Copertina
Autore Will Hutton
Titolo Europa vs. Usa
SottotitoloPeché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa
EdizioneFazi, Roma, 2003, Le terre Interventi 61 , pag. 416, dim. 160x230x30 mm , Isbn 978-88-8112-453-4
OriginaleThe World We're In [2002]
PrefazioneGuido Rossi
TraduttoreFabrizio Saulini
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe economia politica , politica , sociologia , storia contemporanea , globalizzazione , lavoro , paesi: Gran Bretagna
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Indice

Prefazione di Guido Rossi                     7
Prefazione all'edizione italiana             14

EUROPA VS. USA

Introduzione                                 23
1.  Il salvataggio                           27
2.  I custodi della luce                     66
3.  Una guerra senza spargimento di sangue:
    il crollo dei liberal                    99
4.  L'avidità è davvero un bene?            128
5.  A coloro che hanno già sarà dato        156
6.  La globalizzazione conservatrice        183
7.  La Gran Bretagna nell'abbraccio mortale
    americano                               211
8.  L'Europa funziona                       238
9.  Fratelli di sangue                      257
10. L'idea di Europa                        283
11. Il contrattacco                         307
Conclusioni                                 341
Note                                        359
Riferimenti bibliografici                   379
Nota bio-bibliografica
    di Massimiliano Panarari                393
Indice analitico                            403

 

 

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Pagina 23

Introduzione



Con il varo dell'euro e l'irrigidirsi, da parte americana, di un unilateralismo sempre più autoreferenziale in difesa di quella che il Partito Repubblicano chiama ormai la «madrepatria», i rapporti fra Stati Uniti ed Europa sono destinati a diventare via via più tesi. Ci troviamo di fronte a due giganteschi blocchi di potere che incarnano due diverse visioni di come l'economia di mercato e la società debbano essere governate, e a due differenti concezioni che riguardano il modo in cui i grandi valori globali - la pace, il commercio, gli aiuti, la sanità, l'ambiente e la sicurezza - possano essere conquistati e preservati. La relazione fra i due blocchi è il fulcro intorno al quale ruota l'intero ordine mondiale. Se gestita in modo efficace, può essere una grande forza virtuosa; se gestita male, può essere la fonte di danni incalcolabili.

La Gran Bretagna è di fronte a una scelta fondamentale: con chi schierarsi. L'integrazione europea sta accelerando, l'euro è in circolazione da più di un anno e, nel dicembre 2001, durante il summit di Laeken, i vari Stati hanno raggiunto un accordo per l'istituzione di una convenzione incaricata di studiare le linee guida di una Costituzione europea prima della conferenza intergovernativa del 2004. La questione della scelta inglese si porrà soltanto se e quando il governo deciderà di indire un referendum sull'euro. Ma si tratta di un problema che va ben oltre la semplice questione se la Gran Bretagna debba o meno aderire alla moneta unica. La vera domanda è: da quale parte gli inglesi vorranno far pendere l'ago della bilancia? Questa domanda, a sua volta, ne genera un'altra: a quali valori dovrebbero ispirarsi gli inglesi nella costruzione del loro modello economico e sociale? Quanto gli inglesi si sentono europei, e quanto hanno in comune con un'America sempre più schiava della sua particolarissima forma di conservatorismo?

Questa domanda sorge proprio mentre in Gran Bretagna la vita politica pare adagiarsi su una sorta di centrismo tecnocratico. Non si registrano grandi movimenti politici o temi di forte presa sul pubblico. Fra i votanti regna l'apatia. I leader britannici sono animati da buone intenzioni, ma non sembrano avere idea di come rianimare la fiducia nella politica e nella partecipazione pubblica. Come sostengo nel primo capitolo di questo libro, l'idea stessa di collettività è in declino. Sembra quasi che l'esercizio della cittadinanza sia caduto in disuso.

Eppure in gioco ci sono questioni di grande importanza. I termini del contratto sociale su cui si basa la convivenza civile non sono mai stati tanto in discussione, né considerati una simile fonte di controversie. I ricchi diventano sempre più ricchi, mentre le condizioni di chi è svantaggiato continuano ad aggravarsi. Le pari opportunità, soprattutto in tema di ricchezza e reddito, sono una chimera. I servizi pubblici sono inadeguati. E gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 sono un terrificante monito riguardo alle atrocità che possono nascere dall'odio fra culture, oltre che un avvertimento del bisogno urgente di trovare una qualche forma di soluzione internazionale (accompagnata dalle corrispettive politiche) che riduca e, auspicabilmente, elimini il rischio del ripetersi di una simile tragedia.

Questo libro cerca di dare una risposta a queste preoccupazioni. È una critica profonda del conservatorismo americano - la corrente politica oggi egemonica - e del suo impatto sugli Stati Uniti stessi e sul mondo. Allo stesso tempo, mira a deviare il fiume di critiche che si riversa ogni giorno sull'Europa e a sconfessare l'assunto secondo cui gli Stati Uniti rappresentano il termine di paragone di tutte le virtù. Essi sono, in realtà, una nazione attraversata da gravi problemi economici e sociali, il cui modello di democrazia (i voti e le cariche pubbliche sono divenuti sempre più oggetto di compravendita) costituisce un'offesa ai suoi stessi ideali fondamentali. Per contrasto, il capitalismo europeo e il suo relativo modello sociale e democratico hanno molto da offrire. Il Vecchio Mondo, nonostante la vulgata internazionale affermi il contrario, ha parecchio da insegnare al Nuovo.

Questo, dunque, è un libro in favore dell'idea di Europa. Dal mio punto di vista, la battaglia per l'unità europea è uno dei progetti più coinvolgenti e cruciali del nostro tempo. Innanzitutto, è di vitale importanza che esista una forza capace di fare da contrappeso allo strapotere degli Stati Uniti e di proporre una leadership autenticamente multilaterale che si ponga come obiettivo la salvaguardia dei valori internazionali. Ma la battaglia per l'unione è anche un mezzo per far crescere e affermare i valori fondanti dell'Europa stessa. È un modo per ravvivare l'interesse nei confronti della politica e dell'idea di collettività e, indirettamente, per rimettere in marcia l'economia e costruire una società meno iniqua. Noi inglesi siamo molto più europei di quanto non pensiamo, e ritengo che la nostra alleanza con gli Stati Uniti - per quanto ci leghino la storia e la lingua - debba essere rivista alla luce della nostra vocazione a far parte del Vecchio Continente. La mia idea, ovviamente, è che la Gran Bretagna dovrebbe entrare nell'euro.

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Pagina 28

Lo sterile trionfo dei conservatori

È così che ci siamo abituati ad accettare il curioso sillogismo secondo il quale i diritti della proprietà e della libertà di commercio vengono prima dell'affermazione di ogni interesse pubblico o problema sociale. Questo perché si suppone che essi siano gli unici valori in grado di garantire la creazione di ricchezza e occupazione: dunque, mettendoli a repentaglio i cittadini perderebbero più di quanto non guadagnerebbero battendosi pubblicamente per l'interesse comune. La legge della proprietà privata regna sovrana. In un clima simile, la tassazione è vista come una confisca di qualcosa che dovrebbe appartenere solo a noi: un fardello intollerabile che va assolutamente ridotto. Gli interessi sociali, pubblici e collettivi sono dipinti come nemici della prosperità e dell'autonomia privata e, peggio, come contrari alle fondamenta morali della società, che dovrebbe essere basata sull'assoluta ed esclusiva responsabilità dell'individuo nell'esercitare i suoi diritti e nel farsi carico dei suoi doveri.

Mantenere scuole, università, ospedali, pensioni, welfare, persino i trasporti pubblici, sta diventando una battaglia vera e propria, da combattere nelle fauci di un'opinione generale da tempo orientatasi a considerare la tassazione alla stregua di un male economico e morale. È diventato impossibile sostenere che la creazione di ricchezza appartiene tanto alla sfera individuale che a quella sociale, oppure che un'azienda è qualcosa di più che una macchina per fare soldi e per massimizzare i profitti. Non è il capitalismo ad essere al nostro servizio: siamo noi al suo servizio.

Questa non è un'ideologia sostenibile, né tantomeno utile. Non solo perché le strutture pubbliche e il contratto sociale rivestono un'importanza fondamentale, e perché una società che si modelli in modo da permettere ai ricchi di autoperpetuarsi all'infinito lasciando i poveri intrappolati sul fondo offende i più elementari canoni di giustizia. Il punto centrale è che lo stesso modello economico che ne risulta non funziona. In realtà, le aziende che prosperano a lungo sono quelle la cui missione va oltre la massimizzazione dei profitti immediati degli azionisti. La forza lavoro più produttiva e creativa è quella formata da lavoratori che non vengono trattati come mezzi di produzione ma sono rispettati quali esseri umani. Le imprese traggono beneficio dall'infrastruttura pubblica della quale fanno parte e al cui interno vendono beni e servizi. Più forte è la società di un paese, più forte è la sua business community.

Le debolezze della nostra civiltà, che si è ormai votata alle posizioni conservatrici, antitetiche alla sua stessa ispirazione di fondo, risultano ogni giorno più evidenti. La supremazia della legge del mercato implica ormai che il lavoro, il tenore di vita e i rapporti vivano in un perpetuo stato di precarietà: sempre meno protetti dalle istituzioni pubbliche o da sistemi di condivisione del rischio, dipendono dai capricci di un mercato sempre più volubile. Lo spirito civico è assediato da una società del mercato che ci rende estranei l'uno all'altro. Mentre il nostro orizzonte pubblico si restringe, cerchiamo appagamento e consolazione nel privato, ma non per nostra scelta. Semplicemente, ci accorgiamo ormai che ogni impegno personale, a meno che non miri a consolidare il primato dei valori del mercato e a indebolire quelli della collettività, è perfettamente inutile.

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Pagina 32

Quella della giustizia, e di come essa si esprime a livello economico e sociale, è diventata la questione centrale dei nostri tempi. Il rifiuto da parte dell'America conservatrice di prendere in considerazione qualsiasi interpretazione che non sia la propria non rappresenta soltanto un'offesa ai valori democratici. L'adozione del metro americano come standard internazionale, consolidato attraverso i meccanismi della finanza, delle multinazionali, della superiorità militare e dell'egemonia culturale, oltre che dalla debolezza dei sistemi internazionali di governance, costituisce una seria minaccia per il futuro.

La lezione dello scorso decennio, e il monito per il secolo appena cominciato, è che il mondo ha bisogno di un ordine più sottile e sofisticato. La sicurezza, la prosperità e la giustizia sono un patrimonio collettivo mondiale. Non possono dipendere dai dettami di un singolo Stato, né possono passare in secondo piano rispetto a quello che un singolo Stato considera il proprio interesse. Al contrario, dovrebbero essere garantiti a livello internazionale attraverso il riconoscimento dell'interdipendenza fra gli Stati. All'interno della globalizzazione dovrebbe inoltre esserci spazio per la diffusione di diverse culture e di differenti approcci al capitalismo. Non possiamo tutti conformarci ai principi del conservatorismo americano. In altre parole, il mondo ha bisogno di organizzarsi secondo un diverso sistema di valori e una leadership che dimostri una maggiore generosità e più rispetto delle diversità di quella rappresentata dalla destra americana. L'unico blocco che dispone di sufficiente forza politica ed economica per perseguire questo obiettivo è l'Europa, sulla quale incombe una nuova sfida. Ci sono ragioni sufficienti perché il Vecchio Continente preservi e protegga la sua visione del capitalismo e il contratto sociale su cui è fondata. Ma ora l'Europa ha anche la responsabilità globale di porsi come contraltare agli Stati Uniti nella costruzione di un ordine mondiale più illuminato e progressista.

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Pagina 52

Questa, dunque, è l'America contemporanea. Per quanto ricca e intraprendente, si rivela economicamente instabile, profondamente iniqua e molto meno produttiva di quanto le sue immense risorse le consentirebbero. La democrazia americana, una delle più grandi conquiste del secolo dei Lumi e autentica stella polare per le società di tutto il mondo, ricorda oggi l'Europa preilluministica, alla quale l'accomuna la dipendenza dal denaro e dal potere privato. È un paese "ordinato" nel quale i cittadini si sparano regolarmente addosso e in cui il fanatismo religioso fa il paio con quello consumistico. È una terra di individualisti che si preoccupano esclusivamente della ricerca della propria felicità personale perché la collettività è corrotta e svuotata di ogni significato. È un paese arrivato al limite, con un'economia in bilico. E su tutto grava l'ombra di un razzismo endemico e tenace, eredità irrisolta della schiavitù e della guerra civile.

Il sogno americano consiste nella ricerca della vita, della libertà e della felicità. Ebbene, il divario fra sogno e realtà si allarga ogni giorno, con risvolti sempre più amari. Oggi l'America abbandona a se stessa quasi la metà dei suoi cittadini, permeata di un cinismo e di una retorica culturale che fanno a pugni con la realtà. È già difficile sostenere che sia un modello economico e sociale desiderabile all'interno dei confini nazionali. Provare a esportarlo è francamente ridicolo.

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Pagina 60

Gli europei sono diversi

Non è solo la geografia a definire la Gran Bretagna come un paese europeo. Alla base c'è un sistema di valori nato dalla condivisione delle medesime esperienze storiche. Dalle conquiste degli antichi romani alla lotta contro il socialismo, la storia inglese degli ultimi duemila anni rispecchia quella del resto dell'Europa. La storia conta. Gli europei, per esempio, non possono condividere l'indifferenza dei conservatori americani per le diseguaglianze di reddito, proprietà e ricchezza. L'Europa cattolica del feudalesimo, di cui la Gran Bretagna faceva parte, si fondava sull'idea che la ricchezza e la proprietà fossero vincolate a una serie di profondi obblighi sociali reciproci; è stata proprio questa visione etica a ispirare in parte le idee socialiste sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e sul rispetto dei diritti dei lavoratori. Per quanto il cristianesimo - o almeno la Chiesa - e il socialismo siano entrambi in declino come filosofie dominanti, l'etica che li sottende continua a sopravvivere. Nessun popolo in nessuno degli Stati europei condivide l'idea della maggioranza degli americani che il governo non dovrebbe redistribuire il reddito: il 63 per cento degli inglesi, per esempio, è favorevole alla redistribuzione, contro il 28 per cento appena degli americani. Sono numeri importanti, che fanno parte di un complesso di valori fortemente radicati.

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Pagina 67

In primo luogo, in Europa la proprietà non è vista come un diritto assoluto, a differenza di quanto accade negli Stati Uniti. Essa, anzi, è considerata un privilegio che implica una serie di obblighi reciproci: come recita l'articolo 13 della Costituzione della Germania postbellica, «la proprietà impone dei doveri. Il suo uso deve anche servire il bene pubblico». Chi detiene e dispone della proprietà è un membro della società, e la società ha una dimensione pubblica alla quale egli è tenuto a contribuire in ragione del privilegio dell'esercizio dei suoi diritti di proprietario. Questa concezione dell'obbligo sociale, peraltro, non si limita alla proprietà. Nell'intera Europa, infatti, è radicata la profonda convinzione che tutti i cittadini debbano avere lo stesso diritto di partecipare alla vita economica e sociale, e che lo Stato rappresenti qualcosa di ben più importante di una rete di salvataggio funzionante come ultima risorsa. Lo Stato è considerato lo strumento fondamentale per perseguire l'eguaglianza. Le istituzioni da condividere, dunque, non sono solo quelle che garantiscono l'ordine sociale e la difesa (tribunali, prigioni ed esercito, tra le altre), come sostengono i conservatori in America, ma anche - nella visione europea - ospedali, scuole, università, servizi di pubblica utilità e persino la conoscenza scientifica. A garantire che a tutti venga assicurato lo stesso livello di appartenenza e partecipazione è un'infrastruttura finanziata dallo Stato. Questo principio si estende pure al concetto di solidarietà sociale, o «fraternità», come recita la Costituzione francese, uno dei tre valori fondanti della repubblica nati dalla rivoluzione, insieme alla libertà e all'uguaglianza; un'assunzione di impegno, dunque, che in un certo senso parla per tutto il continente. "Fraternità" significa che gli europei credono nel prendersi cura l'uno dell'altro per cautelarsi contro i rischi della vita: ecco perché la spesa sociale in Europa supera del 50 per cento quella statunitense.

Tutto questo implica un ruolo molto più vasto per il pubblico e lo Stato di quanto l'America conservatrice potrebbe mai ammettere. Per gli europei, infatti, lo Stato e il governo non possono essere dipinti tanto facilmente quali nemici del popolo, come avviene negli Stati Uniti (sebbene vi siano crescenti perplessità sulla loro efficacia e affidabilità); essi sono visti piuttosto come i detentori dei valori pubblici e come gli strumenti attraverso cui tali valori si esprimono. Gli europei, per esempio, si attendono che lo Stato finanzi la ricerca scientifica, oppure che sia proprietario di mezzi di comunicazione e offra un servizio pubblico radiotelevisivo, proprio come si aspettano che utilizzi il fisco per finanziare la difesa e l'istruzione. La collettività va oltre lo Stato, ma si può dire che lo Stato ne costituisca la componente più importante, perché tutela tutto ciò che la società ha in comune.

Il punto di vista conservatore è che questo complesso di valori sia inefficiente economicamente e controproducente dal punto di vista sociale e immorale, poiché mina l'individualismo e ostacola le naturali spinte del capitalismo competitivo. Io sostengo il contrario. Naturalmente, alcune particolari manifestazioni di questi principi possono essere imperfette e suscettibili di riforme, ma il sistema di valori alla base è perfettamente coerente con un'economia di mercato efficiente e prospera. In un certo senso, la discussione è persino inutile: questi valori sono così profondamente radicati che gli europei non potrebbero disfarsene neanche se lo volessero. Sono valori che definiscono l'essere europei (la Europeanness). Il punto è che non c'è alcun bisogno di cambiarli. A un esame più attento, infatti, le critiche dell'America conservatrice si dimostrano senza fondamento: il capitalismo all'europea, alla lunga, è produttivo quanto quello americano e in più rispetta le regole fondamentali di convivenza di un ordinamento civile e sociale giusto. Quando spiegheremo quali sono questi valori, emergerà in modo ancora più evidente a quale civiltà appartenga la Gran Bretagna. Quella europea.

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Pagina 71

L'Europa feudale, nata dal cristianesimo, si fondava dunque sul sistema di valori che in seguito avrebbe dato vita al concetto di uguaglianza di fronte alla legge e all'idea che l'esercizio dei privilegi conferiti dalla ricchezza derivi da una serie di obblighi sociali che vanno oltre la carità. I baroni esercitavano sì l'autorità politica delegata dal re, ma le loro terre erano soggette a venir messe al servizio del bene comune se il sovrano lo decideva. Ciò poteva avvenire mettendo a disposizione uomini e munizioni per difendere il principato, oppure attraverso tributi regolari che servivano a sostenere i costi dell'amministrazione dell'ordine e della giustizia. Alla sua morte, poi, il barone non poteva certo aspettarsi che le terre passassero ai suoi eredi senza il pagamento di un tributo, quello che oggi in Europa si chiama tassa di successione e che i conservatori in America descrivono come "tassa sulla morte". In realtà, i giuristi dell'Europa feudale la vedevano piuttosto come una tassa sulla vita: un tributo per il bene comune, attraverso il quale si riconosceva che la terra era un privilegio e che questa sorta di imposta sulla morte era fondamentale per la soprawivenza della comunità. Si tratta di una distinzione cruciale, che conserva la sua rilevanza ancora oggi.

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Pagina 81

L'Europa, al contrario, ha continuato a coltivare e a salvaguardare un modello distinto e fedele ai suoi valori. Questo modello non si pone solo l'obiettivo di scongiurare ogni futura tentazione comunista o fascista, ma costituisce l'unica strada percorribile dal capitalismo europeo per ottenere una legittimazione definitiva. L'idea che la proprietà debba conquistarsi i suoi diritti attraverso il riconoscimento di una serie di responsabilità verso la comunità, infatti, fa parte di una tradizione che parte da san Giovanni Crisostomo e passa da Robert Owen fino ad arrivare al programma di Erfurt, ed è una tradizione che comprende anche la Gran Bretagna. Di conseguenza, l'idea che un'azienda per commerciare debba ottenere una licenza vincolata a una condotta socialmente legittima e all'accettazione delle responsabilità che derivano dalla proprietà è ancora molto viva in Europa. La proprietà non è un diritto o una semplice rete di contratti, ma una concessione fatta dalla società, e come tale deve essere continuamente guadagnata e meritata. E così i lavoratori si battono per un giusto trattamento, che va dall'adeguamento dei salari al riconoscimento dei propri diritti all'interno dell'azienda. Analogamente, la tassazione progressiva (tassa sulla proprietà inclusa) è considerata indispensabile per finanziare un sistema sanitario universale e la pubblica istruzione.

L'approccio dell'Europa alla proprietà, dunque, è diverso da quello americano. Ciò non dipende solo dall'esperienza della guerra e del totalitarismo, o dalle eredità lasciate dal cattolicesimo e dal socialismo, ma si rivela inestricabilmente legato a una distinta concezione europea dell'eguaglianza, della solidarietà sociale e della legittimità stessa della sfera pubblica. Si tratta di una distinzione essenziale, ed è altrettanto fondamentale che l'Europa continui a rispondere alla questione della proprietà alla sua maniera. Chissà che nel prossimo secolo l'America non la prenda a prestito dall'Europa.

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Pagina 156

5. A coloro che hanno già sarà dato



Quella americana è la società più iniqua dell'Occidente industrializzato. Il 20 per cento degli americani più ricchi guadagna nove volte più del 20 per cento più povero, il doppio di quanto accade in paesi come il Giappone, la Germania e la Francia. La percentuale di poveri (il 19,1 per cento) è la più alta di tutte le nazioni industrializzate. Il 10 per cento più povero, pur vivendo in una società complessivamente più ricca, possiede ancor meno che in Europa, in Canada e in Giappone, con la sola Gran Bretagna a rubare agli Stati Uniti l'onta dell'ultimo posto. Per contrasto, le élite raggiungono livelli di ricchezza e reddito astronomici. L'America vanta circa tre milioni di milionari, e l'1 per cento più ricco della popolazione detiene il 38 per cento della ricchezza complessiva del paese; ancora una volta, si tratta della concentrazione più elevata di tutto l'Occidente.

Dagli anni Ottanta in poi, la società americana, già segnata da profonde diseguaglianze, è diventata ancora più iniqua. Il reddito familiare medio ha risentito pesantemente del crollo dei salari reali dei lavoratori dell'industria (una tendenza, questa, particolarmente marcata presso il 20 per cento più povero della popolazione). Nel frattempo, i salari delle fasce a più alto reddito sono esplosi, aiutati pure dai tagli alle tasse di Reagan nel passato e di Bush figlio adesso. È vero che il calo della disoccupazione durante la ripresa economica della fine degli anni Novanta ha visto crescere i salari reali dei lavoratori dipendenti per la prima volta dopo vent'anni; intanto, però, i redditi dell'americano medio cadevano sotto la scure delle diverse ondate di ridimensionamenti imposti dalle imprese. Forse il tasso di crescita della diseguaglianza fra le fasce più alte e le più basse del reddito ha rallentato, ma si è ampliato quello fra la fascia di mezzo e le più alte della piramide sociale.

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... esacerbata dalla flessibilità del mercato del lavoro

La parola magica, in un'economia di mercato ossessionata dal profitto degli azionisti, è "flessibilità". Il concetto assume addirittura una connotazione nobile: flessibilità è sinonimo di agilità, adattabilità, intelligenza e senso di responsabilità. È difficile trovare nel lessico americano una parola che incorpori tante virtù. La flessibilità è ciò che fa funzionare un'economia di mercato. Il capitale finanziario è mobile e flessibile: non giura lealtà a nessuno né la pretende; il suo compito è andare alla ricerca dei ritorni più alti possibile. Su questa falsariga, negli ultimi trent'anni, le imprese hanno cercato sempre più tale caratteristica nella forza lavoro. Quando un'azienda sceglie di ridimensionare un ramo produttivo, ha bisogno di flessibilità per compiere l'operazione nel modo più rapido ed economico possibile. Se invece decide di incrementare la produzione, deve poterlo fare in modo tale che, di fronte a un eventuale variare delle condizioni del mercato, risulti possibile disinvestire rapidamente per rispondere alle mosse dei mercati finanziari. Assumere un dipendente non è più un contratto che prevede obbligazioni reciproche fra le parti, ma una sorta di scommessa da cui il datore di lavoro deve poter - "flessibilmente" - ritirarsi a suo piacimento.

Il diritto del lavoro in America è sempre stato molto aggressivo. Una sentenza del 1884 della Corte Suprema del Tennessee (sulla quale è stato costruito un precedente) stabilisce che un'azienda «può decidere a suo piacimento se licenziare o tenere un dipendente, per una giusta causa o senza causa, o anche per una causa ingiusta, senza per questo essere colpevole di un atto illecito di per sé». Per lungo tempo questa dottrina è stata ferocemente contestata come dickensiana, tanto che negli ultimi venticinque anni la maggior parte degli Stati aveva stabilito delle deroghe al principio generale. Di fronte alle decisioni dei tribunali, largamente a favore dei diritti dei lavoratori, le imprese hanno reagito cercando in ogni modo di riaffermare la vecchia dottrina, sia in teoria che in pratica. Più dei tre quinti dei datori di lavoro ammettono che a volte non offrono ai lavoratori alcun contratto di impiego, e più della metà inserisce nei contratti una clausola in cui si specifica che il rapporto può essere interrotto sommariamente per qualsiasi ragione.

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La risposta è che, in una società ripiegata su se stessa come quella americana, nessuno riesce ad accettare il fatto che i paesi stranieri possano fare altrettanto bene o addirittura meglio degli Stati Uniti, e l'accordo tacito fra gli intellettuali conservatori è non smentire questo assunto. Questo aspetto va sottolineato. I dati storici mostrano che già nella prima metà del XX secolo i tassi di mobilità sociale e di reddito in America erano modesti, se confrontati con gli standard internazionali, e nel dopoguerra le cose non sono migliorate. Attualmente la combinazione fra un mercato del lavoro sempre più flessibile e la riduzione delle opportunità di istruzione per gli studenti a basso reddito (i due principali risultati della dottrina conservatrice) può portare a un solo risultato: in futuro, la mobilità si rivela destinata a diminuire ancora.

Oltre a costruire un'aristocrazia dei ricchi, l'America sta coltivando il servaggio dei poveri e, così facendo, mette a rischio la vitalità della sua economia. Questa sarebbe una delusione non solo per il paese, ma per tutto il mondo che negli Stati Uniti vede un modello sociale ed economico da emulare.

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Il tasso di crescita occupazionale negli ultimi vent'anni resta di certo un risultato rilevante, ma sarebbe sbagliato presentare il mercato del lavoro in America come la pietra filosofale della creazione di nuovi impieghi. Si è trattato di un risultato particolare, raggiunto in un periodo peculiare. Per fare un esempio, il lavoro a tempo pieno nel settore manifatturiero, sebbene fortemente sindacalizzato, negli ultimi vent'anni è stato all'altezza degli standard internazionali grazie a una forte crescita della domanda interna. Ancora una volta, non si tratta tanto della struttura del mercato del lavoro, quanto piuttosto della performance dell'economia nel suo complesso. Ma, soprattutto, clienti del credito che ha fatto crescere i consumi (fondamentalmente insieme all'occupazione) sono state in gran parte le fasce medie della popolazione, anche quando i loro salari in termini reali si sono assottigliati. Oggi questi lavoratori medi hanno prospettive economiche estremamente incerte e un enorme debito cumulativo sulle spalle. Già estinguere il debito esistente sarà un'impresa, figuriamoci contrarne di nuovo. La grande macchina creatrice di posti di lavoro è arrivata al limite della sua capacità produttiva.

In questo quadro, l'asimmetria di poteri fra datori di lavoro e dipendenti avrà conseguenze ancora più disastrose. Persino coloro che hanno goduto dei benefici della "guerra dei talenti" di fine anni Novanta, quando la domanda superava l'offerta, stanno scoprendo che nei tempi difficili le insicurezze aumentano. Chi lavora per le imprese teme il downsizing e un nuovo giro di ridimensionamenti da cui nessuno, e a nessun livello, è al riparo. Tutti sono sotto pressione, a rischio e isolati in un'economia dove i contratti precari la fanno da padrone. Gli orari lavorativi continuano ad allungarsi. La risposta è che questo costituisce il prezzo da pagare per un'economia efficiente e dinamica che genera opportunità per tutti e mobilità. Ma si tratta di una risposta truffaldina. D'ora in poi, c'è da scommettere che il punto di vista conservatore verrà sottoposto a uno scrutinio molto più attento.

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Il crollo della sfera pubblica

Il problema è che il contesto politico in cui si sviluppa ogni dibattito è stato degradato per mano degli stessi conservatori: nelle parole di Michael Sandel, gli Stati Uniti di oggi sono poco più di una «repubblica procedurale». La continua intrusione del mercato e dei suoi valori ha invaso e inquinato la natura stessa del processo politico. Al declino della partecipazione diretta dei cittadini alla politica si è accompagnata una gigantesca estensione del potere delle imprese, aiutate in questo dalla corsa ai finanziamenti da parte dei partiti. Il denaro, come ha dimostrato il miliardario Michael Bloomberg comprando di fatto la poltrona di sindaco di New York nel 2001, è diventato il nodo centrale del successo in politica.

Man mano che la politica si è centralizzata e ha affidato ai media il compito di diffondere i propri messaggi, il costo delle elezioni in America è esploso. La comunanza di interessi fra il mondo imprenditoriale e il Partito Repubblicano (descritta nel terzo capitolo) ha dato a quest'ultimo un vantaggio decisivo nella corsa ai finanziamenti. Nel 1997, l'81 per cento di coloro che contribuiva alle campagne di partiti e candidati guadagnava più di 100.000 dollari l'anno e aveva più di 45 anni; per metà si definivano conservatori, solo un terzo si descriveva come liberal.

[...]

Come abbiamo già visto nel primo capitolo, negli ultimi vent'anni ogni elezione presidenziale è stata vinta dal candidato capace di raccogliere più denaro. Se il compito di un sistema politico democratico è fornire i mezzi e gli strumenti attraverso i quali un paese può esercitare un dibattito pubblico e razionale in nome dell'interesse generale e sottoporre i politici al giudizio delle urne, allora gli Stati Uniti rappresentano un fallimento completo. Hanno la forma della democrazia senza averne il contenuto.

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[...] Ma non è solo questione di quantità dell'informazione: nel nome dell'audience, infatti, gli eventi vengono raccontati o in modo anestetizzato o in modo aggressivo e provocatorio. Non è un caso, quindi, che nei notiziari la politica venga sempre più spesso soppiantata dai "casi umani", dagli scandali e dalle storie sui VIP. I servizi sono sempre più brevi e caratterizzati da uno stile ruffiano e scandalistico, con immagini che cambiano in continuazione. L'emotività la fa da padrone: la politica è spogliata di ogni nobiltà e razionalità e viene rappresentata come una specie di sport in cui ogni mossa è dettata da motivi di rivalità e di ambizione personale. La visione della politica come ciò che definisce il dibattito nazionale è andata perduta.

Quel che è peggio, il giornalismo investigativo sta vivendo un declino irreversibile. I suoi elevati costi e rischi, infatti, allontanano quasi tutti gli sponsor e le pubblicità più importanti. I casi di censura televisiva per paura di rappresaglie da parte del mondo degli affari non si contano: durante la guerra del Golfo, per esempio, la CBS decise di accontentare gli sponsor e di ridurre la sua copertura per fare in modo che ogni segmento di 10 minuti terminasse su una nota più lieta. Durante la guerra in Afghanistan, poi, il giornalismo è sembrato rinunciare del tutto alle sue capacità critiche, avallando incondizionatamente l'operato dell'amministrazione Bush nella sua lotta per le libertà fondamentali americane. Le iniziative del governo possono anche avere goduto del sostegno popolare ed essere in qualche modo giustificate, il punto è che l'americano medio non ha mai avuto l'opportunità di confrontarsi con un'opinione contraria. La democrazia sembrava in sciopero: per i padroni dei canali di comunicazione la guerra non era terreno di dibattito.

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6. La globalizzazione conservatrice



In apertura di questo libro, avevamo sottolineato con preoccupazione il declino dell'idea di collettività in Gran Bretagna, il fatto che nessuno sembri più preoccuparsi della necessità di arginare la crescita della diseguaglianza, nonché la consacrazione definitiva della civiltà britannica agli interessi di una particolare forma di capitalismo. La Gran Bretagna vive all'ombra dell'idea tutta conservatrice e americana che il capitalismo sia un mondo chiuso e strettamente economico, all'interno del quale il successo è una conseguenza naturale del minimo intervento pubblico e della massima libertà di comprare a buon mercato e vendere a prezzi più alti nel nome del profitto. L'onnipresente spirito di impresa è definito unicamente in termini economici: non può e non deve basarsi su alcuna forma di organizzazione o contesto sociale, siano essi la struttura interna di una società o il capitale intellettuale, sociale, umano e fisico che la circonda e la permea. La parole d'ordine di un capitalismo efficace sono libertà, flessibilità, interesse e impresa. I nemici da cui guardarsi sono i "fardelli" della regolamentazione, delle tasse, del welfare e di ogni forma di obbligazione sociale. Sono elementi essenziali all'infrastruttura fiduciaria, sociale, umana, fisica e intellettuale di un'economia di mercato. Ma nella bibbia del conservatorismo americano non se ne fa parola.

Si tratta di un'idea tremendamente unilaterale di ciò che dà vita a un'economia di mercato solida e dei valori che stanno alla base di una società giusta. I primi cinque capitoli di questo libro hanno fornito una quantità tale di prove da indurre quantomeno il lettore a interrogarsi sulla reale efficacia del modello che imperversa da venticinque anni a questa parte. La società americana è diventata più iniqua; la sua infrastruttura pubblica, nel senso più ampio del termine, si sta sgretolando; ora che l'economia è ritornata con i piedi per terra, tra l'altro, la sua crescita economica appare molto più modesta. I grandi risultati economici dell'America negli anni Novanta sono stati costruiti sul montare di enormi e insostenibili disavanzi e su un boom azionario il cui sgonfiarsi sta già producendo effetti depressivi sull'economia statunitense e ne frenerà per qualche tempo la crescita, nonostante gli altalenanti segnali di ripresa. Molte aziende hanno visto la propria capacità competitiva indebolita, invece che rafforzata, dalla ricerca della massimizzazione del profitto degli azionisti. Questo non vuol dire negare il record americano nella crescita dell'occupazione: si tratta solo di metterlo in un contesto più ampio e più scettico.

[...]

Il problema non è solo che la retorica impedisce agli Stati Uniti di capire come il mondo li vede: il punto fondamentale è che impedisce agli americani di capire quali sono i propri punti di forza e di debolezza. Come abbiamo visto l'America non è affatto l'esempio più fulgido di libertà e opportunità nel mondo. Mettere in rilievo questo aspetto non significa cadere in un becero antiamericanismo o criticare l'intera gamma delle complesse relazioni fra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Non vi è dubbio, per esempio, che gli Stati Uniti avessero il diritto di rispondere alle reti terroristiche collocate in Afghanistan e che, come conseguenza, il mondo sia ora più sicuro. Piuttosto, vogliamo sottolineare il fatto che il trionfo del conservatorismo ha portato a una celebrazione acritica di quella che, da un punto di vista europeo, è una visione eccentrica e assolutamente particolare di come funziona il capitalismo. E che una concezione più articolata di cosa sia un giusto ordinamento economico e sociale, costruito intorno ai mercati e alla ricerca del profitto, risulterebbe non solo nell'interesse dell'America, ma pure in quello del mondo.

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Se è sbagliato presentare gli Stati Uniti come una sorta di monolite che deliberatamente decide di costruire un ordine mondiale secondo un piano prestabilito, è altrettanto scorretto dipingere la globalizzazione come un processo politicamente neutro, nato dall'ICT e dalle forze senza nome della liberalizzazione finanziaria e del commercio, come, per esempio, tende a fare uno dei massimi teorici della globalizzazione, Anthony Giddens della London School of Economics. La globalizzazione, in realtà, è stata politicamente modellata dagli Stati Uniti su tre semplici principi guida, secondo una strategia ad hoc e prestabilita. In primo luogo, gli Stati Uniti vogliono esercitare il potere in maniera unilaterale, senza vedere la propria autonomia costretta dai vincoli delle alleanze e dei trattati internazionali. In secondo luogo, intendono promuovere in modo aggressivo e unilaterale gli interessi di quei settori e di quelle aziende che, per la loro posizione dominante sul mercato o per un vantaggio tecnologico, traggono maggiore vantaggio dalla globalizzazione: in particolare i servizi finanziari; l'ICT e, ultimamente, le industrie che sfruttano la proprietà intellettuale. Infine, gli Stati Uniti guardano istintivamente a soluzioni e ricette economiche di stampo liberista, sia per una convinzione intellettuale e ideologica, sia perché sul lungo periodo è probabile che queste misure favoriscano gli interessi americani. In un mercato "libero" e deregolamentato, infatti, il più forte tende a prevalere.

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Pagina 252

Per raggiungere il successo, la Airbus ha dovuto guardare ai profitti secondo una prospettiva trentennale piuttosto che triennale; questo, a sua volta, ha significato dichiarare la propria indipendenza dai criteri di liquidità e redditività stabiliti dai mercati dei capitali. Ha dovuto anteporre gli obiettivi della costruzione di aerei, della conquista del mercato e della soddisfazione del cliente alla domanda di dividendi. Secondo la dottrina conservatrice, un'impresa di produzione aeronautica sovvenzionata dai governi e svincolata dalle regole del libero mercato dovrebbe essere destinata al fallimento, proprio come la Nokia, la Vo1kswagen e la Michelin. Al contrario, la Airbus è oggi il primo costruttore di aerei al mondo. L'Europa può essere fiera e guardare negli occhi i propri aguzzini. Il suo sistema funziona.

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Pagina 254

Un'ulteriore dimostrazione. La presunta "flessibilità" del mercato del lavoro in America implica che il tasso di ricambio sia più alto, e che ciò aiuti a creare posti di lavoro; in realtà, il tasso di ricambio negli Stati Uniti è inferiore a quello della supertutelata Italia e allo stesso livello di quello francese. Il più basso è quello della Gran Bretagna, il paese che fa registrare i migliori risultati, in termini di occupazione, fra le quattro maggiori economie europee.

L'unico impatto apparente del welfare sui tassi differenziali di occupazione e disoccupazione ha a che fare con la severità con la quale l'accesso ai benefit dello Stato sociale risulta subordinato all'obbligo di sottoporsi a corsi di formazione, di cercare attivamente un impiego o di partecipare ai programmi di lavoro del governo. In paesi come la Francia, la Svezia e la Finlandia dove, a partire dal 1998, il 10 per cento della forza lavoro ha partecipato a programmi di reinserimento lavorativo, la disoccupazione è scesa rapidamente, ed è rimasta bassa in Danimarca e in Olanda, Stati in cui sussidi di disoccupazione piuttosto generosi si accompagnano all'obbligo rigoroso, per i disoccupati, di cercare lavoro in modo attivo. Ma ciò che più conta, queste tendenze sono indipendenti dal livello complessivo di regolamentazione del mercato del lavoro, dal grado di sindacalizzazione e dalla generosità del sistema di welfare.

L'accusa secondo la quale la disoccupazione europea sarebbe da imputare ai sindacati, alle troppe regole e ai costi dello Stato sociale, dunque, non regge a un'analisi approfondita. La creazione di nuova occupazione ha radici di sistema, e all'interno di quest'ultimo il ruolo della domanda è altrettanto se non più importante delle caratteristiche del mercato del lavoro - o almeno così sostengono Scharpf, Nickell, Schmitt e Mishel. La caratteristica più rivelatrice dei sistemi americano e britannico è che le economie di entrambi i paesi hanno beneficiato di un'ascesa prolungata dei consumi privati; quest'ascesa, tuttavia, non sarebbe stata possibile senza una struttura finanziaria che permette ai consumatori di contrarre un'enorme quantità di debiti personali e ipotecari. In effetti, le economie di Stati Uniti e Gran Bretagna hanno goduto dei vantaggi di una sorta di reflazione privatizzata di lungo periodo.

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Pagina 258

Giunti a questo punto, dovrebbe essere chiaro come il modello capitalistico europeo si manifesta a livello di impresa. Lo stesso sistema di valori, tuttavia, trascende l'ambito imprenditoriale per andare a costituire la piattaforma di un contratto sociale all'interno del quale i rischi vengono condivisi collettivamente, i sussidi per i disoccupati, i malati e i pensionati sono tali da assicurare una piena partecipazione alla vita sociale, e un sistema scolastico adeguato cerca di dare a ogni individuo l'opportunità di sfruttare al massimo le proprie potenzialità. La ragione per la quale l'Europa si fa nettamente preferire agli Stati Uniti in termini di mobilità sociale e di reddito è che ogni singolo Stato europeo si impegna a offrire pari opportunità a tutti i cittadini. In Europa non sarebbe mai possibile dimenticarsi della metà inferiore della popolazione in nome dell'individualismo, come accade in America. Questa capacità di protezione sociale, d'altronde, si fonda su una concezione della collettività che crede profondamente nei servizi pubblici, nella ricerca scientifica pubblica, nell'arte pubblica, nelle reti pubbliche, nella sanità pubblica, nell'emittenza pubblica, nella cultura pubblica e nel pubblico interesse. È proprio questo che dà alla civiltà europea il suo carattere specifico, e che allo stesso tempo dà alle imprese del Vecchio Continente un vantaggio competitivo. Sono queste le strutture su cui le aziende europee basano la loro creatività, la loro capacità innovativa e gli straordinari livelli di investimento e di crescita produttiva che le hanno messe nella condizione di insidiare la concorrenza americana. Ciascuna incarnazione del capitalismo europeo ha forse scelto mezzi diversi, ma la finalità è sempre permeata degli stessi valori. Il capitalismo europeo ha diverse varianti, ma i paesi che ne fanno parte sono fratelli di sangue. Posto che la costruzione di una Unione Europea con valori e collettività condivise, e con le relative istituzioni impegnate a rappresentarle, è tutt'altro che impossibile, sta a noi decidere se imboccare questa strada. Affronteremo questo argomento nei prossimi due capitoli. Prima, però, dobbiamo capire cos'è che tiene insieme l'Europa.

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Pagina 271

Il contratto sociale funziona...

Il successo del modello europeo è figlio della solidità e dell'efficienza del sistema che lo contraddistingue. Le caratteristiche fondamentali del capitalismo europeo sono la capacità innovativa e la creatività delle sue imprese e una crescita della produzione per ora/lavoro che negli ultimi vent'anni è stata relativamente più alta che negli Stati Uniti. La maggiore stabilità del lavoro in Europa, garantita dai sindacati e dalla regolamentazione anche grazie a una struttura della proprietà che obbliga gli azionisti, le banche e il management a lavorare per lo sviluppo dell'impresa, ha portato a una concezione più profonda e complessa dell'efficienza, della flessibilità e della produttività, che si fonda sulla fiducia e sull'elevata specializzazione. I vantaggi del sistema sono stati temporaneamente oscurati dalla maggiore crescita dell'occupazione in America durante il cosiddetto miracolo della New Economy negli anni Novanta e dalla stagnazione dei posti di lavoro in Europa per i postumi della riunificazione tedesca e per le politiche di preparazione alla moneta unica ma, anche se i valori del Vecchio Continente avessero portato alle inefficienze descritte dai critici conservatori, sarebbero, comunque, ugualmente da difendere. Il contratto sociale europeo, infatti, produce importanti benefici sociali, e questa è una realtà troppo spesso trascurata dai critici.

È un punto non secondario. Ciascun modello economico-sociale europeo è caratterizzato da un mix di redistribuzione del reddito, previdenza sociale, benefit sociali controllati, sanità e istruzione pubblica. Tutto questo porta necessariamente a tasse e contributi previdenziali più alti che negli Stati Uniti, oltre che a un più elevato livello di tutela dei lavoratori, di regolamentazione del mercato del lavoro e di rappresentanza sindacale. Questi fattori non creano affatto disoccupazione, né hanno influito negativamente sulla capacità imprenditoriale e produttiva dell'Europa. Al contrario, hanno portato a risultati sociali che da ogni punto di vista rendono la vita in Europa migliore rispetto a quella negli Stati Uniti.

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Pagina 306

Come riconosce la stessa dichiarazione di Laeken, per acquisire popolarità e legittimità agli occhi dei suoi cittadini, l'Europa deve fare qualcosa di più allo scopo di identificare e risolvere i problemi delle proprie comunità. Ma, nonostante le belle parole, Laeken prosegue nel solco di Amsterdam, Lisbona e Nizza: l'Europa continua a cercare disperatamente di importare il modello americano, ed è un errore. Ciò che dovrebbe fare, piuttosto, è trovare il modo di tornare al progetto di Jacques Delors: quello di un'integrazione positiva intorno a un'Europa sociale e dell'organizzazione di uno spazio economico e sociale a livello continentale. In altre parole, deve cercare di difendere i valori dell'Europa e conservare il meglio del proprio modello socioeconomico, mostrandosene orgogliosa e consapevole. Nell'era della globalizzazione, la priorità non è più quella dell'integrazione volta alla creazione di un mercato unico; questo è stato in gran parte già fatto, e gli effetti continuano a farsi sentire. Il nuovo imperativo è tutelare e promuovere gli interessi dei cittadini d'Europa in un'epoca in cui il mercato la fa da padrone, dando vita a un capitalismo europeo, vitale e distinto da quello americano, che esprima la storia e il punto di vista dei suoi popoli. Per fare questo occorre utilizzare gli strumenti che già esistono - su tutti, la moneta unica - e costruirne di nuovi per metterli al servizio degli interessi dell'Europa. Soprattutto, bisogna credere nell'Europa. Bisogna farlo al più presto, non solo per l'Europa stessa ma per tutti coloro che vedono nel multilateralismo la strada maestra per l'affermazione degli interessi pubblici a livello internazionale - un processo nel quale il Vecchio Continente può fungere da modello per il mondo intero.

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Pagina 341

Conclusioni



Il mondo è a un crocevia. Gli Stati Uniti, l'unica vera iperpotenza mondiale, sono schiavi dell'ideologia conservatrice e delle sue risposte particolaristiche alle questioni economiche, sociali e di sicurezza. Dopo le dimostrazioni di forza in Afghanistan e in Iraq, in cui il gap tecnologico e militare fra gli Stati Uniti e il resto del mondo è emerso in tutta la sua drammatica evidenza, l'intera classe politica conservatrice e una gran parte dell'opinione pubblica pensano che non vi siano e non vi debbano essere limitazioni all'esercizio della volontà americana. L'idea che gli Stati Uniti abbiano la precedenza, sia nel proprio interesse che in quello del mondo poiché dotati di una speciale vocazione a farsi garanti della libertà e delle opportunità di tutti - è montata in un continuo crescendo all'insegna del patriottismo e dell'unilateralismo. Nella visione del mondo dell'amministrazione Bush si sta con noi o contro di noi e, se sei con noi, bada bene che questo rapporto si svolge interamente alle nostre condizioni. Alla luce delle nuove e spietate forme di terrorismo, la sicurezza americana è la priorità assoluta e può essere garantita solo con il pugno di ferro.

È una prospettiva poco desiderabile e molto pericolosa. Un simile approccio all'ordine mondiale è controproducente, e lo sarebbe anche se gli Stati Uniti fossero lo specchio di tutte le virtù economiche, sociali e morali. Alla sua base, infatti, c'è l'esercizio della forza bruta e la pretesa che il resto del mondo subordini i propri interessi, i propri valori e il proprio modo di pensare a quelli di una potenza superiore. Ciò rende la situazione intrinsecamente carica di tensioni e dunque, alla lunga, insostenibile. Il problema si manifesta già nei rapporti fra l'America, l'Occidente industrializzato e l'Asia, ma è soprattutto nel contesto del fondamentalismo militante del mondo islamico che i contendenti sembrano condannati a una diffidenza e a un'ostilità permanente.

In ogni caso, gli Stati Uniti non sono lo specchio di tutte le virtù. L'America ha certamente i suoi pregi: è una società aperta e la crema delle sue università, delle sue imprese e delle sue istituzioni costituisce ancora un esempio per il mondo. Ma tutto ciò risulta offuscato da una serie di debolezze che l'America non comprende, né fa nulla per riconoscere. Si proclama la terra delle opportunità mentre la linfa della sua mobilità sociale si prosciuga, consolidando sempre di più un'aristocrazia della ricchezza che si autoperpetua e costringendo i poveri a condizioni di miseria impensabili in Europa. Dice di essere l'economia più dinamica della terra, ma gli altri paesi la superano in produttività. È convinta che la sua visione del capitalismo, ottusamente concentrata sulla flessibilità e sugli interessi degli azionisti, sia la panacea che ha permesso agli americani di diventare ricchi, ma la realtà è ben più complessa e sottile. Si vanta della sua vocazione democratica dall'interno di un sistema politico in cui le cariche elettive e le decisioni politiche sono ogni giorno di più oggetto di compravendita. Agisce in modo sempre più unilaterale in un pianeta nel quale l'interdipendenza fra paesi non è mai stata così evidente e preziosa. L'America conservatrice è una minaccia.

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