Copertina
Autore Kazuo Ishiguro
Titolo Non lasciarmi
EdizioneEinaudi, Torino, 2006, Supercoralli , pag. 296, cop.ril.sov., dim. 145x222x24 mm , Isbn 978-88-06-17219-0
OriginaleNever Let Me Go [2005]
TraduttorePaola Novarese
LettoreGiorgia Pezzali, 2006
Classe narrativa giapponese , narrativa inglese
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Pagina 7

Capitolo primo


Mi chiamo Kathy H. Ho trentun anni, e da piú di undici sono un'assistente. Sembra un periodo piuttosto lungo, lo so, ma a dire il vero loro vogliono che continui per altri otto mesi, fino alla fine di dicembre. A quel punto saranno trascorsi quasi esattamente dodici anni. Adesso mi rendo conto che il fatto che io sia rimasta per tutto questo tempo non significa necessariamente che loro abbiano grande stima di me. Ci sono ottime assistenti a cui è stato chiesto di abbandonare dopo appena due o tre anni. E poi me ne viene in mente almeno una che ha operato per oltre quattordici, malgrado fosse un'assoluta nullità. Quindi non ho nessuna intenzione di darmi delle arie. Ma so per certo che sono soddisfatti del mio lavoro, tanto quanto, nell'insieme, lo sono io. I miei donatori hanno sempre reagito meglio del previsto. I loro tempi di recupero sono stati alquanto straordinari, e quasi nessuno è stato catalogato come «soggetto problematico», almeno prima della quarta donazione. Sí, è vero, forse adesso mi sto davvero dando delle arie. Ma per me significa molto, essere in grado di svolgere bene il mio lavoro, specialmente quando si tratta di mantenere «calmi» i miei donatori. Ho sviluppato una sorta di istinto nei loro confronti. So quando è il momento di essere presente e confortarli, quando lasciarli soli con se stessi; so quando ascoltarli, qualunque cosa abbiano da dire, e quando, con un'alzata di spalle, dirgli che è arrivata l'ora di darci un taglio.

Comunque sia, non voglio prendermi tutti i meriti. Conosco altre assistenti, in servizio in questo periodo, che sono altrettanto brave e non ricevono neanche la metà dei riconoscimenti che ricevo io. Se fossi una di loro, capirei un certo risentimento nei miei confronti - il monolocale in affitto, l'auto, e soprattutto il fatto di poter scegliere di chi prendermi cura. E inoltre sono una studentessa di Hailsham - che per alcuni è da solo motivo sufficiente per mandarli su tutte le furie. Kathy H., dicono, sceglie chi vuole, e sceglie sempre quelli come lei; quelli di Hailsham, o qualcuno che proviene da qualche altro posto privilegiato. Non c'è da stupirsi che il suo stato di servizio sia ottimo. L'ho sentito ripetere talmente tante volte che dovete averlo sentito dire anche voi, e forse in tutto questo c'è qualcosa di vero. Ma io non sono certamente la prima a cui viene concesso di scegliere, e dubito di essere l'ultima. E comunque ho fatto anch'io la mia parte prendendomi cura di donatori cresciuti in ogni dove. Tenetelo a mente: quando smetterò di fare questo lavoro saranno passati dodici anni, ed è soltanto negli ultimi sei che mi hanno permesso di scegliere.

E poi per quale motivo non avrebbero dovuto? Gli assistenti non sono mica degli automi. Fai del tuo meglio per ciascun donatore, ma alla fine le forze ti abbandonano. La pazienza e l'energia non sono risorse illimitate. Cosí, quando hai la possibilità di scegliere, naturalmente scegli qualcuno simile a te. È ovvio. Non sarei potuta andare avanti tutto questo tempo se non fossi riuscita a condividere con i miei donatori ogni singolo attimo della loro esistenza. E comunque sia, se non avessi cominciato a scegliere, come avrei fatto a riavvicinarmi a Ruth e a Tommy dopo tutti questi anni?

Ma negli ultimi tempi, naturalmente, i donatori che conosco sono sempre meno, e quindi, in pratica, la mia scelta è stata piuttosto limitata. Come vi dicevo, questo lavoro diventa molto piú faticoso quando non si prova un legame profondo con il donatore, e sebbene mi mancherà non fare piú l'assistente, con la fine dell'anno penso sia giunto ormai il momento di smettere.

Ruth, per inciso, è stata soltanto la terza o la quarta donatrice che ho potuto scegliere. Le era già stata assegnata un'altra assistente, e ricordo che cercare di essere affiancata a lei aveva richiesto una certa dose di sfacciataggine da parte mia. Alla fine però c'ero riuscita, e nell'istante stesso in cui la rividi, in quel centro di riabilitazione a Dover, tutte le nostre divergenze - sebbene non sparirono completamente - mi apparvero molto meno importanti: non quanto il fatto di essere cresciute insieme a Hailsham, o di sapere e ricordare cose sconosciute ad altri. Fu da quel momento, credo, che cominciai a cercare tra i donatori persone che appartenevano al mio passato, e ogniqualvolta mi fu possibile, qualcuno che proveniva da Hailsham.

Ci sono stati periodi nella mia vita in cui ho cercato di lasciarmi alle spalle Hailsham, quando mi sono detta che non dovevo piú voltarmi indietro. Ma a un certo punto smisi di opporre resistenza. Avvenne con un donatore in particolare, durante il mio terzo anno come assistente; fu la sua reazione quando gli dissi che venivo da Hailsham. Era stato appena sottoposto alla sua terza donazione, non era andata bene, e doveva essere consapevole che non ce l'avrebbe fatta. Respirava a fatica, ma si era voltato verso di me e mi aveva detto: «Hailsham. Scommetto che doveva essere bellissimo». Poi la mattina seguente, mentre chiacchieravo per cercare di distrarlo un po', gli chiesi dove fosse cresciuto lui; menzionò un certo posto nel Dorset e i tratti del suo viso, solcato da macchie e cicatrici, si piegarono in una smorfia inattesa. In quel momento mi resi conto quanto disperatamente desiderasse dimenticare. Al contrario, voleva sapere tutto di Hailsham.

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Capitolo settimo


Adesso però voglio andare avanti e ripercorrere i nostri ultimi anni a Hailsham. Sto parlando del periodo che va dai tredici ai sedici anni, quando lasciammo quel luogo. Nella mia mente la vita a Hailsham è divisa in due tronchi distinti: quest'ultima parte, e tutto ciò che accadde prima. Gli anni dell'infanzia - quelli di cui vi ho appena parlato - tendono a confondersi l'uno con l'altro come una specie di età dell'oro, e quando ci ripenso, persino le cose che in fondo non erano poi cosí belle, mi appaiono come avvolte da un'aura luminosa. Questi ultimi anni tuttavia furono diversi. Non propriamente infelici - serbo molti ricordi che mi sono davvero cari - ma erano piú seri, piú cupi in un certo senso. Forse è un po' come se li avessi enfatizzati nella mia testa, ma ho la sensazione che il mondo intorno mutasse rapidamente a quel tempo, come dal giorno alla notte.

Quella conversazione con Tommy accanto al laghetto: penso a quell'episodio come a una sorta di demarcazione tra le due ere. Non che subito dopo avvenisse chissà che di significativo; ma per me almeno, quella conversazione rappresentò una svolta decisiva. Cominciai definitivamente a vedere le cose in maniera diversa. Prima non osavo avventurarmi in territori per me impervi, ora invece iniziavo a porre domande con sempre maggiore insistenza, e se non apertamente, almeno a me stessa.

In particolare, quella conversazione mi indusse a vedere Miss Lucy sotto una nuova luce. La osservavo attentamente ogni volta che potevo, non soltanto per curiosità, ma perché adesso la consideravo come la fonte piú attendibile per ottenere informazioni decisive. Fu cosí che, nei due anni che seguirono, giunsi a cogliere piccoli, strani dettagli in ciò che diceva o faceva, e di cui i miei compagni non si accorsero minimamente.

Quel giorno in cui, per esempio, forse alcune settimane dopo la nostra chiacchierata al laghetto, Miss Lucy ci stava insegnando letteratura inglese. Stavamo leggendo una poesia, ma per qualche motivo l'interesse si era spostato sui soldati che erano stati fatti prigionieri durante la seconda guerra mondiale. Uno dei ragazzi aveva chiesto se la recinzione intorno ai campi fosse percorsa da una scarica elettrica, e qualcun altro aveva osservato che doveva essere ben strano vivere in un posto come quello, dove ci si poteva suicidare in qualunque momento solo sfiorando una rete. Era nata come un'osservazione molto seria, ma il resto della classe l'aveva trovata piuttosto divertente. Ridevamo e parlavamo tutti insieme contemporaneamente, poi Laura - come suo solito - sali su una sedia e fece un'imitazione esilarante di qualcuno che allungava il braccio e moriva fulminato. Per un istante la situazione sfuggi a ogni controllo, con tutti che gridavano e facevano finta di toccare i fili elettrici.

Nel frattempo io continuavo a osservare Miss Lucy e intravidi, per una frazione di secondo, un'espressione di terrore dipingersi sul suo volto, mentre guardava gli studenti di fronte a lei. Poi - io non le staccavo gli occhi di dosso - si riebbe, sorrise e disse: - Meno male che i cancelli di Hailsham non sono elettrificati. Talvolta possono verificarsi dei terribili incidenti.

Pronunciò queste parole a bassa voce, e poiché stavamo ancora urlando, furono soffocate dal rumore. «Talvolta possono verificarsi dei terribili incidenti». Quali incidenti? Dove? Nessun altro però si accorse di nulla, e tornammo a discutere della nostra poesia.

Avvennero altri episodi di poco conto come questo, e di li a breve cominciai a pensare che Miss Lucy fosse diversa dagli altri tutori. È anche possibile che iniziai a intuire, proprio in quel momento, la natura delle sue ansie e delle sue frustrazioni. Ma forse mi sto spingendo troppo oltre; è possibile che notassi tutte queste cose senza capirne la portata. E se questi incidenti adesso mi appaiono estremamente significativi e coerenti fra di loro, probabilmente è perché li osservo alla luce di ciò che avvenne in seguito - soprattutto di ciò che accadde quel giorno al padiglione mentre cercavamo riparo dalla pioggia torrenziale.


Avevamo quindici anni allora, e frequentavamo l'ultimo anno di Hailsham. Ci trovavamo nel padiglione e ci stavamo preparando per una partita di softball. I ragazzi stavano vivendo quella fase di «innamoramento» per il softball perché era un modo per flirtare con noi, per cui eravamo piú di trenta quel pomeriggio. Il diluvio era iniziato mentre ci stavamo cambiando, e ci ritrovammo sulla veranda - che era riparata dal tetto del padiglione - in attesa che la pioggia cessasse. Ma non accennava a smettere, e quando si affacciarono anche gli ultimi, la veranda era piuttosto affollata, con tutti quanti che si accalcavano inquieti. Ricordo che Laura mi stava dando una dimostrazione di come soffiarsi il naso in un modo particolarmente disgustoso, da usare quando si voleva scaricare un ragazzo.

Miss Lucy era l'unica insegnante presente. Stava china sul parapetto della facciata dell'edificio, e scrutava la pioggia come se cercasse di penetrarla, fino a raggiungere con lo sguardo il campo da gioco. La osservavo attentamente come sempre in quel periodo, e anche mentre ridevo di Laura, lanciavo occhiate furtive in direzione della sua schiena. Ricordo di essermi domandata se non ci fosse qualcosa di innaturale nella sua postura, nel modo in cui la testa era forse un po' troppo reclinata in avanti, tanto da farla assomigliare a un animale in agguato pronto a balzare. E poi il fatto che si sporgesse un po' troppo oltre la ringhiera comportava che gocce di pioggia che cadevano dalla gronda sovrastante arrivassero a sfiorarla - ma lei sembrava non farci caso. A dire il vero ricordo di essermi convinta che non ci fosse nulla di insolito in tutto questo - semplicemente, lei attendeva con ansia che il diluvio cessasse - e rivolsi nuovamente la mia attenzione a quello che stava dicendo Laura. Poi alcuni minuti dopo, quando ormai mi ero già dimenticata di Miss Lucy e stavo ridendo a crepapelle a proposito di non so cosa, mi accorsi all'improvviso che il rumore era sparito, e che Miss Lucy stava parlando. 84 PARTE PRIMA 142 PARTE SECONDA se io stessi eseguendo un difficile lavoro manuale, e lui non vedesse l'ora di aiutarmi. — Kath, non... Be', se è tanto per eccitarti, allora non è cosí che si fa. Bisogna guardare le fotografie piú attenta- mente. Non funziona se vai troppo in fretta. — Com'è che sai come funziona per le ragazze ? O forse le hai guardate insieme a Ruth. Scusami, l'ho detto cosí, tanto per dire. — Kath, che cosa stai cercando? Lo ignorai. Ero quasi arrivata al termine della pila e ave- vo voglia di finire. Poi disse: — Ti ho già vista un'altra volta. Allora mi interruppi e lo guardai. — Che cosa sta succe- dendo, Tommy? Keffers ti ha arruolato per le sue ronde an- tipornografia ? — Non avevo intenzione di spiarti. Però ti ho vista la scor- sa settimana, dopo che eravamo andati in camera di Charley. C'era in giro una di quelle riviste, e tu pensavi che fossimo usciti tutti. Ma io sono tornato per riprendermi il maglione, le porte di Claire erano aperte e da lí avevo una buona vi- suale. E cosí che ti ho vista, mentre sfogliavi quelle pagine. — E allora? Ognuno ha il suo modo di eccitarsi. — Non era per questo. Ne ero sicuro, cosí come lo sono adesso. E la tua faccia, Kath. Quella volta in camera di Char- ley, avevi un'espressione strana. Come se fossi triste, forse. E un po' spaventata. Saltai giú dal banco di lavoro, raccolsi le riviste e gliele gettai in braccio. — Ecco, tienile. Dàlle a Ruth. Chissà, ma- gari funzionano. Gli passai accanto e uscii dal granaio. Sapevo che era ad- dolorato perché non gli avevo detto niente, ma in quel mo- mento io stessa nor sapevo bene cosa pensare, e non ero pronta a parlarne con altri. I uttavia non mi era dispiaciuto che mi avesse seguita nel capanno. Non mi era affatto di- spiaciuto. Mi ero sentita confortata, protetta quasi. Alla fi- ne gli raccontai ogni cosa, ma soltanto alcuni mesi dopo, quando ci recammo nel Norfolk.

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Capitolo dodicesimo


Voglio raccontarvi del nostro viaggio nel Norfolk e di tutto ciò che avvenne quel giorno, ma prima devo tornare un po' indietro, per fornirvi un quadro completo e spiegarvi perché ci recammo là.

Il nostro primo inverno era ormai quasi trascorso, e noi ci sentivamo molto piú a casa. Poiché, nonostante le nostre piccole baruffe, Ruth e io avevamo mantenuto l'abitudine di terminare la giornata in camera mia, a chiacchierare davanti a due tazze fumanti; fu durante uno di questi incontri, mentre stavamo scherzando a proposito di qualcosa, che lei all'improvviso disse:

— Immagino che avrai sentito, quello che hanno detto Chrissie e Rodney.

Quando risposi di no, scoppiò a ridere e continuò: — Probabilmente mi stanno prendendo in giro. È uno scherzo. Dimenticati tutto.

Mi accorsi però che voleva che le strappassi a forza una confessione, cosí continuai a insistere finché alla fine mi rivelò, a bassa voce:

— Ti ricordi la settimana scorsa, quando Chrissie e Rodney erano fuori? Sono andati in una città chiamata Cromer, sulla costa nord del Norfolk.

— A fare cosa?

— Oh, credo che abbiano un amico che abita là, qualcuno che una volta viveva ai Cottages. Non ha importanza. Il fatto è che sostengono di aver visto quella... persona. Che lavora in un ufficio open space. E, insomma. Pensano che questa persona sia il «possibile». Il mio.

Sebbene molti di noi fossero a conoscenza della teoria dei «possibili» fin dai tempi di Hailsham, avevamo avuto la percezione che non fosse lecito parlarne, e cosí avevamo fatto - anche se, certamente, la cosa ci incuriosiva e inquietava allo stesso tempo. Persino ai Cottages non era un argomento di cui discorrere con leggerezza. Intorno a esso sembrava aleggiare un timore reverenziale che non aveva paragoni, neanche, per esempio, col sesso. Allo stesso tempo, si capiva che la gente era affascinata - ossessionata, in alcuni casi - e cosí il concetto dei «possibili» si riproponeva in continuazione, di solito in occasione di dibattiti serissimi, lontani mille miglia dalle cose di cui parlavamo di solito, quando per esempio si discuteva di James Joyce.

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