Copertina
Autore Henry James
Titolo L'americano
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2008, Letterature , pag. 474, cop.fle., dim. 12x19x2,8 cm , Isbn 978-88-02-08014-7
OriginaleThe american [1877]
CuratorePiero Pignata
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe classici statunitensi
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina IX

Prefazione


La vita di Henry James presenta ben pochi aspetti sensazionali, a meno che si voglia considerare tale il fatto che, pur vivendo in un'epoca di intensi rivolgimenti destinati a trasformare radicalmente il volto degli Stati Uniti (la guerra civile, la corsa verso il West, l'inizio del grande sviluppo industriale), di questi avvenimenti nelle sue note biografiche non appaia traccia, né ve ne sia se non una pallida eco nelle molte migliaia di pagine da lui scritte. Questo stato di cose fu in parte dovuto, come si vedrà, a circostanze occasionali: ma l'origine dell'isolamento di James nella «torre d'avorio» della vita intellettuale, la limitazione dei suoi interessi a quelli che più da vicino toccavano la sua professione di romanziere e, comunque, di artista, va ricercata soprattutto nel particolare tipo di educazione di cui poté beneficiare e nell'ambiente colto e raffinato che, fin dai primi anni, si trovò a frequentare.

Ciò era stato possibile grazie alla fortuna che William James (un irlandese che si era trasferito negli Stati Uniti alla fine del Settecento stabilendosi ad Albany, nello stato di New York) aveva accumulato con qualche decennio di prospera attività commerciale. Tuttavia Henry senior, uno dei suoi figli e padre del romanziere, non soltanto non aveva voluto saperne di continuare una professione che giudicava volgare (concetto che trasmetterà al figlio), ma aveva anche rifiutato di sottostare ai tradizionali sistemi educativi di derivazione puritana, preferendo dedicarsi per proprio conto a studi teologici, filosofici e umanistici; più che logico, quindi, che egli, approfittando delle risorse che il padre gli aveva lasciato, desiderasse che ai suoi figli (Henry, nato a New York il 15 aprile 1843, era il secondo di cinque, di un anno più giovane di William, il futuro filosofo pragmatista) non fosse impartita un'educazione convenzionale, ma fosse loro data la possibilità di formarsi liberamente una vasta cultura, senza dover essere legati a uno schema che pregiudicasse la libera scelta della loro strada nella vita. La giovinezza di Henry jr. passò così tra profonde letture, conversazioni intellettuali con il padre (che gli infuse un po' del suo credo filosofico nel quale, su un fondo ancora puritano e permeato del senso del peccato, si erano inseriti elementi derivati dall'ottimismo di un Emerson e dal misticismo di uno Swedenborg), con il fratello William, e con i vari tutori, e, più importanti di ogni altra cosa, viaggi e soggiorni in quell'Europa nella quale era stato portato, come per un presagio, pochi mesi dopo la nascita, e della quale, ad ogni rientro in America, sentirà sempre più la nostalgia. Appunto l'enorme impressione prodotta in lui dalla visione di tante opere d'arte quali aveva potuto ammirare in Europa fece sì che nel 1860, di ritorno da uno di questi viaggi, Henry credesse di intravedere la propria vocazione nella pittura: iniziatone lo studio, lo lasciò tuttavia poco dopo per iscriversi alla scuola di giurisprudenza della Harvard University; infine il trasferimento della famiglia da Newport, dove si era stabilita, a Boston e il conseguente contatto con la locale società letteraria riunita intorno a James Russell Lowell lo convinsero che la sua strada era la letteratura.

Dopo che una «orribile pur se oscura ferita» di misteriosa natura, riportata qualche anno prima a Newport mentre aiutava a spegnere un incendio, gli aveva impedito di partecipare alla guerra civile, favorendo ancor di più il suo isolarsi in un modo di vita esclusivamente intellettuale dal quale sensi e materia apparivano banditi (ferita alla quale la critica ha voluto per un certo tempo ricollegare le sue più o meno larvate tendenze omosessuali, a lungo discusse e ormai generalmente accettate, anche se non necessariamente determinate da quell'episodio), a partire dal 1865 egli prese a scrivere racconti, articoli critici e impressioni di viaggio che pubblicava in riviste come l'«Atlantic Monthly» di William Dean Howells: nel 1871, sempre sull'«Atlantic», appariva a puntate il suo primo, e in verità, mediocre, romanzo (Watch and Ward) e, quattro anni più tardi, vedrà la luce il suo primo libro (la raccolta di novelle A Passionate Pilgrim). Frattanto il suo ardore per l'Europa non si era affatto placato, anzi era giunto a tal punto che, dopo un altro paio di brevi visite e un più lungo soggiorno, nel 1875 lasciò definitivamente gli Stati Uniti per stabilirsi in Europa. L'anno 1876 lo passa quasi interamente a Parigi, dove ha modo d'incontrare molte personalità del mondo letterario locale (fra cui Turgenev, figura, come Hawthorne, Balzac e, in minor misura, George Eliot e Flaubert, di capitale importanza per la sua formazione letteraria): ma in quel mondo lo sconosciuto americano non riesce a inserirsi e perciò, su consiglio del fratello William, prova con Londra; e qui, in questa città «non gradevole, né allegra, ma soltanto magnifica», in questa città che rappresenta il «più completo compendio» del mondo, ed è perciò da lui preferita non solo a Parigi, ma anche all'amatissima Italia, passerà la più parte dei suoi anni a venire.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 3

Capitolo I


In una splendida giornata di maggio dell'anno 1868 un signore se ne stava disteso a proprio agio sul grande divano circolare che a quel tempo occupava il centro del Salon Carré, al Museo del Louvre. Quest'ampio sofà è stato in seguito rimosso, con estremo rincrescimento di tutti coloro che, pur amando le belle arti, desideravano far riposare ogni tanto le loro ginocchia; ma il signore in questione aveva preso tranquillamente possesso del suo cantuccio più morbido, e, con la testa appoggiata allo schienale e le gambe distese in avanti, stava ammirando la bellissima «Immacolata Concezione» del Murillo, visibilmente compiaciuto della posizione in cui si trovava. Si era tolto il cappello e aveva gettato accanto a sé, sul divano, una guida tascabile di color rosso ed un binocolo da teatro. La giornata era afosa ed egli, accaldato per il gran camminare, si passava ripetutamente il fazzoletto sulla fronte, con un gesto che denotava una certa stanchezza. Non aveva però l'aria di un uomo cui la fatica fosse familiare: lungo e snello, ma muscoloso, egli dava l'idea di possedere quella sorta di vigore che è comunemente conosciuta come «saldezza fisica». Lo sforzo compiuto in quel particolare giorno era stato però di una specie cui non era abituato; egli era stato spesso protagonista di notevoli prodezze fisiche che l'avevano prostrato assai meno di questo tranquillo vagabondare per il Louvre. Aveva guardato tutti i quadri che in quelle terribili pagine a fitte righe di stampa del suo Baedeker erano segnalati da un asterisco: la sua attenzione era stata messa a dura prova, i suoi occhi erano rimasti come abbagliati, ed egli aveva dovuto sedersi in preda a un'emicrania di origine estetica. Aveva guardato, inoltre, non soltanto tutti i quadri, ma anche tutte le copie in corso di esecuzione intorno ad essi, per mano di quelle innumerevoli giovani donne in irreprensibili toilettes che si dedicano, in Francia, alla divulgazione dei capolavori; e, se dobbiamo dire la verità, egli aveva ammirato spesso la copia assai più dell'originale. La sua fisionomia indicava a sufficienza che si trattava di una persona accorta e capace, ed in realtà aveva spesso passato la notte davanti ad un enorme mucchio di conti, fino al canto del gallo, senza uno sbadiglio. Ma Raffaello, Tiziano e Rubens erano un nuovo genere di aritmetica, che ispirava al nostro amico, per la prima volta in vita sua, un vago senso di sfiducia in se stesso.

Un osservatore che avesse avuto un po' di dimestichezza con i diversi tipi nazionali non avrebbe avuto difficoltà a determinare la provenienza di questo amatore d'arte dall'aria ingenua, e probabilmente avrebbe tratto un vago e ironico piacere dal constatare la pienezza quasi ideale con la quale egli si adattava al modello nazionale. Il signore sul divano era un imponente esemplare di americano. Ma non era soltanto un perfetto americano; era prima di tutto un bell'uomo, fisicamente parlando. Sembrava possedere quel genere di salute e forza, che, quando coesistono allo stato di perfezione, producono una singolare impressione, come se si trattasse di un capitale fisico naturale che il possessore non fa nulla per mantenere. Se era un cristiano piuttosto robusto, lo era quasi senza saperlo. Se era necessario andare a piedi in qualche remota località ci andava, ma senza mai rendersi conto di compiere un «esercizio fisico».

Non aveva speciali teorie sui bagni gelati o sull'uso delle clave indiane, non praticava il canottaggio, né il tiro a volo, né la scherma – non aveva mai avuto tempo per simili divertimenti – ed era del tutto all'oscuro che l'andare a cavallo fosse indicato come rimedio per certe forme di dispepsia. Per indole era incline alla temperanza; ma aveva cenato, la sera precedente alla sua visita al Louvre, al Café Anglais – qualcuno gli aveva detto che era un'esperienza da non trascurare – e nondimeno aveva regolarmente dormito il sonno del giusto. Normalmente il suo aspetto e il suo portamento avevano un'aria di rilassata indolenza, ma quando, per una speciale ispirazione, egli si irrigidiva, sembrava un granatiere in parata. Non aveva mai fumato. Gli avevano assicurato – queste cose si dicono – che i sigari fanno bene alla salute, e poteva benissimo crederlo. Ma non aveva più esperienza del tabacco di quanta ne avesse dell'omeopatia. Aveva una testa ben formata, con un simmetrico e proporzionato equilibrio della parte frontale e di quella occipitale, e una grande quantità di capelli castani, lisci e piuttosto secchi. La pelle era abbronzata e l'arco del naso ardito e ben delineato. Gli occhi erano di un grigio chiaro e freddo e, a parte un paio di baffi piuttosto abbondanti, il viso era rasato perfettamente. La mascella era piatta e il collo nerboruto, come accade di frequente nel tipo americano; ma le tracce della propria origine nazionale riguardano più l'espressione che i lineamenti, ed era appunto in ciò che l'aspetto del nostro amico era estremamente eloquente. L'attento osservatore da noi immaginato avrebbe potuto rendersi perfettamente conto della sua espressività, e tuttavia non riuscire a definirla con termini appropriati. Aveva quell'aspetto vago, ma non insignificante, ingenuo ma non semplicione, quell'aria di non essere legato a nulla in particolare, di trovarsi in una generica posizione di attesa verso le possibilità che la vita può offrire, di sentirsi interamente a propria disposizione, che è così caratteristica in numerosi volti americani. A rivelare la storia del nostro amico erano soprattutto gli occhi: due occhi nei quali l'innocenza si mescolava singolarmente all'esperienza. Pieni di indicazioni contraddittorie, non erano certamente gli occhi ardenti di un eroe romantico, ma qualsiasi cosa si cercasse in essi la si poteva trovare. Freddi e amichevoli insieme, franchi ma con cautela, accorti ma disposti alla fiducia, positivi ma scettici, sicuri eppure timidi, tanto intelligenti quanto allegri, avevano qualcosa di vagamente provocante in ogni loro concessione, e qualcosa di profondamente rassicurante in ogni loro riserva. Il taglio dei baffi di questo giovanotto, unitamente alle due rughe premature visibili sulla guancia appena al di sopra di essi, e lo stile del suo abbigliamento, nel quale lo sparato della camicia ostentatamente messo in mostra e una cravatta celeste producevano forse l'effetto di un pugno in un occhio, completavano gli elementi della sua identità. Forse abbiamo fatto la sua conoscenza in un momento non particolarmente favorevole: certo non è lì in posa per un ritratto. Ma pur con l'aria di svogliatezza con la quale se ne sta sprofondato, piuttosto perplesso sulla questione estetica e colpevole della tremenda colpa (che tale si sarebbe in seguito rivelata) di confondere il merito dell'artista con quello del suo lavoro (egli infatti ammira la Madonna un po' strabica della signorina dall'acconciatura mascolina, perché trova la signorina stessa strordinariamente graziosa), si tratta di una conoscenza abbastanza promettente. Decisione, salute, giovialità e prosperità sembrano essere a sua disposizione: è evidentemente uno spirito pratico, ma tale definizione ha nel suo caso dei limiti indefinibili e misteriosi, che invitano la fantasia a scuotersi per portare il suo contributo.

Mentre procedeva nel suo lavoro, la piccola imitatrice lanciava di tanto in tanto uno sguardo, come in risposta, al suo ammiratore. Il coltivare le belle arti rendeva necessaria, a suo parere, una grande quantità di attività secondarie, quali un gran tirarsi indietro con le braccia conserte, inclinando il capo a destra e a sinistra, accarezzarsi le fossette del mento con la mano piena di fossette, sospirare, aggrottare le ciglia, pestare i piedi, frugare nervosamente tra le trecce in disordine alla ricerca di forcine che non volevano stare a posto. Queste figurazioni mimiche erano accompagnate da uno sguardo irrequieto, che si soffermava però di preferenza sul giovanotto che abbiamo descritto. Questi, infine, si alzò di scatto, e messosi il cappello, si avvicinò alla giovane. Collocatosi davanti al suo quadro lo osservò per alcuni istanti, durante i quali ella fece finta di non essersi accorta del suo interesse. Poi, rivolgendosi a lei con la parola che costituiva il nucleo centrale di tutto il suo vocabolario francese, e atteggiando un dito in un gesto che a lui sembrava doverne illuminare il significato, domandò bruscamente:

«Combien?»

L'artista lo guardò un momento, perplessa, poi alzò le spalle, posò i pennelli e la tavolozza, e iniziò a ripulirsi le mani.

«Quanto? — disse il nostro amico, in inglese. — Combien?»

«Monsieur desidera comprarlo?» domandò lei in francese.

«Θ graziosissimo. Splendide. Combien?», ripeté l'americano.

«Piace a Monsieur il mio quadretto? Θ un bellissimo soggetto», disse la giovane.

«La Madonna, sì; non sono cattolico, ma la voglio comperare. Combien? Scrivetelo qui». Trasse di tasca una matita indicandole il segnalibro della guida. L'altra rimase a guardarlo, grattandosi il mento con la matita. «Non è in vendita?» chiese lui. E poiché l'altra stava ancora a riflettere, guardandolo con occhi che, a dispetto del suo desiderio di trattare questa avidità di mecenatismo come una vecchia storia cui era ormai abituata, tradivano una incredulità quasi commovente, ebbe timore di averla offesa. Ella stava semplicemente cercando di mostrarsi indifferente, domandandosi quanto avrebbe saputo resistere.

«Non ho mica fatto una gaffe... pas insulté, no?» proseguì il suo interlocutore. «Non capite nemmeno un po' d'inglese?»

L'attitudine della ragazza a recitare una parte senza preparazione era notevole. Lo fissò in volto con gli occhi vivaci ed intelligenti e gli domandò se non parlava francese. Poi disse brevemente «Donnez!» e gli prese di mano la guida che teneva aperta. Sull'angolino in alto del segnalibro scrisse una cifra, in una calligrafia minuta ma estremamente chiara. Infine gli restituì il libro, riprendendo in mano la tavolozza.

Il nostro amico lesse la cifra: «2000 franchi». Non disse nulla per qualche momento, ma stette a guardare il quadro, mentre la pittrice incominciava nuovamente a dare energiche pennellate.

«Non è una bella cifra, per una copia? – domandò infine. – Pas beaucoup?»

La ragazza alzò gli occhi dalla tavolozza, lo squadrò da capo a piedi, giungendo, con sagacia ammirevole, alla risposta più adatta al caso: «Sì, è una bella cifra. Ma la mia copia ha dei pregi notevoli, e non vale di meno».

Il giovanotto oggetto del nostro interesse non comprendeva il francese, ma ho detto che era intelligente e questa è una buona occasione per provarlo. Egli intuì, come per un istinto naturale, il significato della frase della ragazza, e gli fece piacere pensare che fosse così onesta. Bellezza, talento e virtù: ella aveva tutto!

«Dovete però finirlo, – disse. – Finirlo, mi spiego?» e indicò la mano della Madonna che era ancora incompiuta.

«Oh, sarà finito con la massima perfezione, la perfezione delle perfezioni!» gridò la mademoiselle; e, a conferma della promessa depositò una macchia rosea nel bel mezzo della guancia della Madonna.

Ma l'americano aggrottò le ciglia. «No, troppo rosso, troppo rosso! – esclamò. – La sua carnagione è più delicata», aggiunse indicando il Murillo.

«Delicata? Oh, lo sarà, monsieur; delicata come un biscuit di Sèvres. La sfumerò subito, conosco tutti i segreti della mia arte. E dove volete che vi venga mandato? Il vostro indirizzo?»

«Il mio indirizzo? Oh, sì!» E il giovanotto trasse fuori dal portafogli un biglietto su cui scrisse qualcosa. Poi, esitando un istante, disse: «Se non mi piace quand'è finito, non sarò comunque obbligato a prenderlo».

La ragazza si rivelò altrettanto abile nel prevedere il futuro.

«Oh, sono sicurissima che monsieur non è un tipo volubile!»

«Volubile?» A questa parola monsieur si mise a ridere. «Oh no, non sono volubile. Sono molto costante e degno di fiducia. Comprenez?»

«Monsieur è costante, comprendo perfettamente: è una virtù rara. Per ricompensarvi, vi farò avere il quadro il più presto possibile: la prossima settimana, appena sarà asciutto. Datemi il vostro biglietto, monsieur». Lo prese e lesse il suo nome: «Cristopher Newman ». Tentò di ripeterlo ad alta voce, ridendo per il proprio cattivo accento. «I vostri nomi inglesi sono così buffi!»

«Buffi? — replicò il signor Newman, ridendo egli pure. — Non avete mai sentito parlare di Cristoforo Colombo?»

«Bien sur! Scoprì l'America: un grand'uomo davvero. Θ il vostro patrono?»

«Il mio patrono?»

«Il vostro santo patrono, nel calendario».

«Oh, sì, giusto: i miei genitori hanno preso il mio nome da lui».

«Monsieur è americano?»

«Non si vede?» domandò monsieur.

«E intendete portare laggiù il mio quadretto?» ella soggiunse, accompagnando la frase con un gesto di spiegazione.

«Oh, intendo acquistare molti quadri... beaucoup, beaucoup», disse Christopher Newman.

«L'onore che mi fate non è minore, — rispose la giovane; — sono sicura che monsieur ha molto buon gusto».

«Ma dovete darmi il vostro biglietto, — disse Newman; — il vostro biglietto da visita, sapete?»

La ragazza assunse per un istante un'aria severa, poi disse:

«Mio padre verrà da voi».

Questa volta però i poteri divinatori di Newman si dimostrarono impotenti.

«Il vostro biglietto, il vostro indirizzo», ripeté semplicemente.

«Il mio indirizzo?» disse la mademoiselle. Poi, con una lieve alzata di spalle: «Θ una fortuna per voi che siate americano! Θ la prima volta che dò il mio biglietto a un uomo». E, tratto di tasca un portamonete piuttosto unto, ne tolse un piccolo e lucido biglietto da visita, che offrì al suo mecenate. Sopra vi era scritto a matita, chiaramente, ma con molti svolazzi: «M.lle Noémie Nioche». Ma il signor Newman, a differenza della sua compagna, lesse il nome con perfetta gravità: tutti i nomi francesi erano per lui egualmente buffi.

«Ma ecco qui appunto mio padre che è venuto a prendermi per accompagnarmi a casa, — disse Mademoiselle Noémie. — Parla l'inglese e potrà mettersi d'accordo con voi». E si volse a dare il benvenuto a un vecchio e piccolo signore che avanzava sbuffando e osservando Newman al di sopra degli occhiali.

Monsieur Nioche portava una lustra parrucca, di un colore innaturale, che sovrastava un viso piccolo, mite, bianco e vacuo, rendendolo appena più espressivo delle teste senza volto sulle quali questi articoli vengono esposti nelle vetrine dei barbieri. Egli era l'immagine perfetta della nobiltà decaduta. Il piccolo e mal fatto soprabito, spazzolato fino alla disperazione, i guanti rammendati, gli stivali ben lustri, il cappello che si intuiva ben fatto, ma un po' malconcio, raccontavano la storia di una persona cui «era andata male» e che si manteneva attaccata allo spirito delle abitudini raffinate, anche se la lettera era stata irrimediabilmente cancellata. Tra le altre cose Monsieur Nioche aveva perso il coraggio. Le avversità non l'avevano soltanto rovinato, ma lo avevano terrorizzato, ed egli sembrava andarsene per il resto della sua vita sulla punta dei piedi, per timore di risvegliare il fato ostile. Se questo strano signore stava dicendo qualcosa di sconveniente a sua figlia, Monsieur Nioche lo avrebbe supplicato a mezza voce, come per un favore particolare, di astenersene; ma avrebbe in pari tempo ammesso che era assai presuntuoso da parte sua il chiedere dei favori particolari.

«Monsieur ha comperato il mio quadro, — disse Mademoiselle Noémie. — Quando sarà finito glielo porterai a casa in carrozza».

«In carrozza!» esclamò Monsieur Nioche; e sbarrò tanto d'occhi, sgomento, come se avesse visto il sole sorgere a mezzanotte.

«Siete il padre della signorina? – fece Newman. – Credo mi abbia detto che parlate inglese».

«Parlare inglese?... Sì, – fece il vecchio, stropicciandosi lentamente le mani, – ve lo porterò in carrozza».

«Di' qualcosa, allora, – esclamò sua figlia. – Ringrazialo un poco, non troppo, però».

«Un poco, figlia mia, un poco, – fece Monsieur Nioche, perplesso. – Quanto?»

«Duemila! – disse Mademoiselle Noémie. – Ma non far tanto chiasso, altrimenti si rimangia la parola».

«Duemila!», esclamò il vecchio; e cominciò a frugare in tasca in cerca della tabacchiera. Squadrò Newman da capo a piedi, poi guardò la figlia e infine il quadro. «Attenta a non rovinarlo!» gridò, in tono quasi estatico.

«Dobbiamo andare a casa, – disse Mademoiselle Noémie. – Ci siamo guadagnati la giornata. Stai attento a come lo porti!» Ed incominciò a riporre i suoi utensili.

«Come posso ringraziarvi? – fece Monsieur Nioche. – Il mio inglese non è sufficiente».

«Vorrei parlare io il francese così bene, – disse Newman, amabilmente. – Vostra figlia è molto in gamba».

«Oh, signore!» e Monsieur Nioche lo guardò al di sopra degli occhiali con gli occhi pieni di lacrime, scrollando più volte il capo con un'espressione di infinita tristezza. «Ha avuto un'educazione... très supérieure! Nulla fu risparmiato: lezioni di pastello a dieci franchi l'una, lezioni di pittura ad olio a dodici franchi. Non badavo ai franchi, allora. Θ un' artiste, vero?»

«Mi pare di comprendere che abbiate avuto delle difficoltà; è così?»

«Difficoltà? Oh signore, disgrazie... terribili!»

«Sfortunato negli affari, eh?»

«Sfortunatissimo, signore».

«Oh, non perdetevi d'animo, vi rimetterete di nuovo in piedi», disse Newman, giovialmente.

Il vecchio volse il capo da una parte e lo guardò con un'espressione di pena, come se si trattasse di uno scherzo crudele.

«Che cosa dice?» domandò Mademoiselle Noémie.

Monsieur Nioche prese un pizzico di tabacco.

«Dice che potrò rifarmi una fortuna».

«Magari ti potrà aiutare. E che altro?»

«Dice che sei molto in gamba».

«Θ possibile. Anche tu lo credi, papà?»

«Crederlo, figlia mia? Con prove come questa!» e il vecchio si rivolse di nuovo, in estatico e attonito omaggio, all'ardito scarabocchio che stava sul cavalletto.

«Chiedigli allora se non gli piacerebbe imparare il francese».

«Imparare il francese?»

«Sì, prendere lezioni».

«Prendere lezioni, figlia mia? Da te?»

«Da te!»

«Da me, bambina mia? E come potrei dar lezioni?»

«Pas des raisons! Chiediglielo immediatamente!» fece Mademoiselle Noémie, con dolce fermezza.

Monsieur Nioche restò terrorizzato, ma sotto lo sguardo della figlia raccolse tutte le sue forze e, facendo del suo meglio per atteggiare le labbra a un sorriso di simpatia, eseguì i suoi comandi.

«Vi piacerebbe ricevere qualche nozione della nostra bella lingua?» domandò, con un commovente tremolio nella voce.

«Studiare il francese?» domandò Newman, stupito.

Monsieur Nioche unì insieme le punte delle dita, alzando lentamente le spalle. «Un po' di conversazione!»

«Conversazione... ecco quel che ci vuole! — mormorò Mademoiselle Noémie, che aveva colto la parola. — La conversazione della migliore società».

«La conversazione di noi francesi è famosa, sapete. — Monsieur Nioche si azzardò a soggiungere. — Abbiamo un talento per questo».

«Ma non è terribilmente difficile?»

«Non per un uomo d' esprit, come monsieur, un ammiratore della bellezza sotto ogni forma!» E Monsieur Nioche lanciò un'occhiata significativa alla Madonna di sua figlia.

«Non riesco a immaginarmi a conversare in francese! — fece Newman con una risata. — E, tuttavia, suppongo che più cose uno sa meglio è».

«Monsieur ha reso assai bene l'idea. Hélas, oui».

«Suppongo che mi sarà di grande aiuto, andando in giro per Parigi, sapere la lingua».

«Ah, ci saranno tante cose che monsieur vorrà dire: ... cose difficili!»

«Tutto ciò che voglio dire è difficile. Ma voi date lezioni?»

Il povero Monsieur Nioche apparve imbarazzato; sorrise in maniera ancor più penosa.

«Non sono un vero professore, — ammise. — Non posso mica dirgli che sono un professore», fece poi rivolto alla figlia.

«Digli che è un'occasione eccezionale, — replicò Mademoiselle Noémie; — un homme de monde, un gentiluomo che conversa con un suo pari! Ricordati chi sei... chi sei stato!»

«Un insegnante di lingue in nessun caso. E semmai assai più in passato che adesso! E se domanda il prezzo delle lezioni?»

«Non lo domanderà», disse Madernoiselle Noémie.

«Posso dirgli che faccia lui?»

«No, non è corretto».

«Se lo domanda, allora?»

Mademoiselle Noémie si era messa il cappellino e stava allacciandone i nastrini. Li accomodò, levando in fuori il piccolo e delicato mento.

«Dieci franchi», disse brevemente.

«Oh, figlia mia! Non oserò mai!»

«Non osare, allora. Non domanderà nulla fino alla fine delle lezioni, poi farò io il conto».

Monsieur Nioche si volse nuovamente al fiducioso forestiero e stette a lisciarsi le mani con un'aria colpevole che non era più intensa soltanto perché già d'abitudine era singolarmente toccante. Non passò nemmeno per il capo a Newman di richiedergli qualche garanzia della sua abilità nell'impartir lezioni; egli supponeva naturalmente che Monsieur Nioche conoscesse la propria madrelingua, e il penoso abbandono che il suo aspetto denunciava corrispondeva perfettamente a ciò che l'americano, per imprecisabili motivi, aveva sempre associato con tutti gli stranieri di una certa età che davano lezioni. Newman non aveva mai riflettuto sui processi filologici. La sua principale impressione sul modo di acquistare padronanza di quei misteriosi correlativi dei vocaboli inglesi a lui familiari che erano di uso corrente in quella straordinaria città di Parigi era che fosse semplicemente questione di un notevole, inusitato e piuttosto ridicolo sforzo muscolare da parte sua.

«Come avete imparato l'inglese?» domandò al vecchio.

«Quando ero giovane, prima delle mie disgrazie. Oh, ero ben sveglio, allora. Mio padre era un grande commerηant, e mi mandò per un anno in un ufficio di contabilità in Inghilterra. Qualcosa mi è rimasto, ma ho dimenticato quasi tutto!»

«Quanto francese potrò imparare in un mese?»

«Che cosa dice?» domandò Mademoiselle Noémie.

Monsieur Nioche glielo spiegò.

«Parlerà come un angelo!» dichiarò la figlia.

Ma la naturale integrità che era stata esercitata invano per assicurare la prosperità commerciale di Monsieur Nioche tornò per un attimo a brillare.

«Diamine, monsieur! – rispose. – Tutto quanto potrò insegnarvi!» E poi, ricomponendosi, a un cenno della figlia: «Verrò da voi all'albergo».

«Oh, sì, mi piacerebbe imparare il francese, – Newman proseguì, con democratica fiducia. – Che io sia dannato se ci avevo mai pensato! Ero certo che non fosse possibile. Ma voi avete imparato la mia lingua, perché non dovrei imparare io la vostra? – e la sua franca, cordiale risata tolse ogni punta allo scherzo. – Solo, se dobbiamo far conversazione, dovete pensare a qualcosa di allegro di cui parlare».

«Siete molto buono, signore; mi dichiaro vinto! – disse Monsieur Nioche, levando le mani in alto. – Ma voi possedete gioia e allegria per due!»

«Oh no, – fece Newman, più seriamente. – Anche voi dovete essere gaio e animato: fa parte del contratto».

Monsieur Nioche si inchinò, la mano sul cuore.

«Benissimo, signore; voi mi avete già rianimato».

«Venite a portarmi il quadro, allora: io vi pagherò e discorreremo sull'argomento. Sarà un tema divertente!»

Mademoiselle Noémie aveva raccolto i suoi arnesi ed affidato la preziosa Madonna al padre, che si ritirò all'indietro, fino a scomparire alla vista, tenendola sotto il braccio disteso e reiterando gli inchini. La giovane si ravvolse nello scialle come una perfetta parigina, e fu con il sorriso di una parigina che si accomiatò dal proprio mecenate.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 37

A Newman la compagnia delle donne piaceva in ogni circostanza, ed ora che era fuori del proprio elemento naturale e privo dei suoi abituali interessi, si rivolse ad essa per compensazione. Provò gran piacere nella compagnia della signora Tristram e costei schiettamente lo ricambiò, sicché, dopo il loro primo incontro, egli passò moltissime ore nel salotto di lei. Dopo due o tre conversazioni erano già buoni amici. Il modo di comportarsi con le donne di Newman era singolare ed una signora doveva avere una buona dose di perspicacia per accorgersi che egli provava per lei ammirazione. Non era galante, nel senso comune della parola: nessun complimento, gentilezza o discorso. Molto amante dello scherzo nei suoi rapporti con gli uomini, egli non riusciva mai a trovarsi seduto su un divano accanto a un rappresentante del sesso gentile senza sentirsi estremamente serio. Non era timido né, fin dove l'imbarazzo derivava da una lotta contro la propria timidezza, imbarazzato: grave, attento, ossequioso, spesso taciturno, era semplicemente immerso in una specie di rispettoso rapimento. Quest'emozione non aveva origini teoriche, e non era nemmeno di elevato grado sentimentale: egli aveva avuto rare occasioni di pensare alla «posizione» della donna e l'immagine di un presidente in gonnella non gli era familiare, né in un senso né nell'altro. Il suo atteggiamento era semplicemente il frutto della sua generale buona disposizione d'animo ed una parte della sua istintiva e genuinamente democratica accettazione del diritto di ogni essere umano a trascorrere una vita agevole. Se un irsuto poveraccio aveva diritto a un letto, a un cibo, a un salario e a un voto, le donne naturalmente, essendo più deboli dei poveri e possedendo un tessuto fisico che era già di per sé un motivo di attrazione, avrebbero dovuto essere mantenute, sentimentalmente, a spese dello Stato. Newman si sarebbe volentieri sottoposto ad una tassazione cospicua, in proporzione ai suoi mezzi, a tale scopo. Inoltre, molti dei tradizionali luoghi comuni riguardanti le donne erano per lui fresche e personali impressioni: non aveva mai letto un romanzo! Era rimasto colpito dalla loro acutezza, dalla loro sottigliezza, dal loro tatto e dalla felicità dei loro giudizi. Esse gli apparivano squisitamente organizzate. Se è vero che ciascuno deve sempre avere, nella sua opera terrena, una religione o per lo meno un ideale di qualche genere, Newman trovava la sua ispirazione metafisica in una vaga accettazione della propria ultima responsabilità verso qualche illuminato occhio femminile.

Trascorse molto tempo ad ascoltare i consigli della signora Tristram: consigli, bisogna aggiungere, da lui mai apertamente richiesti; e non sarebbe del resto mai stato in grado di richiederne, dato che, non avendo percezione delle difficoltà, non provava di conseguenza alcuna curiosità per i rimedi atti a superarle. Il complesso mondo parigino che lo attorniava gli sembrava una cosa assai semplice: era un immenso, meraviglioso spettacolo, ma non infiammava la sua immaginazione né eccitava la sua curiosità. Le mani in tasca, si guardava intorno di ottimo umore e, non desiderando perdersi alcunché di importante, osservava accuratamente una grande quantità di cose, senza mai ritornare sui propri passi. I consigli della signora Tristram facevano parte dello spettacolo e costituivano un elemento più interessante degli altri, a causa della sua abbondante riserva di pettegolezzi. Godeva a sentirla parlare di lui, poiché gli sembrava che ciò facesse parte del suo splendido ingegno; ma non metteva mai in pratica nulla di ciò che ella diceva, né se ne ricordava quando era lontano da lei.

Quanto a lei, s'era appropriata di lui: egli era la cosa più interessante cui le fosse capitato di pensare da molti mesi. Desiderava fare qualcosa con lui... non sapeva nemmeno che cosa. C'erano tante cose in lui: era così ricco e robusto, così sereno, amichevole, ben disposto da tenere la sua immaginazione costantemente sveglia. Per il momento l'unica cosa che poteva fare era dimostrargli che le riusciva simpatico. Gli disse che era «un orribile figlio del West», ma in questo complimento l'aggettivo era venato d'insincerità. Lo portò fuori con sé, lo presentò ad una cinquantina di persone e si sentì estremamente soddisfatta della sua conquista. Newman accettò ogni proposta, strinse la mano a tutti, uomini e donne, e sembrò ugualmente refrattario alla trepidazione e all'entusiasmo.

Tom Tristram si lamentò dell'avidità della moglie, dichiarando di non poter mai stare cinque minuti da solo con l'amico. Se avesse saputo che piega avrebbero preso le cose, non l'avrebbe mai portato in Avenue d'Iéna. I due uomini, in precedenza, non erano mai stati intimi, ma Newman ricordava la prima impressione che aveva avuto del suo ospite e diede alla signora Tristram, il cui segreto aveva scoperto benché non gli avesse assolutamente dato confidenza, la soddisfazione di sentirlo ammettere che suo marito era un tipo piuttosto degenerato di mortale.

A venticinque anni era stato un buon compagno e, sotto quest'aspetto, non era cambiato: ma da un uomo della sua età ci si aspettava molto di più. La gente lo diceva socievole, ma si trattava più che altro di un'abitudine, come una spugna che inzuppata d'acqua si espande: e, comunque, non era una socievolezza di ordine eccezionale. Era un gran pettegolo e chiacchierone e per provocare una risata sarebbe passato sopra anche alla reputazione della sua vecchia madre. Newman provava tenerezza per i ricordi dei passato, ma trovava impossibile non accorgersi che Tristram era adesso un individuo pressoché insignificante. Le sue uniche aspirazioni erano fare un poker dopo l'altro al club, sapere i nomi di tutte le cocottes, stringere mani dovunque, riempirsi la rosea gola di tartufi e champagne e creare scomodi e vorticosi intralci agli atomi da cui era costituita la colonia americana. Era vergognosamente pigro, svogliato, sensuale e snob, ed irritava il nostro amico con il tono delle sue allusioni al loro paese natio: Newman non riusciva a capire perché gli Stati Uniti non andassero bene per il signor Tristram. Egli non era mai stato un patriota in piena coscienza, ma lo irritava veder trattare il suo paese appena un po' meglio di un cattivo odore al naso del suo amico, finché un giorno sbottò, dichiarando che era il più grande paese del mondo, che poteva mettersi l'intera Europa nelle tasche dei pantaloni, e che un americano che ne parlasse male avrebbe dovuto essere portato in patria in catene e costretto a vivere a Boston (cosa che per Newman costituiva il massimo della punizione). Tristram era un uomo assai comodo da umiliare: non gli serbò rancore e continuò ad insistere affinché Newman andasse a finire le sue serate al Club Occidentale.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 120

«E vi divertite?»

Da buon americano, Newman pensò bene di non compiacere troppo il forestiero. «Oh, così così», rispose.

Monsieur de Bellegarde trasse di nuovo una boccata dal sigaro, in silenzio.

«Per quanto è in mio potere, — disse infine, — sono interamente al vostro servizio. Qualunque cosa possa fare per voi sarò bel lieto di farla. Venite a trovarmi quando vi aggrada. C'è qualcuno che desiderate conoscere... qualcosa che desiderate vedere? Θ un peccato che non ve la passiate bene a Parigi».

«Oh, ma io me la passo benissimo! — disse Newman affabilmente. — Vi sono comunque obbligato»

«Parlando onestamente, — proseguì Monsieur de Bellegarde, — c'è qualcosa di assurdo per me nell'udirmi rivolgervi simili offerte. Esse rappresentano una notevole dose di buona volontà, ma non molto di più. Voi siete un uomo di successo ed io un fallimento, ed è capovolgere le nostre posizioni parlare come se io potessi darvi una mano».

«In che cosa siete un fallimento?»

«Oh, non sono un fallimento da tragedia! — esclamò il giovane con una risata. — Non sono caduto tanto dall'alto, e il mio fiasco non ha fatto rumore. Voi, con ogni evidenza, siete un uomo di successo. Avete accumulato una fortuna, avete costruito un edificio, siete una potenza finanziaria e commerciale, potete viaggiare per il mondo finché avrete trovato un cantuccio soffice dove adagiarvi con la coscienza di esservi guadagnato il vostro riposo. Non è forse vero? Bene, immaginatevi l'esatto rovescio di tutto ciò e avrete me. Io non ho fatto nulla... non posso fare nulla!»

«Perché no?»

«Θ una lunga storia. Un giorno o l'altro ve la racconterò. Per ora, ho ragione, vero? Non siete un successo? Non avete fatto fortuna? Non è affar mio, ma, in breve, non siete ricco?»

«Questa è un'altra cosa che sembra stupido affermare, — disse Newman. — Al diavolo, nessuno è ricco!»

«Ho sentito dei filosofi affermare che nessun uomo è povero, — rise Monsieur de Bellegarde, — ma la vostra formula mi sembra ancora migliore. Come regola generale, lo confesso, non mi piace la gente che ha successo, e trovo le persone abili ad ammassare grandi fortune assai offensive: mi pestano i piedi, mi rendono nervoso. Ma non appena ho visto voi mi sono detto: "Ah, ecco un uomo con il quale andrò d'accordo. Ha l'abilità di carattere che proviene dal successo e nessuno dei lati negativi: non ha la nostra maledettamente suscettibile vanità francese". In breve, mi siete riuscito simpatico. Siamo assai diversi, ne sono sicuro: non credo che ci sia un argomento sul quale la pensiamo allo stesso modo. Ma preferisco pensare che andremo d'accordo, perché non esiste cosa che tenga lontani dal litigare come l'essere troppo differenti».

«Oh, io non litigo mai», fece Newman.

«Mai? Qualche volta è un dovere... o almeno è un piacere. Oh, io ho avuto due o tre deliziosi litigi nel corso della mia giornata!» E il bel sorriso di Monsieur de Bellegarde assunse, nel ricordo di questi incidenti, un'intensità quasi voluttuosa.

Con il preambolo racchiuso nella sua porzione del precedente frammento di dialogo, egli fece al nostro eroe una lunga visita; mentre i due uomini sedevano con i talloni contro lo scoppiettante caminetto di Newman, udivano le ore piccole del mattino battere, sempre più grosse, da un lontano campanile. Valentin de Bellegarde era, per sua confessione, un gran chiacchierone in ogni circostanza ed in questa occasione era con ogni evidenza in uno stato d'animo particolarmente loquace. Era tradizione della sua razza che la gente del suo sangue concedesse come un favore i suoi sorrisi e, dato che i suoi entusiasmi erano tanto rari quanto costante era la sua cortesia, egli aveva una doppia ragione per non sospettare che la sua amicizia potesse mai riuscire importuna. Inoltre, da fiore di un'antica pianta quale egli era, la tradizione (poiché ho usato questa parola) non lasciava trasparire nel carattere di lui nulla della sua sgradevole rigidità. Egli se ne stava avvolto nella socievolezza e nella cortesia come una vecchia vedova nei suoi pizzi e nei suoi colliers di perle. Valentin era ciò che in Francia si chiama un gentilhomme della fonte più pura, e la sua norma di vita, per quanto vi era in essa di definito, era di recitare la parte del gentilhomme. Questo, gli pareva, era più che sufficiente per occupare degnamente un giovane di ordinario talento. Ma tutto ciò ch'egli era, lo era per istinto e non per ragionamento, e l'amabilità del suo carattere era così grande che alcune delle virtù aristocratiche, che di per sé appaiono piuttosto fredde e taglienti, acquistavano nell'applicazione che egli ne faceva un'estrema piacevolezza.

Negli anni della sua adolescenza era stato sospettato di gusti volgari e sua madre aveva molto temuto che facesse uno scivolone sul fango della strada maestra e inzaccherasse lo scudo di famiglia. Era stato sottoposto, perciò, a una parte maggiore di quella che gli spettava di istruzioni e di esercizi, ma i suoi istruttori non erano riusciti a farlo montare sui trampoli. Essi non riuscirono ad intaccare la sua sana spontaneità ed egli rimase il meno cauto e il più fortunato dei giovani nobili. Nella sua giovinezza era stato legato con una corda così corta che ora provava un rancore mortale verso la disciplina familiare. Si era saputo che egli aveva detto, nell'ambito della famiglia che, frivolo com'egli era, l'onore del nome era più al sicuro nelle sue mani che in quelle di qualcun altro dei suoi membri e che se fosse mai venuto il giorno per provarlo, essi avrebbero visto. La sua conversazione era uno strano miscuglio di una loquacità quasi fanciullesca e del riserbo e della discrezione dell'uomo di mondo, ed egli apparve a Newman, come poi altri giovani membri della razza latina gli sarebbero apparsi, ora spassosamente giovanile ora terribilmente maturo. In America, Newman rifletté, ragazzi di venticinque o trent'anni avevano teste vecchie e cuori giovani, o almeno un giovane senso morale; qui avevano teste giovani e cuori assai invecchiati, e una morale grinzosa e incanutita.

«Ciò che vi invidio è la vostra libertà, – osservò Monsieur de Bellegarde, – il vostro ampio campo d'azione, la vostra facoltà di andare e venire, il vostro non avere un sacco di gente che prende se stessa terribilmente sul serio e si aspetta qualche cosa da voi. Io vivo, – aggiunse con un sospiro – sotto gli occhi della mia ammirevole madre».

«La colpa è soltanto vostra; che cosa vi trattiene dal muovervi?»

«Quale deliziosa semplicità nella vostra osservazione! Tutto mi trattiene. Per cominciare, non ho un soldo».

«Non avevo un soldo quando cominciai a darmi da fare».

«Ah, ma la vostra povertà era il vostro capitale. Essendo un americano, era impossibile che rimaneste quale eravate nato ed essendo, se ho capito bene, nato povero era inevitabile che diventaste ricco. Eravate in una posizione da far venire l'acquolina in bocca: vi guardavate intorno e vedevate un mondo pieno di cose per impadronirvi delle quali non avevate che da farvi avanti. Quando io avevo vent'anni, mi guardai intorno e vidi un mondo in cui ogni cosa recava scritto «Giù le mani!» e il peggio era che la scritta sembrava diretta soltanto a me. Non potevo mettermi negli affari, non potevo far denaro, perché ero un Bellegarde. Non potevo darmi alla politica, perché ero un Bellegarde (i Bellegarde non riconoscono i Bonaparte). Non potevo dedicarmi alla letteratura, perché ero un ignorante. Non potevo sposare una ragazza ricca perché nessun Bellegarde aveva mai sposato una roturière, e non stava bene che fossi io a cominciare. Dovremo arrivarci, tuttavia. Ereditiere sposabili, de notre bord, non si possono avere per nulla: dev'essere nome per nome, fortuna per fortuna. L'unica cosa che potevo fare era di andare a combattere per il Papa. Ciò che feci puntigliosamente e mi buscai una profonda e apostolica ferita a Castelfidardo. Essa non procurò alcun bene visibile né a me né al Santo Padre. Roma è stata senza dubbio un posto assai divertente ai tempi di Caligola, ma è tristemente decaduta da allora. Passai tre anni a Castel Sant'Angelo, e poi ritornai alla vita secolare».

«Così non avete alcuna professione... non fate nulla?» disse Newman.

«Non faccio nulla. La gente crede che io mi diverta, e, per dire la verità, mi sono divertito. Θ possibile, basta saperlo fare. Ma non si può farlo durare per sempre. Ne avrò forse per altri cinque anni, ma prevedo che dopo quel termine perderò la voglia. Che cosa farò allora? Ho idea di farmi monaco. Sul serio, penso che mi legherò una corda intorno alla vita e mi ritirerò in un monastero. Era una vecchia usanza e le vecchie usanze erano ottime. La gente capiva la vita quanto noi: teneva la pentola sul fuoco fin quando scoppiava, poi la metteva via definitivamente».

«Siete molto religioso?», domandò Newman, in un tono che diede alla domanda un effetto grottesco.

Monsieur de Bellegarde apprezzò manifestamente la sfumatura comica della domanda, ma guardò Newman un istante con estrema serietà.

«Sono un cattolico osservante: rispetto la Chiesa, adoro la Vergine benedetta, ho paura del Diavolo».

«Bene, – disse Newman, – allora siete a posto. Avete il piacere per il presente e la religione per il futuro. Di che vi lagnate?»

«Fa parte del piacere il lagnarsi. C'è qualcosa nelle vicende della vostra vita che mi irrita. Siete il primo uomo che io abbia mai invidiato. Θ strano, ma è così. Ho conosciuto molte persone che, oltre ad ogni qualità acquisita che posso avere anch'io, avevano danaro e intelligenza in soprappiù, ma in qualche modo non sono mai riusciti a turbare il mio buonumore. Ma voi avete qualcosa che mi sarebbe piaciuto avere: non è il denaro, e non è nemmeno l'intelligenza — sebbene senza dubbio voi eccelliate per entrambi. Non sono i vostri sei piedi d'altezza, anche se avrei preferito essere un paio di pollici più alto. Θ quella indefinibile aria che avete di sentirvi profondamente a casa vostra nel mondo. Quando ero ragazzo, mio padre mi disse che era da un'aria come quella che la gente riconosceva un Bellegarde. Egli attirò su di essa la mia attenzione, ma non mi esortò a coltivarla: disse che essa veniva sempre da sola, man mano che si cresceva. Io supponevo mi fosse venuta, perché penso di aver avuto sempre la sensazione della sua presenza. Il mio posto nella vita era già preparato, e sembrava facile occuparlo. Ma voi che, da quanto ho capito, vi siete fatto una posizione da solo, voi che, come ci avete detto l'altro giorno, avete fabbricato vasche da bagno... voi mi date in certo qual modo l'impressione di un uomo che si trovi a proprio agio, che guardi le cose dall'alto in basso. Vi vedo andare in giro per il mondo come uno che viaggi su una ferrovia della quale possegga una gran parte del pacchetto azionario. Mi fate sentire come se mi mancasse qualcosa. Che cos'è?»

«Θ la coscienza orgogliosa dell'onesta fatica... dell'aver fabbricato vasche da bagno», disse Newman, giocoso e serio ad un tempo.

«Oh, no; ho visto gente che aveva fatto anche di più, gente che aveva fabbricato non solo vasche da bagno, ma sapone — sapone giallo, dal profumo penetrante, in grandi blocchi — e non mi ha fatto sentire neanche un po' a disagio».

«Allora è il privilegio di essere un cittadino americano, — disse Newman. — Questo dà il tono a una persona».

«Θ possibile, — replicò Monsieur de Bellegarde. — Ma sono costretto a dire che ho visto molti cittadini americani che non sembravano affatto aver un tono né erano simili a grandi azionisti. Non li ho mai invidiati. Credo piuttosto che si tratti di un merito tutto vostro».

«Oh, via, — disse Newman; — mi farete insuperbire!»

«No, ciò non accadrà. Non avete nulla a che fare con la superbia, voi, né con l'umiltà: ciò fa parte di questo vostro spontaneo modo di comportarvi. La gente è superba soltanto quando ha qualcosa da perdere, ed umile quando ha qualcosa da guadagnare».

«Io non so che cosa ho da perdere, — disse Newman, — ma certamente ho qualcosa da guadagnare».

«Che cos'è?» domandò il suo visitatore.

Newman ebbe un attimo di esitazione. «Ve lo dirò quando ci conosceremo meglio».

«Spero che ciò avvenga presto. Allora, se potrò aiutarvi ad ottenerla, ne sarò felicissimo».

«Forse potrete aiutarmi», disse Newman.

«Non dimenticate, allora, che sono interamente servo vostro», rispose Monsieur de Bellegarde; e poco dopo prese congedo.

| << |  <  |