Copertina
Autore M. J. Hyland
Titolo Il bambino che non sapeva mentire
EdizioneBompiani, Milano, 2007, Narratori stranieri , pag. 377, cop.fle., dim. 15x21x3 cm , Isbn 978-88-452-5798-8
OriginaleCarry Me Down
EdizioneCanongate, Edinburgh, 2006
TraduttoreMarina Rotondo
LettoreGiovanna Bacci, 2007
Classe narrativa inglese
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Pagina 5

1



È gennaio, una cupa domenica d'inverno, e sono seduto in cucina con mia madre e mio padre. Mio padre, spalle al tavolo, tiene i piedi contro la parete e un libro in grembo. Mia madre siede alla mia destra con il libro aperto sul tavolo. Io sto accanto a lei, e la mia sedia, di fronte alla finestra, è vicina al calore dei fornelli.

In mezzo al tavolo campeggia una teiera bollente e ciascuno di noi ha davanti a sé una tazza e un piatto. Nei piatti ci sono dei sandwich al prosciutto e al tacchino e in caso volessimo qualcos'altro da mangiare o da bere, non c'è problema. La dispensa è piena.

Di tanto in tanto smettiamo di leggere e chiacchieriamo. È una bella sensazione, come se fossimo un sol uomo intento a leggere un unico libro anziché tre individui distinti e isolati.

Questi sono i giorni perfetti.

Attraverso la piccola finestra quadrata vedo la stretta strada di campagna che porta a Gorey e oltre la strada un campo innevato. Oltre il campo innevato, anche se non riesco a vederlo, l'albero a cui passo davanti ogni mattina e, due miglia oltre l'albero, la Gorey National School, dove tornerò alla fine delle vacanze di Natale.

All'angolo della strada, a sinistra del cancello, c'è un palo con un cartello che indica la direzione di Dublino e sotto un altro cartello più piccolo che indica il cimitero. Ci restano due giorni da trascorrere insieme, solo noi tre, ed è esattamente ciò che voglio. Non voglio niente di diverso.


Quando mia madre arriva all'ultima pagina del libro, prendo un mazzo di carte e lo spingo verso il suo gomito. Tra poco lei poserà il libro e mi chiederà di giocare. Osservo il suo viso aspettando fiducioso.

All'improvviso chiude il libro e si alza in piedi di scatto.

"John", esclama, "per favore vieni con me." Mi guida in corridoio, lontano da mio padre. Mi sottrae alla sua vista come se fossi spazzatura. "Vieni, e lascia lì il libro", puntualizza.

Ci fermiamo in fondo alla ripida scaletta che porta alla camera dei miei genitori, nella mansarda — l'unica stanza del piano di sopra — e lei si appoggia alla balaustra incrociando le braccia sul petto. La pelle delle sue mani è fredda e bianca come gesso.

"Ho qualcosa di diverso oggi?" domanda.

"No. Perché?"

"Mi stavi fissando. Mi stavi fissando ancora."

"Stavo solo guardando", ribatto.

Si allontana dalla balaustra e mi mette le mani sulle spalle. È alta un metro e settantasette centimetri e anche se io misuro solo quattro centimetri in meno, lei riesce a sovrastarmi obbligandomi a incurvare le spalle. Preme su di me con tutto il peso del corpo, facendo leva sulle gambe.

"Mi stavi fissando, John. Non dovresti fissare in quel modo."

"Perché non posso guardarti?"

"Perché ormai hai undici anni. Non sei più un bambino piccolo."

Vengo distratto dai miagolii della gatta, Critone, chiusa nell'armadio del sottoscala con i gattini appena nati. Vorrei andare da lei, ma mia madre non accenna a lasciarmi.

"Ti stavo solo guardando", ripeto.

Vorrei dirle che non c'è niente di infantile nel guardare le cose, ma vacillo sotto la pressione delle sue braccia e i tremiti mi impediscono di parlare.

"Perché?" insiste lei. "Perché mi devi guardare in quel modo?"

Mi sta facendo male alle spalle, è inaspettatamente pesante. Sembra così leggera, e così bella, quando è seduta al tavolo o in fondo al mio letto, e parla con me facendomi ridere. In questo momento invece mi fa rabbia, perché è alta, perché è grande, perché è pesante, e perché considera grande anche me, più grande di quanto io non sia veramente.

"Non lo so. Perché mi piace, immagino", azzardo.

"Faresti meglio a perdere il vizio."

"Perché?"

"Perché e irritante. È impossibile rilassarsi quando qualcuno ti fissa in quel modo."

"Scusa", mormoro.

Lei si raddrizza e allenta la presa. Mi avvicino e le do un bacio vicino alla bocca.

"Bene, ci siamo capiti", dice.

La bacio un'altra volta, ma quando le passo le braccia intorno al collo per attirarla a me e stringerla forte, lei si ritrae. "Non adesso", dice. "Fa freddo qui fuori."

Gira sui tacchi e a me non resta che seguirla in cucina.


I capelli ricci e scuri di mio padre gli ricadono disordinatamente sulla fronte coprendogli gli occhi. "Chiudi la porta", ordina senza alzare lo sguardo dal libro.

"È già chiusa", osservo.

"Bene", approva. "Allora tienila chiusa."

Sorride rivolto al libro che sta leggendo: Frenologia e cranio criminale.

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Pagina 87

Una settimana dopo, tornando a casa da scuola, mi fermo sul mio sentiero, a circa sessanta metri dalla bambola sull'albero. C'è una mucca, addormentata o morente, sdraiata a terra. Mi inginocchio e la guardo. Ha gli occhi chiusi, però respira ancora.

Sento uno scalpiccio di zoccoli e vedo unaltra mucca che corre da sola nel campo. Non ho mai visto una mucca così veloce. All'improvviso si ferma vicino alla staccionata. Abbasso gli occhi sulla mucca morente e poi sento di nuovo gli zoccoli; la stessa mucca sta tornando a tutta velocità nel punto da cui è partita. Quando si ferma, comincia a fissarmi.

Non so che cosa fare con la mucca morente, che respira a fatica, con grande affanno. Mi alzo in piedi e le giro intorno per avere una visione d'insieme, per capire se ci sono ferite o se è incinta. Le pungolo la pancia con lo stivale. La mucca che correva ha smesso di fissarmi e io mi sento sollevato: sono libero di agire come meglio credo. Purtroppo non credo proprio niente.

Mi inginocchio di nuovo e la guardo. Se sta morendo e soffre, probabilmente il veterinario potrebbe addormentarla. Non voglio lasciarla morire sul mio sentiero. Mi tolgo la giacca a vento e gliela metto sul muso. Lei non reagisce. Potrei sedermici sopra per addormentarla, ma non ci riesco. Le sistemo la giacca sul muso per assicurarmi che la fodera, che è di lana, non le pizzichi gli occhi.

Sono seduto davanti all'altra mucca, che ha deciso di brucare l'erba invece di guardarmi. Resto lì per un po' di tempo, durante il quale la mucca morente non fa assolutamente niente. La rassicuro: "Andrà tutto bene. Presto ti addormenterai".

Non so che altro dirle, ma tacere mi sembra maleducato.

Poi me ne vado. Ho freddo e il vento gelato si insinua sotto il mio pullover. Ho anche fame. Più tardi il contadino la troverà e la rimuoverà dal sentiero per seppellirla, sempre che muoia. Riprendo la giacca a vento e la saluto: "Addio".

La mattina seguente vado a scuola presto camminando speditamente, nel caso la mucca sia ancora sul sentiero, ma quando arrivo al punto in questione se n'è andata senza lasciare traccia. Se ieri le avessi contate, adesso saprei con sicurezza se ne manca qualcuna. Osservo le mucche accalcate contro la staccionata, ma nessuna di loro ricambia il mio sguardo. È come se non fosse successo niente. Ma qualcosa è successo. Provo un dolore allo stomaco, in basso, è una sensazione che somiglia a un'emozione, ma non saprei dire di che tipo.

Durante la lezione mi siedo in avanti sulla sedia e mi allungo sul banco appoggiando il mento su una mano. Mi scoppia la vescica, è da prima di colazione che non vado in bagno e ormai è quasi mezzogiorno. Voglio vedere quanto riesco a resistere, fino a che punto posso piegare il corpo alla mia volontà. Mi piace questa sensazione di solletico e pressione. Quando mancano cinque minuti alla campanella, mi rendo conto di aver aspettato troppo. Muovo la gamba su e giù il più velocemente possibile, ma la vescica sta per mollare gli ormeggi, anche se le ho detto di no, anche se l'ho pregata di pazientare.

Alzo la mano, ma qualcosa va storto. La vescica si ribella e cede. Provo un piacevole senso di liberazione e dico a me stesso che se anche ho lasciato andare qualche goccia di pipì, sono comunque in grado di fermare il resto.

Invece non riesco a bloccare il flusso. Un fiotto caldo comincia a scorrermi nei pantaloni allargandosi sul sedere e sul retro delle gambe. Mi ritrovo seduto in una pozza tiepida.

Vorrei alzare la mano e chiedere di andare ai servizi, ma è obbligatorio farlo in irlandese. Rifletto per formulare correttamente la frase.

"An bhfuil cead agam dul amach, más é do thoil é?"

"Non puoi aspettare?" risponde Miss Collins, che in piedi alla lavagna dà le spalle alla classe e non ha idea di chi abbia parlato.

"No, signorina", dico. "Devo andare ai servizi adesso." Lei finge di non sentire perché questa volta ho parlato in inglese invece che in irlandese.

Devo nascondere la faccenda della pipì, ma non so come, dato che è già scivolata giù per le gambe infradiciando calze e scarpe. "Per favore, signorina", insisto. "Posso andare?"

Miss Collins si volta verso di me. "John, non puoi proprio aspettare l'ora di pranzo?"

Mi alzo in piedi calpestando un lago di pipì da cui si alza un puzzo inconfondibile. "No, signorina, devo andarci subito."

Un rivolo di pipì scorre sul pavimento in pendenza raggiungendo i primi banchi.

Miss Collins non nota la pipì che punta verso la lavagna, e neanche il puzzo, ma Jimmy, il ragazzo dai capelli rossi seduto nel banco davanti a me, la nota altroché.

"Oh, signorina!" strilla. "John se l'è fatta addosso!"

Tutti si voltano per vedere che cos'è successo.

Ho la mano alzata, come per salutare un autobus che passa a tutta velocità. Miss Collins si avvicina a bocca aperta, mostrando la gengiva inferiore e i denti macchiati e storti da vecchio cane malato.

"Oh, mio Dio", esclama. "Devi andare da suor Bernadette e chiederle qualcosa per lavarti."

Suor Bernadette mi porterà nell'infermeria, che si trova nel convento accanto. Non voglio andarci.

Mi catapulto fuori dalla classe, attraverso di corsa il corridoio, superando gli attaccapanni e le altre aule, esco dall'ingresso principale e continuo a correre fino ad arrivare al mio sentiero, all'oscurità, alla solitudine e al silenzio degli abeti. A quel punto mi rendo conto che le gambe bagnate dei pantaloni che sfregano una contro l'altra mi irritano la pelle provocando un certo prurito.

Vorrei mettermi in pigiama e infilarmi a letto cancellando il tempo. Vorrei dormire, e poi svegliarmi con il profumo del tè e delle salsicce, e scoprire che tutto quello che è successo in realtà non è successo.

Credo che non tornerò mai più a scuola.

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Pagina 200

22



Mi sveglio presto, prima che i lampioni della strada si spengano, e penso che anche Liam sia sveglio. Lo sento dire: "Al portatore", e "Un milione di sterline".

"Come dici?" chiedo.

"Al portatore. Un milione di sterline", ripete lui, parlando così chiaramente da far pensare che sia perfettamente lucido.

Invece dorme sulla schiena con la bocca spalancata. Vorrei infilarci dentro qualcosa, per esempio la lampadina che pende dal portalampada rotto sopra la mia testa.

Mi alzo dal letto alle otto e mezza e vado in cucina in pigiama. Non c'è nessuno, ma la luce è accesa. Non voglio stare qui da solo.

Scendo le scale che portano alla libreria al piano terra. Le scale sono buie. Ci sono topi che grattano dietro le pareti e somigliano a quelli del vecchio appartamento di Wexford. A volte, quando ce ne stavamo in silenzio nel soggiorno, un topo compariva sul tappeto in mezzo alla stanza e si guardava intorno, muto come un pesce, come se volesse ammirare il panorama. Poi si accorgeva di noi e si precipitava nel buco da cui era uscito.

I topi giravano sempre da soli, mai in gruppo, e ce n'era uno in particolare, grosso e scuro, con una lunga coda bianca. Decisi che doveva essere il capo. Dopo averlo notato un paio di volte, mi sembrava sempre di riconoscerlo. Se entravo in soggiorno e vedevo con la coda dell'occhio una cosa scura sul pavimento, pensavo che fosse il capo dei topi ed entravo in agitazione. Ero convinto di vederlo ovunque. Mio padre diceva che era un raro caso di psicosi da topi. "Ne vedi uno al centro della stanza", diceva, "e di colpo scambi per un topo qualsiasi oggetto più piccolo di una scarpa."

Qualche settimana dopo, i topi smisero di grattare contro la parete del soggiorno.


Mi fermo un istante ad ascoltare il rumore dei topi, sferro un calcio al muro e apro la porta sul retro che dà accesso alla libreria.

"Buongiorno", mi saluta zia Evelyn, che sta cercando di raggiungere uno scaffale alto in equilibrio su una scaletta.

Le gemelle Celia e Kay sono sedute per terra e guardano in alto verso di me. Hanno sette anni ma sono piccole per la loro età, e come il loro papà tendono a non aprire bocca. Se non parlano, in compenso osservano la gente. La fissano negli occhi e non mollano mai. Puoi andare dove ti pare, loro non ti perdono d'occhio. Però non sembrano notare granché. In realtà non guardano, o almeno, secondo me non guardano davvero. I loro occhi sembrano attratti da calamite. come se non avessero alternativa.

"Buongiorno", rispondo sedendomi dietro il banco. Zia Evelyn scende dalla scaletta e si siede accanto a me. Mi prende le mani.

"Dove sono andati?" chiedo.

"Chi? Mamma e papà?"

"Sì."

"Torneranno presto."

"Dove sono andati?"

"Erano nella taverna all'angolo fino a poco fa, ma ormai saranno usciti."

"Ma per andare dove?"

"Chiedilo a loro quando torneranno. E adesso spostati, occupi un sacco di spazio."

Kay e Celia, sedute una accanto all'altra sul pavimento, alzano gli occhi per guardarmi.

"Quanti anni mi dai?" domanda zia Evelyn.

"Non lo so", rispondo. "Come la mamma, all'incirca."

"No! Ne ho otto in più, ma non li dimostro, non ti pare? Uso questa crema. Guarda qui! Funziona. Dimmi, quanti anni dimostro? Meno di quelli che ho, giusto?"

"Credo di sì."

Lei si spazientisce. "Alzati, John, vai a fare colazione."

"Non ho fame."

"Ma certo che hai fame", ribatte.

"Zia Evelyn?"

"Dimmi."

"Mi racconti delle cascate del Niagara prima che torni di sopra?"

"Adesso sono occupata", risponde.

Sono le nove e dieci.

La zia riordina i libri sugli scaffali e serve l'unico cliente che entra. È vecchio, ha un occhio finto bianco che sembra una biglia e cammina appoggiandosi a un bastone. Compra un libro di cruciverba che costa 5 pence. Quando esce, zia Evelyn si siede.

"Bene", riprende. "Vediamo. OK, una volta c'era una donna in uno dei musei. Era sera e l'atrio era buio..." Depone una pila di libri sul banco e si passa le mani impolverate sul grembiule.

"Perché era buio?"

"Perché era un museo di demoni, fantasmi e macchine da tortura medievali. Comunque, la donna aveva unghie lunghe e smaltate, erano lunghissime, dipinte di arancione, con uno smalto fosforescente. Riesci a immaginarlo?"

Vorrei saperne di più. "Mi racconti altre cose?"

Prende il libro più grosso dal banco e se lo porta al petto. "Se la storia che ti ho raccontato non ti piace, peggio per te, abbiamo chiuso. Forza, aria. Vai di sopra e lasciami lavorare."

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Pagina 219

24



Alle otto del mattino mi piazzo fuori dalla porta con la valigia azzurra ai piedi e guardo mio padre e gli zii che caricano mobili su un furgone sporco. Mia madre partecipa alle operazioni impartendo ordini e infilando le cose più piccole nel retro. Mi offro di aiutarla, ma lei mi dice di sedermi ad aspettare vicino alla valigia e di tenermi pronto per sbrigare le ultime faccende.

"Per esempio?" domando.

"Per esempio portare una tazza di tè o un bicchiere d'acqua a chi ha sete."

Mi siedo sul bordo con una scatola di cerotti in mano. Me ne applico uno sotto il ginocchio e lo lascio in posa per un paio di minuti, poi tiro. Quando il cerotto rimuove i peli scoprendo una morbida area di pelle più chiara, il dolore provocato dallo strappo è quasi gradevole.

Zio Gerald nota quello che sto facendo. Alza l'indice verso di me aggrottando la fronte. Io sorrido e alzo l'indice a mia volta. Lui, come al solito, non sa che pesci pigliare. Indietreggia osservandomi con le braccia lungo i fianchi, poi si volta e torna al furgone, dove sposta di qualche centimetro un cassettone senza una ragione apparente. A volte è come se zio Gerald non prendesse la vita sul serio: prova a fare una cosa, vede che nessuno lo nota, cambia idea, ne fa un'altra e sembra che non gli importi della differenza.

Nel frattempo si è raccolta una piccola folla di vicini, cinque donne e due uomini. Se ne stanno ammassati sul vialetto d'accesso del numero 14. Da come si stringono compatti, si direbbe che facciano parte della stessa famiglia. Ci guardano come se avessero un unico cervello; se uno di loro mi fissa, gli altri lo imitano, se un altro guarda mia madre, i suoi amici fanno altrettanto. Quando un tizio si volta a osservare zio Jack che accende una sigaretta, tutti girano la testa.

Una donna brandisce un cucchiaio di legno pieno di porridge rappreso, un'altra impugna uno strofinaccio. Dicono che sono venute per augurarci bon voyage, ma è chiaro che il vero obiettivo è vedere com'è fatta una famiglia in rovina.

Mia madre lancia loro un'occhiata e li saluta con la mano. Di colpo la folla si avvicina alla portiera del furgone e la circonda. Lei si ferma e va loro incontro per fermarli.

"Ho sentito dire che tutti gli appartamenti hanno il riscaldamento centralizzato", la informa una donna.

"E presto ci sarà una piscina", aggiunge la sua amica con il cucchiaio di legno.


Zio Jack e zio Tony salgono sul retro del furgone con i mobili, io mi sistemo felice nell'abitacolo tra mio padre e mia madre. Mi piace stare seduto in alto; le braccia di mio padre sembrano molto forti quando gira il volante per svoltare agli incroci.

Procediamo nel traffico, passando davanti a tutti i negozi di North Circular Road. Guardo i ragazzi che vanno a scuola e mi sento libero. Prendo la mano della mamma.

Arrivando a Ballymun però il mio umore cambia. Le strade strette traboccano di immondizia. Le case sono piccole e grigie, con porte e finestre che nessuno ha mai dipinto. Quando entriamo nel parcheggio ai piedi di uno dei grattacieli di Ballymun, è chiaro che da quelle parti non c'è da aspettarsi niente di buono. Mio padre scende dal furgone e io lo seguo. Mi sento stanco e pesante. Lancio un'occhiata ai sette grattacieli e alle decine di edifici più bassi che li circondano, alla strada trafficata che passa accanto al parcheggio, alla grande scuola oltre la strada e alla rotatoria.

Mia madre resta seduta con le mani in grembo. Mio padre aiuta zio Jack e zio Tony a scendere dal retro del furgone, poi mi posa una mano sulla spalla.

"Ogni torre prende il nome da uno degli eroi che fondarono la Repubblica d'Irlanda nel 1916", mi informa.

"Come si chiama la nostra?" domando.

"Plunkett", dice. "È quella. Laggiù, al centro."


È impossibile vedere le sette torri contemporaneamente. Sono troppe e proiettano un'ombra che confonde ogni cosa. Per vederle tutte, è necessario compiere un giro completo su se stessi. Come possono essere nuovi edifici tanto malconci? Sembrano denti marci, sporchi, decomposti e macchiati di tartaro, denti caduti dalla bocca di un lurido gigante.

"Come facciamo a portare tutto di sopra?" chiedo a mio padre.

"Con l'ascensore, stupido."

Saliamo nel nostro nuovo appartamento. A differenza degli ascensori sporchi, delle scale sporche e dei corridoi sporchi, le pareti del nostro alloggio sono immacolate, e una volta entrati il puzzo di urina e mozziconi bagnati svanisce.

L'appartamento però è piccolo, e sono piccole tutte le stanze: una piccola cucina, un piccolo soggiorno che contiene a malapena un divano, la TV e un paio di sedie. Il bagno, il più piccolo che abbia mai visto, ha una vasca che sembra fatta su misura per un nano. Anche le due camere da letto sono piccole, con finestre impossibili da aprire affacciate sul parcheggio asfaltato dodici piani più in basso.

Come in tutti i grattacieli, per gettare la spazzatura si utilizza uno scivolo, che nel nostro caso comincia in cima alle scale e passa vicino alla finestra della mia camera.

"Non voglio dormire vicino allo scivolo della spazzatura", dichiaro.

"Be', non hai molta scelta", ribatte mio padre.

Entriamo nella camera da letto più grande. C'è un armadio a muro con le ante a specchio.

"Se devo dormire qui", osserva mia madre, "voglio coprire quegli orrori."

"Prima di tutto dobbiamo finire il trasloco", risponde mio padre, perciò riprendiamo l'ascensore e torniamo di sotto.

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