Copertina
Autore Pietro Ingrao
CoautoreRossana Rossanda
Titolo Appuntamenti di fine secolo
Edizionemanifestolibri, Roma, 1995, Transizioni , Isbn 978-88-7285-089-3
LettoreRenato di Stefano, 1998
Classe economia , politica , lavoro
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Indice


PREMESSA                                7

PRIMA PARTE

Appuntamenti di fine secolo            11
    Pietro Ingrao, Rossana Rossanda

Scenari della mondializzazione         14
Riflessioni sul caso italiano          39
Le contraddizioni emergenti            55

SECONDA PARTE

Diario di una discussione              79
    Pietro Ingrao, Rossana Rossanda

TERZA PARTE

Tre questioni cruciali                159

Economia e modello sociale nel        161
passaggio tra fordismo e toyotismo
    Marco Revelli

Le istituzioni della mondializzazione 225
    Isidoro Davide Mortellaro

Un conflitto occulto                  265
    K. S. Karol


 

 

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Pagina 14

SCENARI DELLA MONDIALIZZAZIONE

I. IL LAVORO NELL'ERA DELLA MONDIALIZZAZIONE

1. Il passaggio al postfordismo

Mettiamo al primo posto, anzitutto, quella mutazione del processo produttivo che chiameremo «postfordismo».

Diamo per acquisito il carattere paradigmatico che ha avuto il fordismo: cioè una produzione industriale basata sulla massificazione del lavoro, strettamente gerarchizzato in fabbrica, sulla dislocazione del conflitto per la retribuzione in un crescente più di produzione (la cosiddetta economia di scala), e nel plasmare non solo il luogo di produzione: sino a farsi modello dell'intera società occidentale. Già lo coglievano le note di Gramsci.

Questo paradigma è venuto a fine. Perché? E che cosa sembra derivarne per il soggetto operaio, la classe antagonista dei capitale, la sua idea di sé e la sua proposta di radicale mutamento dell'assetto sociale?

Per brevità di ragionamento, assumeremo due recentissime letture, che ci sembrano analiticamente ricche e indicative di due approdi diversi: quella di Bruno Trentin nel saggio Lavoro e libertà e nel fibro-intervista Il coraggio dell'utopia; e quella, rielaborata per questo volume, di Marco Revelli.

Trentin analizza il cuore del processo produttivo industriale e preferisce parlare di «crisi» piuttosto che di «fine» del fordismo, cioè d'un passaggio non ancora compiuto: crisi della «civiltà manageriale», della sua straordinaria capacità espansiva e della sua forza come «modello» di crescita capace di condizionare l'intero orizzonte occidentale: dalla fabbrica ai servizi, dal governo della società alla formazione dei saperi. Tramontano, egli scrive, i presupposti della organizzazione tayloristica, cioè della «produzione standardizzata e di massa, capace di imporsi sul mercato e sui bisogni dei consumatori, anche sotto la sferza di una utilizzazione rigida delle tecnologie monouso, che la rendeva possibile e la condizionava». Questo schema è spezzato dall'avvento di tecnologie basate sull'informatica, che consente di fornire una gamma molto più vasta e variabile di modelli dello stesso tipo, adattandoli a diversi usi. Le macchine diventano estremamente flessibili nelle prestazioni è sempre più sincronizzato il collegamento tra i semilavorati o «le parti di un prodotto finale e le attività di assemblaggio e di immissione sul mercato» fino a produzioni «personalizzate». A questo punto l'impresa ha bisogno di una partecipazione della manodopera al governo dei flussi produttivi, non più rigidamente predeterminati come avveniva nelle tecnologie mirate a produzioni standardizzate e di massa. Occorre un operaio di nuovo tipo, meno esecutore e più capace di iniziativa, una specie (questa è la metafora usata) di nuovo «operaio artigiano».

Così legge Trentin il mutarnento che mette in crisi la «civiltà dei manager» e la sua rigidità gerarchica. Questo passaggio - a suo giudizio - apre la strada a sedi di decisione di tipo trasversale, che già in alcune aziende hanno dato vita a gruppi di lavoro «polivalenti». E si schiude uno spazio mai prima consentito all'iniziativa del lavoratore. A due condizioni: che egli diventi soggetto/oggetto di una formazione permanente, adeguata alla flessibilità dell'impresa e alla mobilità polivalente che gli è richiesta, e che conquisti il diritto a una autonoma decisionale dei gruppi di lavoro, fino a una progettazione costruita per e da un «uomo pensante». Insomma non gli è più richiesto di essere «il gorilla ammaestrato del taylorismo», ma un individuo capace di intervenire nello stesso progetto oltre che nel processo lavorativo.

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Pagina 39

RIFLESSIONI SUL CASO ITALIANO

V. LA CRISI ITALIANA

1. I caratteri generali

La crisi italiana va letta nel quadro di queste mutazioni. L'interpretazione che, da destra e da tanta parte della sinistra, la riconduce a un difetto di «alternanza», ci appare opaca e deformante: sia in chi sostiene che il nostro sistema politico sarebbe rimasto bloccato perché troppo potente appariva il Partito comunista nella fase della guerra fredda, sia in chi, all'opposto attribuisce il blocco e il corrompersi delle istituzioni al «consociativismo» che avrebbe caratterizzato la prima Repubblica.

Né la vastità della frana si spiega, a nostro avviso, con le rivelazioni di Tangentopoli e la spinta referendaria che ne ha tratto alimento alzando come bandiera il «partito degli onesti» contro ogni altra priorità ideale o sociale. Noi crediamo anzi che la sfera politica si corrompa, gli scandali vengano alla luce e la «giustizia» assuma una valenza palingenetica, proprio nell'allontanarsi del sistema politico - maggioranza e opposizione - dalla concretezza della composizione sociale in mutamento, dagli attori e obiettivi del conflitto, e rispetto agli ambiti, ormai più che nazionali, nei quali esso si decide.

Negli anni Sessanta la società italiana era venuta modemizzandosi sotto il segno del dualismo operai-capitale, che sostituiva sia quello del primissimo dopoguerra - «uniti nella ricostruzione» - sia quello che prevaleva dal 1948: ristrutturazione sotto il controllo del blocco industriale e della proprietà agraria, mediato dalla Democrazia cristiana. Il paradigma fordista - capitale e classe operaia conflittualmente uniti nella crescita - domina al di là dello strutturarsi di tutte le produzioni sul suo schema, connota la democrazia avanzata, e in Italia ha la radicalità d'un conflitto di antiche basi fra classi subalteme e un blocco proprietario più conservatore che innovativo. Di più e di specifico, c'è in Italia l'estesa proprietà di Stato, ereditata dal fascismo, che svolge un ruolo di ammortizzatore dell'una e dell'altra parte.

Nello schema fordista si coglieva dunque il caso Italia, si definivano identità collettive e conflitti: trovava anche una collocazione la rete di rapporti sovrastrutturali (ruolo dei cattolici fra Chiesa e Dc, debolezza della borghesia liberale, egemonia della sinistra nella modernizzazione delle culture e dei rapporti civili). L'Italia si guardava e si vedeva in Torino e la Fiat.

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Pagina 66

Non è una domanda oziosa o di natura meramente storica. La parte capitalistica vincente dà una riposta. Dice: perché è illusorio credere che dall'interno o all'esterno del modo di produzione capitalistico possa crearsi una contraddizione che ne contiene il nocciolo di rovesciamento. Il modo di produzione capitalistico - si sostiene - è «la produzione»; gli sconquassi che ne derivano fanno parte d'un meccanismo di crescita che alla fine si salderà sempre in positivo, l'impresa è la forma principe del produrre, la forza di lavoro le si subordina, e nella concorrenza fra imprese si modifica in quantità e qualità, e il mercato ne è regolatore e motore. Senza capitale, impresa e mercato è il ristagno. Questo è il supersoggetto della modernità.

A questa tesi anche Trentin e Revelli sembrano non obiettare: per Trentin questo processo porta in sé dei principi liberatori per quella parte degli uomini e delle donne che vivono la moderna avventura, produttiva ma anche conoscitiva, dell'impresa. Per Revelli, invece, esso comporta un surplus di alienazione, anche per coloro che all'impresa hanno la ventura di collaborare, e per il costo umano di chi ne resta fuori.

Da parte nostra, riteniarno che se questo processo dovesse essere vincente, si rovescerebbero ab inizio i presupposti della società e della democrazia moderna. Essi si fondavano - si pensi alle Dichiarazioni dei Diritti - sulla sostanziale libertà e uguaglianza nei diritti di ogni essere umano. Il marxismo ne è realmente l'erede conseguente, in quanto sottolinea le condizioni materiali reali della libertà. Si può obiettare al movimento comunista di aver insistito sulle condizioni materiali, anzitutto la proprietà, fino a capovolgerle in totalitarismo o in inuguaghanza politica: è la critica liberale e libertaria e i comunisti sono tenuti a risponderle.

Ma il problema di che cosa sia una civiltà planetaria dove in partenza è data per necessaria l'inuguaglianza delle condizioni e dei poteri «sul modo di vivere e produrre» è enorme. Viene in causa la questione del soggetto politico moderno: che cosa distingue il cittadino dal suddito, se non l'uguaglianza nel diritto di determinazione del destino comunitario e suo proprio? E' ovvio che nella tesi «libertà eguale a libertà d'impresa» soltanto il capitalista coincide con il cittadino in senso pieno; mentre il non capitalista o non detentore di mezzi che gli consentano di acquistare gli strumenti della sussistenza, formazione e partecipazione, non lo è.

A questa contraddizione di partenza fra soggetti sempre più radicalmente disuguali si somma l'incidenza del nuovo modello produttivo sugli Stati nazionali. Il sistema delle imprese travalica le frontiere, agendo su una sfera più ampia, che all'interno degli Stati scarica la parte della popolazione che emargina.

D'altro canto la deregulation e la libera circolazione dei capitali hanno tolto agli assetti nazionali la possibilità di limitarne effettivamente i movimenti, perdendo quindi la sovranità sulle risorse. Ma lo Stato era il terreno sul quale in via di principio a ogni cittadino era consentito di esercitare, come elettore attivo o passivo, la rappresentanza, e dare un mandato sui problemi del Paese. Lo schema delle democrazie parlamentari è quindi investito nel principio della sovranità politica del governo, delle istituzioni rappresentative e del popolo. Anche qui il trionfo della democrazia come sistema di potere dal basso e di difesa integrale dell'individuo - coro intonato nel 1989 - si scontra brutalmente con la caduta dei poteri della sfera politica nazionale, che è la sola dove si danno la rappresentanza e l'esercizio della legislazione.

A ciò l'impresa sfugge. Non solo, ma il sistema delle imprese nega che la sfera pubblica debba e possa avere un suo proprio terreno di intervento, sia nel settore strategico della proprietà e dell'economia - come un tempo si intendevano le produzioni fondamentali per l'autonomia del Paese - sia, recentemente, nel settore dei grandi servizi (stato sociale), sia nel nuovo terreno delle comunicazioni.

Muta con questo un'idea forte di democrazia, che esplicitamente si riduce a quel che Marx denunciava - i soli diritti politici elementari -, poiché ogni possibile ascesa a luoghi di determinazione dello sviluppo e delle risorse di un Paese tende ad avvenire non per via politica, ma solo dall'interno del sistema di produzione e di accumulazione.

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Pagina 70

(...) «Sinistra» è diventata dunque la parte politica che si proponeva di difendere e, alla fine, «liberare il lavoro», farne un soggetto invece che merce. E andava da sé che la sua difesa - come occupazione, come capacità professionale, come salario - era anche difesa del soggetto politico-sociale decisivo, intrinsecamente interessato a una società di liberi: uomini e donne finalmente svincolati dalla surdeterminazione del Sovrano o della Chiesa o della Proprietà. Vale ancora questa equazione? Difendendo il lavoro, i lavoratori, si difende l'agente della liberazione nel Duemila? E se si, questa difesa si esprime ancora nei termini di un progetto di società dove il lavoro sia condiviso e libero dal profitto? Vale insomma ancora l'idea marxiana d'un «modo di produzione» determinato dalla sfera politica invece che dalla anarchia del mercato?

Se è così, difendere l'occupazione si presenterebbe oggi con un significato molto più vasto che come mera difesa degli occupati: se la tendenza mondiale è alla riduzione degli addetti alla produzione con un illimitato aumento della produttività, la prima conquista sarebbe quella di utilizzare gli aumenti di produttività nel senso di meno lavoro per tutti, invece che in meno addetti con più lavoro. La parola d'ordine «lavorare meno, lavorare tutti» resterebbe: anzi sarebbe come non mai una parola d'ordine unificante, anche fra società «avanzate» e società «arretrate». Le prime cesserebbero di essere assieme rapinatrici di risorse, e destinate a disoccupazione ed emarginazione perché il costo del lavoro è troppo alto; e le seconde cesserebbero di essere un mercato di riserva di mano d'opera costretta a emigrare o corvéable a merci sul posto. In questo quadro, le proposte di distribuzione della riduzione dell'orario di lavoro, cioè della redistribuzione del lavoro fra molti - osteggiate dalla tendenza del capitale, dagli organismi internazionali e dalla maggior parte delle forze politiche, ormai «liberiste» - avrebbero ben più che un valore di tenuta della forza di lavoro, altrimenti in via di dispersione; avrebbero insomma addirittura un significato strategico.

Lo stesso potrebbe valere per le tesi, avanzate sia da economisti come Giorgio Lunghini, sia da Legambiente, inerenti alla costruzione d'una sfera di lavoro fuori mercato, i lavori «socialmente utili», che si porrebbe a fianco della sfera del mercato, demercificando la sfera della riproduzione sociale, oggi forzata invece come non mai sulla via della moltiplicazione anche immotivata dei beni e forme di consumo, da produrre a prezzi competitivi, vendere e acquistare.

Senza entrare nel merito delle due tesi, ambedue pongono la questione: chi frena la logica della competitività? Chi decide di affiancare a essa un altro settore di lavoro? Chi ne decide le regole, ne individua le risorse?

Riemerge la domanda se sia da proporre un modello misto fra Stato e mercato, che nelle condizioni del postfordismo (cioè fuori dagli interessi diretti del capitale ormai non più interessato a riconoscere la parte avversa e a puntare di nuovo sulla produzione di scala) rilanci una forma di compromesso sociale di tipo keynesiano. In Europa, oggi, la preoccupazione per la crescita esponenziale della disoccupazione già indica uno schieramento - soprattutto alcuni sindacati e alcuni tecnici della Cee (da Delors agli europei del Gruppo di Lisbona), che spingono in questa direzione.

In ogni caso un tale progetto - per avere una incidenza reale sulla rotta - chiede un mutamento rilevante del modello di sviluppo, suppone un'altra scala di valori, e quindi soggettività sociali che li sorreggano nel conflitto con i gruppi oggi dominanti. Vogliamo dire che questi progetti parziali non hanno prospettiva, se non avanza una critica di massa, uno schieramento sociale (un blocco) capace di reggere il confronto con la tendenza del grande capitale e la cultura che esso alimenta.

Ma qui, proprio al livello della ricostruzione d'una soggettività, si apre un'altra domanda di fine secolo. Può essere ancora il lavoro, un valore? Non è venuto in questione nella coscienza dei più, almeno nelle società complesse, un dubbio che riguarda la scala di priorità e gli obbiettivi della'esistenza? E' evidente che il fare asse attorno al lavoro, liberato invece che mercificato, non significa porre un problema di redistribuzione ma di struttura della società e della persona: i tempi e, per così dire, il loro «uso» nella vita; il rapporto fra tempi di produzione e di riproduzione, fra quelli e il riposo, tra vivere collettivo e vivere individuale, tra lavoro e studio, e (oltre) fra l'agire e il contemplare, l'essere e il fare.

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Pagina 72

Questo ordine di riflessioni, legge anche la crisi dei socialismi reali come crisi di società iperfordiste, «lavoriste», basate su due soggetti (mezzi di produzione, assunti dallo stato/datore di lavoro in quanto rappresentante «politico» della parte sociale «operaia»), dove semplicemente il prodotto del lavoro viene redistribuito «equamente» a tutto il collettivo sociale. I socialismi reali - secondo queste tesi sarebbero rimasti dentro lo schema del capitalismo fordista, per giunta compattato in gerarchie politico-organizzative che non hanno lasciato spazi alla libertà della persona (tutta la società è come una fabbrica). Quel che è successo all'Est sarebbe dunque una variante della crisi dell'economia di scala, anzi il luogo dove essa è stata più omogeneamente applicata, e dove avrebbe rivelato prima che altrove il suo limite economico (crescita rallentata), l'incapacità di competere in tecnologia diffusa, oltre la sua natura politicamente nefasta, vera e propria struttura di carcerazione.

Ne deriva una critica radicale a ogni modello di società che regoli sul lavoro le relazioni e i diritti. La classe oppressa sarebbe imbevuta dei «valori» della classe dominante. Ci si libera realmente dall'alienazione - questa è la tesi avanzata - non solo liberandosi dal lavoro salariato, ma svincolando la persona da ogni mercificazione e scambio dell'umana attività. La tecnologia - viene sostenuto - lo rende possibile, l'occidente è ormai in eccesso di produzione: troppa, troppo concentrata, dissipatoria, senza più legame con i bisogni di riproduzione sociale, puramente finalizzata al profitto e tale da fare del consumo il solo modello di identificazione.

Partendo da questa analisi muta l'obiettivo politico che era stato tipico della modernità e della emancipazione dei lavoratori, cioè la richiesta di un diverso ordinamento proprietario della produzione, in modo da garantire a tutti «eguaglianza» nei mezzi materiali. Si sostiene da parte di questi autori: la quantità di prodotto esistente e il sernpre minore lavoro umano che tale produzione esige, permette di liberarsi dal lavoro come mezzo di sussistenza, e dal farne il cardine dello statuto sociale (Gorz, Latouche, Aznar e altri).

Sussistenza e diritti possono essere separati dal lavorare; la società (o lo Stato) garantirebbero nel «salario di cittadinanza» una base di reddito certo per tutti. Il guadagno da lavoro sarebbe intermittente, non necessario; la pienezza dell'umanità individuale sarebbe realizzata come bene per così dire a priori.

Posta e analizzata in questa chiave la crisi del «lavoro», essa sfocia nella crisi delle ragioni storiche della sinistra. Questa finisce il suo ciclo in quanto finirebbe il suo portatore (la classe lavoratrice). L'accento del soggetto e la sua disalienazione si sposterebbero dal fare estrinseco (produrre) e collettivo (produrre insieme nella società) alla realizzazione diretta dell'individuo nella società.

E' la fine del progetto politico rivoluzionario classico. Ed è interessante che essa si disegni non soltanto all'interno e in concomitanza con l'era postfordista. La stessa emancipazione dai nudi bisogni che l'industrialismo ha prodotto in Occidente, la complessità della sfera politica cui ha dato luogo il modo capitalistico di produzione, hanno costruito, sviluppato e fatto apparire i limiti della idea d'una comunità che trova il suo senso nel «modo degli uomini di produrre e organizzare la loro esistenza». Dove il «produrre» appare assieme limitativo e prescrittivo.

I nuovi soggetti lo hanno detto dagli anni Settanta in vario modo. Molto più a fondo dell'accusa ecologista, va la contestazione dei pensiero femminile che accusa la sfera politica di battersi su parametri maschili, essenzialmente produttivisti, dunque competitivi, dunque bellicisti, che prescindono dai tempi del corpo, della riproduzione, degli affetti. E ne annullano la presenza, sono incapaci di assumerli nella cultura della polis. Il corpo, il sesso, la cui problematica ha assunto un'inedita dimensione, resistono potentemente all'astrazione giuridica, a quella reductio ad unum che rifiuta la dissimetria e che è nel profondo della cultura e del potere maschile. Ma non si tratta soltanto d'una visione riduttiva alle priorità d'un sesso. E' la povertà d'una riduzione dell'essere all'economico, al fare, che brutalmente riduce la complessità e la molteplicità dell'esistere dell'individuo e della comunità.

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Pagina 101

Allo stesso modo però non mi appartiene un'idea della identità personale che prescinderebbe dal sistema di relazioni in cui cresce e con il quale confligge o si alimenta; un io originario è ai limiti dell'irriflessivo, e un io di appartenenza naturale - per sesso o etnia o sangue - non basta a costituire una identità, o la costruisce in forma in senso proprio ideologica.

In conclusione, fra noi tre non c'è una che dubita che il soggetto sia complesso, o per converso che il lavoro lo esaurisca: non facciamo la caricatura di noi stessi. E neppure che con la acculturazione si sia spostato di molto l'investimento sul lavoro (come successo? status? denaro per consumare? realizzazione di sé? sono diversi). Il problema è se pensiamo o no che la vita degli individui è o non è più condizionata dall'accesso ai mezzi di scambio, cioè al denaro, tramite proprietà o rendita o lavoro. Se lo è ancora, la precarizzazione mette in causa non un modello di valori, ma la premessa dell'esistenza come sogetti. E resta necessario che chi non ha capitali o rendite si garantisca sull'andamento del modo di produzione capitalistico, dal quale viene sempre più prepotentemente estromesso. Solo chi risponde che «no», la collocazione nel sistema di produzione di beni o servizi e l'accesso al sistema di scambio, non è più condizione dell'autonomia di vita, può dire che il modo di produzione ha cessato di essere centrale: espressione del resto abbastanza impropria e stupida. Fino ad ora, allo sloggiamento del lavoro e del denaro dallo status di premessa per la vita aveva pensato soltanto il comunismo.

Di questo si tratta. Io perdo la pazienza e me ne scuso, quando mi sento dire da tutte le parti che il lavoro non è più centrale, come se si trattasse di essere o no beati nel proprio mestiere e sordi al resto dell'esperienza. Né mi rincresce che il movimento operaio organizzato non si sia occupato del resto dell'esperienza: non vorrei proprio che questo fosse oggetto di indagine o prescrittiva d'uno Stato o d'un partito. Se mai è il resto dell'esperienza che ha da imporre il peso dei suoi bisogni e saperi sulle forme del politico, in modo da non esserne escluso o perseguito. In realtà, dietro a qualche falso problema, sta la pressione a non impicciarsi più del modo di produzione, e di come contrattarlo o contrastarlo.

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Pagina 161

ECONOMIA E MODELLO SOCIALE NEL PASSAGGIO TRA FORDISMO E TOYOTISMO
Marco Revelli

Le convulsioni politiche e sociali cui stiamo assistendo non hanno una semplice radice soggettiva. Non si spiegano solo con trasformazioni culturali (con metamorfosi nelle culture politiche), o con operazioni di ingegneria istituzionale. Esse affondano le radici in un quadro di trasformazione epocale dei processi di lavoro e di organizzazione produtriva: per la precisione in quella che chiamerei la fase di transizione dal modello fordista-taylorista che ha segnato a fondo il Novecento e ha rappresentato, fino ad ora, il contesto e l'ambiente in cui si è sviluppato il conflitto sociale e si sono strutturate le forme organizzativi della rappresentanza politica, a un nuovo modello, a un nuovo paradigma produttivo di cui s'incomincia appena ora a intravvedere le linee portanti, e che si può chiamare, per semplicità, «postfordista», a sottolinearne il carattere incompiuto, di «transizione», appunto.

FORDISMO: OVVERO LA CULTURA DELLA CRESCITA ILLIMITATA

Schematizzando, si potrebbe dire che quello fordista era un modello centrato sulla crescita, fondato sull'ossessione della crescita, sull'identificazione forte tra sviluppo e crescita quantitativa. La crescita costituiva la filosofia di fondo di questo modello: la crescita intesa come estensione quantitativa dei volumi produttivi e come dilatazione illimitata della presenza industriale sul territorio (gigantismo degli impianti, progressione lineare dell'occupazione, moltiplicazione serializzata dei prodotti, ecc.). Da questa centralità assoluta della «crescita», derivavano quattro caratteristiche di fondo che possono essere assunte, sia pur schematicamente, come qualificanti del modello fordista-taylorista: l'idea del carattere illimitato del mercato e quindi il primato assoluto della produzione (della fabbrica) e della sua razionalità tecnica su ogni altra sfera sociale; il ricorso sistematico all'«economia di scala» come risorsa strategica; una concezione dualistica, polarizzata, conflittuale della fabbrica e dell'atto produttivo; infine, una sostanziale «territorializzazione» del capitale entro una dimensione prevalentemente nazionale. Quattro caratteristiche tra loro interdipendenti: tali cioè da costituire l'una il presupposto dell'altra secondo la logica, appunto, di un vero e proprio «sistema».

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Pagina 188

7. Verso un nuovo organicismo industriale

E' in questo senso che Maurizio Magnabosco, responsabile Fiat delle relazioni interne, ha contrapposto la natura organica del nuovo modello organizzativo, a quella meccanica del vecchio modello fordista. «Organico», significa, qui, nella accezione sociologica del termine, un modello di relazione sistemica in cui il tutto predomina sulle sue parti. O meglio, in cui ogni singola parte partecipa per la propria stessa natura delle finalità del tutto (come gli organi di un corpo vivente). Nel modello «meccanico», invece, ogni singola parte possiede un propria specifica ratio e viene ricondotta al tutto solo in forza di un «progetto» ad essa esterno (come i pezzi di un motore). La Ohno («un'organizzazione industriale è come un corpo Umano») per spiegare il rapporto tra decentramento delle decisioni e unitarietà del processo di lavoro, paragonato appunto al funzionamento del sistema nervoso periferico, in grado di rispondere spontaneamente a stimoli ambientali senza necessariamente interpellare il sistema nervoso centrale (aumento della salivazione, aumento del battito cardiaco, accelerazione della respirazione, ecc.), ma sulla base di una sostanziale interiorizzazione della logica di funzionamento dell'intero sistema.

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Pagina 224

LE ISTITUZIONI DELLA MONDIALIZZAZIONE
Isidoro Davide Mortellaro

    - Marco Polo descrive un ponte, pietra
      per pietra.
    - Ma qual è la pietra che sostiene il
      ponte? - chiede Kublai Kan.
    - Il ponte non è sostenuto da questa o
      quella pietra - risponde Marco, - ma
      dalla linea dell'arco che esse
      formano.
    Kublai Kan rimane silenzioso,
    riflettendo.  Poi soggiunge:
    - Perché mi parli delle pietre?
      E' solo dell'arco cbe mi importa.
    Polo risponde:
    - Senza pietre non c'è arco.

                                I. Calvino
1. Verso il XXI secolo

L'agenda varata nel luglio 1994 a Napoli dal G7 schizza decisa la svolta di questo fine secolo. La «globalizzazione delle economie», impone un terreno completamente nuovo: «la sfida dell'integrazione delle democrazie di mercato emergenti in tutto il mondo». Apparentemente, limpidi e nette si stagliano orizzonti e movenze del nuovo Direttorio planetario. Il cammino sembra esser ritornato in piano, se non in discesa. Innestata dalle decisioni assunte al precedente vertice di Tokyo, finalmente c'è la ripresa: può mettere in movimento quella scandalosa massa di 24 milioni di disoccupati tornata ad annidarsi nel ventre grasso dei 7. Perché si attivi il circolo virtuoso crescita-sviluppo-occupazione, v'è bisogno però di ridar tono ed clasticità a tessuti sociali irrigiditi da un vecchio industialismo, scrostare la ruggine depositata dalle politiche di Welfare. Si adotti la ricetta commissionata a marzo all'Ocse dal vertice di Detroit sul lavoro e sfornata a giugno: potenziare la capacità dell'Occidente di reggere il passo del cambiamento strutturale, alleggerirsi delle rigidità di tempo, salari e bilanci pubblici, flessibilizzare - in particolare l'Europa - all'urto d'una nuova onda innovativa, regolata, quando non direttamente attivata, questa volta, da un nuovo protagonismo pubblico.

Ma è proprio l'atto di fede nei valori fondativi della nuova Santa Alleanza a rivelare ostacoli e fratture. Proprio lì frena, si misura l'ambiziosa volontà dei vincitori di dare un calco nuovo al mondo ereditato dalla fine del bipolarismo, dal volgere del Novecento. L'ingresso nel XXI secolo traghetta oltre le colonne d'Ercole segnate a Bretton Woods. Quell'epoca si chiude.

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Pagina 265

UN CONFLITTO OCCULTO
K. S. Karol

    «Lenin non lascia eredità.  La
    Rivoluzione d'ottobre ha chiuso la sua
    traiettoria senza essere vinta sul
    campo di battaglia, liquidando essa
    stessa tutto quello cbe è stato fatto
    in suo nome... restano solo gli
    uomini, passati da un mondo all'altro,
    riconvertiti in un sistema diverso,
    sostenitore del mercato e delle
    elezioni, o riciclati nel
    nazionalismo».
Queste citazioni dall'ultimo libro di Francois Furet (Fine di un'illusione, Mondadori, 1995) riassumono abbastanza fedelmente l'attuale situazione nell'ex Urss e negli altri paesi dell'Est. Piacerebbe contestarle affermando che la storia non è finita, è troppo presto per tirare un bilancio. Ma ripeteremmo un vecchio errore della sinistra, che pur sapendo quanto male andassero le cose nell'Urss - si ostinava a credere che prima o poi si sarebbero aggiustate.

Meglio dunque riconoscerlo, senza pregiudicare il futuro: le società che nel 1917 e nel 1945 si erano sbarazzate dei capitalisti e della proprietà non hanno superato l'esarne della storia, rivelandosi meno funzionali e produttive di quelle fondate sul profitto e lo sfruttamento.

E' questo che ha dato fiato ai cantori della proprietà privata e della world global economy. Il fallimento dell'esperienza sovietica è politico; e le sue radici risalgono a molto lontano. Ma neanche coloro che l'avevano criticata da sinistra, da Rosa Luxemburg a Mao Tze-Tung, prevedevano che sarebbe finita in modo così disonorevole. Questo passato va rivisto interamente se se ne vuol trarre qualche lezione diversa da quella di Furet, ma non necessariamente più ottimista. Non è questa la sede per farlo: cercheremo di dare solo qualche punto di analisi sul sistema produttivo nel cosiddetto «socialismo reale».

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