Autore Tullia Iori
Titolo SIXXI 1 Storia dell'ingegneria strutturale in Italia
EdizioneGangemi, Roma, 2014 , pag. 160, ill., cop.fle., dim. 21x27,8x1,4 cm , Isbn 978-88-492-2830-4
CuratoreTullia Iori, Sergio Poretti
LettoreRenato di Stefano, 2015
Classe storia della tecnica , scienze tecniche , architettura , illustrazione , fotografia , paesi: Italia












 

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Indice


  7 TULLIA IORI, SERGIO PORETTI
    Una ricerca entusiasmante

 10 Fotogenia della struttura. Opere d'autore
    a cura di ILARIA GIANNETTI


    Indagini

 32 ILARIA PALAZZI
    Una teoria per gli ingegneri.
    Intorno ai metodi energetici per il calcolo
    delle strutture iperstatiche (1858-1884)

 50 ILARIA GIANNETTI
    Castelli di acciaio.
    Il sistema tubo-giunto di Ferdinando Innocenti (1934-1964)

 68 ANNA PIETRANTONIO
    L'industria italiana del cemento.
    L'ingegneria italiana in copertina (1929-2009)

 80 CHIARA TARISCIOTTI
    Istituto Sperimentale Modelli e Strutture.
    Il santuario della modellazione fisica

 90 GIANLUCA CAPURSO
    Il grattacielo "Italian Style".
    La costruzione dell'edificio alto negli anni Cinquanta e Sessanta

104 IRENE BLANDINO
    Le macchine per nastri sottili di rapido scorrimento.
    Alcune opere di Silvano Zorzi tra il 1960 e il 1972


114 TULLIA TORI, SERGIO PORETTI
    Fotoromanzo SIXXI
    1. La diffusione del ferro nell'800
    2, L'avvento del cemento armato


156 ENGLISH TEXTS


 

 

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Pagina 7

UNA RICERCA ENTUSIASMANTE


La ricerca SIXXI (TWENTIETH CENTURY STRUCTURAL ENGINEERING: THE ITALIAN CONTRIBUTION) ha lo scopo di ricostruire - e raccontare - la storia dell'ingegneria strutturale in Italia. Dalla sua origine ad oggi. È una storia avvincente, a tratti gloriosa, e comunque singolare. Enigmaticamente, infatti, accade che in un paese in cronico ritardo nel processo d'industrializzazione, com'è l'Italia, si sviluppi fin dai primi anni del Novecento un'ingegneria strutturale in linea con le più avanzate frontiere europee, che questa venga assumendo negli anni dell'autarchia una propria originale identità, che nel fervore della ricostruzione e del miracolo economico generi un patrimonio di eccezionale qualità ed emerga alla ribalta internazionale come una Scuola tra le più prestigiose del mondo, che negli anni successivi, con la stessa rapidità con cui si era imposta all'ammirazione mondiale, scompaia completamente dalla scena.

L'esigenza di ricostruire questa storia deriva dal fatto che, al termine della sua breve parabola, la Scuola italiana viene subito dimenticata, anche in sede storica. La curiosa circostanza rende la ricerca SIXXI per noi entusiasmante: la storia che veniamo riscoprendo, giorno dopo giorno, è praticamente sconosciuta. Al grande pubblico certo, ma anche, incredibilmente, agli architetti, agli stessi ingegneri. Perchè è vero che qualche protagonista è famosissimo. Nel caso di Nervi è esplosa una vera e propria moda. È anche vero che esiste una tradizione di studi sulle opere strutturali. Ma si tratta di sondaggi episodici, rassegne analitiche, lavori interessati a costruire una tassonomia delle tipologie strutturali.


II progetto SIXXI si propone invece di innescare un processo di storicizzazione della Scuola italiana d'ingegneria. Collocandone l'origine, lo sviluppo e il declino nella prospettiva storica: sullo sfondo dell'evoluzione dell'ingegneria moderna in campo internazionale, nelle reciproche interazioni con la tormentata storia del Paese, in rapporto alla ben più nota storia dell'architettura italiana del Novecento.

Il fatto che non si sia ancora messa mano a questa storia non è inspiegabile. Anche la storia mondiale dell'ingegneria strutturale appare striminzita in confronto alla storia dell'architettura. Alla base dello stentato sviluppo c'è un motivo: la scarsa simpatia tra l'ingegnere e la storia. Non ci si può aspettare che sia l'ingegnere - l'ingegnere ortodosso che ambisce a progettare il futuro - a ripensare la storia, si tratti pure della propria. D'altra parte, la ben più consolidata storiografia architettonica, che pure ha sempre guardato con curiosità alle strutture moderne (basti pensare allo spazio che Giedion riserva a Eiffel e a Maillart) non è però attrezzata per spingere l'indagine fino alle implicazioni scientifiche, che nella progettazione strutturale svolgono un ruolo vitale.


C'è, insomma, una difficoltà oggettiva a collocare la storia dell'ingegneria strutturale in un ambito disciplinare definito. D'altra parte la struttura è oggetto di natura radicalmente transdisciplinare. Per la formazione della scuola italiana il contributo teorico di scienziati come Menabrea, Castigliano, Danusso, Colonnetti non è meno importante dell'opera di progettisti come Nervi, Morandi, Zorzi, Musmeci. E se volessimo scoprire il segreto della originalità delle grandi opere del dopoguerra, dai viadotti dell'autostrada del sole, alle opere olimpiche, alle strutture del centenario dell'Unità, dovremmo andare a ricostruire puntualmente l'intensa collaborazione tra scienziati e progettisti che si svolse nel vivo di quei cantieri. Operatore o teorico, il protagonista della Scuola italiana è una figura multiforme: strana combinazione di scienziato-imprenditore-artigiano, reincarnazione dell'ingegnere ottocentesco, pioniere delle grandi strutture in cemento anzichè in ferro, che nel singolarissimo contesto della modernizzazione italiana (ritardataria e costantemente protoindustriale) trova le condizioni per una breve, anacronistica sopravvivenza.

Questa congenita eterogeneità non si lascia decodificare con gli strumenti usuali dell'interdisciplinarità. Serve una strategia diversa da quella basata sul team di specialisti. La sfida che affronta il progetto SIXXI è quella di ricostruire la storia dell'ingegneria strutturale utilizzando l'approccio proprio della storia della costruzione. Quest'ultima infatti, concepita come "storia materiale", è attrezzata per rileggere le operazioni del progetto e della costruzione in quanto pratiche: momenti concreti della cultura, appunto, materiale. Ed essendo la pratica - qualsiasi pratica - eterogenea ma comunque unitaria, lo storico che vuole rileggerla non può fare appello al lavoro interdisciplinare ma deve attrezzarsi a compiere egli stesso, autonomamente, percorsi trasversali. L'artefice della grande struttura passa disinvoltamente attraverso i grandi territori epistemologici, dalle scienze, alle tecniche, alle arti: la stessa strada deve ripercorrere l'investigatore che vuole ricostruirne l'operato.

[...]

Per questo abbiamo programmato la piccola serie di SIXXI books, di cui questo è il primo volume. È qui che intendiamo raccogliere, strada facendo, gli esiti delle indagini in corso. Episodi di diverso genere, che confluiscono nello sviluppo corale della Scuola dell'ingegneria italiana: il contributo scientifico che ha agevolato in un certo momento il calcolo delle strutture, l'invenzione di un'attrezzatura tipica del cantiere italiano, l'attività di un laboratorio specialistico, la nascita e la vita di una rivista di settore (nella sua diversità rispetto alle riviste di architettura), la produzione di un autore, la microstoria di una singola opera.

Ai frammenti ricostruiti dai singoli componenti del team, viene aggiunto il racconto, a puntate, della vicenda complessiva, così come veniamo man mano ricomponendola. È un racconto illustrato. È un fotoromanzo (genere non a caso inventato in Italia più o meno negli stessi anni del boom dell'ingegneria). Supponiamo che nelle sue pagine, mentre scorre agilmente, figura per figura, la sequenza degli eventi e delle opere principali, ricompaia l'iconografia scomparsa dell'ingegneria moderna: strutture non più esistenti, volti di protagonisti sconosciuti, grafiche in disuso, atmosfere epiche, come quella del cantiere artigianale della grande struttura, soggetto prediletto dai fotografi, animatori di una storia parallela, altrettanto artigianale, altrettanto specialistica, altrettanto italianissima.


Ma nemmeno raccontare la storia dell'ingegneria man mano che la veniamo ricostruendo è sufficiente: dobbiamo fare in modo che essa venga ascoltata. L'esito di tale proposito è tutt'altro che scontato. Le vicissitudini che portano a realizzare grandi strutture sono in molti casi avvincenti, ma lo sono anche per le loro implicazioni scientifiche sofisticate. Limitarne la comprensione a coloro che, per esempio, conoscono la teoria dell'elasticità significherebbe tradire lo scopo divulgativo e applicativo della ricerca. Nasce così una delle più ardue sfide quotidiane che accompagna il lavoro del team: migliorare la leggibilità del racconto storico. Borges ci ricorda come l'epoca di Shakespeare riteneva che "la storia non fosse capace di recuperare il passato, ma bensì di coniarlo in divertenti leggende". Da tempo ha prevalso la tesi della storia come cognizione, rafforzata dall'impiego sempre più massiccio di analisi scientifiche. Ma rammentare che la ricostruzione è sempre frutto anche dell'immaginazione e che una dose di teatralità è consustanziale al racconto storico ci può aiutare a conservargli il necessario appeal, specialmente quando l'argomento è ostico e specialistico come l'ingegneria strutturale.


Tullia Iori e Sergio Poretti

Roma, febbraio 2014

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Pagina 10

La struttura moderna è fotogenica. In (quanto) genere. La fotografia della costruzione in ferro ottocentesca è familiare e suggestiva, si tratti del Garabit di Eiffel o del più comune viadotto ferroviario a travata reticolare, del Crystal Palace o dell'ennesima galleria urbana in ferro e vetro. Altrettanto certo è il fascino della forma plasmata in cemento armato, sia il Salginatobel di Maillart, o il guscio di Torroja o il cavalletto strallato di Morandi. E ancora oggi, quale soggetto è più attraente per lo stuolo dei fotografi, amatoriali e no, di una struttura di Calatrava?

È anche grazie alla sua fotogenia che la struttura è divenuta un simbolo della modernità. Le origini di una forza simbolica sono molteplici e imperscrutabili. Ma in questo caso un ruolo non trascurabile può aver giocato l'affinità tra la fotografia e l'ingegneria strutturale; affinità indiretta, eppure singolarmente intima. Entrambe le tecniche, infatti, emanano il sapore di una modernità protoindustriale, in cui convivono base scientifica e manualità, tecnologia sofisticata e fattura artigianale, macchinismo e rifuto della serialità.

Il simbolo può racchiudere in un'immagine lo spirito di un'epoca. E la dinamica di questa apparizione resta ineffabile. Ma nella struttura fotografata possiamo vedere la rara rappresentazione di una ben distinta connotazione della modernità: la sua anima scientifica.

Quella che percepiamo nella figura strutturale, infatti, non è la forma in quanto configurazione geometrica, ma il meccanismo delle forze in equilibrio. L'inquadratura che isola il groviglio reticolare sullo sfondo del cielo o ritaglia la sinuosità interna alla superficie a doppia curvatura inversa (quando non scada nel luogo comune dell'astrazione formale) porta alla luce l'identità interna alla struttura: le leve (più o meno nascoste) che ne assicurano la stabilità e la resistenza. Per questa via l'immagine della struttura allude ad un aspetto tradizionalmente trascurato dalla storiografia sul moderno: il ruolo decisivo svolto dalla scienza - dalla meccanica applicata alle strutture - nella gestione degli equilibri difficili e sofisticati che sono alla base dell'estetica della modernità.

Lo sforzo di escogitare un modo per vedere le forze - entità per definizione invisibili - accompagna tutta l'avventura scientifica sulla struttura moderna. Nel 1935 Arturo Danusso apre nel laboratorio prove e materiali del Politecnico di Milano la sezione della fotoelasticità. Un procedimento ottico consente di vedere - e persino fotografare - l'assetto delle tensioni principali all'interno di un modello trasparente sollecitato. La configurazione luminosa percepibile rispecchia quella dovuta all'anisotropia molecolare che, per effetto dei carichi, si determina nel modello inizialmente isotropo. Ignoro se la disputa su quale fosse la causa più diretta del fenomeno ottico, se fosse cioè la deformazione o più direttamente l'entità delle tensioni, abbia mai avuto un esito oppure, come è più probabile, sia stata abbandonata. Certo è che nell'evoluzione della fotografia strutturale la fotoelasticità interviene ad assumere sul versante della meccanica un ruolo paragonabile a quello che in fotografia ha avuto la scoperta di Daguerre.

Sergio Poretti

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Pagina 32

ILARIA PALAZZI

UNA TEORIA PER GLI INGEGNERI

INTORNO Al METODI ENERGETICI PER IL CALCOLO DELLE STRUTTURE IPERSTATICHE (1858-1884)


Il 31 maggio 1858, il colonnello Luigi Federico Menabrea presenta all'Accademia delle Scienze di Parigi il suo Nouveau principe sur la distribution des tensions dans les systèmes élastiques:

"Ecco l'enunciato di questo nuovo principio che chiamerò principio d'elasticità: Quando un sistema elastico si pone in equilibrio sotto l'azione delle forze esterne, il lavoro sviluppato per effetto delle tensioni e delle compressioni dei legami che uniscono i diversi punti del sistema è un minimo. L'equazione differenziale che esprime questo minimo sarà designata col nome di equazione d'elasticità; se ne vedrà presto l'uso per la determinazione delle tensioni".

Poche righe sintetizzano una ricerca sulla meccanica delle strutture durata quasi un secolo; una ricerca la cui origine moderna è rintracciabile in una memoria di Eulero del 1773 relativa alla pressione esercitata da un corpo sul suo piano di appoggio, e che, distaccandosi a volte dal campo della scienza per invadere quello della metafisica, coinvolge soprattutto studiosi francesi ed italiani, come d'Alembert, Bossut, Delanges, Paoli, Lorgna, Fontana, Malfatti, Venè, Cournot, Fusinieri, Bertelli, Fagnoli, Pagani, Mossotti e Dorna.

Che cosa accade quando le equazioni cardinali della statica non sono sufficienti a determinare lo stato di sollecitazione di un sistema?


Il principe d'élasticité del generale Menabrea

Il modello assunto a riferimento da Menabrea è un insieme di punti o nodi, connessi da aste elastiche tese o compresse durante la deformazione imposta da un certo numero di forze esterne; una sorta di sistema reticolare, che rappresenta la schematizzazione di tante strutture metalliche: ponti, viadotti, gallerie urbane, centine per coperture di stazioni ferroviarie. Oltre a richiamare il repertorio degli schemi costruttivi in diffusione all'epoca, il modello discreto composto da aste e nodi semplifica la trattazione matematica, dal momento che si può calcolare per sommatorie invece che per integrali e con equazioni algebriche anziché differenziali.

Indicando con n il numero dei nodi e con m quello delle aste, nel caso di un sistema reticolare tridimensionale, è possibile scrivere 3n equazioni di equilibrio di nodo; tra queste, sei rappresentano le equazioni del corpo rigido, per cui le relazioni che effettivamente consentono di determinare le tensioni nelle aste risultano 3n-6. Ebbene, se m è maggiore di 3n-6, ovvero se il sistema è iperstatico, esiste

"un'infinità di valori delle tensioni che, combinati con le forze esterne date, sono atti a mantenere il sistema in equilibrio. I valori delle tensioni effettive dipendono dall'elasticità delle rispettive aste, e una volta che questa è nota, lo stesso deve essere per le tensioni".

Le equazioni aggiuntive necessarie ad eliminare l'indeterminatezza del problema derivano dal considerare oltre all'equilibrio, la deformazione e le caratteristiche meccaniche degli elementi che compongono il sistema.

Per ottenere tale risultato, Menabrea osserva che ogni variazione infinitesima delle tensioni nelle aste sviluppa lavoro generando accorciamenti o allungamenti delle stesse. Ammettendo che queste variazioni di lunghezza siano infinitesime, durante la deformazione del sistema lo spostamento dei nodi risulta trascurabile; ne segue che le forze esterne compiono un lavoro nullo. Dovendo sussistere sempre l'equilibrio, risulta nullo anche il lavoro delle tensioni nelle aste.

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Pagina 36

La soluzione dell'ingegnere ferroviario Alberto Castigliano

Nel 1873 è un'altra stazione ferroviaria a far compiere il passo decisivo nella definizione del principio d'elasticità. Di fronte alla commissione esaminatrice della Scuola d'Applicazione per gli Ingegneri di Torino, lo studente astigiano Alberto Castigliano presenta la sua dissertazione di laurea il cui tema, affidatogli dal professore di Scienza delle Costruzioni, Giovanni Curioni, è la stabilità della tettoia metallica della stazione di Foggia, realizzata nel 1872 dalla Impresa Italiana di Costruzioni Metalliche diretta da Alfredo Cottrau su progetto dell'ingegnere Ottavio Moreno, Capo Servizio del Materiale e della Trazione della Società italiana delle Strade Ferrate Meridionali. La struttura, lunga 145 metri e larga 38 metri, è costituita da trentotto centine "a falce" in ferro pudellato, collegate da un sistema di arcarecci e controventi diagonali, al quale è fissata la copertura in lastre ondulate di zinco e lastre piane di vetro. Ciascuna centina è appoggiata alle imposte e si compone di un arco parabolico superiore e di un tirante poligonale inferiore, collegati tramite otto elementi tubolari verticali e quattordici diagonali disposti a croce di sant'Andrea.

Nell'analisi di questo "sistema assai complicato", anziché assumere come incognite del problema gli sforzi nelle aste o le reazioni dei vincoli esterni, secondo il metodo di calcolo proposto da Saint-Venant, "illustre annotatore e continuatore delle opere di Navier", Castigliano pensa di considerare le variazioni delle coordinate di tutti i nodi del sistema, per esprimere con maggior facilità le condizioni di congruenza che lo stesso deve soddisfare durante le deformazione.

"Ma anche questo metodo, benché parta da un concetto semplicissimo, pure nelle applicazioni conduce a calcoli assai lunghi, particolarmente quando si tratta di verghe elastiche congiunte a snodo e di parti soggette a flessione, torsione o scorrimento trasversale. Pensando al modo di abbreviare i calcoli mi parve di aver trovato un teorema, il quale raggiunge assai bene questo scopo: questo teorema io lo chiamo del minimo lavoro pel motivo, che dirò in seguito, ma esso non devesi confondere col teorema proposto da Véne, Cournot, Mossotti e Menabrea, il quale consiste in ciò che quando un sistema elastico si deforma il lavoro molecolare della deformazione è un minimo: il teorema che io propongo è puramente algebrico; esso è soltanto un metodo per abbreviare i calcoli. Io spero di poterlo dimostrare rigorosamente e di farne vedere con alcune applicazioni l'utilità e l'uso".

Nessuna relazione dunque con il principe d'élasticité del generale Menabrea, dichiara Castigliano, soltanto un procedimento algebrico per il calcolo dei sistemi iperstatici, scaturito dall'analisi di un caso concreto.

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Pagina 45

Il dibattito internazionale

La prematura scomparsa giunge al culmine della carriera professionale, ma mentre ancora ferve il cantiere del grande ponte sul Ticino e l'ingegnere astigiano riceve la nomina a socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Torino, la Théorie ha già riscosso l'attenzione degli studiosi d'oltralpe e ha trovato in Germania, ove la ricerca sulla teoria delle strutture è in questo periodo particolarmente intensa, una vivace sede di confronto.

Il dibattito tedesco viene aperto dallo stesso Biadego che per primo recensisce l'opera di Castigliano sul periodico "Zeitschrift für Mathematik und Physic" nel 1881, ripercorrendo tutti gli studi dell'ingegnere della SFAI dalla dissertazione di laurea. La fase più accesa prende avvio nel 1883 con la pubblicazione di una monografia di Müller-Breslau su "Wochenblatt für Architekten und Ingenieure", nella quale l'ingegnere del Politecnico di Hannover mostra, tramite alcuni esempi pratici, l'equivalenza dei risultati conseguibili con i teoremi di Castigliano e con il metodo dei lavori virtuali esposto nel 1874 da Mohr. La risposta di quest'ultimo giunge rapida e decisa sulle pagine dello stesso settimanale, per rivendicare la superiorità del suo procedimento, ritenuto più semplice e generale. La critica più forte del professore di Dresda riguarda l'assegnazione di un significato energetico al lavoro di deformazione espresso in funzione delle forze esterne, cui Castigliano si riferisce nella seconda parte del suo teorema. In realtà è sconosciuto a Mohr il chiarimento apportato da Crotti su tale questione.

Lo stesso Müller-Breslau nel suo trattato sulla scienza delle costruzioni del 1886 intraprende una linea di mediazione, utilizzando i due metodi basati sul principio dei lavori virtuali e sui teoremi di Castigliano, a seconda dei casi di studio, attribuendogli egual valore e pervenendo ad una prima formulazione generale del problema iperstatico, così efficace da fissare il nome del suo autore in tutta la successiva letteratura sulla teoria delle strutture.

In effetti, in Europa il dibattito sui metodi analitici per il calcolo delle travature iperstatiche si protrarrà ancora per un decennio, rimanendo perlopiù confinato nell'ambito accademico. Nei primi anni ottanta le applicazioni a casi reali sono ancora limitate; manca infatti al professionista medio la piena consapevolezza del concetto di struttura iperstatica, la cui definizione riceverà un decisivo impulso soltanto all'inizio del '900 con il rapido sviluppo del calcestruzzo armato e la realizzazione dei primi telai a nodi rigidi.

Ma c'è un'altra ragione al ritardo con il quale vengono acquisiti i metodi analitici per la soluzione del problema iperstatico. Dalla seconda metà degli anni sessanta, a partire dall'area tedesca, i cui periodici scientifici saranno infervorati dai teoremi di Castigliano, si è diffuso nelle scuole per gli ingegneri di tutta Europa il "linguaggio" della statica grafica: un linguaggio diretto, fatto di costruzioni geometriche, che utilizza gli strumenti di disegno padroneggiati dall'ingegnere ottocentesco; un linguaggio generale, che spazia dalla determinazione delle caratteristiche di sezione a quella delle sollecitazioni. Alla fondamentale monografia di Karl Culmann, professore del Politecnico di Zurigo, pubblicata nel 1866 , sono seguite quelle di Bauschingher (1871), Lévy (1874), Klasen (1878), Sidenam Clarke (1880), Chalmers (1881), Stelzel e Maurer (1882).

In Italia è Luigi Cremona ad avviare per primo un corso di statica grafica al Regio Istituto Tecnico Superiore di Milano nel 1867, seguito da Antonio Favaro a Padova (1870), Ferdinando Zucchetti a Torino (1875) e Ernesto Isè a Napoli (1875). Nel 1872 Cremona pubblica una miliare memoria su Le Figure reciproche nella statica grafica, che chiarisce il significato di concetti intravisti un decennio prima da Maxwell, seguendo in questo lo stesso percorso di Alberto Castigliano. Si apre in tal modo un altro capitolo nella storia della scienza delle costruzioni italiana che accompagnerà il lettore verso i primi decenni del XX secolo.

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Pagina 50

ILARIA GIANNETTI

CASTELLI DI ACCIAIO

IL SISTEMA "TUBO-GIUNTO" DI FERDINANDO INNOCENTI (1934-1964)

Il 13 agosto 1935, in seguito alla rottura della diga di Molare, la centina allestita per la realizzazione dell'arco in cemento armato del ponte sul torrente Orba è spazzata via da una violenta piena: è la prima centina realizzata in Italia in elementi tubolari in acciaio, progettata e costruita dalla ditta Innocenti di Milano.

La sfortunata incastellatura è rapidamente ricostruita alla fine del mese: fondata su quattro pile di conglomerato cementizio, che ne sollevano il piede dal greto del fiume, è realizzata tramite l'impiego di 5747 metri lineari di tubi di acciaio di piccolo diametro — 48 mm — e 4590 giunti.

Pubblicato in seguito sulle principali riviste di settore, il pionieristico intreccio di tubi si divide gli elogi con la soluzione presentata dall'impresa costruttrice per l'attraversamento del torrente, un elegante arco in cemento armato di 50 m di luce con impalcato irrigidente: la centina sorprende i tecnici per la sua buona resa statica — durante il getto si abbassa in chiave di soli 31 mm — a fronte della notevole rapidità di allestimento e della evidente convenienza che dimostra sul piano economico nel confronto con la tradizionale carpenteria lignea.

È il primo focolaio di quel bacillus tubolaris che dilagando negli anni '50 sarà complice della realizzazione "artigianale" delle opere d'arte dell'Autostrada del Sole e di molti altri capolavori dell'ingegneria italiana degli anni '60.

La centina dell'Orba è di fatto ancora una struttura rudimentale: al piede, i tubi sono affogati nelle pile in calcestruzzo rendendo molto difficoltoso lo smantellamento e il recupero del materiale, inoltre il tavolato viene costosamente posto in opera di spessore doppio per rafforzare la centina durante il getto.

Al contrario, gli elementi di cui si compone, tubi e giunti, rimarranno invariati fino alla produzione corrente e, protagonisti del rinnovamento della cantierizzazione delle strutture in cemento armato gettato in opera, rappresentano ancora oggi un prodotto di eccellenza del Made in Italy.


Il giunto Innocenti (1934)

Il 6 febbraio 1934 l'impresa F.lli Innocenti registra a suo nome il primo brevetto per un "dispositivo di unione per tubi costituenti parti di costruzioni metalliche".

L'invenzione, dovuta all'ingegno del titolare dell'impresa Ferdinando Innocenti, ricalca il modello dei clamp (morsetti) inglesi e americani che, sperimentati dai primi anni del secolo nel tentativo di sostituire l'impalcatura lignea per il getto delle costruzioni in cemento armato con una struttura metallica più agile ed economica, approdano in Italia alla fine degli anni '20 con le privative depositate dall'impresa inglese Scaffolding.

Il nuovo giunto, composto di due "cappelli" snodabili e un "nucleo", permette il bloccaggio per attrito di due tubi ortogonali e, caratterizzato dall'invenzione di un rivoluzionario dispositivo di apertura e serraggio, si impone da subito sui sistemi stranieri.

In seguito a un accurato studio dei modelli analoghi reperibili sul mercato nazionale, Innocenti propone di sostituire il meccanismo più diffuso, costituito dalla coppia cerniera-bullone, con due "bulloni-cerniera a T"; in questo modo, l'apertura delle falangi per l'alloggiamento del tubo avviene attraverso la rotazione dello stelo del bullone attorno all'asse geometrico della sua testa cilindrica.

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Pagina 68

ANNA PIETRANTONIO

"L'INDUSTRIA ITALIANA DEL CEMENTO"

L'INGEGNERIA ITALIANA IN COPERTINA (1929 - 2009)

"L'industria italiana del cemento", organo ufficiale dell'industria di settore, nasce nel 1929, con una precisa missione: pubblicizzare il materiale attraverso le opere realizzate, valorizzare i risultati, esaltare le imprese costruttive, i successi dei progettisti e del calcolo, allo scopo di promuovere l'uso del prodotto.

Anche se indirettamente, la rivista si pone, in campo internazionale, sulla scia di altre operazioni commerciali, altrettanto fortunate, come "Le Béton Armè", con cui François Hennebique lancia nel mondo il suo brevetto. Meglio di chiunque altro Hennebique aveva saputo sfruttare il successo delle opere per propagandare il materiale e le tecniche presso le amministrazioni pubbliche e i potenziali clienti privati.

In campo nazionale "L'Industria Italiana del Cemento" si confronta con la rivista "Il Cemento", fondata dal chimico Giovanni Morbelli nel 1904, con l'intento generale di far conoscere i nuovi materiali da costruzione, ma specialmente dedicata al cemento artificiale. Sebbene legata al mondo produttivo, in particolare all'area del Monferrato, "Il Cemento" resta sempre una rivista a carattere scientifico rigoroso, e rifugge dalla trattazione di questioni di carattere economico-politico.

Altre riviste avevano avuto un ruolo chiave nella fase pioneristica dell'avvento del cemento armato, come "Il Monitore Tecnico" e il "Giornale del Genio Civile", ma nessuna garantiva al materiale l'esclusiva come invece la nuova pubblicazione che, a pagamento ma ampiamente diffusa gratuitamente nelle amministrazioni e nelle università, diviene il megafono del cemento. Le industrie produttrici che ne finanziano la pubblicazione compaiono nelle pagine con i loro inserti pubblicitari, a volte mostrando avvenieristici e improbabili realizzazioni, auspicabili frutti di future sperimentazioni scientifiche.

La rivista non trascura gli sviluppi del legante, dalla fase di produzione nei cementifici alle prove chimiche e di laboratorio, ma soprattutto mostra le fortunate applicazioni, nelle diverse mutazioni nel tempo: il cemento armato, il cemento con minimo impiego di ferro, il cemento precompresso, il cemento prefabbricato, diventando così una rivista sull'ingegneria strutturale, attraverso la quale è possibile tracciare tutta la storia della costruzione italiana del Novecento, così intrinsecamente legata, proprio per il suo carattere peculiare, all'industria del cemento.

II programma è definito sin dai primi numeri: è una rivista di informazione tecnica, gli articoli hanno carattere descrittivo, divulgativo e prevalentemente nozionistico. Forniscono dati puntuali sull'opera citando numeri, quote, valori, mostrando foto di cantiere e disegni esecutivi, nell'intento di far ben comprendere il procedimento costruttivo. Non viene trattato mai il processo ideativo dell'opera, il progetto non realizzato, non ci sono commenti stilistici e formali, la struttura viene descritta come costruita, in cantiere o in officina. Questo marca la differenza sostanziale con le riviste di architettura, "Domus" e "Casabella" per esempio, nate negli stessi anni, nelle quali è vivacissimo il dibattito progettuale, il confronto stilistico e il percorso culturale dell'architetto di cui l'opera è frutto.

Ne "L'Industria Italiana del Cemento", dedicata agli ingegneri, il confronto è fatto sui numeri, prima di tutto quelli delle tonnellate di cemento prodotto e degli stabilimenti in esercizio. Regna un clima di ottimismo, reale talvolta e più spesso indotto da esigenze pubblicistiche, perché lo scopo resta sempre lo stesso: aumentare la produzione del cemento. Il sincero pragmatismo del tornaconto economico è un messaggio dichiarato fin dalle prime pagine del periodico, ed è un messaggio vincente, perché il cemento è veramente il materiale più utilizzato in Italia e sarà la storia a dare ragione agli industriali.

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Pagina 80

CHIARA TARISCIOTTI

ISTITUTO SPERIMENTALE MODELLI E STRUTTURE

IL SANTUARIO ITALIANO DELLA MODELLAZIONE FISICA

Il 6 settembre 1951 veniva formalizzata la fondazione dell'Istituto Sperimentale Modelli e Strutture, società senza fine di lucro, finanziata da alcune delle più autorevoli e potenti aziende elettriche, imprese costruttrici e società cementiere dell'epoca.

Il loro coinvolgimento imprenditoriale era stimolato dai forti legami con il mondo scientifico. Arturo Danusso, titolare della cattedra di Scienza delle Costruzioni al Politecnico di Milano dal 1915, era stato il primo in Italia ad intuire che la soluzione alle carenze dei metodi di calcolo poteva essere la sperimentazione sui modelli in scala ridotta. Consapevole che la teoria dell'elasticità classica limitava fortemente la comprensione del reale comportamento statico delle strutture in calcestruzzo armato, Danusso spingeva gli studiosi verso una profonda riflessione sul valore della fase plastica in cui l'opera manifestava un'imprevedibile ed incalcolabile capacità di adattamento. Già dal 1931, anno in cui fondava il Laboratorio Prove Modelli e Costruzione, l'ambizioso piano di Danusso era scuotere le mentalità dei progettisti, stimolandoli a prendere coscienza circa il valido apporto che i modelli recavano in fase di progettazione, avvalorando l'esigenza di integrare due diversi approcci: "la visione sintetica dell'intuito che guarda il fenomeno nell'insieme della sua obiettività fisica; e la visione analitica della scienza, che entro i confini degli schemi ideali di cui dispone, controlla, precisa ed afferma".

Sin quando l'ingegnere si fosse sentito protetto e confortato dalla consuetudine con cui venivano impiegate le schematizzazioni matematiche, avrebbe trovato "nei calcoli il riposo della perfezione logica, [...] diffidando dell'intuito come una buccia di limone che faccia scivolare verso l'empirismo". Di raro e straordinario fascino, invece, era ammirare i progettisti che privi di preconcetti, "come bambini felici", si lasciavano incantare da innovativi orientamenti di pensiero che, seppur sconvolgenti, venivano rivelati dalla natura per mezzo dei modelli.

Ma non solo i progettisti si sarebbero dovuti sentire sedotti dall'utilità della sperimentazione su modelli; le componenti da incoraggiare a perseguire questa direzione erano molteplici. Se non era possibile immaginare che l'impulso verso la sperimentazione di un modello venisse stimolato dall'impresa costruttrice, già attanagliata dalla concorrenza e dall'esigenza di contenere le spese, spettava invece ai committenti il compito di capire che l'aggiunta di una spesa, al più pari all'1% del costo complessivo di costruzione, avrebbe comportato alla fine un risparmio considerevole. Il sovradimensionamento era di fatto lo strumento con cui il progettista si tutelava di fronte alle incertezze della teoria.

Il nobile obiettivo di consigliare la prova sperimentale come uno strumento di conforto per tutti coloro che si sentivano limitati progettualmente ed economicamente dalle soluzioni predefinite della teoria, veniva fortemente stimolato nel dopoguerra dalla volontà di sfruttare l'energia del bacino idrico del Piave. Il grandioso progetto divenne la giustificazione per classificare il pioneristico Laboratorio di Milano come assolutamente inadeguato al continuo aggiornamento richiesto dalla ricerca sui modelli. Si avviavano così le trattative e le pratiche per convincere l'ambiente imprenditoriale ad investire nella fondazione di un nuovo Istituto. Le difficoltà nell'ottenere un'adesione dalle industrie potenzialmente interessate erano legate alla caratteristica connotazione prettamente scientifica che contrassegnava il progetto, mosso dal puro e ingenuo interesse nello sviluppo della scienza, escludendo a priori la possibilità di un profitto economico, ma per di più implicandone un continuo sussidio. Così soltanto tre tra le società fondatrici del futuro ISMES investirono da subito, nel 1947, nella fondazione dell'ISAC (Istituto Sperimentale per Applicazioni in Calcestruzzo): l'Italcementi che, attraverso Carlo Pesenti, allora direttore generale e consigliere delegato, offrì il terreno per la sede, ai margini della città di Bergamo, così da facilitare le operazioni di quotidiano pendolarismo che il personale tecnico-scientifico del Politecnico doveva intraprendere; la SADE (Società Adriatica di Elettricità) che, attraverso Carlo Semenza, allora procuratore speciale della società, commissionò il primo grande modello per la diga ad arco-gravità di Pieve di Cadore ed offrì le principali attrezzature; la società per azioni dell'ingegnere Giuseppe Torno, che coinvolto come appaltatore nella realizzazione della stessa diga, si fece carico delle spese necessarie per la realizzazione, all'interno di un capannone della sede, della grande vasca, struttura di contenimento impiegata per effettuare le prove su modelli di dighe.

Tali società nutrivano un conveniente interesse nell'oggetto principale dello Statuto dell'Istituto Sperimentale Modelli e Strutture: "la società ha per oggetto lo studio di grandi strutture costruttive a mezzo di modelli e di ricerche sperimentali da eseguirsi per conto di Soci, di terzi Committenti e nell'interesse generale del progresso tecnico".

Il culto del modello fisico

Divenuto il santuario ufficiale della modellazione, l'ISMES riuscì nell'intento di elevare il modello fisico a vera e propria filosofia progettuale raccogliendo intorno a se un gruppo di fedelissimi cultori.

In perfetta sintonia con il modello di crescita del dopoguerra italiano, l'ISMES si imponeva come sede della "feconda coabitazione fra l'alta tecnica e il più umile artigianato murario". Per la sussistenza di entrambe le caratteristiche era fondamentale comprendere come il modello non fosse il prototipo ma semplicemente un suo schema rappresentativo. Questo portava i tecnici altamente specializzati ad operare abili approssimazioni sulla base di sofisticate intuizioni, in particolar modo nel caso d'impiego di "modelli strutturali", specializzazione dell'ISMES e risultato di un'evoluzione progressiva delle precedenti tecniche di modellazione.

Alcuni dei modelli realizzati apparivano come vere e proprie opere d'arte in miniatura, eseguiti in micro-cantieri ad altissima manifattura artigianale.

A questa abilità costruttiva e manuale si affiancava l'eccellenza teorica. Alle origini, quando ancora si lavorava nel Laboratorio, la trattazione dei problemi strutturali si limitava a casi prettamente bidimensionali. La tecnica della fotoelasticità, nella risoluzione dei problemi elastici piani, consentiva di verificare lo stato tensionale di una struttura. Utilizzando modelli in materiali fotoelasticamente sensibili, come la fenolite o il trolon, si eseguiva un'analisi delle isocline, ottenute sperimentalmente dal modello attraverso il passaggio di luce polarizzata. La concentrazione delle isocline consentiva di individuare agevolmente i punti critici delle strutture prototipo e di desumere l'andamento delle isostatiche, ossia le direzioni principali degli sforzi.

L'evoluzione dell'analisi a problemi strutturali tridimensionali divenne l'occasione per distinguere la trattazione dei casi per cui la matematica offriva la soluzione teorica del problema — i modelli elastici — da quelli per cui la somiglianza con il prototipo serviva ad ottenere risultati più realistici di quelli previsti dalla teoria classica - i modelli strutturali. Definiti "sapienti macchine calcolatrici", i modelli elastici fornivano un riscontro al risultato analitico, possibile se pur laborioso, del problema. La misura diretta delle deformazioni unitarie consentiva di risalire ai corrispondenti valori degli sforzi, confrontabili con quelli teorici ottenuti analiticamente. Il procedimento si avvalorava delle ipotesi della teoria classica dei sistemi continui: isotropia, continuità, omogeneità ed elasticità del materiale, riproducendo nella sperimentazione solo il regime perfettamente elastico.

I modelli strutturali avevano il compito invece di mostrare l'enorme riserva di resistenza che le strutture in calcestruzzo armato conservavano in fase elastoplastica. Prerogativa fondamentale era l'impiego di materiali prodotti ad hoc, che presentavano caratteristiche compatibili con la prescelta scala meccanica del problema. L'obiettivo era riprodurre il comportamento del calcestruzzo sino a rottura, in conformità con i requisiti imposti dalla legge di similitudine.

La suddetta classificazione dei modelli veniva supportata da un'indispensabile e approfondita conoscenza della teoria dei modelli. Più precisamente definita "teoria dei modelli strutturali", si fondava sul ben noto principio di similitudine per cui "due sistemi si dicono fisicamente simili quando, esistendo la corrispondenza geometrica tra i punti dei due sistemi, le grandezze della stessa natura fisica abbiano nei punti corrispondenti rapporto costante". Alternativamente, secondo il teorema di Buckingham, la similitudine si definisce completa quando sussiste l'invarianza di tutti i rapporti adimensionali delle grandezze derivate, nel passaggio dal prototipo al modello.

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GIANLUCA CAPURSO

IL GRATTACIELO "ITALIAN STYLE"

LA COSTRUZIONE DELL'EDIFICIO ALTO NEGLI ANNI CINQUANTA E SESSANTA

"SOLAIO 22M0 PIANO GETTATO 14 MARZO 7.00 PM STOP TEMPO TOTALE COMPLETAMENTO 77 ORE PADOAN".

Per mesi, a partire dall'estate del 1963, una fitta corrispondenza viene intrattenuta tra il Canada e l'Italia per aggiornare la Società Generale Immobiliare sull'avanzamento della costruzione di un edificio che si sta innalzando sulla Place Victoria a Montreal. Ai lavori è dedicata un'attenzione nient'affatto ordinaria. Quello che si sta realizzando sarà infatti, al suo completamento, il grattacielo in cemento armato più alto al mondo. L'opera, progettata da Pier Luigi Nervi e Luigi Moretti, costituisce uno dei più importanti successi ottenuti dall'ingegneria italiana all'estero nel Novecento. Il risultato conseguito oltreoceano non è un caso isolato, ma rappresenta il culmine di un periodo di eccezionale vitalità della sperimentazione nazionale sul tema dell'edificio alto, che si giova in questi anni di una sinergia, straordinariamente intensa, tra ingegneri e architetti e di una condizione di sostanziale equilibrio tra le due figure professionali.

Gli architetti, impressionati dal successo mediatico dello strutturalismo italiano, si mostrano disponibili a indagare il rapporto tra struttura e architettura nelle loro opere, superando le più diffuse e stereotipate soluzioni internazionali. Gio Ponti, i BBPR e Moretti danno vita a formidabili sodalizi con Nervi e con Arturo Danusso, gli ingegneri più attivi nel campo della progettazione dei grattacieli. Ne derivano almeno tre capolavori, tra le opere realizzate in questi anni: la torre Velasca, il grattacielo Pirelli e la citata torre canadese della Stock Exchange, a Place Victoria. Contraddistingue gli edifici un'originale intonazione architettonica, che risulta ancora più evidente se confrontati con i grattacieli americani coevi.

L'identità italiana è rintracciabile nelle tecniche costruttive impiegate e radicate nel cantiere nazionale del dopoguerra; nell'uso di originali schemi strutturali, messi a punto per soddisfare raffinati programmi architettonici; nello stretto rapporto con il mondo del design, che nel Paese vive in questi anni una fortunata stagione, al pari dell'ingegneria; e, infine, nell'uso di teorie e metodi di calcolo sviluppati in laboratori d'avanguardia come l'ISMES di Bergamo, fucina dei progetti più coraggiosi ed ambiziosi.

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Oltre il telaio: forme strutturali per un nuovo design

La peculiarità dei grattacieli italiani non si esaurisce, però, solo nella tecnologia costruttiva impiegata per la realizzazione dell'ossatura. I capolavori si caratterizzano anche per raffinate soluzioni strutturali, che gli architetti accolgono di buon grado nelle loro opere. Nella Velasca, in particolare, è un ingegnoso gioco di pesi e spinte che consente di ottenere la caratteristica forma del volume, scelta dai BBPR per inserire il grattacielo nel panorama milanese. L'espansione del blocco superiore richiede un aggetto dei solai pari a circa tre metri, per il quale si scarta subito la configurazione a mensola, ritenuta troppo costosa.

Si decide, invece, di interrompere i pilastri al quindicesimo piano e di posizionare in falso quelli del diciottesimo, che sono sostenuti da una serie di puntelli inclinati. Il tutto può essere tenuto in equilibrio solo predisponendo un sistema in grado di assorbire le componenti orizzontali degli sforzi, che coinvolge quindi due solai speciali. Quello del quindicesimo livello risulta compresso ed è per questo realizzato con due solette, ciascuna spessa 10 cm, separate da uno strato di laterizi alleggeriti in modo che, incrementata l'inerzia della piastra sul piano, sono evitati fenomeni di instabilità per carichi di punta. Quello del diciottesimo, invece, è una lastra cementizia spessa 30 cm, innervata da una fitta ragnatela di barre di armatura che trattengono a due a due la sommità delle saette, così che il solaio reagisce complessivamente come una membrana tirata lungo il bordo. Le sollecitazioni di tensione, ridistribuite grazie alla trave di bordo perimetrale, assumono in questo modo valori perfettamente compatibili con il conglomerato.

Pur con diversi esiti formali, ritroviamo lo stesso gusto per la soluzione ingegneristica avanzata nell'altro famoso grattacielo milanese, il Pirelli. Anche in questo caso, il meccanismo messo a punto per assicurarne la stabilità è del tutto inedito per un edificio alto. Qui l'impostazione della forma lenticolare disegnata da Ponti prevede un corpo di fabbrica alto 126 metri, ma profondo appena diciotto.

Analogamente ai progetti del palazzo Lancia a Torino e del grattacielo del Predio Italia a San Paolo del Brasile, inizialmente l'architetto concepisce una soluzione a pilastri e telai, irrigiditi da nuclei in cemento armato. La struttura è qui di impegno tale che per svilupparne la progettazione è interpellato nuovamente Danusso, stavolta affiancato da Nervi, alla prima importante occasione nel campo degli edifici alti. I due ingegneri rilevano come lo schema ideato da Ponti, pure in linea con la prassi edilizia, non sia adeguato a risolvere il problema più difficile: la stabilità del corpo di fabbrica al vento ortogonale alle facciate.

AI sistema più diffuso, che definisce "elastico", Nervi preferisce infatti un funzionamento a "gravità" che, come negli edifici in muratura, o in certe dighe, sfrutta l'azione stabilizzatrice del peso proprio per contrastare le azioni orizzontali. Si tratta dell'applicazione al problema del grattacielo di un principio che Nervi aveva già usato, negli anni Trenta, per il suo progetto del "Monumento alla bandiera", dove prevedeva la costruzione di una torre muraria, stabilizzata grazie alla compressione indotta sulla struttura da una massa interna, pesante, appesa come un pendolo alla sommità.

Per conseguire lo stesso obiettivo l'ingegnere fa tabula rasa della minuta griglia di pilastri inizialmente prevista. Ai due nuclei scatolari triangolari, già disposti dal progetto architettonico alle estremità della torre, affianca invece due sole coppie di imponenti pilastri intermedi — giganteschi setti sagomati, lunghi più di sette metri — poste a grande distanza l'una dall'altra.

La concentrazione dei carichi su pochi e massivi elementi verticali è sfruttata per richiamare a collaborare alla stabilità complessiva dell'edificio tutte le sue parti. Conseguentemente alla riduzione del numero dei pilastri gli orizzontamenti devono coprire campate di grande luce: pari a quattordici metri per le due laterali e a ventiquattro per quella centrale. I ponderosi pesi sopportati sono sfruttati per indurre una benefica e gratuita presollecitazione nei setti intermedi, che contrasta efficacemente il momento ribaltante dovuto al vento. Coerentemente, dato che l'alleggerimento dei materiali avrebbe ridotto i pesi e quindi le forze stabilizzanti, è scartata la possibilità di realizzare i solai in acciaio, in favore di una soluzione a travi in cemento armato a sezione variabile.

Lo schema ideato da Nervi ha una portata innovativa tale da indurre Ponti a sfruttarlo per caratterizzare l'immagine architettonica del grattacielo: la rastremazione dei pilastroni con l'altezza — cinque centimetri per piano — è sottolineata dal disegno del curtain wall, grazie all'impiego di profili e specchiature speciali; la geometria dei nuclei pieni cementizi chiude i prospetti e marca la pianta sui lati; la pensilina di coronamento, sostenuta dai pilastri a geometria inversa posti sulla terrazza del 31° piano e da una serie di mensole a sezione variabile, ribadisce la forma affusolata della pianta contro il cielo.

Non è quindi un caso che Ponti presenti il grattacielo sulle pagine della rivista Domus e di altri periodici internazionali impiegando una serie di slogan, tra i quali l'"invenzione strutturale" dei suoi ingegneri spicca insieme alla "forma finita", che costituisce il fulcro della ricerca formale dell'architetto nel dopoguerra. Gli schemi in pianta e in sezione presenti nell'articolo, depurati dalle componenti distributive e impiantistiche, mostrano il rapporto diretto ricercato tra la forma e l'ossatura dell'edificio. Dichiarano, allo stesso tempo, il contatto instaurato tra l'ingegneria e il mondo del design, grazie a cui la colossale struttura, ridotta a pochi elementi essenziali, può assolvere efficacemente sia al suo ruolo statico sia a quello figurativo.

La presentazione di Ponti, con i numerosi riferimenti alla collaborazione con Nervi e Danusso, offre lo spunto per una riflessione sul rapporto tra le figure professionali, per il quale è opportuno tornare brevemente al confronto con gli Stati Uniti.

Nella produzione della Scuola di Chicago, in cui è unanimemente riconosciuto l'atto di fondazione dell'edificio alto moderno, l'equilibrio tra il ruolo dell'ingegnere e quello dell'architetto era certificato dalla contitolarità delle società di progettazione, come nel caso di Burnham & Root o di Adler & Sullivan. Tale condizione originaria non sopravvive, però, alla crescente specializzazione delle competenze.

Nel secondo dopoguerra all'architetto è riservato il ruolo di coordinatore del team di progettazione, dove ritroviamo lo strutturista insieme all'impiantista, all'ingegnere dell'ambiente, all'esperto di preventivi e a quello di regolamenti edilizi, come descrive efficacemente Mario Salvadori raccontando la genesi dei grattacieli americani.

Pragmaticamente, gli ingegneri d'oltreoceano assumono in questi anni il ruolo di garanti della validità del calcolo strutturale e, soprattutto, dell'investimento finanziario, con conseguente, completa separazione degli ambiti professionali. Non più progettisti, insomma, ma consulenti.

Persino nel caso delle opere d'autore l'approccio non è molto diverso. Per il Seagram building la rinomata società di ingegneria, Severud Associates, è costretta a mettere a punto la soluzione strutturale su un modulo non rispondente alle misure convenzionali dei prodotti edilizi, prestabilito dagli architetti. Soprattutto, evita rigorosamente di intaccare l'immagine, interamente affidata alle perfette proporzioni del volume e della facciata metallica, oltre che alla raffinatezza dei materiali.

Atteggiamento disinvolto e distaccato, quello degli americani, incompatibile con i caratteri di quella linea dell'ingegneria italiana, guidata da Danusso e Nervi, fautori di una rinnovata unità tra le competenze dell'architetto, dell'ingegnere e del costruttore. È una posizione connessa al convincimento che il progetto sia il risultato di un processo di sintesi, che implica il coinvolgimento dell'ingegnere fin dall'ideazione dell'opera e non nella semplice validazione a posteriori. Prima di rivelarsi anacronistico anche nel nostro Paese, questo atteggiamento fa in tempo a produrre, quali ultimi suoi risultati, i grattacieli della generazione del boom.

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