Copertina
Autore Dušan Jelinčič
Titolo Assassinio sul K2
EdizioneVivalda, Torino, 2012 [2008], I Licheni 106 , pag. 156, cop.fle., dim. 12,5x20x1,1 cm , Isbn 978-88-7480-175-6
OriginaleUmor pod K2 [2008]
PrefazionePaolo Rumiz
TraduttorePaolo Privitera
LettoreGiorgio Crepe, 2013
Classe montagna , gialli , narrativa italiana , narrativa slovena
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


LA MONTAGNA NON RENDE PURI GLI UOMINI                5
di Paolo Rumiz


NELLA MALEDIZIONE DEL MALE                           9

PARTE PRIMA                                         25

PARTE SECONDA                                       54

PARTE TERZA                                         93

FUGA DALLA MALEDIZIONE DEL MALE                    143


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

LA MONTAGNA NON RENDE PURI GLI UOMINI
DI PAOLO RUMIZ



Era ora che qualcuno lo dicesse. La montagna non rende puri gli uomini che la scalano. Tutto, negli ultimi tempi, contribuisce a dimostrarlo, specialmente quel carrozzone assistito che è diventato l'alpinismo himalaiano. Spedizioni raccomandate e imbottite di denaro, invidie feroci e gravissime responsabilità negate, assalto commerciale alle vette con conseguente aumento dei morti, atteggiamento coloniale e irriconoscente nei confronti della manovalanza indigena, imposizione di salvataggi mai richiesti.

La corsa alla "visibilità" ha fatto superare nuovi limiti al cinismo: si sono visti ministri in debito d'ossigeno portati di peso con l'elicottero a cinquemila metri per un'intervista a spese del contribuente, ma soprattutto s'è visto l'uso commerciale della morte – quella di Karl Unterkircher nel 2008 sul Nanga Parbat fa scandalosamente testo – capace di spalancare nuovi orizzonti di potere a beneficio di chi tiene i cordoni della borsa in materia di spedizioni extraeuropee. Tutti lo sanno, tutti hanno mangiato la foglia, ma poiché siamo un Paese di sudditi e non di cittadini, solo in pochi hanno alzato la voce.

Scusate, ma dovevo togliermi questo sassolino – anzi, questo macigno – dalla scarpa. Nonostante debba al libro Alpinismo eroico di Emilio Comici la formazione del mio immaginario alpinistico nell'età dell'adolescenza, all'ingresso nell'età matura mi è apparso già chiaro che l'idea di eroismo abbinata all'Alpe fosse una gigantesca fesseria, e anche una cosa un tantino fascista. In montagna non ci vanno uomini veri e speciali, ma uomini normali. Ultimamente hanno cominciato ad assediarla — più che a salirla — i briganti e i rapinatori.

Benvenuto dunque questo libro del triestino Dušan Jelinčič — italiano di lingua slovena scalatore di due Ottomila - tanto più perché scritto in anni in cui queste aberrazioni non erano ancora diventate normalità. Benvenuto perché rompe un tabù e avvicina il male alla montagna. Č tutta fiction naturalmente, un thriller appassionante senza una pagina, un minuto, un secondo di respiro. Ma non importa: ciò che accade nel libro è perfettamente plausibile, e questo basta e avanza.

C'è un delitto sull'Eiger, la parete assassina dell'Oberland Bernese, essa stessa marmorea rappresentazione della Medusa, torva rappresentazione del Male assoluto; e per una serie di rocambolesche coincidenze, la resa dei conti per quanto è avvenuto lassù si scatena a migliaia di chilometri, sul Karakorum, in terra pachistana, alle pendici della grande montagna per eccellenza, il K2, il più difficile degli Ottomila e anche quello che — prima con il caso Bonatti e poi la salita per il cinquantennale della prima italiana — ha lasciato attorno a sé più veleni.

Il seguito ha uno svolgimento che più classico non si può. Una catena di delitti e tradimenti come nella storia di Macbeth, un complicarsi della vicenda con storie di ambizioni politiche, eroina e tortuosi sentieri di vendetta, infine la catarsi e la soluzione finale, sempre nel segno della sorpresa. Una conclusione rasserenante, con un nuovo ordine cosmico che si ristabilisce ma a prezzo di tanto sangue versato, un po' come avviene nelle tragedie della Grecia antica.

La cosa più bella del libro è forse questa: che la montagna non viene sporcata dal male degli uomini, ma anzi, per contrasto sembra scintillare ancora di più. L'ultima notte insieme dei due protagonisti-antagonisti della storia è magistrale da questo punto di vista. Senti il vento, la neve soffocante, il freddo, poi il cielo che si riapre, offre ai due un'irripetibile, miracolosa parentesi di sereno per la discesa, dopo la conquista della cima in condizioni proibitive.

Soprattutto l'acustica del racconto è narrata da uno che se ne intende e ha davvero vissuto l'esperienza dell'alta quota. Il battere del cucchiaio sul pentolino del tè, il tuono secco della valanga che si stacca dai seracchi, l'urlo insopportabile del silenzio dopo la tempesta, il flagellare del vento, il martellare del cuore nelle vene del collo, il raschiare della piccozza, infine la quiete e il mormorio della preghiera.

Era ora che questo libro uscisse, ma anche per un secondo motivo. Jelincic non scrive in italiano perché appartiene alla comunità slovena, e in posti come Trieste, segnati da decenni dai nazionalismi di frontiera, capita di dover attendere a lungo la traduzione di libri come il suo. Č capitato a Boris Pahor, una penna da Premio Nobel tradotta solo qualche anno fa, e tanto più accade al nostro Dušan. Lo conosco da anni questo maturo "ragazzo" dalla mitezza e modestia senza pari, ma non avevo mai potuto leggerlo perché le sue opere erano stampate solo all'estero, in Slovenia e Germania, in lingue per me ostiche.

Ora ho potuto finalmente farlo e il conto si chiude. Ricordo che quando il nostro scalò — primo dei suoi concittadini — il suo bell'Ottomila, le autorità della città italianissima non vollero riconoscere l'ascensione come "triestina". Gli stessi club alpini locali, schierati a difesa dell'italianità delle cime che Livio Sirovich ha definito in un libro sul tema "irredente", masticarono amaro e di tutto fecero pur di non ammettere l'impresa del loro compagno d'avventura che aveva il torlo di parlare un'altra lingua.

Dunque bene, benissimo. Č giusto che Trieste, questa mia città di viaggiatori e frequentatori di taverne, terra di vento e di mare con le montagne alle spalle, annoveri tra i suoi scrittori anche questo figlio di un mondo fino a ieri considerato straniero.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

NELLA MALEDIZIONE DEL MALE



Nelle prime ore del mattino la giovane cordata inglese attaccò la possente parete nord dell'Eiger, nelle Alpi Bernesi. Le stelle nel cielo impallidivano, ma l'alba era ancora lontana. Walt, Richard e Bruce avanzavano veloci. A metà mattinata lasciarono dietro di sé la Fessura Difficile e la Parete Rossa, e si avvicinarono alla temibile Traversata Hinterstoisser. Erano soddisfatti e rilassati.

Quando si fermarono un attimo per riposarsi e guardarono giù per la parete, improvvisamente strabuzzarono gli occhi. Subito dietro di loro stava avanzando un'altra cordata, veloce e regolare. Mentre stavano attaccando il Primo pilastro avevano visto degli alpinisti che si avvicinavano alla parete, ma non avevano certo pensato che sarebbero stati raggiunti già lo stesso giorno. Walt, Richard e Bruce formavano infatti una cordata giovane e tecnicamente molto ben preparata, balzata in poco tempo ai vertici dell'alpinismo britannico. I tre amici si guardarono straniti, pensando per un attimo addirittura di aspettare gli sconosciuti, tanta era la curiosità. Tuttavia scartarono subito l'idea e continuarono la scalata: si trovavano pur sempre sulla terribile parete nord, sulla quale fino ad allora avevano trionfato soltanto i più arditi, e dove ogni minuto era prezioso. Lì la sorte degli alpinisti è spesso decisa dal maltempo e dalle tempeste repentine.

Per un po' i tre giovani inglesi si dedicarono completamente alla loro faticosa scalata e non pensarono più a quelli che stavano arrampicando sotto di loro. Avevano già lasciato dietro di sé il Primo, e poi, prima di sera, anche il Secondo Nevaio, e si stavano avvicinando al luogo stabilito per il bivacco. Nelle loro orecchie rimbombavano lì sotto i noti rumori delle piccozze, dei ramponi e dei colpi del martello da ghiaccio, ma non volevano darvi troppa importanza. Da quando avevano notato quegli inaspettati scalatori sulla parete, la distanza tra le due cordate era rimasta immutata, e questo li aveva tranquillizzati. La loro principale preoccupazione erano le condizioni del tempo, che fino a quel momento aveva fortunatamente tenuto.

Era già sceso il crepuscolo quando con grande sforzo riuscirono infine a raggiungere la stretta cengia, chiamata Bivacco della Morte, dove si prepararono a passare la notte. Non avevano ancora fatto in tempo a sistemarsi comodamente, quando sentirono immediatamente sotto di loro un tintinnio di chiodi e moschettoni legati in cintura, e subito dopo apparvero due giovani alpinisti che rivolsero ai tre un largo sorriso. Sbalorditi, si trovarono davanti due vigorosi ragazzi dalla pelle bruna, chiaramente di origine asiatica.

Nel notare la loro sorpresa, il più intraprendente dei due rise apertamente e poi disse: «Io sono Rajiv, e lui è Aftab. Siamo pakistani e vogliamo ripetere la via classica dell'Eiger. E voi?».

Gli inglesi non riuscivano a biascicare parola, e continuavano a fissare i nuovi arrivati. Infine Bruce per primo superò l'impaccio e rispose: «Io sono Bruce, e loro sono Walt e Richard...».

«Di dove siete?», continuò Rajiv che non aveva perso la sua espressione sorridente.

«Siamo inglesi, e arrampichiamo in Svizzera già da alcune settimane; abbiamo lasciato l'Eiger per il gran finale. Speriamo che il tempo non ci tradisca», rispose Bruce, che era l'unico dei tre a non mostrare evidente irritazione per quei due stranieri venuti a turbare la loro quiete.

Rajiv osservò le nebbioline che stavano salendo attorno a loro e fece un cenno con la mano: «Č sufficiente che tenga ancora per un giorno...».

«Contate anche voi di concludere domani la scalata?», furono le prime parole che disse Walt con occhi torvi.

Rajiv lo guardò con fare interrogativo, poi rispose: «Penso che fino a ora siamo stati abbastanza veloci...».

Con una smorfia sulle labbra, Walt tacque mostrando insofferenza. Rajiv, facendo finta di non vedere quell'espressione, disse agli inglesi: «Bene, ci sistemeremo qui anche noi. Ci lascerete un po' di spazio, vero?».

Brontolando qualcosa, gli inglesi si spostarono malvolentieri sulla destra della cengia, mentre i pakistani si mettevano sulla sinistra.

La notte trascorse tranquilla, anche se, su quella stretta piazzola, gli alpinisti non riuscirono a dormire. Coperti dal telo della tenda, erano scomodamente appoggiati alla parete, assicurati con corde e chiodi, e con l'acqua che scorreva su di loro. Verso il mattino, quando già cominciavano a prepararsi, nubi sospette si radunarono attorno alla cengia, dopo di che si fece sentire un soffio gelido, e calò la nebbia.

Gli inglesi si guardavano preoccupati, poi fu Bruce a rompere il silenzio: «Sull'Eiger è sempre così, ma per il momento non vuol dire niente. Avremo bel tempo anche oggi». Era però evidente che lo diceva più per convincere se stesso e gli altri. I due pakistani invece rimanevano silenziosi.

Quando gli inglesi iniziarono la traversata verso il Terzo nevaio, il vento cominciò a soffiare con più vigore, quindi lentamente cominciò a nevicare. Con grande difficoltà salirono fino alla cengia friabile sotto la Traversata degli Dei; i due pakistani li seguivano da vicino.

Verso metà mattina il tempo si rimise al bello, tanto che attraverso la nebbia riuscivano a vedere la valle immersa nel sole. Ora Walt, Richard e Bruce avanzavano più velocemente, come presi da una nuova ondata di energia e di ottimismo. Anche Rajiv e Aftab si guardavano intorno soddisfatti, arrampicando con estrema concentrazione. Gli inglesi si fermarono un attimo a riposare, e i pakistani li sorpassarono.

Allora Richard li osservò con ostilità, quindi sibilò: «Ma che razza di attrezzatura avete?», cui seguì una risata beffarda.

Rajiv si voltò di scatto, puntandogli addosso i suoi occhi fiammeggianti: «Non conta tanto l'attrezzatura, quanto quello che hai dentro», e riprese la sua arrampicata.

Fu Walt ora a farsi sentire, in tono denigratorio: «Oh, che retorica! Ma dove l'hai imparata? Nelle baracche?».

Bruce afferrò con forza il compagno per un braccio, intimandogli: «Ora basta! Siamo in montagna! Non squalificare te stesso e la tua cultura!».

Walt tacque, fissando provocatoriamente Bruce, mentre Richard aggiungeva sarcasticamente: «Ah, sì! La nostra cultura...».

Un cupo rimbombo interruppe il battibecco. Un attimo dopo venivano investiti da una slavina di neve e sassi. Gli alpinisti si strinsero alla parete, mentre Bruce gridò: «Via, via di qui!».

Quando la valanga fu passata, tirarono un sospiro di sollievo. Infine Rajiv disse: «Non abbiamo dove ripararci dalle valanghe, e più in alto sarà ancora peggio. Dobbiamo concludere la scalata prima possibile e sperare che il tempo tenga. Č l'unica possibilità...».

Nessuno lo contraddisse. I due pakistani ripresero con impeto l'arrampicata e con una certa difficoltà raggiunsero un terrazzino, dove si fermarono. Allora gli inglesi passarono in testa, ma avanzavano così lenti che Rajiv, dopo averli nuovamente raggiunti, pregò Bruce di lasciarli passare. Lui acconsentì subito, mentre Walt e Richard rimasero in silenzio aggrottando le sopracciglia. Quando infine raggiunsero la Traversata degli Dei, dove il terreno è più facile, su di loro si abbatté la grandine. I chicchi picchiavano selvaggiamente, poi dalla parete cominciarono a rovesciarsi vere e proprie slavine.

L'Eiger era completamente avvolto dalla nebbia. Ciò nonostante procedevano rapidamente per la traversata, e poco dopo apparve davanti a loro il punto chiave di tutta la parete, il famigerato Ragno: un nevaio ripido ed esposto che, se lo guardi da lontano, sembra abbia delle zampe lunghe e sottili, come quelle di un ragno.

Gli alpinisti ristettero un attimo, quindi i pakistani andarono avanti in silenzio, arrampicando lentamente lungo il rigonfiamento che attraversa tutto il nevaio. Ben presto, però, furono costretti ad abbandonarlo, perché procedeva troppo in orizzontale, mentre dovevano salire in verticale fino alle Fessure Terminali. Gli inglesi furono subito alle loro spalle.

All'improvviso si sentì un forte tuono sopra di loro. Si guardarono esterrefatti, quindi si trovarono avvolti in un'impenetrabile nube di pulviscolo nevoso, nella quale volavano pezzi di ghiaccio e pietre.

«La valanga! La valanga!», gridò Aftab, che era primo in cordata, tenendosi stretto alla parete. La seconda cordata era subito dietro di loro. La guidava Bruce, che rimaneva fermo e impotente sotto Rajiv, mentre Walt e Richard erano nelle vicinanze, ancora più in basso.

Mentre le pietre sibilavano minacciose, a un tratto Aftab mandò un gridò lacerante e cominciò a scivolare lungo il nevaio. Rajiv afferrò la corda con tutte le sue forze, e dopo alcuni metri Aftab si fermò. Il chiodo miracolosamente reggeva, ma la posizione era estremamente critica. Il chiodo poteva cedere da un momento all'altro per la terribile pressione, e la valanga non era ancora passata. Rajiv si appiattì sul ghiaccio, tenendosi aggrappato alla parete con forza sovrumana. Infine l'inferno attorno a loro si placò, lasciando il posto a un funesto silenzio.

Si sentì la voce angosciata di Rajiv: «Aftab, sei tutto intero?».

Un attimo di silenzio, quindi la risposta dal profondo: «Tutto a posto, ma non potrò reggere a lungo in questa posizione...».

Rajiv si accorse che la mano con la quale aveva automaticamente afferrato la corda era tutta insanguinata. Continuava a stringerla, mentre con l'altra mano si teneva al pendio con la piccozza. La corda era però così tesa che gli sembrava che la testa dovesse scoppiargli per lo sforzo nel reggerla, ma sapeva che doveva resistere, altrimenti sarebbe stata la fine per entrambi.

Gli inglesi, che non erano stati colpiti dalla valanga, osservavano impotenti la lotta per la sopravvivenza dei due pakistani. Infine Aftab riuscì a fissarsi alla parete con la piccozza e i ramponi, mentre Rajiv, con la mano che si era liberata da una pressione terribile, con la piccozza scavava prudentemente un gradino nel ghiaccio per assicurarsi in caso di emergenza. Con incredibile sforzo, centimetro dopo centimetro, Aftab raggiunse un terreno meno inclinato. Allora finalmente la tensione della corda cessò. Quindi Rajiv creò un piccolo ripiano e piantò un secondo chiodo. Aftab si stava già avvicinando al compagno, e subito dopo lo raggiunse. Allora entrambi si sentirono finalmente sollevati.

«Come va lì da voi? Tutto a posto?», chiese infine Rajiv agli inglesi che, fermi sotto di loro, osservavano tesi quel gioco mortale. Ricevuta una risposta affermativa, continuò: «Stavolta ci è andata bene, ma possiamo aspettarci altre trappole simili a questa: siamo appena all'inizio del Ragno, e il tempo probabilmente continuerà a essere brutto!».

In risposta ebbe soltanto qualche borbottio. La grandine era cessata, ma il pericolo di valanghe persisteva. Quando la nebbia si diradò per un attimo, si resero conto di trovarsi proprio in mezzo al nevaio, sulla linea di caduta delle valanghe.

«Presto, presto, via di qui!», gridò Rajiv, e gli altri assentirono, muovendosi come automi verso l'alto. Il tempo passava vertiginosamente e Bruce notò con stupore che erano già le tre del pomeriggio. Intorno si addensavano nubi nefaste, mentre loro strisciavano faticosamente su per il biancore del Ragno, che già aveva inghiottito tanti alpinisti. Avevano lasciato la guida a Rajiv, che appariva il più sicuro di tutti, e l'unico a credere veramente in ciò che stavano facendo. Gli altri cominciavano a cedere all'apatia.

Il vento riprese a soffiare selvaggiamente e le masse di ghiaccio sovrastanti minacciavano continuamente di scivolare a valle. Infine nell'aria cominciarono a volteggiare i fiocchi di neve. Tutti avevano le gambe pesanti e avanzavano sempre più lentamente. Il bivacco in parete aveva lasciato il segno. Erano stanchi morti e cominciava ad apparire chiaro che era meglio pensare soltanto a sopravvivere.

Le ore passavano veloci, e al tempo stesso lente, mentre le due cordate si avvicinavano alle Fessure Terminali nella tormenta sempre più fitta. Le valanghe li risparmiavano, ma le sentivano rimbombare sopra di loro.

Poco prima del crepuscolo furono completamente fuori dal nevaio esposto del Ragno, e poterono tirare un sospiro di sollievo. Il nevaio aveva avuto pietà di loro, ma sapevano bene che li attendeva ancora il tratto sommitale della parete, anch'esso estremamente impegnativo. E sapevano anche che da lì in poi la ritirata per la parete era preclusa, e che nessuno avrebbe potuto aiutarli in caso di incidente o di sfinimento.

Abbandonato il Ragno, gli alpinisti erano ormai stanchissimi. Allora Rajiv tentò di affrontare con decisione un paio di volte la parete sovrastante, ma dopo alcuni metri dovette ogni volta desistere. Gli altri osservavano abbattuti, quindi decisero di bivaccare. Lo spazio era ristretto e la cengia pendeva verso il precipizio.

In silenzio si prepararono per un'altra dura notte: si assicurarono con i chiodi e si ricoprirono con il telo da tenda. I piedi penzolavano nel vuoto, e su di loro scendeva una neve polverosa. Giacevano in silenzio, ma nessuno poteva dormire. In lontananza si accesero le luci di Kleine Scheidegg e di Alpinglen e loro le guardavano con avidità: chissà se le vedremo mai più, si chiedevano. Tuttavia durante la notte il tempo si rimise al bello, e in cielo tornarono persino a splendere le stelle.

L'alba era ancora lontana quando delle slavine rombarono accanto a loro. Bruce fu il primo a prepararsi per la partenza; un attimo dopo anche Rajiv cominciò ad armeggiare con l'attrezzatura. Un po' alla volta cominciarono a muoversi anche gli altri. Le stelle e quei pochi minuti di sonno spezzettato avevano sconfitto il pessimismo. «E se oggi ci riuscisse di portare a termine la scalata, realizzando così i nostri sogni?», si chiedevano tutti, in silenzio.

Quando Rajiv fu pronto, chiese ad Aftab di assicurarlo. Il pakistano si accanì contro la roccia gelata, cosparsa di neve, e la vinse al primo assalto. Questo gli diede coraggio e la forza necessaria per affrontare il successivo tiro di corda. Walt e gli altri, senza dir niente, avevano lasciato che fosse lui a guidare la scalata: era il più preparato, e questo era chiaro a tutti.

Mentre le stelle stavano impallidendo e a oriente appariva l'alba, superarono alcuni tiri chiave prima delle Fessure Terminali sotto il Nevaio sommitale. Come per incanto il tempo stava tenendo, anche se potevano soltanto intuire il blu del cielo oltre il velo che avvolgeva la parete nord dell'Eiger.

Dopo sforzi terribili, nelle prime ore del pomeriggio, quando avevano già perso la nozione del tempo, raggiunsero infine il Nevaio Sommitale. Non ebbero modo di rallegrarsene: quel ripido pendio di cui non vedevano la fine era tutt'altro che rassicurante. Li avvolse una stanchezza infinita: la tentazione di sedersi nella neve e addormentarsi era grande.

Bruce si ribellò all'apatia, che già cominciava a stendere le sue grinfie devastanti: «Forza ragazzi! Oggi è l'ultimo giorno. O arriviamo in cima, o moriamo qui. Perciò andiamo avanti, sia quel che sia!».

Gli altri lo ascoltavano in silenzio, preparandosi inquieti a proseguire la salita. Fu allora che si scatenò la tempesta.

Piantarono le piccozze nella neve, si accovacciarono e rimasero ad aspettare. Dopo alcuni minuti di terrore, al limite della sopravvivenza, con la bufera che minacciava continuamente di spazzarli via dalla parete, la furia si placò e Rajiv riprese la guida del gruppo, legato ad Aftab. La seconda cordata avanzava dietro di loro. Dove la parete era troppo ripida, Rajiv scavava dei gradini con la piccozza, notando con angoscia che, se fosse scivolato, avrebbe trascinato con sé anche il compagno di cordata. L'assicurazione era più che altro simbolica, dato che avanzava contemporaneamente al compagno, e quindi l'uno non faceva sicura all'altro. Lo stesso faceva la cordata inglese, che arrampicava irregolarmente, a ondate, quasi fossero gli stessi alpinisti a ondeggiare nella lotta contro gli elementi naturali.

E fu allora che accadde. Bruce, che stava guidando la sua cordata, all'improvviso scivolò trascinandosi dietro Walt e Richard. Tentò invano di conficcare la piccozza nel ghiaccio, decisamente troppo duro. I tre cominciarono a scivolare, nonostante i colpi di piccozza e il vertiginoso agitare di gambe con cui tentavano di frenare la caduta. Ma la velocità continuava ad aumentare e il precipizio si avvicinava inesorabilmente. Quando già pensavano che per loro fosse finita, la corda si impigliò in uno spuntone di roccia proprio vicino a Walt, e dopo attimi infiniti i loro corpi si fermarono.

Tuttavia la situazione era quanto mai critica. Walt stringeva spasmodicamente la roccia miracolosa, lacerandosi la pelle, mentre il corpo di Bruce continuava a tirare gli altri due verso il basso. Richard era pochi metri più in alto e non riusciva a muoversi, mentre Walt continuava ad aggrapparsi allo spigolo con la forza della disperazione e dell'istinto di sopravvivenza. Le forze però cominciavano pian piano ad abbandonarlo, e non sapeva quanto a lungo sarebbe ancora riuscito a reggere.

Dall'alto si sentirono delle voci concitate. Nonostante il pericolo estremo, i due pakistani scendevano di corsa il nevaio gridando: «Resistete ancora un secondo. Siamo subito da voi! Resistete! Resistete!».

Le voci si perdevano nella nebbia, quando Richard gridò a Walt: «Non ce la faccio più! Taglia la corda o moriremo tutti!».

Walt, che stava combattendo spasmodicamente per sopravvivere, con le mani già piagate dalla roccia, sembrava non avesse sentito. Continuava soltanto a gridare rabbiosamente: «Richard, aiutami! Sto per cadere!».

«Taglia la corda! Tagliala!», gridò ancora Richard come un invasato. «Sennò moriremo tutti! Moriremo tutti!». Queste parole continuavano a riecheggiare nel turbinio di neve che tornava a scatenarsi dalla vetta dell'Eiger.

Infine Walt comprese, e con le sue ultime forze afferrò la piccozza. Bastarono alcuno colpi, e la corda cominciò a sfrangiarsi.

Con orrore Rajiv capì quello che stava succedendo e gridò spaventato: «No, Walt, no! Arriviamo subito e ti facciamo sicura! Resisti ancora per qualche attimo!».

Ma Walt non lo sentiva, e continuava a colpire selvaggiamente la corda, mentre Richard gli gridava: «Sì, così! Svelto, svelto!».

Anche Bruce infine comprese quello che stavano facendo i suoi compagni, e gridava con disperazione, al tempo stesso implorandoli: «No, no, no!». Ma la sua voce si perdeva nell'immenso biancore della maledizione dell'Eiger.

Con l'ultima stilla di energia Walt colpì per l'ennesima volta la corda, che infine cedette. Con un grido acuto che rimbombò a lungo nelle profondità della parete nord, Bruce precipitò lungo il pendio, rimbalzò sulle prime rocce, e scomparve nella nebbia.

Quando Rajiv e Aftab lo raggiunsero, Walt stava ancora ansimando. Al loro sguardo angosciato rispose evasivo, con occhi spenti, dai quali sprizzavano grigie scintille: «Non potevo fare altrimenti. Sennò avrebbe trascinato giù anche me e Richard...».

Giunse ansante anche Richard, che gli fece eco confermando: «Non poteva fare altro. Ormai si teneva alla pietra con la forza della disperazione e avrebbe mollato da un momento all'altro!».

I due pakistani rimasero in silenzio per alcuni istanti, lunghi come l'eternità, quindi Rajiv puntualizzò severo: «Eravamo quasi da te! Avremmo piantato un chiodo per assicurare la corda. Avremmo potuto salvarlo...». La sentenza echeggiò a lungo nell'immensità dell'Eiger.

La tragedia li aveva caricati di adrenalina, cosicché in poche ore, arrampicando con la massima concentrazione nonostante la tormenta, raggiunsero il Nevaio Sommitale. Quando cominciò a fare buio erano in vetta, da dove decisero immediatamente di scendere. Nell'incerto chiarore del crepuscolo, videro a valle delle piccole luci che si avvicinavano. Capirono subito che arrivavano i soccorsi: da tre giorni li osservavano con il cannocchiale, e avevano visto come erano stati spazzati dalle tormente, dal vento e dalla neve. Quindi decisero di andar loro incontro. Alla fine sembrava che ne mancasse uno...

Poco dopo mani misericordiose li portarono al sicuro, e soltanto allora furono convinti di essere in salvo. Li accompagnarono a Kleine Scheidegg, dove Rajiv e Walt, che erano feriti alle mani, furono medicati, e per tutti fu preparata un'abbondante cena. Erano esauriti fino allo sfinimento, pieni di ammaccature, ma nel complesso in buone condizioni. Soltanto uno era rimasto in parete, come raccontarono quasi in lacrime Walt e Richard.

A tarda sera Rajiv e Aftab tornarono alla loro tendina sotto la parete, e il giorno dopo partirono per Grindelwald, mentre i due inglesi vennero accompagnati all'ospedale per un controllo più accurato.

Al mattino, mentre toglievano la tenda, Rajiv e Aftab videro i soccorritori che si dirigevano verso la parete per recuperare il corpo di Bruce. Rajiv chiese a Aftab: «Pensi che dovremmo raccontare la verità?».

«Non è necessario, tanto i soccorritori vedranno che la corda è stata tagliata e capiranno quello che è successo. Noi abbiamo la coscienza a posto e la cosa migliore che possiamo fare è scomparire da qui e dimenticare al più presto questa brutta storia», rispose Aftab.

Era tuttavia inquieto, e non credeva fino in fondo alle proprie parole. E se gli inglesi avessero tentato in qualche maniera di nascondere le proprie colpe?

Quando il sole tornò a splendere, ritornò anche l'ottimismo, e quei tragici fatti nella parete più infida del mondo furono messi da parte. Finalmente si resero conto di essere tra i pochi che l'avevano scalata ed erano sopravvissuti.

Arrivati a Grindelwald, respirarono a pieni polmoni l'orgoglio per l'impresa compiuta. Avevano vinto l'Eiger... A cuor leggero passeggiarono per le vie piene di sole, e anche se in un primo tempo avevano programmato di tornare ognuno alle proprie faccende, decisero invece di affrontare qualche altra salita impegnativa. La stanchezza era scomparsa, e la ferita alla mano non dava a Rajiv più alcun fastidio. Decisero di passare quella giornata girovagando spensieratamente ai piedi delle Alpi Bernesi, e di raggiungere il giorno seguente Zermatt per affrontare la parete nord del Cervino. Erano entusiasti di questo nuovo progetto, e il giorno dopo, di buon mattino, stavano già seduti nell'autobus che li portava verso sud.

Verso mezzogiorno erano a Zermatt, con gli occhi puntati sulla loro nuova meta. Erano sereni, ma quella serenità non era destinata a durare a lungo. Rajiv andò a comprare un giornale, e tornò indietro pallido come la morte. Non disse una parola, soltanto con il dito indicò un articolo in prima pagina. Su una grande fotografia della parete dell'Eiger stava una piccola immagine del defunto Bruce e, sopra, un titolo a caratteri cubitali: ASSASSINIO SULL'EIGER.

Leggendo l'articolo, Rajiv e Aftab non credevano ai loro occhi. All'ospedale di Berna, Walt e Richard avevano infatti accusato «due pakistani» che occasionalmente stavano salendo accanto a loro, di aver intenzionalmente provocato la morte del loro compagno di cordata Bruce, per poter così salire più rapidamente e sfuggire alla tempesta che li aveva sorpresi. I due alpinisti inglesi avevano descritto con cura l'accaduto. Dicevano che le loro corde si erano impigliate, mentre Bruce aveva perso l'appiglio in parete rimanendo appeso alla corda. Quando si stavano preparando a un difficile soccorso, erano arrivati i due pakistani, gridando affannosamente: «Non c'è tempo; rischiamo di morire tutti!», e uno dei due aveva improvvisamente impugnato la piccozza iniziando a tagliare la corda alla quale era appeso il povero Bruce. «Non siamo riusciti a fare nulla. Con la morte nel cuore abbiamo dovuto portare a termine la scalata insieme ai due assassini, altrimenti avrebbe potuto accaderci qualcosa di molto spiacevole. Per fortuna sono giunti i soccorritori». Così l'articolo riportava il racconto dei due inglesi.

I due amici si guardarono e capirono di essere in pericolo. Abbandonarono subito la piazza principale di Zermatt e andarono a nascondersi in un prato, per portare a termine la lettura dell'articolo: il giorno stesso i soccorritori avevano trovato il corpo di Bruce, e avevano verificato che la corda era stata effettivamente tagliata. Ciò avvalorava la tragica verità riferita dai due sconvolti giovani alpinisti inglesi.

Rajiv e Aftab rimasero a lungo in silenzio, poi analizzarono la loro situazione.

«Dobbiamo scomparire da qui», affermò infine Rajiv.

Aftab gli rivolse uno sguardo interrogativo, quindi l'amico continuò: «A chi pensi che crederanno, a due brillanti studenti inglesi, come sono presentati nell'articolo, o a due sospetti vagabondi pakistani? Dobbiamo sparire subito», ripeté deciso Rajiv.

«E dove andiamo?», chiese Aftab con voce tremante.

«Io ritorno in Belgio...», disse Rajiv. «E tu che farai?».

Aftab si sentì perduto. Mentre Rajiv era stato mandato a studiare in Europa, lui era soltanto un lavoratore stagionale: molti anni prima, ancora adolescente, era arrivato in Germania a cercare lavoro. Si era stabilito a Monaco, dove era costretto ai lavori più umili e svariati. Si erano incontrati per caso in un negozio di articoli sportivi della capitale bavarese. Erano accomunati dalla grande passione per l'arrampicata. Durante le vacanze estive, Rajiv aveva intenzione di arrampicare nelle Alpi Centrali e di trovare sul posto dei compagni di scalata. A Monaco stava cercando di procurarsi l'attrezzatura adatta, mentre Aftab era lì soltanto per curiosare perché i prezzi non erano alla sua portata. Rajiv aveva subito capito che Aftab era un suo compatriota e, compresa la situazione, gli aveva proposto di usare la sua vecchia attrezzatura, mentre lui ne avrebbe comprata della nuova. Si erano accordati quindi per una serie di arrampicate estive in Svizzera. La fabbrica presso la quale Aftab lavorava temporaneamente era chiusa in quel periodo, perciò la proposta capitava a proposito. Avevano arrampicato per alcuni giorni sui massi e sulle piccole pareti vicino a Monaco, sorprendendosi l'un l'altro di come fossero tenaci e preparati. Una sera, davanti a un boccale di birra, Rajiv si era improvvisamente rivolto al nuovo amico, che gli sembrava di conoscere da una vita, lo aveva guardato con espressione intensa e gli aveva detto: «E se andassimo sull'Eiger?». Aftab era rimasto sbigottito, e con voce stupita gli aveva risposto: «L'Eiger?». «Sì, proprio l'Eiger. Saremmo i primi pakistani, e probabilmente i primi asiatici, beh, a parte i giapponesi e forse i coreani, a salire quella terribile parete...». Ad Aftab si era allargato il cuore: «Bene. Andiamo sull'Eiger!». Due giorni dopo erano a Berna, poi ancora un giorno e la loro tendina era già sotto la possente parete.

«E tu che farai?». Nel vedere l'amico ancora trasognato, Rajiv ripeté la domanda.

«Tornare a Monaco sarebbe troppo lungo, dovrei attraversare tutta la Svizzera, e potrebbe essere pericoloso. Andrò in Francia, che è più vicina, e lì vedrò di arrangiarmi in qualche maniera. Come sempre... Dovremo in ogni caso attraversare illegalmente il confine, altrimenti verremmo arrestati».

«Bene, è l'unica cosa sensata da fare. Andremo insieme in Francia, e lì ci separeremo».

Il giorno dopo furono fortunati. Per quanto i loro volti asiatici fossero alquanto insoliti da quelle parti, riuscirono a mescolarsi ai tanti turisti, che nel periodo estivo arrivano in Svizzera da tutte le parti del mondo. In autobus raggiunsero Ginevra, e quindi oltrepassarono la frontiera francese. A Parigi si lasciarono con le lacrime agli occhi.

«Non appena ti sarai sistemato, scrivimi a Bruxelles. La nostra amicizia non può finire qui. Arrampicheremo ancora insieme... Ti rendi conto di che impresa abbiamo compiuto?», disse Rajiv con un filo di voce, mentre la commozione gli chiudeva la gola.

Neanche Aftab riusciva a trattenere le lacrime. Con voce profondamente angosciata disse: «Ti scriverò di sicuro». Poi si voltò e scomparve nella folla della Gare de Lyon. Non si sarebbero mai più visti.

| << |  <  |