Copertina
Autore Michelangelo Jacobucci
Titolo I nemici del dialogo
SottotitoloRagioni e perversioni dell'intolleranza
EdizioneArmando, Roma, 2005 , pag. 494, cop.fle., dim. 16x24x3 cm , Isbn 978-88-8358-979-9
PrefazioneUmberto Eco
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe religione , politica , filosofia , storia criminale
PrimaPagina


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Indice


Prefazione di Umberto Eco                               11

Prologo                                                 15


Introduzione: Due dubbie virtù                          27

— L'intolleranza come desiderio di riconoscimento
— La tolleranza, minimo comune denominatore di convivenza
— Il dilemma dell'"uomo tranquillo"
— Terrorismo nichilista e terrorismo guerrigliero


PARTE PRIMA: L'INTOLLERANZA RELIGIOSA:                  41
             LA CERTEZZA ASSOLUTA CHE VIENE DA DIO


La "Preghiera a Dio" di Voltaire                        42


Capitolo primo: Uccidere per piacere a Dio              43

— L'intrinseca intolleranza del sacro
— Natura verticale e orizzontale del "religare"
— Istituzionalizzazione e politicizzazione della religione

Capitolo secondo: Un ponte tra due dimensioni           52

— Fuori dell'ottica cristocentrica
— La "philosophia perennis"
— Gli Dei come intermediari
— Sincretismo
— Comunione con la natura
— Moderazione nel proselitismo
— Flatland

Capitolo terzo: L'intolleranza dei pagani               70

— L'ossessione dell'ortoprassia
— Misteri salvifici e fanatismo
— Le religioni del senso civico
— La decapitazione delle Erme
— La repressione dei Baccanali
— Le persecuzioni contro i cristiani

Capitolo quarto: Il fondamentalismo nazional-religioso  84

— Una resistenza "soffice"?
– Fondamentalismo improprio
— Un labirinto dottrinale e mitologico
– Il radicalismo dell'"hinduità"
– Anche Rama ha il suo bagno di sangue
– La "via dei Sikh"

Capitolo quinto: La certezza della Torah               105

— Intolleranza intrinseca del credo abramitico
— Centralità dell'uomo
– Storicità
– Patto con Dio
– Fede e obbedienza
– Assolutezza dell'ortoprassia
– Il "popolo eletto"

Capitolo sesto: L'ultraortodossia ebraica              116

— Attendendo il Messia a Brooklyn
– Guardiani del dogma e riformisti
– Laicità e specificità ebraica
– Il sionismo
– La doppia anima dello Stato di Israele
– Falchi e colombe nella "Terra promessa"
– Santificazione della Terra
– Gli "haredim"
– Un'intolleranza nemica del futuro

Capitolo settimo: Totalitarismo nel nome di Cristo     136

— Catalizzatori di intolleranza
– Storicizzazione del Dio-Uomo
– Il travaglio dei testi sacri
– Dalla "via di Dioniso" alla "via di Apollo"
– Esaltazione dell'individuo
– Ruolo totalizzante della Chiesa gerarchicizzata
– Spirito missionario
– Il secondo peccato di Adamo?

Capitolo ottavo: Fulmini contro croci                  154

— La disfatta di Giove
– Simmaco e Ambrogio
– Obliterazione del passato
– Propaganda spregiudicata
– Talebani di Cristo
– Esorcizzazione degli idoli
– Distruzione del Serapeion
– Ipazia e l'assalto ai templi del sapere
– Chiusura dell'Accademia di Atene
– L'abbattimento della Quercia di Odino

Capitolo nono: La lunga stagione dei roghi             178

— "Libertas erroris" o " mors animae"
– La Chiesa guardiana dell'ortodossia
– Il dibattito sui dogmi
– I grandi temi ereticali
– Parentesi sulle Crociate
– Le tre Inquisizioni
– Il "Martello delle streghe"
– Repressione antieretica in campo protestante
– Una lunga epoca fondamentalista?

Capitolo decimo: La seconda battaglia per l'anima      205

— Il massacro dei popoli senza storia
– La resistenza alla conversione
– Un tuffo nella mentalità primitiva
– Il fallimento dei "riti cinesi"
– "Semina verbi" e monopolio del Bene

Capitolo undicesimo: Il fondamentalismo cristiano      222

— Il "processo della scimmia"
– Il fondamentalismo, invenzione americana
– L'antimodernismo cattolico
– "The fundamentals"
– Profezie e millenarismo
– Resa dei conti tra Bene e Male
– Televangelisti e Maggioranza Morale
– Da Monsignor Lefebvre a Mel Gibson

Capitolo dodicesimo: Le certezze del Corano            246

— Il pericolo islamico
– Un confronto ambivalente
– La Rivelazione a Maometto
– Dall'Egira una nuova civiltà
– Essenzialità del messaggio
– Natura remota di Dio
– Indifferenza ai tempi della storia
– Il Corano, materializzazione del Verbo
– I cinque pilastri
– Globalità della "religio" e legge coranica

Capitolo trediceismo: Islamizzazione e multicultura    266

— La "Jihad", lotta spirituale o guerra guerreggiata?
– Una colonizzazione illuminata
– Fusione di culture nel crogiolo asiatico
– La via africana all'Islam
– Le "genti del Libro" nel Mediterraneo
– Riscossa futurista o ripiegamento sul passato?

Capitolo quattordicesimo: L'integralismo islamico      287

— Fondamentalisti e islamisti
– I cinque tratti dei fondamentalismi
– Spinte socio-economiche e idee-forza
– "Risveglio" spettacolare e "Riformismo" silenzioso
– Progresso o shari'ah?
– La triade della Rivoluzione culturale islamica
– Il pensiero di Sayyd Qutb
— Il dilemma del buon mussulmano


PARTE SECONDA: L"INTOLLERANZA CULTURALE:               313
               LA CERTEZZA ASSOLUTA CHE VIENE DAI PADRI


"Sentinella" di Frederick Brown                        314


Capitolo quindicesimo: La "paura dello straniero"      315

— Si può uccidere qualcuno perché è diverso?
— Chi ha ragione, Hobbes o Rousseau?
— Io e l'altro
— Desiderio di riconoscimento e identità
— Centralità dell'Io collettivo
— Attentato alla nostra incolumità simbolica
— Gli "altri" come esseri a umanità limitata
— "Aliens" e l'invasione degli ultracorpi

Capitolo sedicesimo: Guerra di culture                 328

— I tre significati di "cultura"
— "We-group" e "Outer group"
— Un nemico su misura
— La certezza assoluta della Parola dei Padri
— L'intolleranza della tradizione
— Fine della storia o scontro di civiltà?
— Omogenizzazione contro indigenizzazione

Capitolo diaciassettesimo: L'intolleranza etnica       349

— In un caffè di provincia
— Uno, nessuno e centomila
— Etnia e nazione
— Sciovinismo ed etnocentrismo
— La scala etnica
— La pulizia etnica

Capitolo diciottesimo: L'antisemitismo                 368

— Una vecchia storia: gli ebrei non vogliono integrarsi
— Un'accusa cristiana: hanno ucciso Dio
— Un pregiudizio medioevale: sono avidi di danaro
— Dalla segregazione all'emancipazione
— Dalla "questione ebraica" all'antisemitismo moderno
— L'affare Dreyfus e i Protocolli dei savi anziani di Sion
— Dal Mein Kampf alle camere a gas
— L'esperimento Milgram
— L'unicità della Shoà


PARTE TERZA: L'INTOLLERANZA POLITICA:                  387
             LA CERTEZZA ASSOLUTA CHE VIENE DAL CAPO


Dal Saggio sulla Tolleranza di John Locke              388


Capitolo diciannovesimo: Nascita dell'idea di tolleranza
                                                       389

— Tre idee-forza cambiano il mondo
— Democrazia antica e democrazia moderna
— Il travaglio dei nuovi principi politici
— La tolleranza di Locke, Bayle e Voltaire
— Uno spazio crescente per gli esclusi
— La civiltà del dubbio

Capitolo ventesimo: La questione delle minoranze       406

— Cinquemila polveriere sparse nel mondo
– Che cos'è una "minoranza"?
– Migrazioni ed assimilazione "soffice"
– Decolonizzazione e "costruzione delle nazionalità"
– I trasferimenti in massa
– Minoranze e globalizzazione


PARTE QUARTA: L'INTOLLERANZA IDEOLOGIA:                419
              LA CERTEZZA CHE VIENE DALLA RAGIONE


"I have a dream" dal discorso di M. Luther King
al Lincoln Memorial                                    420


Capitolo ventunesimo: La dittatura della ragione       422

— La razionalità come "modus in rebus"
– L'emergere della "mente occidentale"
– L'ubriacatura di Prometeo
– La hybris scientifico-tecnologica
– La tolleranza tra dogmatismo e scetticismo

Capitolo ventiduesimo: I totalitarismi                 440

— Fanatismi senza Dio
– I sei parametri di un regime totalitario
– Il fascismo
– Il nazismo
– Il comunismo sovietico
– Il "nemico obiettivo"

Capitolo ventitreesimo: Razzismo senza razze           455

— Filiazione pseudoscientifica della modernità
— Nascita dell'idea di razza
– Da de Gobineau al Quoziente di Intelligenza
– La "curva a campana"
– Le razze non esistono
– Scienza su misura
– L'"apartheid" è davvero morto?

Epilogo                                                477
Bibliografia                                           487

 

 

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Prefazione


Ogni tanto si assiste sulla stampa a dibattiti sul concetto di tolleranza. A qualcuno pare che il termine tolleranza sia ambiguo e, tutto sommato, intollerante: infatti esso presupporrebbe, secondo queste obiezioni, che si ritiene qualcuno fondamentalmente inaccettabile, inferiore a noi (e tutto sommato si preferirebbe evitarlo), ma lo si "tollera", per educazione o pro bono pacis.

Certamente esiste un uso corrente di "tolleranza" che connota anche questi atteggiamenti, ma non si deve dimenticare che per il mondo occidentale moderno e per quello spirito che si definisce "liberale" (ormai al di là di ogni differenza politica), Tolleranza è una parola-bandiera, da scrivere con la T maiuscola, almeno dai tempi in cui sulla tolleranza Locke aveva scritto una Epistola e Voltaire un Trattato. Per questo, e riprenderò il discorso, battersi per un'etica e una politica della tolleranza è ancora un fine che dobbiamo proporci, senza farci ricattare dalle parole. Che se poi, invece di tolleranza, vogliamo usare "accettazione delle differenze", va bene lo stesso.

Ma se il termine di tolleranza può sollevare delle critiche, pare che tutti si sia d'accordo sul significato (ovviamente negativo) dell'intolleranza. Se si può sospettare che alcune forme o professioni di tolleranza siano venate di ipocrisia e celino alcune riserve mentali, l'intolleranza è brutalmente sincera.

Ottime ragioni per prevedere consenso a un libro sull'intolleranza, se non fosse che sovente riteniamo intolleranti alcuni comportamenti molto evidenti, come forme di razzismo plateale, ma dell'intolleranza non misuriamo veramente tutte le manifestazioni, a livello religioso, culturale, politico, ideologico. Così che a leggere queste pagine di Jacobucci un lettore può essere preso da angoscia, avendo l'impressione che nessuno sia mai fuggito al germe dell'intolleranza, e scoprendo che intolleranti sono stati anche quelli della sua parte – quelli che avrebbero dovuto essere i "buoni".

Non solo. Da un lato ci sono e ci sono sempre state le "dottrine della intolleranza", che hanno preso nel corso della storia le forme diversissime tra loro della persecuzione agli eretici, della caccia alle streghe, delle dittature totalitarie, del fondamentalismo (protestante, musulmano o ebraico), dell'integrismo religioso, dell'antisemitismo e in genere del razzismo cosiddetto "scientifico". Si tratta di una rete di atteggiamenti tra cui è difficile porre talora delle distinzioni, per cui si sono visti fondamentalismi non integristi, intolleranze non razzistiche, integrismi non fondamentalisti, razzismi non integristi, e persino la curiosa vicenda del "politically correct", nato come antirazzista, andi-discriminatorio, liberale, tollerante, e che tuttavia sta dando vita a un nuovo fondamentalismo.

Dall'altro c'è l'intolleranza diffusa, popolare, di origini biologiche, quella per cui ciascuno di noi è disposto a compiere le più azzardate generalizzazioni (e, derubato della valigia all'areoporto di Milano, dirà che tutti i milanesi sono ladri). In tal senso la tolleranza non è un atteggiamento naturale, è un prodotto della cultura, dell'educazione, come l'apprendere che non si deve rubare e uccidere. Ma proprio per questo l'intolleranza diffusa è la più difficile da individuare e da combattere. Contro il razzismo "scientifico" si può argomentare alla luce della ragione, e gli argomenti risultano convincenti; ma contro il razzismo primitivo e animale è più difficile. E queste sono cose che comprendiamo bene anche in Italia in questi anni: nulla di più pericoloso dell'intolleranza senza dottrina, senza cultura, dell'intolleranza "bestiale".

Le due intolleranze si sostengono e alimentano a vicenda e questo libro ci aiuta ad addentrarci nei loro meandri e nella loro logica interna.


Il panorama che ci offre Jacobucci è, lo dice il sottotitolo, un elenco di "perversioni", anche se spesso antichissime, nobilissime, venerabili, e sostenute da alcune ragioni. Ma triste sarebbe se, dopo aver lanciato il suo grido di allarme e il suo invito all'allerta, questo libro si chiudesse senza una parola di speranza.

In effetti la parola di speranza c'è, subito nel titolo (perché al "no" dell'intolleranza si oppone il "sì" del dialogo); e c'è nel prologo. Lì l'autore benevolmente mi coinvolge, ricordando una mia proposta di spot televisivi antiviolenza per bambini di età prescolare e dei primi gradi delle elementari.

Jacobucci lamenta che di quella proposta, poi, l'Unesco non abbia fatto nulla, ma in un certo senso quel progetto ha preso forma, anche se in altro modo. Credo sia stato un anno o due dopo il Foro che Jacobucci cita, e l'Academie Universelle des Cultures ha iniziato a dare vita a un sito internet dedicato agli educatori di tutto il mondo, per l'educazione dei bambini all'accettazione della diversità. Il principio ispiratore era (ed è, perché il sito è in progress) che l'intolleranza, come la violenza, non è una malattia, ma una disposizione quasi naturale dell'animo umano. Il bambino, così come, se potesse, vorrebbe impadronirsi di tutto quello che gli piace (e solo attraverso un'educazione continua acquisisce il rispetto della proprietà altrui), di solito reagisce con fastidio all'inusuale e al diverso (e proprio per questo le fiabe blandiscono queste sue propensioni mostrandogli il Male sotto forma di diversità, lupo, orco, strega).

Però quello stesso bambino può elaborare a poco a poco addirittura atteggiamenti di simpatia verso la diversità, prova ne sia la sua attrazione (coltivata dai media) per tanti mostri simpatici – diversi ma bonari e amabili.

Ed ecco che il sito dell'Academie elabora materiali su temi diversi (colore della pelle, religione, cibo, usi e costumi e così via) per gli educatori di qualsiasi paese che vogliano insegnare ai loro ragazzi come si accettano coloro che sono diversi da loro. Anzitutto non dicendo bugie ai bambini, e affermando che tutti siamo uguali. I bambini si accorgono benissimo che alcuni vicini di casa o compagni di scuola non sono uguali a loro, hanno una pelle di colore diverso, gli occhi tagliati a mandorla, i capelli più ricci o più lisci, mangiano cose strane, non fanno la prima comunione.

Dunque bisogna dire ai bambini che gli esseri umani sono molto diversi tra loro, e spiegare bene in che cosa sono diversi, e perché, per poi mostrare che queste diversità possono essere una fonte di ricchezza. Il maestro di una città italiana dovrebbe aiutare i suoi bambini italiani a capire perché altri ragazzi pregano una divinità diversa, o suonano una musica che non sembra il rock. Naturalmente lo stesso deve fare un educatore cinese con bambini cinesi che vivono accanto a una comunità cristiana.

Un libro come questo di Jacobucci, con il suo panorama in negativo, può essere utilissimo a ispirare delle attività educative in positivo, perché mette in luce i punti deboli, gli interstizi in cui nel corso dei secoli il bacillo dell'intolleranza si è annidato e si è fatto strada.

Per questo mi pare severo, crudele quanto si deve, ma non disperato.

Umberto Eco

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Pagina 20

"Se premendo un bottone potessimo causare la morte di un mandarino cinese mai visto né conosciuto all'altro capo della terra reccogliendone l'eredità, quanti tra noi esiterebbero?" si chiedevano i filosofi del Secolo dei Lumi. Oggi si è realizzato qualcosa che anche nel pieno della rivoluzione scientifica di tre secoli fa era inimmagibabile: possiamo vedere in tempo reale in diretta tutto quello che accade all'altro capo della terra, anche le esecuzioni e i massacri. Eppure nemmeno questo ci distoglie dal premere bottoni che seminano morte, ci fa esitare a dare il nostro assenso a interventi violenti di ogni tipo contro chi non condivide le nostre opinioni e le nostre scelte di vita.

Nel momento in cui scrivo, una grande società di telecomunicazioni manda in onda uno spot pubblicitario nel quale si vede l'immagine di Gandhi diffusa da televisioni, cellulari e computer nei più remoti angoli del globo, con lo slogan "Se avesse potuto comunicare così, oggi che mondo sarebbe?". Ma neanche oggi mancano personalità carismatiche che con coraggio e passione non minore di quella del grande apostolo indiano lanciano appelli alla non violenza, eppure non riescono a cambiare gran che. Nell'era dei più incredibili strumenti di comunicazione mai concepiti, siamo peggiorati in termini di capacità di comunicare veramente con il nostro prossimo. Sappiamo inviare messaggi in tempo reale torno torno al pianeta ma non sappiamo portare a segno un solo messaggio in grado di fermare uno solo dei massacri che, mentre leggete queste righe, si verificano ai quattro angoli della terra in nome di Dio, della tradizione, della razza, della nazione, di un capo autoritario, del denaro, della libertà. "Paradosso tra i paradossi – ha scritto l'islamista Khaled Fouad Allam – il linguaggio mediatico non rappresenta un prolungamento della parola nel mondo ma la sua negazione".

L'uomo del Terzo Millennio, indubbiamente più "civilizzato" dell'uomo delle caverne o dell'uomo medioevale nel senso che abita civitates più ricche e più dotate di mezzi strabilianti, è diventato anche più "civile", nel senso di aver appreso a vivere in armonia con i suoi simili? Forse è impossibile dare a questa domanda una risposta che trovi tutti d'accordo. È però facile constatare che i predicatori di pace sono guardati con diffidenza e che i massimi indici di ascolto vanno a chi invita a non abbassare mai la guardia nei confronti dell'"altro", a trattarlo sempre come un potenziale nemico. La gente ama i forti che rassicurano, non i seminatori di dubbio. Per ogni film di fantascienza su incontri ravvicinati del terzo tipo con benevoli extraterrestri ve ne sono almeno dieci che parlano di "alieni" miranti più o meno subdolamente, spesso assumendo le nostre sembianze, ad annientarci o renderci schiavi.

Oggi a preoccupare noi occidentali è un mondo islamico in fermento come mai nella storia recente. È una riscossa che un grande storico come Arnold Toynbee aveva previsto già cinquant'anni fa e che riguarda più loro che noi: come imboccare con decisione la via della modernità senza snaturare irrimediabilmente il proprio credo religioso. Ma stiamo trasformando la questione in una "guerra di civiltà", rischiando di farci trascinare nella stessa spirale perversa del confronto Est-Ovest, dalla quale siamo appena usciti. Allora un conflitto geopolitico fu trasformato – con un lavaggio dei cervelli condotto da ambo le parti per quaranta lunghi anni – in scontro ideologico, gestito quindi non più secondo i freddi canoni della Realpolitik bensì in base agli imperativi apocalittici e manichei del Bene contro il Male. "Better dead than red" è stato uno degli slogan più demenziali della storia ma ha rischiato di farci spaccare in due il globo terrestre, come un'albicocca.

Ora è l'intero Islam ad essere additato dai fanatici di casa nostra come il bieco mandante del terrorismo islamista e rischia di divenire il nuovo Satana, il Nemico Numero Uno che sferra la Guerra Santa contro la nostra sacrosanta "way of life". Ma quale guerra di religione o di civiltà sta dietro il genocidio dei tutsi ruandesi, le atrocità in Cecenia, l'ascesa dei neonazisti xenofobi in Germania?

Il problema della violenza dell'uomo contro uomo affonda le sue radici nella notte dei tempi, è di natura filosofica e morale, attiene alla natura del Male, al libero arbitrio, al destino dell'uomo sulla terra. Ma si traduce nel dilemma pratico, quindi prevalentemente politico, dei limiti della tolleranza, di quando è il momento di dire basta ad attentati contro valori considerati irrinunciabili.

In tema di tolleranza gli scaffali delle librerie si arricchiscono quasi ogni giorno di pregevoli saggi dei più autorevoli maitres a pénser; in argomento vengono organizzati innumerevoli convegni, seminari, tavole rotonde ai più vari livelli. Non ho la pretesa di aggiungere nulla di nuovo a tutto questo. La novità del mio libro sta solo nell'aver riunito in un unico contesto temi trattati di solito in separate monografie, nell'aver richiamato alla memoria in bell'ordine, uno dietro l'altro, inquadrandoli in una prospettiva storica la più ampia possibile, tutta una serie di fatti e di elementi che mostrano come le diverse forme di intolleranza – fanatismo religioso, xenofobia, razzismo, totalitarismo, antisemitismo, pulizia etnica e via dicendo – siano come diverse facce di un prisma, aspetti tra loro intimamente collegati di un unico fenomeno e riconducibili a una comune fonte, la certezza assoluta, cioè il dogmatismo.

Il dogmatismo è il motivo conduttore di questo lavoro e il filo invisibile che lega tra loro le forme più disparate di intolleranza e rifiuto dell'altro.

Molti degli uomini "tutti di un pezzo" che nelle situazioni di crisi sanno prendere le decisioni senza troppo esitare, pronti a far pagare ad amici e nemici il più alto prezzo anche in termini di vite umane, non si sognano neppure di indulgere in riflessioni di tipo filosofico. Badano ai "fatti" loro, e se ne vantano e sono per questo lodati a appoggiati. Vediamoli allora un pò meglio questi fatti, mettiamoli a fuoco e a confronto tra loro.

Gli interrogativi sui quali ho indagato sono quelli stessi che si pone qualsiasi persona di media cultura che abbia a cuore il futuro dei suoi figli e nipoti. Solo che io, a causa del mio lavoro, sono stato costretto a cercare alla svelta una qualche risposta già mezzo secolo fa, quando il mondo era diverso e stranieri per lo più bisognava andarli a cercare, non ce li ritrovavamo nostro malgrado in casa.

Rispetto al proverbiale uomo della strada ho appena qualche punto di vantaggio, che può giustificare la mia pretesa di volergli insegnare qualcosa. Come diplomatico di mestiere, nel campo delle relazioni con i "diversi" ho avuto una gamma di esperienze molto superiore alla media. Ho viaggiato tutta la mia vita, ho visitato settanta Paesi e vissuto per anni in dieci Stati differenti, situati nei cinque continenti. Ho conosciuto personaggi illustri e figure emblematiche, appartenenti ai più vari credi e tendenze. Di ciascuno dei Paesi nei quali ho prestato servizio ho imparato la lingua e, nei limiti del possibile, tutto quanto era utile apprendere sulla sua storia, istituzioni, usi, costumi. Ho letto avidamente, alla rinfusa, un'enorme quantità di materiale riguardante le genti con le quali venivo in contatto e, man mano che progredivo nelle mie ricerche, alcuni interrogativi si riformulavano nella mia mente e dovevo ricomincare da capo a trovare risposte nuove.

Risalire alle più lontane fonti storiche, trovare collegamenti e analogie in episodi assai lontani tra loro nello spazio e nel tempo, mi è sempre stato di grande aiuto per capire le realtà che mi circondavano e che la mia educazione e abito mentale mi rendevano a prima vista incomprensibili o inaccettabili. A Vergina, nel luogo dove è stata scoperta la tomba di Filippo II, avevo chiesto a un assistente del celebre archeologo Andronico "Professore, se avesse un macchina del tempo, e potesse vivere nell'antica Macedonia, cosa pensa che potrebbe colpirla di più?". E il giovane ricercatore mi aveva risposto senza esitare: "Constatare quante poche cose sono cambiate da allora".

È vero che la storia, celebrata come magistra vitae, lo è a conti fatti ben di rado ed è comunque una maestra non sempre affidabile. Viene spesso invocata da quelli che si dicono animati da una certezza assoluta, perché ad essi fa gioco far risalire la loro certezza il più indietro possibile nel tempo; e dal vasto magazzino della memoria registrata traggono solo i fatti e le interpretazioni che più convengono alla loro tesi, quando non inventano i fatti di sana pianta. "Le cose che non esistono – nota uno storico di vaglia quale Franco Cardini – quando c'è qualcuno che ciò nonostante ci crede, acquistano una perentorietà tremenda...".

Tuttavia quando entriamo nel campo minato del comportamento aberrante dell'uomo e delle società umane, della storia non possiamo fare a meno. Proprio perché ispirazioni e rivendicazioni di sette e movimenti fanatici sono così intrise di richiami alle origini più remote della loro cultura e ideologia, ("la scandalosa forza del passato", diceva Pasolini) ci è indispensabile risalire a queste vere o presunte radici storiche se vogliamo afferrarne i procedimenti mentali e i reconditi scopi. La storia ci aiuta così a battere costoro sul loro stesso terreno. Una ricostruzione storica che si allarga al mondo intero e va indietro di migliaia di anni colloca gli eventi nelle giuste proporzioni, ne attenua l'emotività, soprattutto, anche se questa è una parola che a molti non piace affatto, li relativizza. Non annulla necessariamente le certezze ma le rende meno assolute. Credere nella indiscussa superiorità di una razza, di una cultura e persino di una religione diventa più difficile quando ci viene mostrato che per ogni messaggio di Verità difeso con dedizione ed eroismo in un dato periodo e in una certa parte del mondo, ne esistono altri, in altri periodi ed altre parti del mondo, di segno opposto, sostenuti con pari vigore e sincerità. Anzi, che addirittura credenze e posizioni che oggi consideriamo inammissibili e inconcepibili erano fino a ieri quelle dei nostri stessi padri.

Scandagliare il passato per arrivare alle radici delle nostre certezze, dice l'emblematico saggio Lao Lan, è come guardarci allo specchio, può farci conoscere meglio il nostro io individuale e collettivo e mostrarci l'Altro, colui che per definizione non la pensa come noi, in una luce meno "aliena".

La mia ricerca non mira ad additare le malefatte e l'anima nera di questa o quella religione, ideologia, etnia o movimento politico. Al contrario intende sottolineare che più allarghiamo il nostro sguardo nel tempo e nello spazio, più ci rendiamo conto che non esistono uomini o popoli intrinsecamente buoni o malvagi, fedi o ideologie completamente buone o completamente cattive. Esistono solo uomini irremovibilmente convinti che certe idee rappresentino in assoluto il Bene e le idee contrarie il Male e ciò accade perché costoro interpretano in maniera troppo rigorosa ed acritica gli ideali e norme loro trasmessi da maestri carismatici o da una saggezza accumulata nei millenni. Ideali e norme divenuti alla fine camicie di forza, di cui non è più possibile liberarsi anche se mutano le circostanze.

Questi uomini – è bene ricordarlo — sono spesso in perfetta buona fede.

Questo ci porta al secondo amuleto di Laon Lan, alla tanto abusata circolarità dialettica yin-yang, nella quale tolleranza e intolleranza, pur antitetiche, tendono tuttavia a sfumare l'una nell'altra. Ad approfondire il discorso, ci si accorge che la tolleranza non è proprio una virtù, semmai, come afferma Chesterton, è "la virtú dell'uomo senza convinzioni" mentre al lato opposto l'intolleranza non è poi così nera come la si dipinge, anzi per Paul Valéry sarebbe addirittura "una virtú terribile dei tempi puri".

Eccoci così arrivati al leit motiv dell'intera mia trattazione, che consiste in una buona notizia, una notizia importante che mi sarebbe piaciuto, se si fosse realizzata l'idea di Eco, veder diffusa a grandi e piccini su tutte le reti televisive del mondo: essere tolleranti non significa che dobbiamo per forza amare il nostro prossimo ma solo che dobbiamo sforzarci di rispettarlo almeno un poco.

I termini "tolleranza" e "intolleranza" sono relativamente recenti. Si tratta di invenzioni moderne, come quella di "eguaglianza" e "diritti dell'uomo", che acquistano un senso allorché sono inquadrate in una determinata svolta storica, proiettata verso la costruzione di un mondo migliore. Non vanno confuse con categorie eterne e universali come l'amore per il prossimo da un lato e l'odio fanatico per il diverso dall'altro. In altre parole, si può cominciare a parlare di tolleranza solo allorché comincia ad affermarsi l'idea rivoluzionaria della dignità di ogni uomo, anche il meno dotato e il più derelitto, quindi l'idea del diritto di ognuno alle proprie opinioni, anche le più assurde.

Essere tolleranti – non mi stancherò mai di ripetere questo punto essenziale – non significa condividere il punto di vista altrui né significa essere incapaci di dire basta all'intollerabile. La differenza tra il tollerante e l'intollerante è che quest'ultimo non dubita mai mentre il tollerante non può fare a meno di una dose di ragionevole dubbio. Questo non significa dubitare di tutto e di tutti, negare che possa esserci una sola verità, significa solo sottoporre la verità nella quale si crede fermamente al collaudo di un attento vaglio critico. La dose di dubbio può quindi anche essere ridotta alle dimensioni del granello di senape di cui parla Lao Lan; un granello che però pesa come una montagna.

Il cammino del tollerante verso il dialogo è irto di ostacoli quasi insormontabili. Il maggiore ostacolo, e anche il piú ovvio, è, trattare con l'intrattabile, provare a discutere con chi di discutere non ne vuol proprio sapere. Per sostenere una simile sfida, non da poco – capire e tollerare la stessa intolleranza, sia pure entro certi precisi limiti – egli deve lottare in primo luogo con se stesso.

Troppo spesso ci dichiariamo disponibili al dialogo non perché ritieniamo davvero "l'altro" meritevole di considerazione ma perché ci valutiamo talmente bravi, generosi, giusti, da saper coabitare con chiunque. In realtà nutriamo l'intima convinzione che prima o poi anche l'altro sarà attratto inevitabilmente dalla nostra parte per la forza stessa della nostra luminosa causa. In altri termini, la "nostra" tolleranza è determinata dalla condizione che il tollerato sia disponibile a farsi integrare, si riconosca cioè in una comune sfera di valori della quale siamo sempre noi tolleranti a determinare i confini. Ci costa enorme fatica fronteggiare il fatto che per l'intollerante i veri intolleranti siamo noi.

Un'ultima confessione. Nella mia decisione di scendere in campo contro l'intolleranza ha avuto il suo peso anche il desiderio di raccogliere l'eredità morale di Sandro Pertini, il Presidente così amato e così presto dimenticato, che, onorandomi della sua stima e amicizia, ha avuto una grande influenza negli anni della mia maturità. Negli straordinari incontri che aveva quasi ogni mattina al Quirinale con le scolaresche provenienti da tutta Italia, Pertini amava citare una frase di Voltaire:

"Io combatto la tua idea, che è contraria alla mia. Ma sono pronto a lottare a prezzo della mia vita affinché la tua idea tu possa esprimerla liberamente".

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Capitolo primo

Uccidere per piacere a Dio


                                "Abbiamo abbastanza religione per odiare
                                il nostro prossimo, ma non per amarlo".

                                                          Jonathan Swift



L'intrinseca intolleranza del sacro – Natura verticale e orizzontale del "religare" – Istituzionalizzazione e politicizzazione della religione.


L'intrinseca intolleranza del sacro

Un viaggio tra i nemici del dialogo deve inevitabilmente prendere le mosse dalla religione. Tema formidabile ed obbligato in ogni discorso sull'intolleranza, nel quale avrà sempre la parte del leone.

Se l'intolleranza deriva dalla certezza assoluta, la religione rappresenta, storicamente e logicamente, un prius, che ha influenzato ogni altra certezza assoluta. Quale certezza può essere più incontrovertibile di quella che deriva da Dio?

Fino a poco tempo erano in molti a sostenere che, almeno per quanto riguarda la condotta degli affari mondiali, il ruolo della religione era ormai tramontato per sempre. Invece essa è tornata prepotentemente alla ribalta come primo attore sulla scena internazionale. André Malraux aveva visto giusto quando profetizzava: "Il XXI secolo sarà religioso o non sarà".

A partire dal 1979, prima ancora della fine della Guerra Fredda, in Iran la rivoluzione khomeinista segnava il risveglio dell'islamismo militante. E nell'intera area della umma islamica – dove quasi un miliardo di esseri umani continuano a scandire la loro vita quotidiana al ritmo di riti sacri che condizionano la loro maniera di mangiare, di vestire, i rapporti tra i sessi, le relazioni sociali – la religione torna ad essere la più forte spinta per una riscossa spirituale e politica.

In quegli stessi anni in America Latina nasceva la Teologia della Liberazione e in Polonia la Chiesa cattolica appoggiava il movimento di Solidarnosc. Il ruolo di Giovanni Paolo II nella disfatta del comunismo internazionale è dovuto in buona parte al suo carisma ma anche alla vitalità del credo che egli ha rappresentato. La riprova è che la prima priorità dei popoli rimasti per settant'anni prigionieri all'interno della sfera di influenza sovietica e sottoposti al lavaggio del cervello da un'educazione atea, non appena dissoltasi la coltre di ghiaccio del totalitarismo, è stata quella di soddisfare le esigenze spirituali e del culto. Anche la Cina postmaoista sta assistendo a una rinascita del buddismo e confucianesimo, e all'emergere di sette dal vago colorito religioso, come quella dei cultori del falun gong. Infine, la rielezione di Bush è da attribuirsi al fattore religioso molto più di quanto generalmente si pensi.

È vero che molte confessioni continuano a lamentare nel loro ambito crisi delle vocazioni, calo delle presenze alle funzioni o un'osservanza puramente formale, ma è vero anche che questi fenomeni di disaffezione per i riti tradizionali trovano ampia compensazione in forme alternative di religiosità, anche se considerate anomale dagli ortodossi.

Ci si dovrebbe aspettare da questo risveglio religioso una corrispondente diminuzione della conflittualità e animosità. Ma esso invece conferma che la religione è fonte primaria di intolleranza e che anche quelle forme di intolleranza, come la xenofobia, il razzismo, l'assolutismo, le quali a prima vista sembrerebbero svincolate dal fattore religioso, sono con questo intrecciate o ne divengono un surrogato.

Come è possibile una cosa del genere, che sia proprio la religione a fomentare l'odio verso l'"altro"? Sappiamo bene che essere fervidi credenti significa tutt'altro che essere intolleranti, che le varie fedi esortano solitamente alla solidarietà e alla compassione e che le religioni, quali che siano le loro incarnazioni storiche, si sono dimostrate fonti insostituibili di carità e giustizia.

Come si spiegano allora gli atti di violenza e crudeltà, dall'assassinio rituale al suicidio di massa, dalla persecuzione dei dissidenti alla guerra santa, che sono stati perpetrati, nelle più varie epoche e latitudini, in nome di un credo religioso?.

Come si può uccidere per piacere a Dio?

È una domanda che non possiamo non porci esplorando la storia mondiale ma che oggi ci poniamo sempre più spesso. Ce la siamo posta ai tempi della guerra Iran-Iraq, apprendendo che bambini il iraniani venivano inviati dai loro ayatollah sui campi minati per aprire la strada alle fanterie, con al collo una piccola chiave, quella delle porte del Paradiso che si sarebbero loro spalancate in cambio di questo sacrificio. Ce la siamo posta ancora dopo l'assassinio, nel 1995, del Primo Ministro israeliano Rabin, per mano di un giovane ebreo dell'Università religiosa di Bar Ilan, il quale dopo il suo arresto dichiarò "Me l'ha ordinato Dio e non ho rimpianti". La domanda ci si è ripresentata infine leggendo una di quelle notizie che vengono relegate nelle pagine interne dei quotidiani perché proveniente da una di quelle regioni del mondo che per noi solitamente significano solo miseria o folklore: in India, là dove a molti di noi la religione appare come poco più di una bizzarra filosofia, i fondamentalisti hindù hanno raso al suolo un'antica moschea, provocando migliaia di morti.

Non mancano certo gli sforzi volti a dimostrare che non è il fatto religioso in quanto tale a portare all'intolleranza ma a dimostrarsi intollerante sarebbe solo questa o quella particolare religione. Il più approssimato dei riscontri storici è sufficiente però a convincerci del contrario. Salman Rushdie, che ha sentito la minaccia del fanatismo religioso alitargli sul collo, ha scritto: "Quale che sia la religione al posto di comando, ne sboccia sempre e soltanto intolleranza. Ne nasce l'Inquisizione, ne spuntano fuori i Talebani".

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Il sionismo

Se non si tiene presente questa linea di ragionamento, non si può afferrare appieno tutta la particolarità dell'evento più straordinario della storia ebraica recente, il sionismo. Le divisioni e polemiche che esso ha suscitato possono interpretarsi infatti in gran parte anche alla luce del dibattito sulla laicità. In un'ottica laica l'evento non ha gran che di straordinario. Nel secolo XIX, dominato dal fervore nazionalistico, era più che naturale che anche il popolo ebraico aspirasse ad avere una patria tutta sua, con un territorio, un governo, una bandiera.

Quando infatti l'idea cominciò a tradursi in concreti progetti politici e Teodoro Herzl convocò a Basilea nel 1897 la prima riunione di quello che fu chiamato, rievocando antiche reminiscenze bibliche, il movimento sionista, esso riscosse consensi non solo nei più vari settori della Diaspora ma anche presso le cancellerie di alcune grandi Potenze, tanto che alla fine il sogno, che sembrava impossibile, del ritorno degli ebrei alla loro terra di origine, poté trovare la sua realizzazione concreta.

Si trattava dunque di un progetto laico, realizzato senza mai trascurare le regole d'oro della Realpolitik. I nazionalisti ebrei che più contribuirono a realizzarlo e posero poi le fondamenta del nuovo Stato d'Israele non differivano molto dai nazionalisti di altri Paesi. Essi volevano uno Stato alla pari con gli altri Stati più avanzati, cioè libero, democratico, progredito civilmente ed economicamente, in grado di inserirsi a pieno titolo nella comunità internazionale.

Ma dai cultori dell'ortodossia giudaica, non tutti necessariamente estremisti, l'evento era visto in maniera completamente diversa e non si può dire che la loro visione mancasse di logica e di coerenza.

Per tutti coloro gelosamente attaccati alle tradizioni religiose l'evento non aveva e non poteva avere nulla a che fare con la Realpolitik. Per molti di essi il "ritorno alla Terra Promessa" avrebbe dovuto essere nè più nè meno che un miracolo, il risorgere di un passato mitico e glorioso, l'inizio di un nuovo capitolo nei piani del Signore, che non poteva essere certo gestito alla stregua di qualsiasi altro sviluppo di politica internazionale.

Per una minoranza di puristi e ortodossi ad oltranza anzi, la fine dell'esilio tramite una operazione politica era considerata addirittura un sacrilegio, per le stesse considerazioni che li opponevano frontalmente ad ogni forma di secolarizzazione.

Per secoli e secoli la grande forza coesiva della nazione ebraica era stata quella di essere "senza spazio e senza tempo". Lo status di ordinari cittadini di un vero e proprio Stato come tanti altri, avrebbe progressivamente indebolito la carica spirituale e messianica della tradizione profetica, che aveva permesso al piccolo popolo di restare per millenni quello che era e di lasciare la sua impronta nella storia del mondo. Quale sarebbe stata la tenuta dell'intera collettività giudaica una volta che una parte consistente di essa si fosse inserita in una "normale" cornice giuridico-costituzionale sua propria?

La condizione ebraica – argomentavano sempre costoro – non era di quelle che si possono modificare con i maneggi della diplomazia, le armi, il denaro.

Dall'Esilio si poteva uscire solo con la Redenzione. Solo il Messia avrebbe potuto ricostituire il Regno di David.

Nella popolazione ebraica dimezzata dalla immane tragedia della Shoah e ormai divisa in due parti, quelli rimasti nella Diaspora e quelli tornati nella Terra Promessa, poteva ora individuarsi intorno a questi presupposti politico-ideologici, intrisi di una forte carica emotiva, tutta una gamma di convinzioni e atteggiamenti che andavano dall'antireligiosità all'ultrareligiosità.


La doppia anima dello Stato di Israele

In una cornice ideologica ed emotiva di questo tenore, non sorprende più di tanto che lo Stato ebraico da un lato si dichiari laico, partecipe di una comunità occidentale sempre più secolarizzata e materialista e dall'altro lato non riesca a nascondere i lineamenti di Stato teocratico, con la Torah come sua costituzione. Sorprende ancora di più il fatto che dalla comunità ebraica sparsa per il mondo sia potuto emergere uno Stato vero e proprio e che esso funzioni regolarmente come tutti gli Stati di questo mondo.

I problemi, i conflitti, le crisi che lo Stato di Israele ha affrontato ed affronta – la litigiosità delle fazioni, il complesso di accerchiamento, l'incertezza dei propri confini – diventano più comprensibili qualora si consideri sino a che punto la religione, e l'alto tasso di intolleranza in essa insita, continua a influenzare la vita del Paese.

In tanti altri Paesi e anche da noi in Italia può avvenire che alcuni grandi temi politici implicanti scelte etiche, portino a dibattiti di natura religiosa. Ma in Israele, non diversamente da quando si verifica nei Paesi islamici, è spesso la religione ad occupare il posto centrale e ad influenzare la trattazione dei problemi politici ed economici, anche se spesso si tratta di quella religiosità che i sociologici chiamano "culturale", cioè puramente formale, con un grado di osservanza né molto sentito né molto elevato. Quanto siamo venuti esponendo sin qui non è dunque una mera disquisizione erudita ma ci aiuta a meglio comprendere le tendenze di fondo e le idiosincrasie di uno Stato, che ha ereditato la doppia anima dell'ebraismo, quella tradizionalista e quella riformista, e che non riesce ad uscire dall'ambivalenza circa la propria asserita vocazione laica e la separazione tra autorità della Torah e autorità dello Stato.

Ad ormai mezzo secolo dalla nascita di Israele, autorevoli politologi continuano ad individuare nel suo interno una marcata divisione in due campi, che rappresentano non solo due diversi orientamenti politici e due diverse culture ma addirittura due contrapposte visioni del mondo.

Nel periodo iniziale, della massima emergenza, di fronte alla minaccia esterna, sembrava più che naturale che le discussioni di natura politica, dentro e fuori del Parlamento finissero per sconfinare nel Grande Dibattito sulla natura della nazione ebraica appena risorta. "Che significa essere ebreo?" non era una domanda oziosa, fatta per i filosofi ma un problema concreto. Ed esso confermava la sensazione che per Israele, assai di più che per altri Stati evoluti, i concetti di nazione, territorio, costituzione, democrazia non avessero lo stesso significato per tutti i cittadini.

Nonostante il trascorrere di oltre mezzo secolo, con tutti i conseguenti mutamenti intervenuti nel mondo e nell'area mediorientale, i quesiti di fondo rimangono gli stessi. Che significa "Stato degli ebrei?". È esso ancora uno Stato rifugio per ebrei perseguitati? È uno Stato dove i tipici valori ebrei saranno puntualmente valorizzati e praticati? E quali valori, religiosi o culturali? E dentro quali confini?

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Talebani di Cristo

Molti Vescovi, specie nelle roccaforti ellenistiche dove dominavano ancora collettività saldamente ancorate alle loro tradizioni religiose (ebrei, mitraici, seguaci del culto di Iside, zoroastriani), nell'attuare la politica di evangelizzazione della Chiesa trionfante vi aggiungevano spesso uno spirito di rivalità e di rivalsa che era tutto il contrario dello spirito di carità, sicuri comunque che tutt'al più avrebbero incontrato sconfessione e resistenze da parte delle autorità imperiali ma non da parte dei loro colleghi e superiori ecclesiastici.

Per mettere in pratica i loro drastici interventi in barba ai tutori della legge, questa specie di ayatollah cristiani trovarono le loro squadracce di talebani militanti proprio nel posto più impensato, il deserto, dove i monaci erano numerosi e animati da sacro fervore.

Lo storico delle religioni William H.C. Frend sostiene che ci vorrebbe tutta l'abilità di psicologi e sociologi, oltre a quella dello storico, per risolvere il paradosso di come uomini che si dedicavano alla preghiera, al lavoro, alla carità verso i poveri e gli oppressi abbiano potuto essere gli autori di tanti e così gravi episodi di violenza contro gli esponenti di un credo diverso dal loro. Forse una spiegazione potrebbe essere quella che chi si sottopone ad una vita di duri sacrifici, fatta di solitudine e digiuni, non può mostrarsi benevolo e accomodante verso chi, con atti e discorsi, dileggia e sconfessa tale scelta di vita. Fatto sta che la faziosità e la spietatezza di questi monaci hanno lasciato un triste segno nella storia della Chiesa nelle provincie orientali dell'Impero Romano, e specie in Siria, Fenicia ed Egitto, dagli ultimi anni del IV fino agli inizi del VII secolo, con la più intensa e sanguinosa offensiva monastica contro pagani ed eretici concentrata nell'arco del quindicennio tra il 385 e il 400.

I monaci del deserto – i "paralabani", come venivano chiamati – erano diventati, più che una sorta di braccio armato della Chiesa, una setta di sicari fanatizzati, le cui imprese avrebbero potuto fornire materia a racconti dell'orrore, più che a storie di santità. Vestiti di nero e incappucciati, se ne stavano accampati lontano dalle città come branchi di predoni, vivendo in maniera frugale, praticando l'ascesi e le arti marziali, pronti, ogni qualvolta il Vescovo lo avesse ordinato, a compiere fulminee spedizioni punitive, con precisione e ferocia, sempre, beninteso, nel nome di Dio Onnipotente.

Tristemente famoso divenne l'abate del Monastero Bianco della Tebaide, Scenute, che si diceva fosse giunto all'età di 118 anni e fino al suo ultimo respiro seminò il terrore in Egitto tra pagani, ebrei e nestoriani in un periodo in cui (siamo ormai a metà del V secolo) il trionfo del cristianesimo sembrava ormai assicurato. Costui non rinunciò ad alcun mezzo in tale sua fanatica campagna, dagli insulti agli atti di violenza. Egli affermava che l'onnipotenza di Dio rendeva irrilevante qualsiasi argomento in senso opposto. Impedì l'impiego di lavoratori cristiani da parte di pagani. Incendiò gran numero di templi. Rubava libri sacri perfino a privati cittadini. L'unica volta che si riuscì a trascinarlo in giudizio davanti al Governatore, i cristiani copti affluirono in città ed impedirono l'udienza. Lo stesso dux Teodosio, comandante militare della Tebaide, non osò condannarlo, nonostante avesse dato alle fiamme il tempio di Kronos a Salinum.

Libanio, uno dei più strenui difensori del paganesimo, nella sua "Oratio pro templis" così li descrive: "Uomini vestiti in nero, che mangiavano più degli elefanti, e famosi per quanto bevevano... si precipitavano illegalmente contro i templi... portando bastoni, pietre e arnesi di ferro, radendo al suolo i muri, rovesciando le immagini e ribaltando gli altari. I sacerdoti dovevano subire in silenzio oppure morire. Non contenti di spogliare templi tutelari che erano stati frequentati per generazioni dai contadini, i monaci attaccavano i terreni dei coltivatori, appropriandosene come di terra sacra".

Giudizio non molto dissimile sui monaci esprime Eunapio, altro storico pagano, autore di Vite dei filosofi, vissuto all'epoca degli eventi: "Erano all'apparenza uomini, ma conducevano esistenze di porci, commettevano e permettevano apertamente innumerevoli delitti. Consideravano pietà il manifestare disprezzo verso le cose divine. In quei giorni infatti chiunque indossasse una veste nera e decidesse di comportarsi in maniera indecorosa in pubblico, possedeva il potere di un tiranno; a tale grado di virtù era giunta la razza umana" (Vite, 472).

A nulla valevano le lagnanze rivolte ai Vescovi perché il più delle volte, come si è detto, erano proprio costoro gli istigatori e del resto il tutto poteva essere presentato, sia pure con qualche forzatura, come rientrante nelle disposizioni governative contro i simboli della religiosità antica. Teodoreto, nella sua Historia ecclesiastica riferisce che l'arcivescovo di Costantinopoli Giovanni Crisostomo "scelse alcuni asceti ripieni di zelo fervente e li inviò a distruggere i templi". Aggiunge anche il tocco di colore, che "ricche signore eminenti per la loro fede" pagarono tutte le spese derivanti dall'opera di distruzione.

Nelle Memorie di Dioscoro viene descritta dettagliatamente un'incursione armata contro un tempio pagano in Egitto nel V secolo, capeggiata dal Vescovo Macario, e culminata con l'uccisone del sommo sacerdote Omero, bruciato sul rogo.

Anche nelle regioni occidentali dell'Impero si registrarono analoghe incursioni di monaci, anche se non così frequenti e devastanti. Nella Gallia settentrionale questi squadristi col saio ebbero come guida nella distruzione dei templi e altri centri di culto il Vescovo di Tours, Martino, elevato agli onori degli altari. Una delle storie più note su questo Santo (annoverato tra i Padri della Chiesa, più per la sua pietas che per la sua dottrina), racconta che egli organizzò l'incendio di un tempio. Il fuoco "come gli era stato ordinato", distrusse diligentemente l'empia dimora degli dei falsi e bugiardi, ma allorché esso stava per lambire, fumando e sfrigolando, la soglia della casa accanto, abitata da gente onesta e innocente, il Santo si precipitò dinanzi alle fiamme e queste immediatamente si fermarono, senza sfiorare l'abitazione neanche con una scintilla.

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Capitolo decimo

La seconda battaglia per l'anima


                        La notte è buia, il cielo si è oscurato,
                 abbiamo lasciato il villaggio dei nostri Padri,
                               Il Creatore è adirato con noi....
                  La luce diviene buio, la notte e ancora notte,
                                        domani un giorno di fame
                                  Il Creatore è adirato con noi.

                                  Gli Anziani se ne sono andati,
                               le loro case sono lontano laggiù,
                                   i loro spiriti vanno errando.
                                     Dove vagano i loro spiriti?
                                 Forse il vento che passa lo sa.
                               Le loro ossa sono lontano laggiù.

                                      Sono là sotto gli spiriti?
              Sono loro? Vedono le offerte messe in bell'ordine?
                                       Il domani è nudo e vuoto,
                       perché il Creatore non è più con noi, là,
              non è più l'ospite seduto con noi al nostro fuoco.

                            Canto d'esilio dei Pigmei del Gabon.



Il massacro dei popoli senza storia – La resistenza alla conversione – Un tuffo nella mentalità primitiva – Il fallimento dei "riti cinesi" – "Semina verbi" e monopolio del Bene.


Il massacro dei popoli senza storia

Il nostro viagggio ci ha portati così agli albori dell'età moderna, solo per costatare come l'intriseca intolleranza del Cristianesimo non si sia minimamente attenuata. Anzi, il passar dei secoli l'ha resa ancora più aggressiva e complessa, sotto la pressione di due gravi minaccie insorte sul fronte della dissidenza interna: la irrimediabile spaccatura della Cristianità, più grave dello Scisma, e l'emergere di una articolata contestazione "laica".

Ma cosa accadeva nel frattempo sul fronte esterno? Qui la situazione appariva rovesciata, in chiave non più difensiva ma dinamica. Realizzato un sia pur precario modus vivendi con gli avversari tradizionali, gli ebrei e con i nuovi avversari, i mori, si trattava ormai di far tesoro della grande occasione che offriva alla vocazione missionaria la scoperta di un Nuovo Mondo e poi di altre promettenti terre. Non più nemici da sconfiggere ma nuovi seguaci da conquistare. Anche se sempre in stretta concorrenza tra loro, cattolici e protestanti si trovavano in perfetta sintonia con i poteri politici nel realizzare un'unico grande ideale, che in pratica si risolveva nell'imporre urbi et orbi un'unica visione del mondo, ad un tempo cristocentrica ed eurocentrica.

Iniziava così una seconda campagna di conversione dopo quella condotta inizialmente contro i pagani, con l'aggravante di un piglio assai più sicuro e trionfalistico e di connotati totalitari ancora più marcati: la conversione doveva ormai essere attuata senza più concessioni e compromessi, doveva estendersi a tutti i nuovi popoli incontrati sul cammino di esploratori e missionari, senza eccezioni. La Croce doveva essere piantata prima ancora della bandiera in ogni nuovo territorio scoperto, a segnarne l'acquisizione al mondo civile.

Quest'obiettivo espansionista, per quanto aggressivo e di chiaro segno politico, non era ovviamente privo di un alto affiato ideale. In molte anime pie e anche in non poche personalità di alto rango aveva il suo peso quello stesso impulso di caritas che aveva mosso i primi cristiani.

Un impulso perfettamente coerente con la fede in un Dio che, essendosi manifestato in un punto preciso dello spazio e del tempo, poneva il problema di assegnare un posto a coloro che "erano altrove", cioé che non avevano alcuna nozione del grande evento. In quel periodo d'oro della Chiesa trionfante, nel quale le Superpotenze del momento si proclamavano campioni del Cattolicesimo, si dispiegava in tutta la sua pienezza quello spirito missionario, che abbiamo visto essere intrinseco al credo e voluto dalle gerarchie ecclesiastiche come il più grande atto di carità. Imbattersi in genti che erano rimaste tagliate fuori dalla Buona Novella e limitarsi ad instradarle verso il progresso materiale senza fare tutto il possibile per renderle partecipi del riscatto offerto a tutto il genere umano, salvando così la loro anima, sarebbe stato il più imperdonabile dei peccati di omissione.

Allo stadio di sviluppo storico in cui si verificarono le grandi scoperte geografiche, il senso di superiorità sul piano politico si saldava così perfettamente al senso di superiorità sul piano religioso. Le classi dirigenti europee erano per lo più in buona fede nel sentirsi investite di una missione civilizzatrice universale e nell'accollarsi quel "fardello dell'uomo bianco" esaltato nella celebre quanto brutta poesia di Kipling. Ed erano in perfetto accordo con i vertici religiosi che il primo e più prezioso dono che la loro civiltà superiore potesse fare ai popoli da "colonizzare" fosse di metterli a parte del messaggio evangelico.

Rimane tuttavia difficile da spiegare come mai l'opera di conversione-civilizzazione si sia svolta in maniera così traumatica, all'insegna di una intolleranza senza sfumature, cioé con una pressoché totale mancanza di rispetto verso l'altro. L'affiato religioso giovò ben poco a temperare una violenza morale e materiale a danno delle culture locali non giustificata da necessità obiettive di penetrazione militare o commerciale. Si ammette senza troppe difficoltà il carattere aggressivo delle Crociate, che pure furono condotte ad armi pari contro un nemico minaccioso e potente e lasciarono più o meno le cose come stavano. L'evangelizzazione, che si proclamò volta non a combattere nemici ma a salvare pecorelle smarrite, agì spesso da alibi per operazioni militari su scala ancora più larga contro avversari assai più deboli ed ebbe quindi effetti immensamente più sconvolgenti.

La spinta "civilizzatrice" e la foga della conversione totalizzante si estesero a tutte le terre che cadevano di volta in volta sotto il controllo degli europei, senza eccezioni. "Tutte le nazioni dell'Asia e del'Africa – scriveva il sempre caustico Voltaire nel 1768 nel suo saggio Monito a tutti gli orientali – devono essere avvertite del pericolo che le minaccia da tempo. V'è nel fondo dell'Europa, o soprattutto nella città di Roma, una setta denominata "cristiani cattolici".

Vi fu ovviamente una gradazione di tono nella penetrazione "bianca" a seconda dell'area da colonizzare. Un missionario in Asia – invero sia cattolico che protestante – non era meno motivato e zelante di un missionario in Africa. Tuttavia le grandi culture come quella indiana o cinese incutevano un certo timore reverenziale e la stessa dimensione dei Paesi e delle popolazioni in questione attutiva l'urto e rendeva irrealistici progetti di conversione su larga scala. Diversa era invece la situazione per i Paesi facenti parte di quelli che oggi chiamiamo Terzo e Quarto Mondo. Nelle Americhe, in Africa, in Oceania, e in alcune regioni asiatiche più arretrate, l'incontro che uno scrittore senegalese ha definito argutamente "dei popoli senza storia con i popoli che portavano il mondo sulle spalle"' fu quanto di più devastante si possa immaginare. L'urto si produsse in pieno, senza lasciare il benché minimo scampo e mise completamente a soqquadro lo stile di vita millenario dei popoli che lo subirono.

Vi è bisogno di rievocare qualche tratto saliente di una penetrazione palesemente ispirata al disprezzo per l'"altro"? Si sa che quelli tra i nativi che non furono falcidiati dalle malattie infettive o dai mutamenti del loro habitat furono resi schiavi, confinati in riserve o eliminati sistematicamente.

Il massacro cominciò quasi ovunque sin dai primi sbarchi degli invasori. Nell'isola di Hispaniola, uno dei primi approdi di Colombo, nell'arco di pochi decenni la popolazione locale scese da circa un milione ad undicimila abitanti. Nella foresta amazzonica, dove sopravvivevano insediamenti antichissimi e sono stati rinvenuti i reperti archeologici più antichi di tutto il subcontinente sudamericano, l'arrivo dei portoghesi segnò la fine della civiltà fluviale.

Né furono risparmiate civiltà gloriose come quelle dei Maya, degli Incas, degli Aztechi, il cui declino, già in atto, fu accelerato e reso inevitabile.

Personalmente non riesco a capacitarmi di come mai, in uno dei periodi più fulgidi della cultura europea, allorché nasceva il culto delle antichità e si riscoprivano con venerazione le vestigia ormai dilapidate delle civiltà mediterranee, gli stessi eruditi che in Anatolia, in Siria, in Egitto scavavano febbrilmente alla ricerca di reperti o impazzivano nello sforzo di decifrare arcane iscrizioni, apparivano indifferenti di fronte alle testimonianze ancora vive e vibranti delle ricchissime culture amerinde, lasciando che governatori e militari avidi e ignoranti facessero man bassa, saccheggiando e distruggendo templi, statue, iscrizioni, artefatti carichi di storia e di misteriosi simbolismi. Non sono riuscito a trovare studi su questo tema né esperti, in Sudamerica e fuori, che lo avessero sviluppato e fossero in grado di darmi una qualche risposta. Già questo è di per sé significativo, per cui mi sono fatto una mia idea personale, che non so quanto possa essere condivisa dagli studiosi di siffatti problemi. La circostanza che in epoca rinascimentale e illuminista vi fossero uomini di grande levatura che consumavano la propria vita ad esplorare, poniamo, le piramidi egizie, ma pochi o nessuno che mostrassero interesse per le piramidi atzeche, potrebbe spiegarsi, a mio sommesso parere, col fatto che le prime appartenevano alla "nostra" eredità, mentre le seconde erano qualcosa di estraneo, "fuori" dal nostro mondo e quindi venivano più o meno consapevolmente respinte ai margini, ignorate come qualcosa di trascurabile o addirittura inesistente. I nuovi popoli appena scoperti erano semplicemente "altri" e quindi per ciò stesso classificati automaticamente come inferiori, respinte sullo sfondo alla stregua di comparse indistinte, come gli arabi nei romanzi di Camus.

Anche nelle colonie nordamericane l'umiliazione o addirittura la sistematica soppressione fisica dei nativi si prolungò per tutto il Settecento fino a metà dell'Ottocento. Alexis de Tocqueville, nel celebre resoconto del suo viaggio in America, racconta come i coloni, con metodi di dubbia correttezza ma formamente legali, costringessero gli indiani a vendere le loro terre e a spingersi sempre più oltre, sino a che le loro condizioni di vita diventavano insostenibili. Gli americani raggiungevano così, con poco o senza spargimento di sangue, la meta dell'eliminazione quasi totale dell'elemento indigeno, che non era riuscita o non era stata voluta dagli spagnoli. "Nessuno avrebbe potuto sterminare questa gente con maggior rispetto delle leggi umanitarie" conclude con sottile ironia il giovane aristocratico francese.

La successiva penetrazione europea in Africa e Australia seguì metodi non dissimili e spesso assai più sbrigativi. Nessuno dei colonizzatori – francesi, belgi, portoghesi, italiani, spagnoli – si distinse, checché se ne dica, per apertura mentale ed umanità nel trattamento dei nativi. Nel Congo i coloni belgi esigevano che i guardiani delle loro tenute esibissero la mano di un negro ucciso per ogni cartuccia sparata. In Australia i coloni sterminarono completamente gli indigeni della Tasmania, una popolazione rimasta isolata e ritrovatasi unica al mondo per caratteristiche etniche, dopo che loro isola si era staccata dal resto del continente a seguito dello scioglimento delle calotte polari. Non ne rimase più nemmeno uno. Per sapere come era fatto un tasmaniano era possibile, ancora ai tempi in cui mi trovavo lì, vederne un esemplare... impagliato nel museo di Hobart. Ora restano solo le fotografie, perché il macabro reperto è stato tolto a seguito di proteste di associazioni locali.

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Pagina 246

Capitolo dodicesimo

Le certezze del Corano


        "È un errore credere che l'Islam si limiti a certe forme di culto
        o agli aspetti spirituali: chi lo pensa ha una visione ristretta
        della quale resta prigioniero. Noi invece ne abbiamo una diversa
        concezione, più vasta e di ampio respiro, che abbraccia le cose
        della vita terrena come di quella futura, né si tratta di una
        nostra pretesa o esagerazione, bensì è quanto comprendiamo dal
        Libro di Dio e dalla condotta dei primi mussulmani".

                                                 H. al-Banna, Epistolario



Il pericolo islamico — Un confronto ambivalente — La Rivelazione a Maometto — Dall'Egira una nuova civiltà — Essenzialità del messaggio — Natura remota di Dio — Indifferenza ai tempi della storia — Il Corano, materializzazione del Verbo — I cinque pilastri — Globalità della "religio" e legge coranica


Il pericolo islamico

Questa prima parte del libro dedicata all'intolleranza religiosa si chiude con la religione mussulmana, ultima venuta tra le grandi religioni monoteiste.

Ma non si sarebbe dovuto invece cominciare proprio dall'Islam, dato che oggi sono soprattutto gli estremisti islamici ad uccidere in nome di Dio?

Eccoci entrati sin dalle prime battute nel nuovo "Grande Dibattito" che, subito dopo la fine della Guerra Fredda (quindi già molto prima dell'attentato alle Torri Gemelle), ha preso il posto di quello che per quarant'anni aveva alimentato in Occidente la divisione tra "falchi " e "colombe". Prima esso verteva sulla minaccia sovietica, ora verte sulla minaccia islamica. Ritroviamo ad ogni piè sospinto nei media, nei libri, nelle esternazioni di politici, la stessa idea fissa che aveva creato gli spauracchi del sionismo, poi del "pericolo giallo", da ultimo del comunismo internazionale. È nata una nuova "letteratura dell'odio", che vede nel'Islam null'altro che una nuova ideologia perversa, la quale — cito da uno dei tanti trattati in argomento — "riflette un'ostilità permanente contro il resto del mondo", che oggi starebbe riattizzando con nuovi mezzi e nuovo slancio "un'ininterrotta campagna di oltre mille anni per la conquista e conversione forzata dell'intera popolazione del pianeta".

Che un pericolo esista, come del resto esisteva ai tempi del comunismo sovietico, nessuno lo mette in dubbio. Tutto sta a considerarlo con obiettività e senso delle proporzioni. Il punto cruciale dal quale prende le mosse il "Grande Dibattito" e che determina sin dalla linea di partenza chi è falco e chi è colomba, è dunque se il discorso sul "pericolo islamico" vada circoscritto alla corrente più estremista e più fortemente politicizzata del mondo islamico, oppure vada allargata all'intero Islam, vista quale cornice cultural-religiosa che più di ogni altra alimenta questo tipo di fanatismi.

I "falchi" annoverano molte personalità politiche e uomini d'azione che, per quel loro habitus mentale di preconcetta paura e diffidenza verso l'altro che anche durante la guerra fredda li portava a fare di ogni erba un fascio, sono portati a demonizzare in blocco l'intera Umma, e ad affermare che l'estremismo militante non è altro che la punta avanzata di un credo che in ogni caso sarebbe violento ed aggressivo.

Le "colombe" hanno invece nelle loro file studiosi che hanno dedicato la loro vita al mondo arabo e islamico e proprio per la loro superiore conoscenza di quella cultura sono portati ad analisi sofisticate e ad un certo timore reverenziale, dandone a volte al grosso pubblico un'immagine forse un po' troppo idealizzata. Per essi il fondamentalismo e le sue frange radicali sarebbero manifestazioni anomale e aberranti, del tutto avulse dalla base dei credenti, che andrebbero quindi isolate e affrontate in primo luogo all'interno del credo stesso dal quale emanano.

Il dibattito ha raggiunto ovviamente le sue punte più aspre dopo il fatidico 11 settembre 2001. Tra gli italiani, ben interpretano i due opposti punti di vista due noti giornalisti-scrittori, Oriana Fallaci e Tiziano Terzani, che anche caratterialmente rispondono a pennello ai profili l'una del falco e l'altro della colomba.

Oriana l'ho vista in azione come giornalista (tra l'altro le feci da spalla nel lontano 1976 in una memorabile intervista al generale Nguyen Ngoc Loan, l'ex-capo della polizia sudvietnamita, soprannominato "il boia di Saigon") e non credo proprio che si possa qualificare come persona tollerante; l'aggressività ce l'ha nel sangue, quando è convinta di qualcosa non bada certo alle sfumature. In una lettera inviata al Corriere della Sera da New York subito dopo l'attentato, trasformata poi in libro, ella ricalca tutte le principoli argomentazioni dei falchi e fa pieno uso del suo inconfondibile stile provocatorio per togliere ogni aureola di martiri agli uomini-bomba e per stigmatizzare i fondamentalisti mussulmani.

"Cristo! Non vi rendete conto che gli Osama bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino e la birra, perché non portate la barba lunga o il chador, anzi il burkha, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare?".

Approfondendo la lettura appare però sempre più chiaro che quella della Fallaci è una requisitoria diretta in realtà non solo contro gli estremisti ma contro l'intero mondo mussulmano, secondo uno schema ormai familiare in questo tipo di attacchi. Per lei un Osama Bin Laden non è un invasato di Dio, accecato da un fanatismo senza tempo, bensì una figura pienamente rappresentativa dell'Islam del XXI secolo.

L'Islam – ella afferma - sta conducendo "una Crociata alla rovescia", una Guerra Santa "che non mira alla conquista del nostro territorio forse (forse?) ma certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà". Il disprezzo per una "religione da medioevo" e per "i barbari che invece di lavorare e contribuire al miglioramento dell'umanità stanno sempre col sedere all'aria a pregare cinque volte al giorno" è oggetto di vanto ("...a me dà fastidio persino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele"). La conclusione di un simile discorso non può essere che quella tipica degli intolleranti:

"... con questa gente trattare è impossibile. Ragionarci impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso".

Tiziano Terzani l'ho conosciuto solo di sfuggita molti anni fa quand'era corrispondente di "Der Spiegel" e girava per le zone calde dell'Asia. Già allora mi sembrava che somigliasse sempre di più, anche nel fisico, a uno di quei saggi himalayani che egli tanto ammirava. La sua risposta indiretta alla Fallaci, anch'essa sotto forma di una lettera trasformata poi in libro, e tutta in marcati toni da "colomba". "A noi può sembrare strano – scrive Terzani – ma c'è oggi nel mondo un crescente numero di persone che non aspira ad essere come noi, che non insegue i nostri sogni, che non ha le nostre aspettative e i nostri desideri". Per lui il problema dell'estremismo islamista va inquadrato nel dramma di una grande e antica civiltà, come quella islamica, che si trova sempre più marginalizzata e offesa dallo strapotere dell'Occidente e cerca di preservare o ritrovare la sua identità, oscillando tra una riluttante occidentalizzazione e il rifugio nella tradizione. Il messaggio lanciato col suo libro, tutto l'opposto di quello della Fallaci, può riassumersi in unica frase, che sintetizza la via che gli sembra più logica da seguire:

"aiutare i mussulmani stessi a isolare, invece che renderle piú virulente, le frange fondamentaliste e a riscoprire l'aspetto più spirituale della loro fede".

Nel duello a distanza tra i due, il più alto tasso di gradimento l'ha avuta di gran lunga, manco a dirlo, il messaggio d'odio di Oriana. Che anzi, incoraggiata dal successo, si è lanciata in un vero crescendo, trasformando la sua originaria lettera prima in un libro (subito entrato nella lista dei best sellers, tradotto in varie lingue, esposto in bella mostra in tutte le librerie di New York), poi addirittura in una trilogia, culminante in una riscrittura dell'Apocalisse nella quale è l'Islam ad incarnare la Bestia. L'editore, che sa qual'è il genere che va, ha creduto bene di farne un elegante cofanetto per il periodo natalizio, da mettere sotto l'albero.

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Pagina 315

Capitolo quindicesimo

La "paura dello straniero"


            "...ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi;
            sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento
            per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni
            e degli usi in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il
            perfetto governo, l'uso perfetto e compiuto di ogni cosa".

                                                         Michel de Montaigne



Si può uccidere qualcuno perché è diverso? – Chi ha ragione, Hobbes o Rousseau? – Io e l'altro – Desiderio di riconoscimento e identità – Centralità dell'Io collettivo – Attentato alla nostra incolumità simbolica – Gli "altri" come esseri a umanità limitata – "Aliens" e invasione degli ultracorpi.


Si può uccidere qualcuno perché è diverso?

Non sfuggirà certamente al lettore la sproporzione tra le varie parti di questo libro. La prima parte, dedicata all'intolleranza religiosa, ne occupa da sola ben due terzi.

Si tratta di una scelta dovuta a due buone ragioni. La prima ragione deriva dal fatto, già messo in evidenza, che le spinte religiose continuano ancora e sempre ad essere preponderanti nei comportamenti discriminatori e violenti dell'uomo contro uomo.

La seconda ragione deriva invece dal fatto che la religione, in aggiunta alla sua forza intrinseca, è diventata nel corso dei millenni un manto molto ampio e conveniente, esteso oltre misura perché dimostratosi il più efficace per indurre e rafforzare determinati comportamenti. Si sono quindi venute a creare situazioni di conflitto apparentemente religiose ma che di religioso hanno solo il nome. Ciò ci è apparso con particolare evidenza esaminando le religioni politeiste, antiche e contemporanee, tanto che per molti la conflittualità registrata nel loro ambito sarebbe di natura prettamente politica e sociale. Nell'ambito delle grandi religioni del Dio unico, la situazione è più complessa ma per tante storie di esclusione e di violenza è forte il dubbio che esse siano degenerate in tragedia a causa della preponderanza assunta dall'elemento politico.

Molto di quanto siamo andati esponendo sin qui sul piano religioso fornisce quindi già una valida chiave di intepretazione per spiegare la nostra ostilità non soltanto verso chi prega in maniera differente da noi ma anche verso chi parla una lingua che non comprendiamo, che ha un diverso colore della pelle, che segue regole e gerarchie per noi inaccettabili, che si veste in maniera strana e mangia in maniera ancora più bizzarra.

Se infatti quelli tra noi animati da sincera fede religiosa sono convinti che, malgrado tutto, vi sia nel comportamento umano una potente spinta trascendente, che viene dall'alto e "dal difuori" e può anche giustificare comportamenti della massima intransigenza, vi sono molti altri liberi pensatori che ritengono invece che l'intolleranza sia dovuta a spinte interne alla natura umana e che la religione stessa non sia altro che una sovrastruttura inventata per sacralizzare queste spinte e rendere più convincenti e cogenti prescrizioni e tabù.

Può quindi senz'altro giovare a una migliore comprensione dei problemi che qui ci interessano riprenderne l'esame da una diversa angolazione, prescindendo dall'elemento metafisico e assumendo anche il fatto religioso alla stregua di un qualunque altro fatto culturale. In altre parole, comportandoci, per usare una classica espressione del razionalismo laico, "come se Dio non ci fosse" ("et si Deus non daretur", diceva Ugo Grozio nel costruire il primo moderno sistema del diritto delle genti).

Nella prima parte ci eravamo posti la domanda "Come si può uccidere in nome di Dio?".

In questa seconda parte cercheremo di rispondere a un secondo, non meno angoscioso interrogativo: "Come si può uccidere qualcuno solo perché è diverso da noi?".

Alla prima domanda, che chiama in causa il Creatore, che è anche Giustizia e Bontà somme, si è cercato di dare una risposta logica, anche se molti la trovano poco convincente. Alla volontà di Dio, tanto imperativa quanto impenetrabile, chi crede deve obbedire senza discutere. Se Abramo era pronto a sgozzare come un capretto il Suo proprio figlio senza una parola di protesta perché così aveva ordinato Yahveh, come avrebbe potuto esitare se il Signore gli avesse intimato di massacrare i Suoi nemici?

Anzi, la prospettiva di una ricompensa eterna toglie ogni ulteriore remora perfino al sacrificio della propria vita per una santa causa. Un cinico potrebbe perfino osservare che in fin dei conti chi crede fervidamente in tale premio celeste non fa un cattivo affare, barattando alcuni anni di vita tribolata sulla terra con una beatitudine senza fine.

Ma nel secondo caso, quello dell'urto con l'alterità su questa terra, quale logica può spingere ad una sorta di guerra santa e al sacrificio di sé?

Certo, il complesso di valori, credenze, abitudini che chiamiamo "cultura", può significare per noi qualcosa di più prezioso dei più allettanti beni materiali. Per preservare questo patrimonio invisibile che ci rende speciali, siamo disposti a pagare un prezzo molto alto. Ma si tratta pur sempre di un bene finalizzato al nostro benessere su questa terra e pertanto non dovrebbe giustificare – sempre a rigor di logica – un prezzo così esorbitante come la nostra stessa vita o la vita di altri esseri umani.

Qual è allora il quid che conferisce al legame "cultura" la stessa forza del fanatismo religioso, tanto da farci vincere l'istinto di sopravvivenza o trasformarci in assassini?

Se, in nome dell'imponderabile legame che dà loro una identità comune, intere popolazioni conducono faide sanguinose e interminabili, se arrivano a compiere efferati atti di crudeltà a danno di vicini coi quali hanno convissuto per anni fianco a fianco, se, cosa ancora più inspiegabile, non esitano a dar via la loro vita e quella dei loro cari, al fondo di questo legame ideale deve esservi una certezza assoluta altrettanto irresistibile della certezza che viene da Dio.

Anche in questo caso possiamo parlare di due dimensioni tra loro connesse, una prima dimensione "verticale" che attiene alla sfera della psiche e una seconda dimensione "orizzontale", che attiene alla sfera della socialità.

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Pagina 444

Il fascismo

Pare che sia stato Mussolini ad usare per primo il termine "totalitarismo". Come figlio dei suoi tempi, nonostante la sua origine popolare e le sue inclinazioni socialiste, fu anch'egli fortemente influenzato dalle idee imperanti del nazionalismo, della volontà di potenza, dell'autorità dello Stato. Sin dagli esordi della sua carriera politica fu turbato da quello che considerava il principale male dell'Italia: la mancanza di unità. Riprendendo le idee di Sorel sulla possibilità di trasformare l'individuo attraverso l'esaltazione di un ideale, egli individuava tale ideale nella nazione, che doveva essere quindi rafforzata al massimo per prevalere sulle tendenze centrifughe che impedivano al suo Paese di realizzare lo stesso sviluppo di altre entità statali di più antica formazione. George Sabine considera la seguente affermazone fatta da Mussolini in un suo discorso a Napoli nel 1922, riecheggiante appunto Sorel, come il suo atto di fede nel nuovo sistema "totale" che intendeva costruire:

"Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. È una realtà per il fatto che è una speranza, una fede, che è coraggio. Il nostro mito è la nazione, il nostro mito è la grandezza della nazione".

Venivano legati in stretta compenetrazione esigenza di unità, "mistica nazionalista" e culto dello Stato. Mussolini non concepiva la nazione al di fuori dello Stato e più la nazione era debole, più forte doveva essere lo Stato.

"Non è la nazione che genera lo Stato: questo è un concetto naturalistico antiquato – egli scriveva -. È lo Stato che crea la nazione e dà al popolo, cosciente della sua unità morale, una volontà e per conseguenza una esistenza reale". E ancora: "Tutto è nello Stato, niente di umano e di spirituale esiste e ancor meno ha valore fuori dello Stato. In questo senso il fascismo è totalitario e lo Stato fascista, la sintesi e l'unità di tutti i valori, interpreta, sviluppa e conferisce potere a tutti gli aspetti della vita di un popolo".

Per il "Duce" la generazione dell'Italia doveva passare attraverso la riaffermazione del primato del tutto sulla parte e più specificamente di un primato dello Stato sull'individuo; quindi, in definitiva, attraverso la rivendicazione da parte di tale Stato di una sovranità totale nei confronti dell'individuo.

L'ideologo del regime, Giovanni Gentile, spingeva al massimo tale assunto, facendo dello "Stato etico" il fulcro intorno al quale ruotano religione, verità, pensiero. Così, partendo da alcuni punti fermi e seguendo per il resto le emozioni del momento e l'istinto di venire incontro alle esigenze delle masse, il sistema si costruiva pezzo per pezzo e si dotava di un suo substrato dottrinale. Non vi fu, nell'ideologia fascista, alcuna visione utopica di una società futura ma piuttosto il richiamo ai miti del passato per esaltare la lotta, lo spirito di sacrificio, l'eroismo, cioè i valori che si riteneva gli italiani avessero perso perché corrotti dall'edonismo e dallo "spirito borghese". Non si trattò mai di una ideologia compiuta e coerente ma piuttosto di "un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni" come osserva Umberto Eco. "Il termine "fascismo" – egli scrive – si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. Togliete al fascismo l'imperialismo e avrete Franco o Salazar; togliete il colonialismo e avrete il fascismo balcanico. Aggiungete al fascismo italiano un anticapitalismo radicale (che non affascinò mai Mussolini) e avrete Ezra Pound. Aggiungete il culto della mitologia celtica e il misticismo del Graal (completamente estraneo al fascismo ufficiale) e avrete uno dei più rispettati guru fascisti, Julius Evola".

Sabine a sua volta commenta argutamente che sul piano politico Mussolini giunse il più vicino possibile "alla realizzazione del sogno di ogni politico di essere capace di promettere tutto a tutti". Esso si presentò come campione dell'idealismo in contrasto col materialismo marxista; come nemico di un liberalismo plutocratico, egoista e non patriottico; come votato al bene comune, alla devozione, alla disciplina, in opposizione agli ideali "borghesi" di libertà, eguaglianza e felicità. Da una simile ottica derivavano come ovvii corollari la condanna dell'internazionalismo, sinonimo di codardia e mancanza di onore, della democrazia parlamentare, bollata come futile, debole e decadente.

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Pagina 477

Epilogo


                                    "I cattivi hanno sicuramente capito
                                    qualcosa che i buoni ignorano"

                                                            Woody Allen



La Conferenza mondiale sul multiculturalismo, organizzata a New York su iniziativa del Segretario Generale dell'ONU con l'appoggio di tre membri del Consiglio di Sicurezza, si era proposto come primo obiettivo di puntare i riflettori sul ruolo insostituibile delle Nazioni Unite nel delicato tema del confronto di civiltà.

Su quel versante il successo era stato evidente. La partecipazione al massimo livello dei rappresentanti di 191 Paesi era un chiaro segnale da parte della comunità internazionale di voler tenere alto il prestigio della massima organizzazione mondiale e sostenerne il rilancio. Grande rilievo era stato dato dai mezzi di informazione alla presenza del Pontefice, accanto a ben ottancinque Capi di Stato. Faceva ancora notizia il fatto che il Presidente dell'Unione Europea fosse ora affiancato da un Ministro degli Esteri, anche se poi ogni Stato membro continuava ad inviare la sua propria delegazione.

Anche l'approvazione dei vari documenti operativi, tra cui la firma di una Convenzione per il varo di programmi televisivi di educazione alla tolleranza, dava adito a un moderato ottimismo.

Sotto il profilo strettamente politico era inevitabile che l'esercizio si traducesse ancora una volta, come era stato il caso per le conferenze sull'ecologia, in uno schieramento pro e contro la globalizzazione.

La presa di posizione più recisa, e anche la più scontata, era stata quella del Presidente degli Stati Uniti, che, dopo aver reso un tiepido omaggio al "precious heritage" costituito dall'apporto di tutte le culture della terra, aveva dedicato l'intero suo intervento ad una enfatica elencazione dei vantaggi di un mondo globalizzato, stigmatizzzando senza cerimonie i "no global" come nemici di un progresso non solo economico ma politico e civile.


Era del pari inevitabile che i partecipanti a questa grande occasione non sfuggissero alle tentazioni della vanità e del campanilismo. Molti interventi a favore del pluralismo, del dialogo, della cooperazione interculturale avevano offerto il destro per far sfoggio di erudizione e per mettere in luce, non fosse altro che attraverso l'originalità e saggezza delle citazioni, la ricchezza delle rispettive culture nazionali.


Il Presidente tedesco aveva esordito, citando Kant, con un'esortazione a "conciliare la libertà di ognuno con la libertà di ciascun altro", aveva fatto poi appello a quella che Gadamer ha chiamato la "fusione degli orizzonti", un processo di reciproca fecondazione delle culture, per non chiuderle nella loro autosufficienza, ma per costringerle a misurarsi in avanti, proiettandole verso la realizzazione della pienezza dell'umano. Aveva infine concluso con una frase di Goethe: "Non domandate a chi vi ascolta se concorda assolutamente con voi: domandategli se procede nello stesso senso".

Il Presidente italiano nello sviluppare dottamente il tema che l'io -— e così anche l'io collettivo – può divenire pienamente se stesso solo relazionandosi al tu e che "l'identità che una persona o un gruppo si assegnano non esiste se non coincide almeno in parte con quella che le assegnano gli altri", si era richiamato a Dante: "Già non attendere 'io tua dimanda, s'io m'intuasse, come tu t'inmii".

Il Presidente russo aveva sorpreso tutti impostando il tema centrale del suo discorso, sulla necessità di sottrarre la dialettica interculturale alla ideologia del sangue e della terra richiamandosi a un'immagine di Brodski, dell'uomo come di "un albero capovolto, le cui radici non sono chiuse nel buio della terra, ma sono in alto, sono radicate nell'aria, nel cielo aperto, nel vento, nella luce, tra i volti umani".

Il Capo della Chiesa Cattolica aveva ancora una volta attratto le luci della ribalta. "Il ritorno a Dio – aveva dichiarato il Pontefice – è anche una reazione alla crisi dei valori e alla "egoistizzazione" del presente momento storico". Grande risalto era stato dato al suo monito nei confronti "della dittatura della tecnica, che riduce l'uomo a semplice strumento nelle mani del non-senso" nonchè "di una secolarizzazione che si impone artificialmente facendo leva su aspettative miracolistiche ma che si rivela sempre meno in grado di risolvere i problemi cruciali dell'ingiustizia sociale e del piu elementare rispetto per la vita". E ancora maggiore sensazione aveva fatto l'appello a credenti e non credenti, ai depositari della tradizione laica e di quella relgiosa a individuare un terreno comune sul quale fondare la convivenza, fuggendo da ogni atteggiamento manicheo.

Il maggiore impatto sul consesso dei potentati l'avevano avute tuttavia le dichiarazioni del Presidente francese, che nonostante si fossero mantenute su un piano più filosofico che politico, erano state interpretate come una risposta velatamente polemica alla posizione americana.

"L'intolleranza – aveva affermato il rappresentante della Patria del libero pensiero – non è il 'nemico esterno', qualcosa di estraneo alla nostra civiltà, una sorta di malattia isolabile ed isolata che spetta a noi, collocati sui gradini più alti del progresso economico e civile, spazzare via come abbiamo scacciato dalla nostra parte del mondo totalitarismo e schiavitù. Putroppo l'intolleranza, al pari della violenza alla quale è intimamente legata, continua ad essere parte del tessuto connettivo anche delle nostre società avanzate, anzi in maniera ancor maggiore che nelle parti più povere del mondo.

Per poter instaurare una genuina cultura del rispetto a livello mondiale ciò che piú conta quindi è un cambio di prospettiva.

Un antitodo contro l'intolleranza e il fanatismo non può essere trovato demonizzando questo o quello Stato, questo o quel gruppo, questo o quel credo, questo o quel comportamento, bensì attaccando alla radice l'assolutezza delle convinzioni che ne sono alla base. Ma per far ciò, non dobbiamo a nostra volta arroccarci su posizioni assolute".

I capi delegazione dei Paesi minori non erano stati come al solito ritenuti degni di molta attenzione dai media. Faceva eccezione il discorso del Presidente dell'Uganda, uno dei pochi che avevano affrontato senza troppi artifici retorici il tema di fondo della conferenza. I principali notiziari della sera e qualche grande quotidiano gli avevano dedicato un certo spazio ma non era chiaro se ció fosse dovuto al fatto che qualcuno si era accorto che stava dicendo qualcosa di sensato, o non piuttosto al fatto che l'oratore era telegenico e pittoresco, col suo costume ricamato e variopinto, il portamento regale, l'aria di saggio patriarca.

"Alcuni concetti chiave affermatisi con molti sacrifici nel cosiddetto Occidente sono ormai diventati di dominio pubblico ovunque — aveva detto fra l'altro il Capo di Stato africano — Può apprezzarlo in tutta obiettività chi come me è nato e cresciuto in una civiltà diversa. Sono anch'essi, come oggi si dice, "globali": la democrazia, la libertà di coscienza, i diritti dell'uomo. Di questo siamo grati all'Occidente".

"Ma — aveva proseguito dopo che si erano spenti gli applausi — non è affatto di dominio pubblico la nozione che la prima radice di ogni intolleranza e violenza è il dogmatismo".

Eppure, perfino a molti campioni del libero pensiero sembra assurdo concepire che in una data situazione possano fronteggiarsi non già ragione e torto ma due ragioni. Nessuno di noi, e meno di tutti gli occidentali, fa gran che per approfondire coi nostri figli questo punto cruciale, dal quale dovrebbe prendere le mosse ogni educazione al liberalismo e alla democrazia.

Prima di dedicarmi alla politica sono stato medico e psichiatra. Ho sempre pensato che ogni uomo, per sentirsi veramente libero, dovrebbe compiere un sincero sforzo per liberarsi dei suoi fantasmi interni, primi tra tutti i pregiudizi e condizionamenti ideologici. Non é cosa facile, per cui tale sforzo dovrebbe cominciare dalla prima infanzia.

Mi ha colpito quanto scrive un collega americano, Paul Watzlawick: "In un mondo dove tutto fosse azzurro, nessuno riuscirebbe ad immaginarsi dei colori. Per comprendere anche solo il concetto di colore si dovrebbe lasciare quel mondo tutto azzurro". Dobbiamo scegliere – egli sottolinea – tra due vie: o attribuire validità universale alla nostra realtà originaria e in tal caso rifiutare tutto ciò che è straniero, considerandolo sbagliato, ridicolo, stupido e ostile, oppure comprendere che la nostra realtà è una delle tante realtà possibili e che essa non puo essere piú reale delle altre".

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Il Segretario Generale Jagdish Acharya aveva seguito tutte le dichiarazioni e prese di posizione senza perdere una parola, cercando di leggere tra le righe per secernere qualche sostanza dalla fioritura di belle frasi, e cogliere i reconditi orientamenti degli oratori. La Conferenza rappresentava il coronamento di quasi due anni di preparazione e attività diplomatica dietro le quinte. Per tutti i tre giorni delle riunioni non si era dato tregua nel far sentire la sua presenza in commissioni e gruppi di lavoro, aveva sguinzagliato i collaboratori nei momenti decisivi delle votazioni, aveva condotto di persona una serie impressionante di contatti di corridoio. Al suo indirizzo di saluto aveva preferito dare un basso profilo, lasciando che fossero alcuni degli augusti politici a lui piú vicini ad esprimere i concetti piú incisivi e controversi. Quanto ai progetti di risoluzione presentati all'approvazione della plenaria, era giusto che fosse il Direttore Generale dell'UNESCO ad illustrarli.

Ora però, al termine dell'intero esercizio, non poteva evitare di esporsi in prima persona per catturare in extremis almeno un briciolo di attenzione della grande stampa sugli scopi e la portata dei programmi che avevano ispirato quell'imponente raduno di potentati del pianeta. Dopo tutto, il problema dell'inquinamento dell'atmosfera terrestre era stato messo sufficientemente a fuoco; era giusto che il problema dell'inquinamento dell'atmosfera spirituale ricevesse almeno pari considerazione. O forse si lasciava trascinare un po' troppo dalla sua inclinazione buddista?

Il suo addetto stampa interruppe le sue riflessioni per annunciargli che la sala stampa era al completo e si attendeva ormai il suo arRivo.

Acharya si trovava piú a suo agio nell'ambiente informale dei giornalisti che non in quello ovattato ed ingessato dei diplomatici. Amava chiamare questi incontri "conversazioni", non conferenze stampa, e anche se questa occasione era più impegnativa delle altre non intendeva derogare al consueto tono improntato a scioltezza e familiarità.

Esordì senza preamboli con un conciso riepilogo delle iniziative appena varate.

"... Mi auguro che bastino fatti e cifre a dimostrare come, nonostante le ultime vicissitudini che hanno portato talvolta a perdite di credibilità – sì, ormai mi conoscete, non sarò io a sminuirne la portata – l'Organizzazionene mondiale che ho l'onore di guidare conservi malgrado tutto la sua vitalità e le sue capacità di intervento...".

Parlava a braccio con voce profonda e pacata, in un inglese perfetto, senza quell'intonazione cantilenante così caratteristica della sua gente, che nemmeno l'indiano colto riesce ad eliminare del tutto. La sua stessa figura slanciata ed elegante, il suo viso scarno da intellettuale, incutevano rispetto e imponevano attenzione. Il silenzio della sala, affollata di corrispondenti da tutto il mondo, fotografi e operatori televisivi, era assoluto.

"Last but not least, vorrei dedicare ancora qualche parola al programma educativo per la TV, la cui elaborazione ha richiesto oltre un anno di lavoro. Sapete già di che si tratta. Molti di voi ne hanno scritto e non sempre in termini lusinghieri".

Fece una pausa, con un accenno di sorriso che dava al suo volto ascetico un'irresistibile attrattiva.

"Colgo l'occasione per ringraziare ancora una volta gli esperti, registi, tecnici e attori che l'hanno realizzata. Mi spiace che siano troppi per poterli nominare ad uno ad uno. Ringrazio anche il personale dell'UNESCO, che si è dimostrato pienamente all'altezza dell'impegnativo compito di organizzare il materiale e coordinare i lavori.

Gradirei ora avere in proposito le vostre reazioni e i vostri suggerimenti. Ci serve, come dite qui in America, il 'feedback'. Il nostro sforzo può servire a qualcosa? Vale la pena di dedicare tanto tempo e denaro ad un'impresa come questa?".

Si fermò nuovamente, gettando un rapido sguardo d'insieme al folto pubblico. La sua esperienza di professore e conferenziere gli aveva insegnato a dosare sapientemente i silenzi, per dar modo agli ascoltatori di assorbire i concetti e prendere appunti.

"È il caso di ricordare quanta parte del flusso di informazioni ed immagini che ci bombarda quotidianamente è dedicata alla violenza? Non basta quella vera, che putroppo riempie le cronache. C'è quella fabbricata ad arte e che accampa pretese artistiche. Non c'è ormai quasi più un film, compresi i cartoni animati, che non ci offra scene di sparatorie, lotte, torture, esplosioni, per giunta presentate spesso come l'unico mezzo per combattere il male e far trionfare la giustizia. Da ultimo abbiamo appreso che la capacità di riflessi dei bambini viene affinata sensibilmente dalla costante pratica dei videogiochi. Ma a che prezzo? Il miglioramento di riflessi, si affrettano ad aggiungere gli esperti, si verifica solo a condizione che la prova di abilità consista non in soluzione di quiz o costruzione di schemi complicati ma nel distruggere nel minor tempo possibile il maggior numero di nemici.

Ho riflettuto tante volte su come nella letteratura e nelle nuove forme che l'hanno sostituita, la cattiveria e l'odio non sembrano mai eccessivi e quanto piú sono esagerati tanto piú esercitano una morbosa attrazione. I buoni invece stentano ad apparire credibili. Se li si vuole rendere meno scialbi occorre dare loro almeno una punta di ribalderia. Inoltre — è triste ma è un fatto — i buoni sono costretti a scusarsi per essere tali. Pacifista non è più ormai una parola politicamente corretta ed ha sottotoni sempre piú peggiorativi. Non è questo anche un po' il problema dell'ONU, screditata perché esita ad usare la forza?

Ma questo che cosa significa? Che dobbiamo rassegnarci alla resa incondizionata dei miti e dei buoni?".

Acharya si interuppe nuovamente, versandosi un sorso d'acqua dalla caraffa situata sul massiccio leggio di legno. Tra gli ascoltatori delle prime file, assai vicine alla tribuna, notò alcuni visi familiari. Qualcuno approfittò del fugace intervallo per dare un'occhiata alle proprie annotazioni o controllare il funzionamento dei registratori. Il pubblico era visibilmente attento a non perdere una parola. Si udirono appena uno o due colpi di tosse e qualche spostamento di sedie. Questa volta la sua non era la solita pausa sapientemente calcolata. Era dovuta a genuina esitazione.

"Col nostro programma educativo intendiamo mostrare che l'intolleranza è un fenomeno antico e universale, connesso alla stesso progresso umano sul cammino della civiltà. Dagli antichi profeti agli attuali telepredicatori la certezza assoluta rappresenta il più grave incitamento alla violenza, che si tratti della certezza in Dio, nella nazione, nella razza, perfino nel proprio modello di sviluppo.

Certo non ogni forma di intolleranza è egualmente grave nè provoca le stesse conseguenze. Il comportamento dei magistrati di Roma imperiale nei confronti di chi si rifiutava di sacrificare all'imperatore non è paragonabile a quello dei magistrati dell'Inquisizione. L'eliminazione degli ebrei da parte della Germania nazista non ha riscontro in nessuna altra operazione di genocidio mai perpretata.

È importante tuttavia mettere a nudo il filo nascosto — il dogmatismo — che unisce tutti questi atteggiamenti ed eventi ed enucleare similitudini e differenze, circostanze aggravanti ed attuenuanti, onde meglio dosare le nostre reazioni a situazioni attuali, molte delle quali riproducono schemi ben noti del passato.

Noi moderati, che malgrado tutto rappresentiamo pur sempre il grosso del l'umanità, abbiamo pesanti responsabilità. Sta a noi — ed è questo il tratto qualificante della nostra tolleranza — il compito di fare da filtro contro i giudizi sommari. Dobbiamo aiutare tutti coloro che si fanno facilmente ipnotizzare da facili profeti e politici senza scrupoli a riflettere bene prima di condannare, a cogliere le sfumature, a non vedere sempre le cose in bianco e nero.

Ora mi accorgo che sto facendo anch'io il predicatore. Mi sono dilungato troppo nella foga del discorso e me ne scuso.

Vorrei concludere, prima di darvi la parola, su questo tema importante dell'utilità o meno di una costante educazione alla tolleranza.

Diversamente dall'intransigente, che rimane fermo nel dire no dopo aver meditato e soppesato i pro e i contro, l'intollerante è sempre così sicuro di essere nel giusto che non sente nemmeno il bisogno di parlare con l'avversario. I punti di vista e i comportamenti dell'altro li colloca così in basso che su di essi non si prende nemmeno la briga di informarsi, anzi, chi lo fa suscita in lui diffidenza e sospetto. L'invenzione della stampa destò preoccupazione nelle gerarchie ecclesiastiche e fu creato l'"indice dei libri proibiti". Ancora oggi la televisione è considerata dagli haredim israeliani come dai wahabiti sauditi uno strumento del demonio.

Per questo noi dovremmo fare proprio tutto il contrario: trasformare la televisione e i nuovi mezzi informatici a nostra disposizione in una formidabile arma antintolleranza.

È vero, lo ammetto, i pochi minuti di 'telepubblicità antiviolenza' (il termine mi sembra appropriato al taglio che abbiamo voluto conferire all'iniziativa) sono pochi, appena qualche goccia di antitodo in un mare di veleno. Ma sono pur sempre il grido di protesta di chi non si rassegna al fatto che la prepotenza sia elevata a norma di condotta. Sono semi di erba medica gettati in un terreno maledetto, che forse un giorno potrebbe essere bonificato. Il seme più fertile consiste in una semplice idea che sembra però difficile da assimilare: l'idea che per dialogare non è indispensabile avere molte cose in comune. Si può comunicare anche quando non c'è accordo e il disaccordo non deve sempre significare conflitto".

Si fermò ancora per un attimo, poi riprese con voce più calma:

"È forse utopistico pensare che le genti di diverse razze, religioni e etnie che popolano la terra possano arrivare in tempi non troppo remoti a contemplare le reciproche diversità senza preconcetti e senza odio, anzi come un arricchimento. Si può però almeno sperare che sia più a portata di mano l'obiettivo minimo della tolleranza, racchiuso in un semplice ma confortante messaggio: è possibile non volere e non potere condividere nulla con l'altro senza per questo volerlo distruggere.

Intendendo però per 'distruggere' – e qui deve intervenire una buona dose di coraggio e di umiltà – non solo la distruzione fisica ma anche la determinazione di rendere l'altro simile a noi".

Il Segretario Generale tacque. Seguì un applauso sobrio. Specie quello proveniente dal settore riservato allo staff e alle rappresentanze permanenti aveva tutta l'aria di un tributo più che altro formale, se non proprio imbarazzato. Si levarono numerose mani per chiedere la parola. Vi fu il consueto brusio e rimescolamento tra il pubblico.

Solo uno dei numerosi addetti alla sicurezza si accorse che in quel momento di relativa confusione un giornalista della seconda fila, un giovane smilzo, dai capelli rossicci, infagottato in una giacca di pelle nera, aveva estratto dalla tasca interna un curioso oggetto, un corto tubo di legno, che sembrava andasse lentamente puntando in direzione dell'oratore. Non poteva essere un cannocchiale... Ma allora che diavolo era? L'agente non ritenne opportuno dare subito l'allarme ma non perse tempo e si precipitò in quella direzione. Troppo tardi. Il tizio dai capelli rossi aveva portato il tubo alle labbra. Si udì un sibilo quasi impercettibile. Jagdish Acharya si accasciò senza un gemito sul leggio. Il suo braccio destro penzolava inerte proprio sopra lo stemma delle Nazioni Unite.

Nonostante l'intervento immediato del personale sanitario di turno non ci fu nulla da fare. Il decesso avvenne, dopo una penosa agonia, sull'ambulanza diretta all'ospedale.

La notizia fece il giro del mondo e per vari giorni i media non parlarono quasi d'altro. Le espressioni di cordoglio non si contavano più. Nel chiuso delle cancellerie qualcuno tirò nondimeno un sospiro di sollievo. Questo professore indiano stava diventando un pò troppo scomodo. Chi credeva di essere? Un secondo Gandhi?

L'inchiesta di polizia si svolse secondo modelli divenuti familiari attraverso le centinaia di film aventi come soggetto complotti o attentati, così ricchi di dettagli che ormai è difficile dire se sia il cinema a copiare la realtà o non piuttosto la realtà il cinema.

L'assassino — riferivano già i primissimi lanci d'agenzia — non aveva opposto la minima resistenza all'arresto. Era un venezuelano naturalizzato americano, di nome Justo Olavarria, di trentaquattro anni, che effettuava servizi per vari quotidiani latino-americani ed era regolarmente accreditato presso il Segretariato ONU come corrispondente estero. Era incensurato, scapolo, non aveva parenti, conduceva una vita tranquilla in un piccolo appartamento alla periferia di Trenton, non aveva mai attirato l'attenzione dei vicini ed era praticamente ignorato dai colleghi.

Si era dichiarato "credente puro". In effetti non risultava che fosse seguace di una qualche confessione religiosa o fosse membro di una Chiesa o setta.

Come arma, per eludere i controlli magnetici, ne aveva utilizzato una del tutto "sui generis", leggera, poco appariscente, tutta in legno, che era stato facile occultare sotto il giaccone: una cerbottana tradizionale che gli esperti avevano confermato essere di provenienza asiatica, piuttosto che africana o amerinda, probabilmente del tipo semplice ma efficace di ridotte dimensioni, ricavata da una canna di bambù, tuttora in uso presso alcune tribù delle Filippine. Anche le due corte frecce, della quale una sola utilizzata per il delitto, erano della stessa origine. Lo stesso assassino del resto non aveva avuto difficoltà ad ammettere di essersi procurato il tutto da un etnologo di Atlanta.

Costui, prontamente rintracciato e messo per ore sotto torchio da una dozzina di diverse autorità inquirenti, era risultato alla fine un pacifico e ignaro collezionista di artefatti indigeni, che un paio di anni prima aveva organizzato una mostra di oggetti di artigianato della tribù Pala'wan, alcuni dei quali aveva pubblicizzato e venduto via Internet. Già nel primo interrogatorio Olavarria aveva confessato, con malcelato orgoglio, di aver trascorso ore ed ore, per ben diciotto mesi, ad allenarsi metodicamente nell'uso dell'inusitata arma, calcolando accuratamente movimenti e distanze. A casa sua si erano trovate le pareti della stanza da letto tappezzate di bersagli di cartone e tre contenitori pieni di dardi di legno, intatti o spezzati, di fattura più rudimentale di quello usato per l'attentato. Sulla provenienza del veleno, un composto a base di curaro stemperato in una pasta di linfa e lattice, egli si rifiutava invece ostinatamente di fornire qualsiasi indicazione. La CIA, riportava il "New York Times", ipotizzava che fosse di origine colombiana.

Sul punto più delicato, l'esistenza di eventuali complici, si erano mobilitati FBI, Interpol, CIA e altri servizi segreti di mezzo mondo.

Il Governo di Caracas, a scanso di equivoci, aveva rilasciato un comunicato nel quale si precisava che l'autore del barbaro assassinio aveva lasciato il Venezuela da bambino e non vi aveva più messo piede. Nel suo messaggio di condoglianze, il Presidente degli Stati Uniti aveva inserito un passaggio sul terrorismo internazionale che lasciava trapelare tra le righe il sospetto di un collegamento tra gli assassini del Segretario Generale dell'ONU e gli integralisti islamici del Sud Est asiatico. Una stazione televisiva degli Emirati Arabi aveva trasmesso per un'intera settimana la notizia che l'attentato era opera dei servizi segreti israeliani e che Olavarria era un ebreo che teneva segreta la sua vera fede.

"Io non sono solo. Faccio parte della "Lega per la protezione della Fede" – aveva dichiarato dal canto suo l'assassino già al momento dell'arresto, all'uscita dal Palazzo di Vetro – Siamo ancora in pochi ma motivati e determinati perché siamo animati da un grande ideale per il quale siamo pronti a dare la vita".

I primi piani della ripresa in diretta, mostravano un volto giovane, dall'espressione serena e pensosa, senza la minima traccia di pentimento e di paura. Anche il tono di voce sembrava indicare una grande sicurezza.

"Noi non siamo dei fanatici. Della nostra organizzazione fanno parte uomini di varie religioni, etnie e razze. Le ammettiamo tutte, perché non siamo intolleranti. Oh, no, non siamo affatto intolleranti.

Ciò che non possiamo assolutamente ammettere, no proprio non lo possiamo sopportare, è la mancanza di fede.

Guai a chi non crede fermamente e sinceramente! Guai!

Non importa in che cosa si crede, in Cristo, Jehova, Allah o nei valori della libertà e della democrazia. Io chiedo a voi tutti che mi ascoltate: come è possibile non avere fede? Alla fede salda e incrollabile non si può, non si deve rinunciare. Occorre credere e obbedire a ciò che si crede. Occorre combattere per ciò che si crede.

Uditemi bene: il professor Acharya era pericoloso. Egli ha avviato una campagna per affermare che la fede cieca e assoluta è un male, che non esiste una sola verità e che bisogna coltivare il seme del dubbio. Proprio quello che fece Satana nel giardino dell'Eden e che continua a sussurrarci Lucifero dopo la sua ribellione.

Quell'uomo, io vi dico, era una maledizione. Abbiamo dovuto eliminarlo per il bene dell'umanità. Sono contento di esserci riuscito al primo colpo.

Il Sommo Principio del Vero e del Bene, comune a tutti gli uomini della terra, mi ha certamente guidato ed è stato il Suo soffio, non il mio, a scagliare senza errore, dritta sul bersaglio, la freccia giustiziera".

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