno come ansioso di scoprire il loro vero significato. Poi c'era la mia vecchia amica, la signorina Hopley, che scriveva di rettili, morta di recente all'età di novantanove anni. Addomesticava i tritoni, ma l'animale che preferiva era l'orbettino. Non si stancava mai di vantare le sue virtù. Gli scoiattoli del visconte Grey sono più impegnativi, perché sono scoiattoli selvatici di un bosco del Northumberland, che capiscono al volo quando lui è in casa, corrono da lui scavalcando i muri, e invadono la biblioteca. Poi balzano sulla scrivania e vengono ricompensati con noci che prendono dalle sue mani. Un altro amico del Northumberland tiene, o teneva, un cormorano, che scoprì essere non meno avido nella vita domestica che allo stato selvatico. Dopo aver passato l'intera mattina a catturare e ingoiare pesci in un fiume delle vicinanze, volava verso casa all'ora dei pasti, lanciando alte strida perché gli venisse dato del cibo, pronto a divorare tutta la carne o i budini che riusciva a procurarsi.

L'elenco di creature singolari può allungarsi all'infinito, compresi i pesci, ma chi ha mai sentito parlare di un topo domestico? Non il topolino bianco con gli occhi rosa, allevato artificialmente, che chiunque può acquistare in qualsiasi negozio di animali, ma un comune topo marrone, Mus decumanus, uno dei più comuni animali selvatici d'Inghilterra, e certamente tra i meno amati. Eppure questo caso davvero straordinario è avvenuto di recente nel villaggio di Lelant, nella Cornovaglia occidentale. Ecco la strana storia, alquanto triste ma al tempo stesso divertente.

Non si parla qui della «natura selvatica vinta dalla gentilezza», il topo non fece altro che offrire la sua amicizia alla donna del cottage e lei, priva di figli e molto sola nella cucina e nel soggiorno di casa, non si dispiacque della sua visita: al contrario, gli diede da mangiare e in cambio di ciò il topo divenne sempre più amichevole e familiare nei suoi confronti, e tanto più egli si faceva domestico, tanto più lei lo amava. Ma c'era un problema: la donna possedeva un gatto, un animale gentile e grazioso, assai spesso fuori casa. Ma era terribile immaginare cosa sarebbe potuto accadere nel momento in cui il micio avesse fatto la sua comparsa a casa mentre il topo era ospite. Poi, un giorno, il micio entrò in casa durante una visita del topo, facendo delle gran fusa, con la coda tenuta alta, mostrando in tal modo che era del suo solito umore amabile. Vedendo il topo, parve capire all'istante che era un ospite privilegiato, mentre il topo da parte sua sembrava essere conscio, sempre per intuito, che non aveva nulla da temere. Comunque sia, i due divennero ben presto amici, ed erano visibilmente contenti di stare insieme, perché passavano gran parte del tempo nella stanza, bevevano il latte dallo stesso piattino, dormivano abbracciati, ed erano assai affezionati l'uno all'altro.

Poco per volta il topo cominciò a darsi da fare a costruire un nido in un angolo della cucina sotto una credenza, e fu chiaro che ben presto la popolazione di topi sarebbe aumentata. Il topo passava l'intera giornata a correre in giro raccogliendo pezzetti di paglia, penne, cordicelle e qualsiasi cosa trovasse in giro, rubando anche o mendicando delle strisce di cotone o pezzetti di lana e fili dal cestino di lavoro. Si dava il caso che il suo amico appartenesse a quel tipo di gatti dotati di grossi ciuffi di soffice pelo ai due lati del muso; gatti di questo genere, certo non insoliti, ricordano in modo bizzarro i gentiluomini vittoriani adorni di un paio di magnifiche basette soffici e setose che coprono entrambe le guance, scendendo verso il basso come una doppia barba. Il topo scoprì improvvisamente che quel pelo era proprio ciò che gli ci voleva per ricoprire il suo nido di un morbido lenzuolo, in modo che i suoi minuscoli topolini, nudi e rosa, potessero nascere nel luogo più soffice del mondo. Immediatamente si diede a strappar via quei peli, e il gatto, pensando che fosse un nuovo tipo di gioco, forse un po' troppo rude per piacergli, tentò a lungo di tenere la testa fuori dalla portata del topo e di cacciarlo via. Ma il topo non si dava per vinto, e insisteva a saltare sul muso del gatto e a strappargli i peli, finché questi perse la pazienza e gli diede una zampata con le unghie di fuori.

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La grande superstizione del cane



Nessuno può dedicare lunghi e amorevoli studi alla vita degli animali senza imbattersi in specie dotate di disposizioni naturali che possono in buona parte essere convertite in comportamenti domestici e che, unite alla loro bellezza e alle doti di pulizia, sembrano rendere quegli animali particolarmente adatti come compagni dell'uomo, assai più di quelli che invece possediamo oggi. Perché è indubbio che alcuni animali sono più intelligenti di altri, e delle piccole differenze a questo proposito sono percepibili anche tra le specie di un singolo gruppo o genere. Noi misuriamo la mente di un animale in base ai nostri criteri e, guardando dall'alto della nostra montagna, la terra sottostante a prima vista ci sembrerà piatta, ma non è affatto così, come possiamo accorgerci se la osserviamo attentamente. Ancora più importanti sono le diversità di indole, da quelle non socievoli e aggressive alle remissive e dolci. Più importanti perché, le differenze d'intelligenza non sono gran che se paragonate alla diversità di indole. Ci sono anche animali di natura solitaria, pressoché incapaci di ogni sorta di relazione, fatta esclusione per quella sessuale. Mentre altri sono gregari o sociali, e capaci di legami non solo fra di loro, ma anche con esseri di altre specie e, se addomesticati, anche con l'uomo. C'è da considerare un terzo fattore, fuor di dubbio il più importante, quando soppesiamo i diversi vantaggi delle varie specie, e cioè le abitudini, o istinti, che cambiano così lentamente da sembrare praticamente immutabili, anche in condizioni alterate e che, in animali addomesticati o tenuti in casa, a seconda del loro carattere, possono dimostrarsi per l'uomo una fonte di piacere e di profitto o, al contrario, una continua seccatura e problema. Quando i nostri progenitori tanto tanto tempo fa resero domestici gli animali che oggi possediamo, non è pensabile che si dilungassero troppo su queste considerazioni. Forse fu il caso a determinare ogni cosa, e gli uomini presero e addomesticarono quegli animali che trovarono per primi a portata di mano, o che promettevano più degli altri di essere utili ai loro fini, sia come cibo, sia come assistenti per procurarsi il cibo. Essendo barbari, ben poco importava loro della bellezza, delle piccole differenze di intelligenza e delle assai maggiori differenze di indole e, naturalmente, proprio nulla di quegli istinti presenti in alcuni animali che sarebbero apparsi sempre più ripugnanti a un uomo civilizzato.

Così abbiamo il cane da sempre con noi, il grande risultato di secoli di selezione artificiale e addestramento è così evidente a ognuno, che ormai siamo portati a considerare questo animale di natura superiore agli altri per doti mentali, qualità geniali e adattabilità. Eppure le qualità che oggi ci rendono il cane prezioso non facevano parte del suo carattere originario: è prezioso soprattutto per le diverse tendenze istintive, che sono state definite più tardi e sono il risultato di variazioni individuali sia spontanee che dell'inconsapevole selezione dell'uomo. L'affetto del cane per il suo padrone - il desiderio di stare sempre insieme a lui ed essere da lui notato e accarezzato, l'irrequietezza durante la sua assenza e il dolore per la sua perdita, il coraggio di difendere lui, la sua casa e quanto gli appartiene dagli estranei - questo attaccamento che per abitudine stimiamo una dote così alta, considerandola un fatto unico in natura, è in realtà una piccola cosa di poco valore, molto comune nel mondo animale perché esiste in molti, probabilmente nella grande maggioranza, dei cervelli dei mammiferi di ogni ordine e ogni famiglia. E non è una qualità dei soli mammiferi. L'anatra non occupa certo un posto illustre nella scala degli esseri viventi, e l'anatra zoppa che si affezionò a Caxton, seguendolo con grande amore durante le sue passeggiate, può sembrare a coloro che poco sanno della vita animale un uccello eccezionalmente dotato. Si presume naturalmente che Bulwer non inventò l'anatra zoppa; un pavone o un uccello del paradiso, con tutti i loro organi in ordine, avrebbero meglio solleticato la sua fantasia. Probabilmente l'incidente - perché incidenti simili sono assai comuni - gli fu riferito come vero e, ritenendo che avrebbe aggiunto un pizzico di realtà e di pathos familiare alla descrizione del carattere dolce e amabile di Caxton, l'autore la introdusse nel racconto. Un amico di chi scrive possedeva un'anatra assai più degna di ammirazione che non l'immortale uccello di Bulwer. Non era un'anatra domestica, ma un'alzavola, a cui sparò ferendola leggermente a un'ala e, colto all'improvviso da una strana compassione, la mise in un fazzoletto e se la portò a casa, nei sobborghi di una grande città. La prigioniera fu promossa ad animale da cortile e le sue richieste vennero esaudite: ben presto si abituò alla nuova esistenza, e si affezionò assai ai vari membri della famiglia, andando in cerca di loro nelle varie stanze quando si sentiva sola, e mostrando sempre davanti agli estranei ira e angoscia. Se un cane o un gatto venivano coccolati in sua presenza, subito accorreva sul luogo, soffiando all'animale in questione con il suo tenero becco, e sollecitando allo stesso tempo una carezza per sé. La cosa più curiosa della sua storia è che si affezionò particolarmente a colui che l'aveva fatta prigioniera, scegliendolo tra tutti ed esprimendogli particolari attenzioni. Quando usciva la mattina per andare al lavoro, l'alzavola lo accompagnava fino alla porta sulla strada e lo guardava andar via, poi faceva ritorno al cortile tutta soddisfatta e il pomeriggio di nuovo si metteva sulla porta, che era sempre aperta, e se ne stava tranquilla nel mezzo del gradino aspettando il ritorno del suo padrone - perché quest'alzavola aveva il senso del tempo. Se, mentre stava là a osservare la strada, entrava un estraneo, spalancava il becco soffiando e beccandolo sulle gambe, dimostrando diffidenza e «senso della proprietà», proprio come un cane che abbaia e tenta di mordere un visitatore. L'arrivo del suo padrone veniva festeggiato con grandi dimostrazioni di affetto e gioia, lo seguiva fin dentro la casa e passava una o due ore assai felici se le veniva concesso di sedere sui suoi piedi, o accoccolarsi contro di essi sul tappeto steso davanti al camino.

Il comportamento di questa povera alzavola può sembrare un fatto straordinario, ma in realtà non è gran cosa: la memoria che tutti gli animali possiedono, forse una piccola capacità di giudizio - una «piccola dose di raziocinio» che Huber scoprì persino negli insetti - e un attaccamento agli esseri che era abituata a vedere e con i quali viveva, e che esaudivano ogni suo bisogno e l'accarezzavano gentilmente. In materia di affetto non ha alcun vantaggio neppure sulla tanto celebrata lumaca di Darwin.

[...]

Il cane è domestico, gli altri animali sono selvatici. Il suo intelletto è piccolo e immobile, ma la sua struttura è variabile e, cosa ancora più importante, altrettanto lo sono i suoi istinti, o forse sarebbe più corretto dire che compaiono in lui con una certa frequenza tendenze, spesso ereditarie, che tramite la selezione e l'addestramento possono essere fissate e rafforzate fino a renderle simili a istinti. Queste tendenze, più o meno stabilizzate nei nostri animali domestici e che hanno origine allo stato domestico, sono indubbiamente, per certi versi, degli istinti, poiché ne possiedono la natura e l'origine. Ma la differenza tra questi e i veri istinti naturali, che si sono cristallizzati in tempi incalcolabili, è infinita, tanto da non poterla esprimere. Questi ultimi sono l'eterna roccia di base, gli altri, fiocchi di neve formatisi in un attimo, che si appoggiano al suolo e sembrano bianchi, ma in un volger di palpebre si sciolgono e svaniscono. Proprio questa variabilità, o abitudine a variare, viene per alcuni vaghi aspetti assunta come prova di versatilità. Da qui una delle ragioni della credenza popolare che ritiene il cane tanto superiore alle altre creature a quattro zampe.

Se a un cane si potesse insegnare a girare uno spiedo, scovare tartufi, salvare un uomo dall'annegamento o dalla morte sotto una valanga, far alzare in volo una pernice, riportare un'anatra ferita, uccidere venti ratti in altrettanti secondi e guidare un gregge di pecore, allora sarebbe davvero un animale da destare meraviglia. Questi sono istinti speciali o istinti incipienti, e fregiare di epiteti come "generoso" e "nobile" un cane per aver tirato fuori dall'acqua un uomo che stava per affogare, o averlo dissepolto da sotto una valanga, è del tutto irrazionale, come lo sarebbe chiamare la rondine e il cuculo intrepidi esploratori del Continente Nero, o premiare le api operaie di un alveare per la loro castità, lealtà e patriottismo, e per la profonda conoscenza della chimica e dell'alta matematica, come mostrano í loro lavori. Incrociate i cani e queste svariate tendenze che, essendo utili agli uomini e non agli animali stessi vengono mantenute artificialmente, svaniscono e scompaiono, e gli animali ritorneranno tutti a quell'unica, antica, semplice condizione in cui furono all'inizio, quando l'uomo li ha trovati. A favore del cane si può dire invece che è plasmabile. L'essere plasmabile è forse dovuto all'addomesticamento, alla varietà di condizioni alle quali è soggetto come compagno dell'uomo in tutte le parti del globo, alla selezione che separa e mantiene nuove varietà non appena sorgono, e ai nuovi incroci di razze assai diversificate. Il fatto che sia plasmabile ci ha fornito la scusa per intervenire quanto più possibile su di lui, escludendo completamente tutte le altre specie, che risultino o no plasmabili alla stessa maniera. I polli e i piccioni lo sono, mentre l'oca, la gallina faraona, il fagiano e il pavone sono pressoché immutabili. La natura possiede forse tesori migliori del cane, ma noi non siamo in grado di indovinare i suoi segreti, e scoprirli mediante esperimenti richiederebbe un tempo assai lungo. Un uccello in cattività, qualsiasi uccello, perfino un passero, è da preferire a tutti gli uccelli del paradiso allo stato selvatico. Gli altri animali ci servono per passatempo, fino a che dureranno, e quando saranno scomparsi, anche noi, che apparteniamo a quest'epoca, ce ne saremo andati, sordi a tutto ciò che di sgradevole í posteri potranno dire di noi. Il cane è da noi tenuto in gran conto, al di sopra di tutti i bruti, il nostro favorito, e non gli daremo alcun motivo di gelosia.

Se non lo avessimo, se non lo avessimo mai avuto o avessimo perso la memoria, e dovessimo di nuovo darci da fare per selezionare un amico e compagno tra gli animali selvatici dei campi e dei boschi, passeremmo accanto al cane selvatico senza degnarlo neppure di un'occhiata. Nulla in lui è attraente, anzi molte sono le cose repellenti. Allo stato di natura è un animale di attitudini disgustose, che predilige come l'avvoltoio la carne morta e decomposta. È anche un codardo, ma se incontrastato ostenta una sete di sangue che non ha eguale tra i veri animali da preda. E in compenso non possiede neppure una qualche bellezza o sagacia, e paragonato a molti carnivori non è né di vista acuta, né veloce nella corsa. Qualche pignolo genealogista potrebbe esser tentato di chiedere: «Di quale cane selvatico si parla?». Potrebbe a suo piacimento scegliere quello che più gli aggrada - sciacallo, Cuon alpinus, baunsuah, lupo; o prenderli tutti, includendo persino il coyote, come fece Darwin. La molteplice origine del cane domestico è senza dubbio una teoria improbabile, ma è anche assai probabile che lo sciacallo entri per buona parte nel suo albero genealogico. Vi sono anche ragioni per credere che la maggior parte dei cani selvatici, compreso il dingo, siano derivati da razze domestiche e, di fatto, i cani selvatici che lo scrittore conosce sono meglio noti per essere i discendenti di animali domestici sfuggiti ai loro padroni e datisi alla vita selvatica.

[...]

Prima di procedere con la storia della superstizione sul cane, voglio fare qui una considerazione in merito a ciò che prevale nell'altra metà, o più della metà, del mondo - l'Oriente. «I popoli orientali» dice Youatt «hanno una strana superstizione riguardo ai cani». Strana davvero, quasi incredibile per le nostre illuminate menti occidentali! Noi, che per alcuni versi disprezziamo questi "popoli orientali" e ci indigniamo contro molte delle loro abitudini, in particolare riguardo la loro pulizia personale, tanto per dirne una, proprio a noi viene detto che il nostro amico e compagno il cane, il nostro beniamino che divide con noi salotti e camere da letto, e viene accarezzato e baciato con le nostre mani e le nostre labbra, è una bestia sporca e indegna di essere toccata dall'uomo! E così scopriamo che l'Oriente è Oriente, e l'Occidente è Occidente, in questo e in tante altre cose, e che due sono le grandi superstizioni nei confronti del cane. E adesso andiamo avanti con la storia di quella che ci è propria.

A tempo debito comparvero gli evoluzionisti, insegnandoci che la terra è antica, e sostenendo che tutti gli esseri viventi che la abitano discendono da una o da pochissime forme primordiali: di conseguenza, la teoria riguardo la creazione mirata del cane non aveva più alcun senso. Come è possibile, allora, che la superstizione sul cane - la credenza nella sua superiorità - sia sopravvissuta a un colpo così mortale? Dato che gli evoluzionisti insegnavano che tutti i bruti possiedono, potenziali e in germe, tutte le facoltà presenti nell'uomo, sembra inevitabile la conclusione che deve esserci una corrispondenza nello sviluppo fisico e psichico, e che la radice delle più alte facoltà mentali e morali debba esistere negli animali di maggior livello: che íl mammifero è più raziocinante dell'uccello, l'uccello del rettile, e il rettile del pesce: e che la iena, lo zibetto, e la mangusta sono più vicini a noi del cane, i gatti al di sopra della mangusta, e le scimmie ancora più in alto. Perché allora il cane non era relegato a un posto più basso? Lauder Lindsay ce ne ha dato la ragione: «La scala mentale - la scala dello sviluppo intellettuale e morale - non è affatto parallela alla scala zoologica. Gli animali più raziocinanti e morali non sono necessariamente quelli più vicini all'uomo nella classificazione comunemente adottata dagli zoologi». Inoltre è stato accettato il fatto che il contatto con l'uomo ha avuto l'effetto di allargare la mente del cane, rendendolo, al di sopra di tutti gli altri animali, intelligente, morale e persino religioso.

[...]

La morale di tutto questo è che, mentre il cane è diventato troppo utile a noi per pensare di separarcene - utile in migliaia di modi, e tale da poter essere utilizzato in altre migliaia di modi, man mano che vengono selezionate nuove razze con forme modificate e con nuove inimmaginabili capacità - sarebbe una vera benedizione, sia per l'uomo che per il cane, porre dei limiti agli animali utili, metterli e tenerli al loro posto, che non è la casa, e valutarli secondo i loro meriti, come facciamo con i nostri cavalli, maiali, vacche, capre, pecore e conigli.

Ma c'è un punto nel cuore umano, nel cuore femminile soprattutto, che resterebbe vuoto senza un animale da amare e coccolare, il desiderio di avere una creatura pelosa per amico - non una creatura pennuta, anche se i beniamini con le penne sono abbastanza comuni. A causa del loro delicato organismo, per gli uccelli l'essere maneggiati è spesso doloroso e dannoso, e mette in disordine le ali. Da parte dell'umano quindi, l'amore per i pennuti non è soddisfatto e si sente defraudato del dovuto, perché non può esprimersi nel legittimo modo dei mammiferi, entrare cioè in contatto con il proprio oggetto, toccarlo con le mani e accarezzarlo. Fortunatamente questo sentimento o istinto può essere ampiamente gratificato anche senza il cane: esistono decine e decine, forse centinaia, di specie, oltre questo animale, ricche di qualità degne di stima, che è possibile toccare con le mani e le labbra senza pericolo di contaminazione. Possiamo ricordarne qui solo alcuni.

Uno dei primi animali degni di una così alta considerazione, che molti viaggiatori ben conoscono, è l'uistitì: una minuscola scimmia di grande bellezza, ammantata di un pelo lungo e soffice, lucente come la seta filata, con un fare piacevolmente giocoso, ma non così sventata e capricciosa come i suoi irresponsabili parenti più grossi, il che è un vantaggio. Chiunque abbia visitato il Brasile non può non avere subito il fascino di questi piccoli animali, spesso tenuti in casa dalle signore, e come beniamini di casa non c'è nessuno che li superi per attaccamento alla loro padrona.

Un animale più nobile, in grado di affezionarsi sia all'uomo che alla donna, è íl lemure, di cui esistono parecchie specie assai belle.

[...]

Torniamo all'altro estremo, dai livelli bassi a quelli alti, ed ecco il gatto selvatico presente in tutti i luoghi deserti del globo. Tigri e leopardi nani, screziati, o di un luminoso color terra dorata, un oro pallido o rosso o grigio striato di nero, a strisce come una zebra, a chiazze, o con i colori distribuiti in modo bizzarro, meravigliosamente armoniosi. Come i lemuri, e con occhi ancora più brillanti e luminosi e grande forza muscolare. Ma non sono animali pacifici: i loro movimenti silenziosi come quelli dei serpenti e la fatale immobilità dell'agile corpo, gli occhi rotondi e vigili simili a due gemme splendenti incastonate in un volto intagliato in fastosa pietra - questi tratti tradiscono il fine mortale. Eppure i loro cuori possono anche essere conquistati con la gentilezza. Il gatto domestico ne è una prova. Lo si trova nella maggior parte delle case, e che sia o no un nostro beniamino, una lunga familiarità gli ha guadagnato un posto nei nostri affetti. Ma se ci allontaniamo da casa e visitiamo regioni infinitamente più ricche di vita delle nostre, ci sorprende e ci offende incontrare ancora lo stesso gatto perché è come se l'uomo, in mezzo a una così grande varietà, non avesse saputo trovare di meglio o di ugualmente bello. La natura aborre la monotonia, perché dobbiamo forzarla a nostro proprio svantaggio?

Ecco dunque alcuni mammiferi riuniti a caso da varie famiglie ampiamente diversificate tra loro, come se ognuno fosse l'ultima e più alta opera della natura in una particolare direzione - «il fiore perfetto e lucente» di un gruppo, al cui confronto gli altri membri sembrano grossolani e incompleti. Ci vantiamo di essere amanti del bello, ed eccolo qui nelle forme più alte. Si può forse dire che gli uccelli possiedano una maggiore bellezza, ma è una bellezza di diversa specie, inoltre hanno le ali e sono lontani da noi. Appartengono al cielo e le loro forme sono aeree, e le loro aeree nature non hanno contatti con le nostre. Per i mammiferi invece, noi che siamo a nostra volta mammiferi e legati alla terra, abbiamo maggiore simpatia, e la loro bellezza ha per noi un fascino più duraturo. Se questi sono fuori dalla nostra vista e lontani dalla maggior parte di noi, e si fanno più lontani di anno in anno, abbiamo solo da biasimare noi stessi. Perché quanto sono ricche le montagne, e le foreste, e i luoghi deserti della terra, dove talvolta andiamo a uccidere gli splendidi figli selvatici della natura, assistiti nel nostro compito da quel servo e amico, per noi così degno di merito! E invece, come sono povere le nostre case, i nostri paesi, le nostre città! Il cane le abita, ereditato da progenitori barbari, che lo addomesticarono non per farne un beniamino da tenere in casa o un amico, ma perché li aiutasse nella ricerca di carne, o per altri scopi, per essere uno spazzino, come ancora oggi nei paesi orientali o, nel caso degli antichi ircani, per divorare i cadaveri dei loro morti. Abita le nostre città, ma non a buon titolo, perché dovremmo sopportarlo? Possiamo lavarlo ogni giorno, ma il marchio dello sciacallo rimane. Quel che la natura ha creato sporco, lasciate che resti sporco, perché non possiamo renderlo diverso. La sua acqua lustrale che purifica per sempre rimane un segreto per la nostra chimica. O, se non proprio un segreto, se, come alcuni ritengono, possiamo intravederne a malapena gli ingredienti, questi restano pur sempre per noi troppo lenti nel loro agire. Gli anni dell'uomo sono limitati e i suoi fini cambiano. La natura ha tutto il tempo per i suoi processi: «L'eternità di Dio è sua». Inoltre non c'è nulla che possiamo desiderare e non trovare nel suo giardino infinitamente vario. Perché dovremmo amare il fiore della stapelia e appuntarcelo al petto, mentre calpestiamo senza alcuna misericordia tanti fiori belli e lucenti? È davvero un peccato calpestarli, perché un comportamento così distruttivo li rende più rari e «la rarità», come alcuni dei nostri grandi naturalisti ci hanno insegnato, «precorre l'estinzione». E forse poco alla volta, biasimandoci per il passato, li cercheremo ovunque con grande impegno, ansiosi di trovarli e portarli nelle nostre case, dove, dopo il lungo sodalizio con il cane, serviranno ad addolcire la nostra immaginazione e saranno fonte di eterna gioia.

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La barba di becco



Quand'è primavera, me ne vado in giro lungo i boschi e al riparo delle siepi, per cercare e salutare i primi arrivati. Oh! Quei primi fiori così felici di essere vivi, nuovamente fuori a godersi il sole e il vento - la loro ineffabile vigoria primaverile d'inizio anno, che ci ricorda la nostra infanzia perduta, morti e ormai perduti quei tanti, oscuri e infelici anni, ora ritrovati con quei fiori, nuovamente immortali grazie all'immortalità della primavera!

Non capita forse a tutti noi di provare sentimenti simili durante una passeggiata d'inizio primavera? Perfino un agente di cambio riconosce a vista una primula, e anche per lui è una primula gialla - o forse qualcosa di più. Qualcosa che gli procura un fremito. È come incontrare durante una passeggiata una bambina fatata che al nostro avvicinarsi si gettasse dietro le spalle le trecce lucenti per guardarci in volto con occhi pieni di riso.

A me fanno questo effetto. Guardate quella celidonia, come risplende di gioia e si solleva per incontrarvi a metà strada, lanciando alte le braccia per le tanto attese carezze! Ed ecco il mio caro vecchio piccolo bianco amico, l'aglio selvatico - assiepati tutti allegramente insieme contro il muricciolo; buongiorno e bene arrivati! Lasciate che mi chini per accarezzarli e aspirare il loro caldo alito. È vero che a molti non piace, e distolgono i graziosi nasini mentre il fiore sarebbe felice di baciarli. Ma quando un fiore non ha profumo, come il giacinto e l'aquílegia blu di queste parti, o anche la valeriana rossa, quella stessa valeriana che avvampa di rosa acceso dai mari ai monti, sembra che ami di un amore non caldo come quello dei fiori con un alito profumato - la violetta odorosa e la scilla primaverile, Ia primula gialla e molti altri ancora, la menta d'acqua lungo il ruscello e il mio tanto amato piccolo bianco amico contro il muricciolo.

E quando i primi fiori se ne sono andati via insieme a marzo, aprile e maggio, quand'è pieno giugno, avanzo lentamente nei pascoli lussureggianti (quando il contadino non è nei dintorni) per salutare quelli più alti e, ahimè, a dir loro insieme addio, visto che la falciatrice arriverà presto a tramutarli in fieno. Uno dei vecchi amici che cerco attentamente in questa stagione è la barba di becco, qui il più alto di tutti, alto come le pompose camomille. Non che sia un fiore particolarmente attraente; non l'ho mai considerato bello, lo reputo solo uno dei tanti fiori gialli simili al tarassaco, da noi così comuni. Ed è di fatto all'aspetto un tarassaco di misure ridotte su di un'esile alta pianta, con i fiori, una mezza dozzina circa ciascuna, sorretti da lunghi steli appuntiti. Mi interessa particolarmente per il singolare comportamento poco da fiore e anche per l'altro suo strano nome, e il significato. Non intendo barba di becco, ma il terzo antico nome inglese che ora, come molti altri, è diventato offensivo per le orecchie pudiche, ed è stato ormai da molti anni bandito dai nostri libri di fiori, e persino dai dizionari. Per trovarlo stampato bisogna tornare indietro agli antichi scrittori, non necessariamente a Chaucer, che è veramente il massimo, ma agli elisabettiani. Il nome bandito, comunque, è tuttora in uso nei distretti rurali.

Quanto ho scritto fin qui è tutto quel che potevo dire fino all'estate scorsa su questo fiore giallo e se nei tempi andati chiunque mi avesse detto che sarebbe venuto un giorno in cui la barba di becco mi sarebbe apparsa una vera, deliziosa meraviglia, mi sarei messo a ridere. Eppure, lo scorso giugno, ebbi effettivamente questa strana esperienza.

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