Autore Pino Ippolito Armino
Titolo Il fantastico regno delle Due Sicilie
SottotitoloBreve catalogo delle imposture neoborboniche
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2021, i Robinson Letture , pag. 134, cop.fle., dim. 13x20x1,3 cm , Isbn 978-88-581-4437-4
LettoreLuca Vita, 2021
Classe storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 1800 , paesi: Italia: 1900 , storia criminale












 

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Indice


Premessa                                        VII

1.  Il Risorgimento:
    una guerra non dichiarata,
    il genocidio del popolo meridionale           3

2.  La spedizione dei Mille?
    Un complotto inglese con la complicità
    del Piemonte e della mafia                   27

3.  Garibaldi: uno schiavista senza scrupoli     43

4.  Pisacane il disertore
    e Mazzini il bombardiere                     50

5.  I "briganti"?
    Come i partigiani                            57

6.  Il saccheggio del Mezzogiorno                64

7.  Prima dell'Unità il Sud era ricco            75

8.  L'industria napoletana era terza al mondo
    e prima in Italia                            84

9.  I Meridionali furono costretti a emigrare   102

10. Il Sud era istruito al tempo dei Borbone    107

Conclusioni                                     119

Appendice   Veri e falsi primati                127

Indice dei nomi                                 129



 

 

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Pagina VII

Premessa



                        Fino al 1860, il Regno delle Due Sicilie, ricco di pace,
                   di memorie, di costumi, di commercio, di prosperità, di arti,
                         di industrie, di pesca, di agricoltura, di artigianato,
             era l'invidia delle genti: dappertutto scuole gratis, teatri, opere
                di ingegneria, meravigliosi musei, strade ferrate, gas, opifici,
                       opere di carità, bacini, cantieri navali, arsenali davano
                             lavoro a tutto il popolo. Non c'era disoccupazione.
              Era nato il primo stato interclassista, il primo stato socialista,
                                            il primo stato illuminato del mondo.

                                        A. Ciano, I Savoia e il massacro del Sud



Una notizia è falsa anche se lo è solo in parte, è falsa se aggiunge oppure omette qualcosa di utile alla comprensione dei fatti. È falsa, cioè, tutte le volte che, più o meno artatamente, è tale da deformare la realtà, non importa quali siano le finalità del suo autore. Dal latino fabula è nata la parola fola e con il neologismo fake news, più semplicemente fake, abbiamo accolto nel linguaggio comune un'intera categoria di notizie, da quelle infondate per imperizia a quelle appositamente costruite a sostegno di una tesi.

Non è agevole riconoscere la buona fede di chi scrive, ancor meno svelarne le intenzioni. Quel che è certo, tuttavia, è che alcune fake hanno una eccezionale capacità di presa perché soddisfano un bisogno reale, quello di una spiegazione semplice a problemi complessi. Nel Mezzogiorno d'Italia ogni cittadino sperimenta da anni la distanza crescente fra la ricchezza, le opportunità di lavoro, l'efficienza dei servizi offerti nella sua regione e ciò di cui dispongono i suoi connazionali del Centro-Nord, e vuole farsene una ragione. La spiegazione più semplice e più comoda è da sempre quella che attribuisce ogni nostra insufficienza alla responsabilità di un nemico esterno, cattivo quanto basta per addebitargli tutto ciò che siamo e non vorremmo essere. Le fole neoborboniche, lamentando la scomparsa di un regno mai esistito, il fantastico regno delle Due Sicilie, assolvono magnificamente a questo compito. Il racconto che del Risorgimento fanno i sedicenti "neo-meridionalisti" è una straordinaria collezione di fake che, pure, trova sempre maggiore penetrazione soprattutto nell'opinione pubblica meridionale.

Questo libro è stato scritto per chi ha voglia di guardare in faccia la realtà e non intende rifugiarsi nel mito o farsi strumento di progetti tanto anacronistci quanto insensati.

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Pagina 57

5. - I "briganti"? Come i partigiani



"Il movimento rivoluzionario anti piemontese, chiamato brigantaggio, in realtà fu un grande movimento di massa. Molti tribunali definirono i briganti partigiani, regi o legittimisti: difendevano la loro patria, il loro Re e la chiesa cattolica da un'orda massonica che voleva colonizzare il Meridione". Così scrive Ciano, ma non è il solo a credere nell'equivalenza tra chi nel 1943 ha scelto la via della montagna per combattere il fascismo e chi ottant'anni prima si era dato alla macchia per difendere la causa borbonica. Per Aprile, che fa a pugni persino con i suoi stessi dati, da 85 mila a 135 mila contadini e braccianti presero le armi e furono coinvolte anche le donne. Ma c'è di più: "Il loro coinvolgimento comportò un'accelerazione verso la parità dei sessi (o qualcosa di simile)". E questo è davvero esilarante (o qualcosa di simile)! Lo stesso autore si cimenta in una ricostruzione della rivoluzione napoletana del 1799 assolutamente inedita: "I lazzari napoletani e i tamarrí di Calabria, non soldati di professione, avevano fermato e sconfitto l'esercito napoleonico, che era, allora, imbattibile in Europa. I lazzari vennero vinti, solo perché attaccati alle spalle dai giacobini partenopei, alleati dei francesi, che pur di raggiungere il loro ideale, la Repubblica, consentirono ai napoleonidi di saccheggiare il Regno e sterminarne gli abitanti a decine di migliaia". Il passo, per quanto contraddittorio e falso, è tuttavia rivelatore di sentimenti che altro non possono definirsi che reazionari.

In questa cornice la mitologia può prendere comodamente il posto della storia. Esemplare la descrizione che fa Alianello del combattimento avvenuto nei pressi di Isernia fra una colonna di garibaldini guidati da Francesco Nullo e un reparto borbonico, misto di regolari e volontari reclutati fra i contadini, che si era attestato sulle colline sovrastanti la piana di Pettoranello. Lo scontro cruento, nel quale persero la vita molti garibaldini spesso mutilati o uccisi dopo esser stati fatti prigionieri, si trasforma in un immaginifico carosello nel quale, dalle file di una processione, gli uomini si lanciano contro i Garibaldini con antiche armi che già avevano sparato contro giacobini ed eretici, cantando "A peste, fame et bello", mentre le donne, brandendo scuri, forconi e spiedi, rispondono selvaggiamente "Libera nos, Domine!".

[...]


Che analogie si possono stabilire fra Risorgimento e Resistenza? Entrambe furono guerre civili, entrambe divisero il paese (le Due Sicilie nel primo caso, l'Italia intera nel secondo), entrambe trascinarono in guerra fasce più o meno ampie della popolazione. Alle avanguardie della rivoluzione si opposero i fautori della conservazione, ma chi fossero i conservatori e chi i rivoluzionari, nell'uno come nell'altro caso, dovrebbe essere evidente. Se proprio si vuole una corrispondenza, gli uomini di Salò, che si battevano per conservare il fascismo, fanno il paio con chi voleva mantenere in vita la monarchia più reazionaria d'Europa, mentre i partigiani che combattevano il regime fascista e aspiravano a un nuovo ordine, libero e democratico, sono l'equivalente dei Garibaldini che volevano abbattere la monarchia borbonica in favore di un regime liberale e costituzionale. Non per nulla gli uomini inquadrati nel Partito Comunista, che con le brigate di Giustizia e Libertà fornirono la maggior parte delle forze alla Resistenza, ne presero persino il nome.

Il brigantaggio ebbe dalla sua la stampa reazionaria e clericale in Italia e all'estero, soprattutto in Francia. In cinque anni, a Napoli furono fondate una trentina di testate cattoliche, esplicitamente legittimiste e borboniche, tutte tese a difendere le ragioni della conservazione contro il dilagare del liberalismo. «La civiltà cattolica», in particolare, sotto la direzione del gesuita Carlo Maria Curci che aveva contrastato il neoguelfismo giobertiano, aveva l'esplicito appoggio del papa Pio IX. Per gli autori francesi vicini alla causa legittimista di Francesco II i briganti combattevano come i loro padri vandeani per Dio, il re e la patria. Il richiamo all'insurrezione della Vandea del 1793 contro la Repubblica e contro le ragioni dell'Illuminismo non lascia spazio a interpretazioni; non è alle brigate garibaldine o agli "illuministi" di Giustizia e Libertà che si possono associare le rivolte del brigantaggio post-unitario, ma con maggior fondamento a quelle Brigate Nere nemiche della democrazia e alleate della parte più tradizionalista e conservatrice della Chiesa cattolica.

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Pagina 64

6. - Il saccheggio del Mezzogiorno



Di predazioni e furti, ma senza l'enfasi che ne verrà data più tardi, si parla ne I Napoletani al cospetto delle Nazioni civili, opera che l'Alianello dice di un anonimo "senza data né luogo di stampa per non esser gli autori colti e fustigati dalla vendetta piemontese" ma che è in realtà opera del De' Sivo. Alianello è il primo dei moderni "revisori" a parlare di razzie e a chiedersi: "Dove andarono a finire i cinque milioni di ducati ritirati legalmente o presi alla buona dal Banco di Palermo dal biondo Liberatore?".

Qualcosa mostra di saperne Oneto: "Garibaldi spedisce di gran fretta Crispi con la disposizione di prelevarvi oltre 1.000.000 di ducati in oro e argento (circa 225 milioni di euro) e di depositi privati rilasciando una ricevuta per spese di guerra, rimasta come simpatico documento storico e mai naturalmente onorata". Non più, dunque, cinque milioni di ducati, ma una somma piuttosto ridimensionata.

L'esatto importo non sarebbe un mistero se Oneto non avesse omesso di indicare dove si custodisce la ricevuta che è la prova del prelievo forzoso. Sfortunatamente il borbo-leghista non ne fa cenno pur rinviando ad altre fonti: La storia proibita di Alfonso Grasso, Alessandro Romano e Marina Salvadore, L'imbroglio nazionale di Aldo Servidio - che ne parlano, sì, ma solo per sentito dire - e, a chiudere il cerchio, il già menzionato Alianello. Una cosa pare certa: Oneto non ha mai visto quel "simpatico documento storico" di cui pure assicura l'esistenza.

Non Crispi ma Nievo per Del Boca "si impadronì del Banco di Sicilia, ebbe da amministrare un patrimonio smisurato valutabile in 5 milioni di ducati. Non è possibile conoscere quanto spese e a favore di chi perché i bilanci affondarono nel mare di Sicilia e le ricevute di pagamento non vennero ritrovate. Vero è che la maggior parte di quel tesoro venne disperso in mille rivoli: per rifornirsi di armi, per corrompere nemici, per finanziare discutibili interventi diplomatici, per assicurarsi la collaborazione delle spie e degli informatori".

Una fola così ghiotta non poteva sfuggire ad Aprile che vi aggiunge qualcosa nel suo impareggiabile stile: il saccheggio "avvenne in misura mai davvero indagata: dal furto dell'oro depositato nel Banco di Sicilia alla concessione di Palermo, dopo la resa, al sacco dei volontari, sino alla spoliazione di case, paesi, conventi, con il regolamento di conti fra famiglie rivali". Aprile ignora persino che il Banco di Sicilia è nato dopo il 1860 e che fino a quell'epoca a Palermo, come a Messina, vi era soltanto una succursale del Banco delle Due Sicilie fondato nel 1806 da Gioacchino Murat, iI francese invasore del "Regno felice", per usare la spensierata terminologia neoborbonica. Sarebbe, dunque, troppo chiedergli di documentare la "concessione" di Palermo al sacco dei volontari garibaldini.

Più dettagliato ma anche più confuso, citando senza fondamento il Del Boca di Maledetti Savoia, il racconto di Ciano: "Garibaldi Giuseppe, appena entrato nella Palermo che aveva conquistato, si fece consegnare dal banco 2.718.818 lire dei 5 milioni di ducati che erano custoditi". Ma Garibaldi Giuseppe si fece consegnare lire o ducati? O si fece convertire i ducati in lire? Vero è che tra tante fole questa così congegnata in Del Boca non si trova. Altrettanto certo è che in Sicilia Garibaldi abolì l'odiatissima tassa sul macinato imposta dal governo borbonico e i dazi sull'importazione di cereali e legumi con lo scopo di avvilirne i prezzi e favorirne il consumo popolare. I Garibaldini non si macchiarono quasi mai di violenze o fucilazioni; non ce ne era bisogno, avevano il favore delle masse popolari. Il brutale intervento di Nino Bixio a Bronte è un fatto isolato anche se non per questo meno deprecabile. Nella cittadina alle pendici dell'Etna, i contadini, esasperati dalle continue prepotenze dei proprietari (tra i quali gli eredi di Horatio Nelson che aveva ricevuto in dono da Ferdinando IV di Borbone il feudo in cambio dell'aiuto prestato durante la rivoluzione del 1799) ed eccitati dalle attese generate dalla rivoluzione garibaldina su una prossima divisione delle terre, diedero corso a una rivolta durante la quale furono bruciate molte case e lo stesso municipio. Furono uccise sedici persone, inclusi donne e bambini. Il luogotenente di Garibaldi intervenne con i suoi uomini per sedare la rivolta e dopo un sommario processo condannò a morte i cinque uomini ritenuti responsabili dell'eccidio.

E a Napoli che successe con l'arrivo di Garibaldi?

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Pagina 75

7. - Prima dell'Unità il Sud era ricco



Quella delle origini del divario, persistente e in anni recenti anzi aggravato, fra le economie e le ricchezze del Centro-Nord e del Mezzogiorno d'Italia è questione lungamente e ampiamente dibattuta. Per Emilio Sereni e Vera Zamagni la stagnazione meridionale deve essere attribuita a residui feudali che interessavano ancora a metà Ottocento le campagne italiane a eccezione di quelle nella pianura del Po. Per Benedetto Croce e Guido Dorso le radici del ritardo meridionale affondano invece in epoca rinascimentale. Quel che pare certo è che il ritardo napoletano prese corpo a partire dagli anni '40 dell'Ottocento e in modo più marcato proprio dopo il 1848. Mentre il regno delle Due Sicilie piombava nel più grave oscurantismo della sua storia, altre parti d'Italia, in particolare il Piemonte, si aprivano a una stagione di riforme in campo istituzionale prima ancora che economico. Vi è, invece, sostanziale accordo sull'entità del divario che all'Unità, in presenza di una realtà ancora marcatamente agricola e scarsamente industrializzata, non poteva essere particolarmente significativo. Nei pochi lustri che precedono la rivoluzione italiana si erano create le condizioni per una forbice che si sarebbe sempre più allargata negli anni successivi e sarebbe emersa con tutta la sua disastrosa evidenza alla vigilia della Grande Guerra. Ancora nel 1871 il divario si manifestava più tra l'area di Ponente, maggiormente industrializzata, e quella di Levante, che non tra Nord e Sud della Penisola. Il dibattito è comunque aperto, ma i neoborbonici non hanno dubbi e non dibattono. La questione è per loro semplice e chiusa da tempo: fu con l'unità nazionale che prese corpo la divergenza fra le due parti del nostro Paese. Aprile è lapidario: "L'economia fu demolita: chiuse le grandi fabbriche, spostati al Nord i macchinari rubati, tutte le commesse e gli appalti dello Stato, trasferito al Nord l'oro delle banche".

Le fole meglio riuscite mescolano sempre un po' di cose vere a molte cose false, semplificano la realtà per accorciare la spiegazione e offrirla al maggior numero possibile di persone. È vero che vennero trasferiti al Nord i macchinari delle industrie meridionali? No, assolutamente falso come avremo modo di vedere più avanti occupandoci delle favole sul distretto metallurgico calabrese che di questi falsi trasferimenti è divenuto il paradigma. È vero che venne trasferito al Nord l'oro delle banche? No, assolutamente falso e non tanto perché all'epoca di banca ce ne era una sola nelle Due Sicilie, ma perché niente del genere è mai stato accertato né avrebbe avuto senso dal momento che le sue filiazioni dopo il 1860, il Banco di Sicilia e il Banco di Napoli, mantennero entrambe la prerogativa di istituti di emissione sino alla legge bancaria del 1926. Il Banco di Napoli, in particolare, registrò negli anni immediatamente successivi all'Unità addirittura un considerevole aumento di capitale, pari a un terzo di quello iniziale.

Vero è, invece, che l'annessione incondizionata al regno sabaudo e l'accentramento su Torino, voluti dai moderati cavouriani di ogni regione e osteggiati dai più influenti democratici come Mazzini e Cattaneo, comportarono l'unificazione legislativa immediata e l'estensione della politica doganale piemontese a tutto il nuovo regno. Le nuove tariffe entrarono in vigore nelle provincie napoletane il 24 settembre 1860 e in quelle siciliane il 1° gennaio del 1861, provocando in un sol giorno, per decreto, l'abbattimento dei dazi dell'80%.

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Conclusioni



Se la ricerca storica non può arrestarsi, per la necessità stessa di una revisione in chiave critica delle vicende risorgimentali, le fantasie messe in campo da certi autori non giovano né alla verità né al Mezzogiorno. Non servono le fole neoborboniche per sostenere che l'Unità non si è risolta a tutto vantaggio delle regioni meridionali. Non sono queste le risposte da dare alle richieste di autonomia territoriale, pericolosamente secessioniste, che vengono dall'area più ricca del Paese.

Nel nuovo regno d'Italia Napoli perse ministeri, burocrazia di stato, corte e ambasciate estere e non mancarono neppure gli episodi di palese discriminazione nei riguardi dei Meridionali e delle loro imprese, all'epoca puntualmente denunciati. Richiamiamo qui, fra i più clamorosi, il caso degli impieghi nei nuovi ministeri e l'esclusione della Compagnia di navigazione delle Due Sicilie, il complesso armatoriale più importante d'Italia, dalla convenzione per assicurare le comunicazioni tra i principali porti del Regno. Tuttavia, è stata una lunga serie di scelte sbagliate a condannare le regioni meridionali a una crescente arretratezza di cui, soprattutto ín alcune aree particolarmente svantaggiate, non si vede la fine. La prima responsabilità è della dinastia borbonica che non seppe essere all'altezza dei tempi. Poteva mettersi alla testa del movimento nazionale e privò, invece, il suo popolo dei bisogni più essenziali al progresso civile e materiale, primo fra tutti quello dell'istruzione.

I meridionalisti denunciarono le gravi condizioni del Mezzogiorno ma non contestarono mai l'unità nazionale, una conquista che non poteva essere messa in discussione perché corrispondeva a una reale necessità storica. È un grave abuso quello che oggi fanno i sedicenti "neo-meridionalisti" citando a sproposito Gramsci, Dorso, Salvemini, Nitti... con ogni probabilità senza neppure averli letti!

Gramsci dava del regno di Napoli un giudizio fin troppo severo: "La nuova Italia aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si riunivano dopo più di mille anni [...] Le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l'agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale; non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale conformazione geologica, possedeva". Il grande pensatore sardo, nell'affrontare la questione meridionale, metteva l'accento sull'incapacità del ceto politico emergente, rappresentato dallo storico Partito d'Azione, di coinvolgere nel processo unitario le masse popolari e contadine e, in polemica con lui, Rosario Romeo riteneva inverosimile quella possibilità. Il primo a parlare di "conquista regia" è stato l'avellinese Guido Dorso nel suo Rivoluzione meridionale, pubblicato dall'editore Gobetti a Torino negli anni '20. Per Dorso, come per Gramsci, l'origine dell'arretratezza meridionale andava ricercata nella sua storia remota, nella mancata partecipazione all'età dei Comuni durante la quale sarebbero fiorite le virtù civiche che avevano fatto ricche e progredite le città e le regioni del Centro-Nord. Una tesi allora largamente diffusa anche se oggi non più del tutto convincente. Anche Gaetano Salvemini , per il quale era essenziale liberarsi dall'accentramento finanziario e amministrativo che danneggiava il Mezzogiorno, riconosceva le ineguali condizioni di partenza. Nitti, infine, come abbiamo già ricordato, denunciava il sacrificio meridionale, ma né lui, né Gramsci, né Romeo, né Dorso, né Salvemini hanno mai messo in discussione l'unità nazionale, la consideravano un fatto storico ineludibile e nel loro pensiero non si trova la tesi di un Mezzogiorno ricco e felice, depredato e impoverito al tempo dell'Unità. Niente sulle fucilazioni in massa di soldati borbonici, niente sull'oro rubato al Banco, niente sul furto di macchinari. Non avrebbero mai potuto sottoscrivere, da intransigenti antifascisti, queste incredibili parole di Del Boca: "Gaeta fu per il re delle Due Sicilie l'ultimo baluardo, l'ultima difesa, l'ultima occasione di riscatto. Anche morale [...] Con le debite proporzioni e realizzati gli opportuni distinguo, non accadde qualche cosa di simile con la Repubblica sociale di Salò?" "Con le debite proporzioni e realizzati gli opportuni distinguo": non è questo un tentativo di rivalutare il fascismo e la sua ultima creatura repubblicana? Il sospetto cresce leggendo più avanti quanto scrive l'ex presidente dell'Ordine dei Giornalisti rievocando la decisione di Cavour di inviare a Sud le truppe piemontesi: "In fondo Hitler non si comportò troppo diversamente quando attraversò Belgio, Olanda e Lussemburgo per arrivare alla Francia. E, certo, se avesse vinto la guerra sarebbe stato celebrato come un politico lungimirante". Il parallelo messo qui così sbrigativamente in piedi fra i due uomini politici non è tanto una (inverosimile) accusa allo statista piemontese per aver anticipato metodi che saranno poi del nazismo quanto una giustificazione delle azioni del Führer che, se avesse avuto successo, secondo Del Boca, non avrebbe avuto la condanna (quasi) unanime dell'oggi.

Da Alianello all'ultimo Aprile è stato un crescendo di mistificazioni come una voce che, correndo di bocca in bocca, ingrossa e deforma un fatto iniziale di per sé già storicamente infondato. Alcune fake, come quella del primato nella raccolta differenziata, fanno semplicemente sorridere, altre invece, come lo sterminio in massa del popolo meridionale, sono particolarmente odiose. C'è, però, un fatto ancor più inquietante. Chi ha avuto la pazienza di leggere sin qui avrà ben compreso che le bugie neoborboniche sono spesso così rozze da non poter essere semplice frutto dell'ignoranza o dello scarso senso critico dei suoi divulgatori. A che scopo allora vengono diffuse? Perché questa operazione mette insieme, al di là delle ostentate prese di distanza, leghisti e neoborbonici? Nella demolizione che insieme essi tentano del Risorgimento sono davvero poche le cose che ci consentono di distinguerli, forse appena un paio.

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