|
|
| << | < | > | >> |IndicePrefazione 11 Cronologia dei pensatori 13 Introduzione 17 §1 Il divenire di Prometeo, 20; §2 Cosmo, cosmologia e cosmotecnica, 28; §3 Rottura tecnologica e unità metafisica, 40; §4 Modernità, modernizzazione e tecnicità, 44; §5 A cosa serve la «svolta ontologica»?, 50; §6 Qualche nota sul metodo, 56 Prima Parte. Alla ricerca di un pensiero tecnologico in Cina 61 §7 Dao e Cosmos: il principio della morale, 63; §8 Techné come violenza, 69; §9 L'armonia e il cielo, 75; §10 Dao e Qi: virtù contra libertà, 82; §10.1 Qi e Dao nel daoismo: il coltello di Pao Ding, 90; §10.2 Qi e Dao nel confucianesimo: ristabilire il Li, 96; §10.3 Osservazioni sulla cosmotecnica stoica e daoista, 102; §11 Qi-Dao come resistenza: il movimento Gu Wen nel periodo Tang, 111; §12 La teoria materialista del ch'i nel primo Neoconfucianesimo, 115; §13 Qi-Dao nell'enciclopedia di Song Yingxing durante la dinastia Ming, 117; §14 Zhang Xuecheng e la storicizzazione del Dao, 124; §15 La rottura di Qi e Dao dopo le guerre dell'oppio, 127; §16 Il collasso di Qi-Dao, 132; §16.1 Carsun Chang: la scienza e il problema della vita, 133; §16.2 Il manifesto per uno sviluppo culturale orientato alla Cina e i suoi critici, 135; §17 Il problema di Needham, 138; §17.1 Il modo di pensiero organico e le leggi della natura, 141; §18 La risposta di Mou Zongsan, 144; §18.1 L'appropriazione dell'intuizione intellettuale di Kant da parte di Mou Zongsan, 144; §18.2 L'autonegazione del Liangzhi in Mou Zongsan, 152; §19 La dialettica della natura e la fine di Xing er ShangXue, 157 Seconda Parte. Modernità e coscienza tecnologica 165 §20 Geometria e tempo, 167; §20.1 L'assenza della geometria nella Cina antica, 168; §20.2 Geometrizzazione e ternporalizzazione, 173; §20.3 Geometria e specificità cosmologica, 178; §21 Modernità e coscienza tecnologica, 183; §22 La memoria della modernità, 190; §23 Nichilismo e modernità, 198; §24 Superare la modernità, 205; §25 Anamnesi del post-moderno, 219; §26 Il dilemma del ritorno a casa, 230; §27 Sinofuturismo nell'Antropocene, 236; §28 Per un'altra storia universale, 245; Note 255 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Alcuni degli appunti su cui sono tornato per scrivere questo libro risalgono alla mia adolescenza, quando ero attratto sia dalla cosmogonia del Neoconfucianesimo che dall'astrofisica contemporanea. Ricordo come, nel corso di diverse estati, ogni settimana andassi regolarmente alla biblioteca centrale di Kowloon con mio fratello Ben e portassi a casa montagne di libri di fisica e metafisica, passando poi tutto il giorno a leggere cose che erano fuori dalla mia portata e che, ai tempi, non sapevo come usare. Per fortuna, approfittavo delle molte discussioni con il mio insegnante di letteratura e calligrafia, il dottor Lai Kwong Pang, che mi aveva introdotto al pensiero del filosofo del Nuovo Confucianesimo Mou Zongsan (1909-1995), suo tutore di dottorato a quel tempo. Quando ho iniziato a studiare la filosofia occidentale, e in particolare il pensiero contemporaneo, sono incappato in grandi difficoltà per integrarla con ciò che avevo precedentemente appreso senza ricadere in una comparazione superficiale e dal sapore esotico. Nel 2009, un incontro con il lavoro di Keiji Nishitani e Bernard Stiegler su Heidegger mi ha suggerito la possibilità di affrontare sistemi filosofici differenti partendo dalla prospettiva della questione del tempo; più di recente, mentre leggevo i lavori dell'antropologo Philippe Descola e del filosofo cinese Li Sanhu, ho iniziato a formulare una domanda concreta: se si ammette che ci siano diverse nature, è possibile pensare a una molteplicità di tecnologie, che differiscano tra di loro non solo funzionalmente ed esteticamente, ma anche ontologicamente e cosmologicamente? Questo è l'interrogativo principale attorno a cui ruota il presente lavoro, nel quale propongo ciò che chiamo «cosmotecnica» come un tentativo di aprire la questione relativa alla tecnologia e alla sua storia - una questione che, per varie ragioni, nell'ultimo secolo è stata chiusa. | << | < | > | >> |Pagina 13| << | < | > | >> |Pagina 17Nel 1953 Martin Heidegger pronunciò la sua famosa conferenza «Die Frage nach der Technik», nella quale annunciava che l'essenza della tecnologia moderna non è affatto tecnologica; piuttosto, riguarda l'imposizione [Ge-stell] - una trasformazione della relazione tra uomo e mondo tale per cui ogni essere è ridotto allo stato di «fondo» o «riserva» [Bestand], qualcosa che può essere misurato, calcolato, e sfruttato. La critica heideggeriana della tecnologia moderna ha inaugurato una nuova consapevolezza del potere tecnologico, che era già stato interrogato da autori tedeschi a lui vicini come Ernst Jünger e Oswald Spengler. Gli scritti di Heidegger posteriori alla «svolta» [die Kehre] nel suo pensiero (solitamente datata attorno al 1930), e questo testo in particolare, dipingono il passaggio dalla technē come poiesis o produzione [«portare alla luce», Hervorbringen] alla tecnologia in quanto Gestell come una conseguenza necessaria della metafisica occidentale, e come un destino che richiede una nuova forma del pensare: il pensare la questione della verità dell'Essere. La critica di Heidegger trovò un pubblico ricettivo in diversi pensatori orientali e in particolare negli insegnamenti della Scuola di Kyoto, così come nella critica daoista della razionalità tecnica che identifica la Gelassenheit heideggeriana con il concetto daoista classico di wu wei o «non-azione». Questa ricettività è comprensibile per diverse ragioni: in primo luogo, i pronunciamenti di Heidegger sul potere e i pericoli della tecnologia moderna sembravano essersi concretizzati con le devastazioni della guerra, dell'industrializzazione e del consumo di massa, portando a un'interpretazione del suo pensiero nei termini di un umanismo esistenzialista, simile a quello degli scritti di metà secolo di Jean-Paul Sartre. Tali interpretazioni risuonavano profondamente con le ansie e il senso di alienazione suscitato dalle rapide trasformazioni industriali e tecnologiche della Cina moderna. In secondo luogo, le meditazioni heideggeriane echeggiavano le dichiarazioni di Spengler sul declino della civiltà occidentale, sebbene in chiave più profonda; in tal senso, si sarebbero potute considerare come un appiglio per l'affermazione di valori «orientali». Simili affermazioni, tuttavia, portano a una comprensione ambigua e problematica della questione della tecnica e della tecnologia, e hanno impedito l'emergere in Oriente di qualsiasi pensiero realmente originale sul tema - con la discutibile eccezione delle teorie postcoloniali. Discutibile, poiché esse implicano una tacita accettazione dell'idea che esista un solo tipo di tecnica e un solo tipo di tecnologia, le quali vengono così considerate antropologicamente universali, come se avessero qualche funzione transculturale, e potessero dunque essere spiegate sempre negli stessi termini. Lo stesso Heidegger non faceva eccezione alla tendenza che vede tecnologia e scienza come «internazionali» - a differenza del pensiero, che non sarebbe «internazionale» ma unico e «domestico». [...] Credo che ci sia urgente bisogno di pensare e sviluppare una filosofia della tecnologia in Cina, per ragioni al contempo storiche e politiche. Nel secolo scorso, la Cina si è modernizzata al fine di «riprendere il Regno Unito e superare gli Stati Uniti» (___, uno slogan proposto da Mao Zedong nel 1957): ora sembriamo arrivati a una svolta, con livelli di modernizzazione tali da permettere alla Cina di situarsi tra le grandi potenze. Allo stesso tempo, esiste un sentimento comune secondo il quale la Cina non può ulteriormente insistere su un simile modello di cieca modernizzazione. La grande accelerazione che ha avuto luogo negli ultimi decenni ha portato anche a varie forme di distruzione: culturale, ambientale, sociale, politica. Ora ci troviamo a vivere, così dicono i geologi, in una nuova epoca - quella dell'Antropocene - che iniziò pressappoco nel XVIII secolo assieme alla Rivoluzione Industriale. Sopravvivere all'Antropocene richiederà una riflessione sulle - e una trasformazione delle - pratiche ereditate dalla modernità, al fine di superare la modernità stessa. Al medesimo compito rimanda anche la ricostruzione della questione sulla tecnologia in Cina che qui si delinea; l'obiettivo è quello di affrontare il concetto di tecnica nella sua pluralità, e di agire come antidoto al programma di modernizzazione attraverso il recupero di una storia del mondo veramente globale. Questo libro è un tentativo che si propone al contempo di rispondere al concetto di tecnica proposto da Heidegger e di abbozzare una via possibile per costruire una filosofia della tecnologia squisitamente cinese. | << | < | > | >> |Pagina 27Qui non intendo semplicemente puntare il dito sull'ovvietà che in Cina, Giappone, India o altrove esistano mitologie differenti sulla creazione e sulla tecnica. Il punto, piuttosto, è che ognuna di queste mitologie configura un'origine distinta della tecnica, che ogni volta corrisponde a relazioni diverse con gli dei, le tecniche, gli umani e il cosmo. A parte alcuni sforzi dell'antropologia nel discutere la variazione delle pratiche attraverso le culture, nel discorso sulle tecniche e sulle tecnologie tali relazioni sono state ignorate, o perlomeno il loro impatto non è stato preso in considerazione. Propongo invece che solo tracciando le linee delle diverse spiegazioni sulla genesi della tecnicità possiamo capire cosa intendiamo quando parliamo di distinte «forme di vita», e dunque di diverse relazioni con la tecnica.Il tentativo di relativizzare il concetto di tecnica sfida tanto gli approcci antropologici esistenti quanto gli studi storici, che si basano sulla comparazione nell'avanzamento sia di singoli oggetti tecnici sia di sistemi tecnici (nel senso di Bertrand Gille ) tra culture e in periodi diversi. Il pensiero scientifico e tecnico emerge sotto condizioni cosmologiche che si esprimono nelle relazioni mai statiche tra gli umani e i loro ambienti. Per questa ragione vorrei chiamare cosmotecnica una simile concezione della tecnica. Uno degli esempi più caratteristici della cosmotecnica cinese è la sua medicina, che per descrivere il corpo usa gli stessi principi e termini presenti nella cosmologia, come Yin-Yang, Wu Xing, armonia, eccetera. | << | < | > | >> |Pagina 29Permettetemi di porre la questione sotto la forma di un'antinomia kantiana: 1) la tecnica è antropologicamente universale, e dato che consiste in un'estensione delle funzioni somatiche e nell'esteriorizzazione della memoria, le differenze prodotte nelle diverse culture si possono spiegare in funzione del grado in cui le circostanze fattuali piegano la tendenza tecnica; 2) la tecnica non è antropologicamente universale: le tecnologie delle diverse culture sono influenzate dalle spiegazioni cosmologiche che ognuna di tali culture si dà, e acquisiscono autonomia soltanto in un quadro cosmologico preciso - la tecnica è sempre una cosmo tecnica. Tentare una risoluzione di questa antinomia sarà il filo di Arianna della nostra indagine.Fornirò qui una definizione preliminare di cosmotecnica: la cosmotecnica esprime l'unificazione tra ordine cosmico e ordine morale attraverso le attività tecniche (benché l'espressione ordine cosmico sia tautologica, dal momento che il termine greco kosmos significa «ordine»). Il concetto di cosmotecnica ci offre immediatamente uno strumento concettuale per superare la convenzionale opposizione tra tecnica e natura, e per comprendere come il compito della filosofia sia quello di cercare e affermare l'unità organica delle due. | << | < | > | >> |Pagina 32Recenti lavori hanno fatto notare come, mettendo in luce un pluralismo di ontologie e cosmologie, l'accurata considerazione delle culture non-occidentali possa indicare una via d'uscita dal frangente moderno. Antropologi come Philippe Descola e Eduardo Viveiros de Castro guardano alle culture amazzoniche per decostruire la separazione europea tra natura e cultura. Allo stesso modo, filosofi come François Jullien e Augustin Berque tentano di comparare la cultura europea con quella cinese o quella giapponese per dipingere un pluralismo profondo, che non risulta facilmente classificabile a partire da semplici schemi, e per reinterpretare i tentativi occidentali di superare la modernità. Nella sua magistrale opera Oltre natura e cultura, Descola non solo suggerisce che la separazione tra natura e cultura sviluppata in Occidente non è universale, ma sostiene anche che tale separazione sia un caso marginale. Descola descrive quattro ontologie: il naturalismo (alla base della separazione natura/cultura), l'animismo, il totemismo e l'analogismo. Ciascuna di queste ontologie inscrive la natura in modi differenti, e si vede chiaramente come la separazione tra natura e cultura, che a partire dalla modernità è stata presa come un dato di fatto, non regga nelle pratiche non-moderne. Descola cita un'osservazione dell'antropologo sociale Tim Ingold , secondo il quale i filosofi raramente si sono chiesti «cos'è che fa dell'uomo un genere particolare di animale?», mentre la domanda preferita sul naturalismo è stata: «qual è la differenza di genere tra uomo e animale?». Ma non si tratta soltanto del caso dei filosofi, spiega Descola: anche gli etnologi cadono nel dogma del naturalismo che insiste sul carattere unico dell'essere umano, e presumono che gli umani si differenzino dagli altri esseri per mezzo della cultura. Nel naturalismo, troviamo una discontinuità a livello dell'interiorità e una continuità a livello della corporeità; nell'animismo, una continuità delle interiorità e una discontinuità delle corporeità. Riproduciamo di seguito la definizione delle quattro ontologie fornita da Descola:_____________________________________________________________________ Interiorità simili Animismo Totemismo Interiorità simili Corporeità distinte Corporeità simili Interiorità distinte Naturalismo Analogismo Interiorità distinte Corporeità simili Corporeità distinte _____________________________________________________________________ Le varie ontologie implicano differenti concezioni della natura e differenti forme di partecipazione; in effetti, come mostra Descola, l'antitesi tra natura e cultura del naturalismo viene rigettata nelle altre concezioni di «natura». Ciò che Descola dice a proposito della natura potrebbe anche essere detto della tecnica, che nei suoi scritti è considerata come «pratica» - un termine che evita la separazione tra tecnica e cultura. Tuttavia, chiamarla «pratica» può oscurare il ruolo della tecnica: ecco perché parliamo di cosmotecnica anziché di cosmologia. | << | < | > | >> |Pagina 36Il compito della prima parte del libro sarà di sviluppare il discorso sul «pensiero correlativo» in Cina e la relazione dinamica tra Qi e Dao. Credo che il concetto di cosmotecnica permetta di tracciare diverse tecnicità, e contribuisca ad aprire una pluralità di relazioni tra tecnica, mitologia e cosmologia, aiutando così ad accettare relazioni differenti tra l'umano e la tecnica, ereditate da differenti mitologie e cosmologie. Di sicuro il prometeismo è una di queste relazioni, ma è altamente problematico considerarlo come universale. In ogni caso, non sto certo proponendo qui di sostenere o difendere alcun tipo di originaria purezza culturale da qualche presunta contaminazione. La tecnica è stata utilizzata come mezzo di comunicazione tra diversi gruppi etnici, il che pone immediatamente in questione qualsiasi possibilità di un'origine assoluta. Nella nostra epoca tecnologica, la tecnica è il motore della globalizzazione - intesa sia come forza di convergenza nello spazio, che di sincronizzazione nel tempo. Nonostante ciò, sarà necessario affermare un'alterità radicale per lasciare spazio all'eterogeneità, e dunque per sviluppare diverse epistemi basate sulle categorie tradizionali della metafisica - un compito che apre la strada alla questione autentica della località. Utilizzo il termine episteme facendo riferimento a Michel Foucault , per il quale denota una struttura sociale e scientifica che funziona come un insieme di criteri di selezione, determinando in questo modo il discorso veritiero. In Le parole e le cose, Foucault introduce una periodizzazione dell'Occidente in tre epistemi: rinascimentale, classica, moderna. Più tardi, Foucault arriverà a pensare che il suo uso del termine episteme abbia condotto a un'impasse, e svilupperà così il concetto più generale di dispositivo. La transizione da episteme a dispositivo è una mossa strategica in direzione di una critica maggiormente immanente, che Foucault poté applicare in un'analisi più contemporanea; già in un'intervista del 1977, più o meno l'epoca della pubblicazione di Storia della sessualità, Foucault proponeva di definire l' episteme come una forma di dispositivo, vale a dire come «il dispositivo strategico che permette di selezionare, tra tutti gli enunciati possibili, quelli che potranno essere accettati all'interno [...] di un campo di scientificità, e di cui si potrà dire: questo è vero, questo è falso». Mi prendo la libertà di riformulare qui il concetto di episteme: a mio avviso, si tratta di un dispositivo che, di fronte alla tecnologia moderna, può essere reinventato sulle basi delle categorie metafisiche tradizionali per reintrodurre una forma di vita e riattivare una località. Tali reinvenzioni possono essere osservate, ad esempio, seguendo le crisi sociali, politiche ed economiche che hanno avuto luogo in ogni epoca in Cina (ma si possono certamente trovare esempi anche in altre culture): il declino della dinastia Zhou (1122-256 a.C.), l'introduzione del buddhismo in Cina, la disfatta del paese nelle Guerre dell'Oppio (1839-1842; 1856-1860), e così via. In ciascuno di questi momenti osserviamo la reinvenzione di un' episterne, che a sua volta condiziona la vita estetica, sociale, politica. I sistemi tecnici che si stanno formando oggi dietro l'impulso delle tecnologie digitali (ad esempio le «smart city», l'«internet degli oggetti», i social network e i sistemi di automazione su ampia scala) tendono verso una relazione omogenea tra umanità e tecnica: quella della quantificazione intensiva e del controllo. Ma questo rende ancora più importante e urgente la riflessione sulla propria storia e ontologia da parte delle diverse culture, così da poter adottare le tecnologie digitali senza essere semplicemente sincronizzati in un' episteme «globale» e «generica».[...] Con tutte le questioni sopra elencate in mente, il presente libro tenta una nuova indagine sulla tecnologia moderna, senza prendere il prometeismo come presupposto fondamentale. Il lavoro è diviso in due parti: la prima vuole essere uno studio storico e sistematico del «pensiero tecnologico» in Cina in comparazione con quello europeo, e si pone dunque come nuovo punto di partenza per comprenderne la posta in gioco e per riflettere sull'urgenza di questa ricerca. La seconda parte è un'inchiesta sulle questioni storico-metafisiche della tecnologia moderna, e mira a gettare nuova luce sull'oscurità che regna in Cina riguardo alla questione tecnologica, in particolare nell'era dell'Antropocene. | << | < | > | >> |Pagina 42In ogni caso, non è mia intenzione affermare che la metafisica tradizionale cinese sia sufficiente e che dovremmo semplicemente tornare a rivolgerci a essa. Al contrario, vorrei mostrare come, sebbene non basti semplicemente riprenderla, è fondamentale iniziare da essa per trovare vie alternative al prometeismo affermativo o alla critica neocoloniale, in modo da pensare e sfidare l'egemonia tecnologica globale. L'obiettivo finale vorrebbe essere quello di reinventare la relazione tra Dao e Qi, situandola storicamente e chiedendoci in che modo tale linea di pensiero possa essere feconda non solo nella costruzione di una nuova filosofia della tecnologia cinese, ma anche nel rispondere all'attuale situazione di globalizzazione tecnologica.Inevitabilmente, un simile compito dovrebbe anche affrontare il martellante dilemma aperto da quello che è noto come il «problema di Needham»: perché scienza e tecnologia moderne non sono emerse in Cina? Nel XVI secolo gli europei erano attratti dalla Cina: dalla sua estetica e dalla sua cultura, ma anche dalle sue tecnologie all'avanguardia. Leibniz , ad esempio, era ossessionato dalla scrittura cinese, in particolare dopo aver scoperto che l' I Ching è organizzato precisamente secondo il sistema binario che egli stesso aveva proposto. Credeva dunque di aver scoperto nella scrittura cinese un metodo combinatorio avanzato. Ma dopo il XVI secolo, la scienza e la tecnologia cinesi sono state spazzate via dall'Occidente. Secondo la visione dominante, la causa di tale cambiamento si deve alla modernizzazione di scienza e tecnologia nell'Europa dei secoli XVI e XVII. Una simile spiegazione è «accidentale», nel senso che si basa su una rottura o su un evento; ma, come cercheremo di dimostrare, è possibile individuare un altro tipo di spiegazione, che parta dal punto di vista della metafisica. | << | < | > | >> |Pagina 47Come affermo nella seconda parte di questo libro, la modernità funziona secondo un'incoscienza tecnologica che consiste in una dimenticanza dei limiti propri a ciascuno, così come descritto da Nietzsche in La gaia scienza: «Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà - e non esiste più "terra" alcuna!». Tale frangente si origina precisamente nella mancanza di consapevolezza degli strumenti che si hanno a disposizione, così come dei loro limiti e dei loro pericoli. La modernità ha fine quando sorge una coscienza della tecnologia, nel doppio senso di una coscienza del potere della tecnologia e della condizione tecnologica dell'essere umano. Per affrontare le questioni sollevate da Nishitani e Mou Zongsan, occorre articolare la questione del tempo e della storia con quella della tecnica, per aprire un nuovo campo ed esplorare un pensiero che permetta di connettere l'ontologia noumenica con l'ontologia fenomenica.| << | < | > | >> |Pagina 49Al pari di diversi suoi contemporanei - tra i quali Bruno Latour -, Lyotard è uno dei rappresentanti del secondo tentativo fatto dagli intellettuali europei di andare oltre la modernità. Il primo tentativo si situa all'incirca all'epoca della Prima Guerra Mondiale, quando gli intellettuali divennero coscienti del declino dell'Occidente e della crisi che si stava affacciando nei campi della cultura ( Oswald Spengler ), della scienza ( Edmund Husserl ), della matematica (Hermann Weyl), della fisica ( Albert Einstein ) e della meccanica ( Richard von Mises ). Parallelamente, l'Asia orientale vedeva emergere la prima generazione di Nuovi Confuciani (Xiong Shili, il maestro di Mou Zongsan, e Liang Shuming) e intellettuali come Liang Qichao e Zhang Junmai, così come la Scuola di Kyoto (con la sua grande influenza tedesca), per arrivare infine, verso gli anni Settanta del Novecento, alla seconda generazione di Nuovi Confuciani - tutti accomunati dal tentativo di affrontare le stesse domande. In ogni caso, così come la prima generazione di Nuovi Confuciani, nessuna di tali correnti mise in dubbio l'approccio idealista alla modernizzazione, evitando così di conferire alla questione della tecnologia lo status filosofico che avrebbe meritato. In Europa stiamo ora assistendo a un terzo tentativo, con antropologi del calibro di Descola e Latour, che hanno cercato di sfruttare l'avvento dell'Antropocene come un'opportunità per superare la modernità verso un pluralismo ontologico. Parallelamente, anche in Asia possiamo notare gli sforzi di alcuni intellettuali che tentano di comprendere la modernità senza appoggiarsi al discorso europeo - in particolare, la scuola Inter-Asiatica fondata da Johnson Chang e altri.| << | < | > | >> |Pagina 55Questo libro vorrebbe offrire un altro punto di vista, usando la Cina come un esempio per descrivere l'«altra faccia» della modernità, e magari offrire alcune sensazioni rispetto al programma corrente di «superare» o «resettare» la modernità nell'era della digitalizzazione e dell'Antropocene. Ritornare a categorie antiche e proporre il concetto di cosmotecnìca non significa affatto presentare «verità» o «spiegazioni». Il sapere scientifico contemporaneo conferma che molti modelli di pensiero antichi sono zeppi di malintesi, e su queste basi un certo scientismo potrebbe anche rifiutare in pieno la questione dell'Essere così come quella del Dao. Occorre tuttavia riaffermare che, con la traiettoria che questo libro traccerà, ciò a cui ambisco è reinventare una cosmotecnica, e non semplicemente tornare a credere in una cosmologia. Non auspico nemmeno un ritorno alla natura, come potrebbero credere i molti che leggono la filosofia ionica o la filosofia daoista come filosofia della natura; piuttosto, l'obiettivo è riconciliare tecnica e natura, come Simondon ha proposto nella sua tesi sulla genesi della tecnicità.[...] Lo stesso principio vale per la traduzione di termini che si riferiscono a dottrine come il dualismo e il materialismo. Ad esempio, non sarebbe corretto intendere lo Yin-Yang come un dualismo nel senso in cui utilizziamo questa nozione in Europa, ossia, generalmente, per riferirci a due entità opposte e discontinue: mente-corpo , natura-cultura , essere-nulla. Una simile forma di dualismo non è dominante in Cina, e Ying-Yang non sono concepiti come entità discontinue. Allo stesso modo, nella metafisica cinese non esiste potenzialmente nessun problema nel riconoscere che l'essere procede dal nulla, come già affermato nei classici daoisti. In Europa, invece, la creazione ex nihilo è riservata al potere divino, dal momento che è scientificamente impossibile: ex nihilo nihil fit. È stato soltanto quando Leibniz ha introdotto la questione «Perché esiste qualcosa invece che niente?», successivamente ripresa da Heidegger per spiegare il significato dell'Essere, che il problema di quest'ultimo ha iniziato a essere esaminato nella filosofia occidentale. [...]
L'approccio qui utilizzato si distacca dunque da quello della
critica postcoloniale, per puntare semmai verso una critica
materialista. Il materialismo a cui faccio riferimento non è
certo quello che oppone materia e spirito: piuttosto, punta a
privilegiare pratiche e costruzioni materiali per raggiungere
una comprensione cosmologica e storica della relazione tra
tradizionale e moderno, locale e globale, Oriente e Occidente.
|