Copertina
Autore Vittorio Imbriani
Titolo La bella bionda
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2004 [1876], eretica , pag. 120, cop.fle., dim. 120x167x9 mm , Isbn 978-88-7226-805-6
LettoreAngela Razzini, 2004
Classe classici italiani , citta': Napoli
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Indice

Un "Pio albergo Trivulzio" nella Napoli postgaribaldina  3

I.    Quattro bugie di un Consiglier Comunale            9
II.   Una commendatizia male scritta e bene ricevuta    19
III.  La nomina di sette maestrine                      31
IV.   Come si compilino le istorie                      37
V.    Duelli, che abortiscono; ed amori, che fioriscono 48
VI.   Lo studio d'un pittore                            62
VII.  Un reclamo di parecchi padri di famiglia          73
VIII. O prima o poi, tanto è l'istesso                  84


Note                                                    93

Profilo d'anticlericale doc                             97

 

 

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Pagina 11

I. Quattro bugie di un Consiglier Comunale


      Nous nous persuadons quelque fois nos propres mensonges,
                               pour n'en avoir pas le démenti;
    et nous nous trompons nous-mèmes, pour tromper les autres.
                                                  Vauvernagues



Bell'uso il nostro di dir bianco quando pensiamo nero, e nero quando pensiamo rosso; di mentire tutti, sempre, da mane a sera, imperturbatamente, su qualunque proposito, per diletto od abitudine, anche se le bugie nulla giovano! Per lo più, senza mala fede; anzi, come notò quell'arguto francese, ci persuadiamo delle nostre menzogne per intolleranza di mentire, ed infinocchiamo noi stessi, per infinocchiar poi meglio gli altri. Somigliamo tutti al Duca di Bassano, del quale il Talleyrand diceva, praticar egli così male la massima diplomatica di sempre ingannare senza mai mentire, che invece mentiva sempre senza ingannar mai. Quest'uso ci fa provare ne' colloqui le soddisfazioni stesse d'amor proprio, che nell'interpretar logogrifi sciarade o rebus: ogni poco la nostra vanità ci complimenta, per non esserci lasciati accalappiare dall'ipocrisia degli altri, indovinando il senso schietto delle false parole. Davvero, se per un presupposto assurdo, gli uomini, snaturandosi, diventassero sinceri, realizzerebbero la favola della torre di Babele: non ci s'intenderebbe più, proseguendo tuttavia nell'interpretare a rovescio le chiacchiere de' nostri cari simili. O che non si trovi gente franca?

Come no! ma di quella soprattutto non ti fidare. Dicono il vero, acciò non si creda, acciò si ritenga per falso; oppure unicamente per acquistar credito: quando occorrerà loro di mentire, potranno poi farlo con profitto ed ingannare. Così pure un negoziante, che si apparecchi a qualche bancarotta fraudolenta, esagera gli scrupoli e la delicatezza: sennò come attirar molti capitali? Soltanto il galantuomo può truffare; del mariuolo notorio tutti diffidano. La sincerità non differisce in questo dalle altre virtù; rarissimo che qualche amante platonico del buono la eserciti per sé stessa. L'ha detto così bene Beroaldo di Verville: "Sì certo, c'è gente, che ha coscienza: ma come? Badate attentamente, e scoprirete, che... che se non è sciocchezza, accomoda loro. Sicché pietà, santità, giustizia, elemosina ed altrettati virtù, od azioni che ne dipendono, son praticate per desiderio d'ottenere qualche vantaggio, come velo d'ipocrisia. - Art de parvenir, CVI."

Ho affermato, che si suole mentire disinteressatamente, senza malizia e senza scopo, da' migliori. Per esempio, conoscete lo Squillacciotti?

"Quale degli Squillacciotti? Mimì?"

Domenico appunto; quel bel giovane alto, bruno, che da cinque o sei anni disimpegna con tanta solerzia parecchi uffici pubblici gratuiti, e specialmente quello di Consiglier Comunale. Sapete quante ne sballa, lui!

"Chèh! Lo Squillacciotti, così franco, così leale? Pare impossibile!" Impossibile ancorché vero. Quando dico una cosa io! Conosco Napoli mia a palmo a palmo, ad uomo ad uomo. Mimì Squillacciotti è il maggior bugiardo, ch'io mi sappia. Per esempio, frà tanti paradossi che spiffera agli amici, egli suol anche giurare: che le biondine gli riescono antipatiche e che le fanciulle lo han sempre nauseato; mentre pe' costumi italiani l'amore può solo concepirsi nella e con la donna maritata; che egli non comprende come uno possa appassionarsi per femmina idealmente bella; che egli ritiene quali spiritose invenzioni tutte le storie d'innamoramenti repentini. Ebbene, giurando tutte queste cose mentisce; e sì, che niente al mondo l'obbliga a declamarle, è ch'egli si delizia a ragionarle. Né di mentire io gli fo colpa; Seneca m'insegna, che: iniquus autem est qui commune vitium singulis obiecit. Narro, non giudico.

Una mattina, asciolvevamo in parecchi, tutti amiconi e capiscarichi; e lo Squillacciotti, non so più a qual proposito, disse così: "Le passioni spuntano e germogliano lentamente assai nel cuore umano, come le piante nel suolo; e come queste appunto, sono tanto più saldamente radicate nell'animo, quanto più tempo impiegarono a radicarsi, Gl'invaghimenti subitanei, fulminei, esistono solo nelle invenzioni de' poeti; quando invece nella pratica della vita, vediamo l'amore essere frutto della lunga consuetudine. Questa è lo stillicidio, che incava il macigno, sul quale si smusserebbe o spezzerebbe Balisarda stessa. Convivendo, frequentandosi, a poco a poco s'acquistano mille bisogni comuni; vincoli tenaci di memorie, d'abitudini, di pensieri, d'interessi, ti allacciano, senza che te ne avvegga, a quella persona, sì che non sai più farne a meno. Avendo obbliato un pezzo il resto del mondo accanto a lei, ora il vasto mondo ti spaventa e torni a lei, come l'uccellino, che dopo lunga prigionia non sa più avvalersi della libertà, anzi rientra volontariamente nella gabbia. Se amore significa desiderio d'una persona e d'ogni sua parte, come può sorgere questo pieno desiderio, quando s'ignora gran numero di quelle parti?"

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Pagina 34

I rimorsi, gli scrupoli di coscienza sono amarissimi per tutti, ma doppiamente per l'uomo irreligioso. Chi crede in un'altra vita, in un dio rimuneratore o castigatore, in un inferno ed in un paradiso, ricava conforto da queste credenze stesse, e finisce per acquetarsi. Beati i veri cristiani! Si buttano a' piedi di un confessore, si accusano, si mortificano, e si rialzano di lì, e si spazzolano i calzoni insudiciati con una consolazione grandissima: perché, o vennero assoluti, o fu loro imposta una penitenza, che frutterà l'assoluzione; hanno espiato o sanno come espiare oramai. Chi poi non ammette la confessione, da solo a solo con domineddio tratta di come ammendare i suoi falli; ed offre all'onnipotente l'esuberanza della contrizione, il fermo proposito di non recidivare e di operar bene, perché degni concedergli un perdono generoso. Chi non crede neppure all'efficacia del pentimento e delle buone azioni per conciliare la grazia divina, ricorre e si abbandona confidentemente alla misericordia del signore; ne appella dal giudizio di dio giusto e vindice alla pietà di dio padre benevolo, perdonevole: sa, ch'egli ama ardentemente le sue creature: e quando, dopo essersi a lungo sciolto in lacrime, dopo essersi miseramente picchiato il petto, sorge pallido dal genuflessorio, e' si sente rinfrancato, ha il convincimento di aver placato il nume offeso. E chi da ultimo si crede inmmeritevole, per tenace recidivare, finanche di perdono e d'indulgenza, nella stessa spaventosa aspettazione di castighi eterni nella geenna o d'un temporaneo purgatorio, per disperazion fàtto sicuro, trova una strana pace: le leggi violate, si vendicheranno contro di lui; pagherà il fio delle peccata commesse; e quindi la morte, avvicinandosi, se lo sbigottisce da una banda, dall'altra pure gli sorride, come all'onorato negoziante, che si trova in male acque l'ora in cui soddisferà una cambiale votando interamente lo scrigno: si troverà povero, squattrinato, ma senza debito alcuno. L'incredulo invece non sa mai darsi pace d'aver contraddetto al proprio ideale morale; d'aver potuto perpetrare ciò, che gli è forza stimar male; di aver trasgredito quelle, che riconosce per norme da non violarsi. Nulla può menomarne, minorarne i rimorsi, quando l'azione trista o indelicata, o non rientra ne fatti punibili contemplati dalla legislazione positiva, oppure, rimanendo ignorata, sfugge all'azion penale. Per lui non c'è alcuna espiazione possibile: il fatto è fatto, cosa fatta capo ha. Non può sedurre il giudice con l'ostentargli la sua contrizione, perché il giudice è lui stesso e non si assolve da sé. Compirà tutte le più nobili e più degne azioni del mondo: ma queste non gl'impediranno di sapere, che un giorno ne pensò ed esegui una turpe, malefica; che una volta, o per irriflessione o per calcolo; mancò al suo debito. Non c'è, cui ricorrere per grazia; non c'è neppure la prospettiva del castigo, che riaffermi il gran principio violato. Morrà, tornerà nel nulla, immune d'ogni pena, eppure è reo! eppure, dimenticando, che quando si ha la massima libertà conviene di serbar la massima misura, profittando codardamente della irresponsabilità umana, ha mal oprato! Oh non c'è pensiero più tormentoso di questo. Nemmanco può trovar conforto in quell'orgoglio della ribellione, che alcuni grandi poeti han dipinto ne' loro Capanei, ne' loro Luciferi: poiché la legge morale trasgredita, non gli s'imponeva da un arbitrio altrui, da una volontà altrui, alla quale è pur bello talvolta di resistere, ancorché sia divina e saggia. Ma niente affatto! quella legge è legge solo in quanto egli la riconosce per tale; è lui, che l'ha consentita; è lui, che se l'è imposta; è lui, che si condanna per averla schernita: non un ringhioso Minosse, che giudica e manda secondo che avvinghia non un angiolo vendicatore, che sbriga sommariamente vivi e morti in Giosafatte. A chi appellarne del proprio giudizio? chi può rivedere, cassare, riformare la sentenza, che noi diamo di noi? chi può graziarci del nostro proprio disprezzo? Né la stima altrui, la stima di quanti ignorano le nostre colpe secrete, ci è conforto; anzi esacerba la piaga ad ogni istante, vi stilla sopra aceto. Ce ne sappiamo indegnissimi; e ci pare commettere nuova colpa non ingannando chi s'illude sul nostro valore, permettendo, che altri faccia di noi quel conto, che si ha coscienza di non meritare.

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Pagina 76

Tornando alla storia che raccontavamo, sappiate, che circa tredici mesi dopo la nomina della Malasomma a maestrina, il Vice Sindaco della Sezione Montecalvario, in cui trovavasi la scuola dov'ella insegnava, ricevette per la posta un grosso plico formato da un fogliuccio di carta rozza e sudicia senza busta. Il foglio conteneva, da noi depurato dalle sgrammaticature e dagli spropositi di ortografia, questo reclamo:

Nell'interesse della pubblica morale, è bene prevenirla di uno scandalo, che ormai comincia a diventar pubblico. Tutti i giorni, una maestrina della scuola femminile nel vico Figurella a Montecalvario si reca a fare da modella nello studio di un noto pittore, dove rimane lunghe ore e spesso fino a notte fatta. Ciò, caro signor Vice-Sindaco, scandalizza grandemente molte madri e molti padri di famiglia, le cui figliuole frequentano la suddetta scuola. Provvegga sua Signoria acciò la cosa non vada per le lunghe a danno delle buone e timorate coscienze; sennò, nostro malgrado, ricorreremo al Sindaco e poi ai giornali. Molti Padri di famiglia.

La denunzia di coteste sedicenti buone e timorate coscienze era, si sottintende, anonima, anonimissima. Circostanza, che avrebbe dovuto essere una ottima questione pregiudiziale, per farla buttare nella paniera delle carte inutili. Poi, c'era tanto da dire in merito! Che importava a loro quel che la Maestrina facesse a lezione finita e scuola chiusa? o che diritto competeva all'autorità municipale d'ingerirsi nella condotta della Maestrina in cose estranee alla scuola ed all'insegnamento? Dippiù: che male c'era a far la modella? od in che questa professione costituisce una colpa? o da quando in qua è proibita? Qual canchero mai pretenderà d'inibire alla Maestrina (che deve mangiare, abitare, vestirsi decentemente, molto decentemente, pagar le tasse, comperar qualche libro, eccetera) aggiungere qualche altro piccolo provento alle poche lire municipali? Chi ha forza di braccia, farà forse la stiratrice; chi ha sveltezza di dita, ricamerà; e chi ha bellezza rara di forme, non potrà fare la modella? Qual professione più nobile della professione esercitata dalla Fornarina, d'una professione che immortala colei che l'esercita, che la rende, in certo modo, benefattrice dell'umanità, poiché coopera a creare quel bello, che è uno de' pochi nostri conforti? E non poteva darsi che stesse a mossa per la sola testa? Chi l'aveva vista levarsi la camicia? Chi l'aveva vista espor le membra ignude agli occhi del pittore? Dove era lo scandalo poi? che la Malasomma l'era andato divulgando a destra e a sinistra, che se n'era vantata? Chi ne avea riconosciute le fattezze su qualche tela alla Promotrice? Avevan dovuto appostarla e seguirla, per averne notizia, e chiacchierare con la portinaia, la quale d'altronde ignorava affatto, che la modella di quel pittore, (tale supponeva lo Squillacciotti) di cui pure ignorava il nome, fosse una maestrina del comune. Chi saranno stati poi que' timorati soffioni? Forse facevan peggio; e quelle madri, che si scandalizzavano, non avrebbero forse potuto lodarsi, come le puerpere d'Orazio; laudantur simili prole puerperae! Ed eran poi davvero i padri e le madri delle frequentatrici della scuola di strada Figurella a Montecalvario, che sporgevano reclamo? C'è da dubitarne. Le scuole municipali son destinate a chi non possiede mezzi da pagare l'istruzione, al figliuolo del lustrastivali, alla figliuola della maruzzara (venditrice di maruzze cotte, ossia martinacci o chiocciole), della fruttivendola, della pescivendola: ora questi genitori laboriosi hanno da lucrarsi il pane, stando lì al posto tutta la giornata e parte della notte, ned avanza loro tempo da spiare le maestrine; e poi, quella onestà operosa è indulgente; e poi, generalmente, que' genitori, in Napoli, non sanno né leggere né scrivere; e, quand'anche per un supposto sappiano, non si querelano per iscritto e molto meno con anonime; anzi vanno in sezione dall'Eletto, dal Cavaliere (come per secolare abitudine chiaman tuttora il Vice-Sindaco), e lì si sgravano a voce, urlano, schiamazzano, strillano com'aquile; né sanno di giornali e di stampe, altrimenti che per avvolgere quotidianamente in essi le loro merci. Ergo, il denunziante non era padre di famiglia, anzi piuttosto qualche nemico personale, qualche amante spregiato dell'Ersilia, che aveva cercato con lungo studio l'occasione della vendetta; o forse, perché no? forse qualche nimico dello Squillacciotti, che finalmente si fregava le mani d'aver trovato via di ferirlo, nuocendo ad una persona a lui cara. Forse Don Vespasiano Sgrillo o Don Girolamo Catarinicchio, non erano estranei alla turpe delazione. E tutto nella lettera, cominciando dal Lei, che dimostra soggiorno nell'alta Italia, e terminando agli errori d'ortografia e grammatica; sembra confermare quest'ultima ipotesi. Con ciò, beninteso, non intendo ned approvare la condotta della Malasomma, né scusarla; dico solo, che, ad ogni modo, gli anonimi accusatori valevano meno di lei.

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