Copertina
Autore Robin Jenkins
Titolo Fergus Lamont
EdizioneInstar Libri, Torino, 2004, i Dirigibili 4 , pag. 458, cop.fle., dim. 143x210x30 mm , Isbn 978-88-461-0057-3
OriginaleFergus Lamont
EdizioneCanongate, Edinburgh, 1979
TraduttoreMarco Bosonetto
LettoreAngela Razzini, 2004
Classe narrativa inglese
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Mezza Scozia rise sotto i baffi e l'altra mezza scosse severamente il capo quando in una lettera allo Scotsman e al Glasgow Herald avanzai la proposta che ai detenuti delle carceri scozzesi fosse permesso, se lo desideravano, indossare il kilt, esercitando così un diritto acquisito per nascita. E ora mezza Scozia riderà ancora più sguaiatamente e l'altra mezza scuoterà il capo sempre più spazientita sentendomi confessare che all'età di sette anni e mezzo, quando misi il kilt per la prima volta, non provai affatto gioia e fierezza, bensì riluttanza e angoscia, e che per il resto della vita non mi è mai capitato di vestire il gonnellino senza sentire qualcosa di simile al dolore e alla vergogna che Giacomo IV, infelice parricida, doveva provare infilando la camicia di ferro penitenziale.

Scozzesi puritani e bigotti, avete ucciso la mia giovane e splendida madre. E io, essendo uno di voi, sono costretto a condividere la vostra colpa.

Il kilt si trovava in vendita nel negozio di vestiti usati di Lumhat Broon. Era appartenuto a un ragazzino il cui padre sedeva nel consiglio di amministrazione dei cantieri navali Stewart di Gantock, gli stessi dove il mio, di «padre» (l'onesto e generoso campione di lancio degli anelli John Lamont che compare sul mio certificato di nascita), lavorava come carpentiere, gli stessi che avevano visto mio nonno materno, Donald McGilvray, prestare servizio in qualità di capo dell'ufficio paghe. Il tartan era quello del clan McLeod.

Mia madre aveva adocchiato il gonnellino tradizionale in vetrina, vicino all'altrettanto tradizionale berretto, il tile hat, ma non era entrata nel negozio con l'intenzione di comprarlo, era entrata per evitare la signora Maitland e la signora Blanie, che stavano venendo verso di noi. Mentre chiedeva a Lumhat di mostrarci il kilt era così agitata che non osai contraddirla.

Una volta a casa, tenendo il gonnellino giallo e nero appoggiato contro il vestito lilla, mia madre, ventisei anni, guance pallide e capelli rossi, cominciò a insistere, con una premura che mi parve eccessiva e ingiusta, perché lo indossassi subito.

- Mi daranno della femminuccia - ripetevo mestamente.

Gli unici ragazzini che mi era capitato di vedere in kilt erano i damerini delle ville del West End, lontani dai nostri caseggiati di Lomond Street quanto i bianchi dai neri in Sudafrica.

La mano delicata di mia madre stringeva così forte la spilla con il cammeo appuntata sul petto che le si sbiancarono le nocche.

Ora, a più di sessant'anni di distanza, la spilla giace sul tavolo davanti a me, ingiallita dal tempo. Penso all'acqua stagnante del Puddock Loch e rabbrividisco.

- Sembrerai un principe, Fergie - sussurrò lei. - Starai benissimo.

Meditai su ciò che sarebbe successo se l'avessi accontentata e gli occhi mi si spalancarono per l'ansia.

- Jock Dempster me lo tirerà su - gemetti.

D'un tratto mamma scoppiò nuovamente a piangere. Non c'era niente che potessi dire o fare per consolarla. Non la conoscevo bene. Era stata via per troppo tempo e, come tentavo di farle capire con molto tatto, era troppo bella, troppo profumata e troppo altezzosa per Lomond Street e per me.

Il suo arrivo era stato del tutto inaspettato. Ci volevano ben più di tre giorni per farle posto nella mia vita.

- Se quel Jock Dempster ci prova, tu gli dài un calcio negli stinchi, capito? Non hai mica i capelli rossi come mamma per niente.

Ero troppo imbarazzato per alzare lo sguardo sui suoi capelli e confrontarli con i miei, così preferii esaminarmi gli stivali. Erano chiodati, delle armi formidabili. E il coraggio per usarli non mi mancava. Ma non sarebbe servito a niente. Anche se avessi riempito di calci e fatto ululare di dolore chiunque si fosse azzardato a prendermi in giro, avrei soltanto suscitato altre risate. Fergie Lamont in kilt sarebbe stato ridicolo, ma Fergie Lamont in kilt e arrabbiato lo sarebbe stato ancora di più.

Il guaio era che, per quanto eccitante, il disprezzo di mia madre per l'opinione che gli altri avevano di lei era allarmante. Passeggiare con lei era allo stesso tempo un piacere e un supplizio.

Rob Roy, il nostro canarino, attaccò a cantare in cucina, ma smise subito.

Lo aveva comprato mamma anni addietro, e quando se n'era andata aveva sentito la sua mancanza. Almeno così diceva mio padre, ma quando ne avevo parlato alla signorina Montgomery, la mia solerte insegnante, il suo commento esterrefatto era stato: - Impossibile, Fergus. I canarini hanno nostalgia solo degli altri canarini, sempre che provino qualcosa di simile alla nostalgia.

Anche la signorina Montgomery disapprovava mia madre, e come tutti gli altri non diceva mai che cosa avesse fatto.

Le lacrime di mamma mi spaventavano. Mi era già successo di vedere piangere delle donne, ma per ragioni facilmente comprensibili: la morte di qualcuno, la mancanza di soldi per l'affitto, un marito violento. Le lacrime di mia madre avevano un'origine più terribile e desolante della morte, della povertà e della violenza.

- Che cosa hai fatto? - sussurrai per l'ennesima volta. - Perché te ne sei andata? Perché sono tutti arrabbiati?

Il suo profumo mi ricordava quello delle rose nel giardino del nonno. Le mamme degli altri bambini sapevano di argilla bianca, spazzolone, latte umano, candeggina e grafite. Mia madre si distingueva anche per il suo modo di parlare, più signorile pure di quello dei miei insegnanti. Mi sarebbe piaciuto avere il coraggio di vantarmi di lei con gli amici, ma non ci riuscivo: c'erano troppe cose da sistemare, prima, e non sapevo proprio chi avrebbe potuto sistemarle.

- Oh, una cosa terribile - mormorò rispondendo alla mia domanda.

Non capivo se stesse scherzando oppure no.

- Ma che cosa?

- Un giorno o l'altro qualcuno te lo dirà. Ma sai cosa vorrei che facessi adesso? Vorrei che ti infilassi questo splendido kilt e che venissi con me dal nonno.

Trasalii e rimasi a bocca aperta per esprimere la mia incredulità nel modo più teatrale possibile.

Una volta, seduto sulle ginocchia del nonno, avevo chiesto dov'era mamma e quando sarebbe tornata. Il nonno, un uomo alto e severo con la barba nera, aveva risposto con la solita voce tranquilla, quella che usava per leggere la Bibbia o per parlare delle sue rose: - È all'inferno, Fergus. E nessuno torna dall'inferno.

Mi ero trattenuto a fatica dallo scoppiare a ridere perché qualche giorno prima uno dei miei migliori amici, Smout McTavish, aveva gridato alla signorina Cochrane di andare all'inferno. Lei lo aveva punito con due cinghiate perché aveva sbagliato le addizioni, e Smout ne aveva avuto abbastanza. Allora la signorina Cochrane lo aveva trascinato dal direttore, che gli aveva mollato altre due cinghiate per turpiloquio. La cosa buffa era che Smout era uno dei pochi ragazzini del quartiere che non imprecasse di continuo.

Le labbra del nonno si erano irrigidite in mezzo alla barba come binari ferroviari.

- Quando è arrabbiato tuo nonno sembra Dio - aveva sussurrato una volta Jim Blanie.

- Non credo che voglia vederti - dissi titubante a mia madre il fatidico giorno del kilt.

- Magari sì, Fergus, se tu vieni con me e glielo chiedi da parte mia.

Ero certo del contrario, ma mi sentii in dovere di accontentarla.

- Che cosa mi metto sotto? - domandai.

Le mutande erano un indumento piuttosto raro in Lomond Street.

- I soldati non portano niente sotto il kilt.

Mi domandai come facesse a saperlo. Magari aveva ragione, ma i soldati scozzesi dovevano vedersela con le pallottole dei boeri, non con Jock Dempster o Rab McIntyre, pronti a spuntare all'improvviso strillando e a tirarti su la gonna per mostrare il tuo sedere a tutte le ragazze del vicinato.

- Potrei prendere la carriola e raccogliere delle cacche - dissi.

Mamma scoppiò a ridere.

- Me lo ha detto lui. Gli servono per le rose.

- Scusa, Fergie. Sei libero di raccogliere tutto il concime che vuoi.

- È il nonno che lo vuole, non io. Io non ho mica le rose.

Allora mi abbracciò, ridendo e piangendo allo stesso tempo.

- Qualunque cosa accada, Fergie, e dovunque mi trovi, non dimenticherò mai il mio piccolino in kilt che raccoglie le cacche per le rose del nonno.

- Hai detto che non te ne saresti più andata.

- Vedi Fergie, pensavo che avendo te avrei resistito. Sei l'unico di cui abbia sentito la mancanza. Ma adesso non credo più di farcela a sopportare.

Sapevo che ciò che non riusciva a sopportare era mio padre. (Permettetemi per ora di attribuire questo titolo a John Lamont.) Da quando era tornata, tre giorni prima, gli aveva a malapena rivolto la parola. Anche lui aveva parlato poco, ma una volta si era messo a urlare. Nel nostro appartamento di camera e cucina, con il bagno sulle scale, l'intimità era merce rara. Mamma aveva dormito in camera con me. Mio padre era rimasto a lungo in piedi fuori della porta, singhiozzando. Anche mamma smghiozzava.

Nessuno dei vicini era venuto a felicitarsi per il suo ritorno, nemmeno gli Strathglass e i Kerr, che abitavano sul nostro stesso pianerottolo. Tutti sembravano dispiaciuti per me, anziché essere contenti. Zia Bella mi aveva afferrato per la maglia e mi aveva ordinato di trasferirmi da lei. Io avevo rifiutato con indignazione, sebbene zio Tam e i suoi piccioni mi piacessero. Zia Bella era la persona che più odiava mia madre, dopo il nonno.

- Se te ne vai di nuovo, portami con te.

Mamma ci pensò su per mezzo minuto, un tempo lunghissimo.

- Vedremo, Fergie. Adesso proviamo questo kilt, d'accordo?

- D'accordo.

Mi levai le braghe con un mugugno e le posai vicino per essere sicuro di recuperarle in fretta nel caso mi fossero saltati i nervi.

Mamma mi avvolse per bene nel kilt.

Con mio grande sollievo era troppo lungo.

- Inginocchiati - disse mia madre.

- Devo pregare?

- Non credo che servirebbe granché, Fergie. I soldati si inginocchiano per capire qual è la lunghezza giusta. L'orlo deve toccare terra.

Mi inginocchiai, e il kilt si afflosciò in tante pieghe sul pavimento.

- Si sistema facilmente - disse mia madre, e mi tirò su la vita quasi sotto il collo.

- Così non respiro.

Per tutta risposta lei chiuse i fermagli del kilt.

- Ci metti sopra la maglia. Guarda. Peccato che tu non abbia una giacca di tweed, lo sporran e un paio di calze verdi.

- Meglio così.

- Non dire sciocchezze. Sei bellissimo.

Mi sentivo una femminuccia fatta e finita. Mi avrebbero sicuramente riso dietro tutti. Tutti trane Smout, forse, troppo impegnato a vergognarsi del suoi pantaloni bucati. Per nasconderli dava sempre la schiena a muri, lampioni, bidoni dell'immondizia e addirittura ai grossi cani.

Mia madre indossò davanti allo specchio il cappello con le piume in tinta con il vestito. Poi si mise un po' di profumo dietro le orecchie con pochi tocchi delicati delle dita. Mi piaceva quel profumo, ma sospettavo che fosse una delle cose che attirava a mamma l'antipatia delle altre donne del quartiere. Avrei preferito che non lo usasse, ma sarei morto piuttosto di pregarla di non farlo.

Lei notò la mia preoccupazione. - Se proprio dobbiamo raccogliere sterco, ci vuole qualcosa di buono per coprirne l'odore.

Dove diavolo era stata tutto quel tempo, se non sapeva neppure che l'odore delle cacche di cavallo, anche di quelle fresche, non era affatto cattivo?

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Il nonno non volle che mamma fosse sepolta nella stessa tomba di sua moglie e non si fece vedere al funerale. Diede mostra di un'insensibilità atroce; eppure, proprio la sfrontatezza della sua fede fece sì che tanta gente vedesse in lui un esempio di formidabile e grandiosa fermezza cristiana.

Un mese circa dopo il funerale, schiacciato dall'impotenza e dall'assoluta mancanza di autorità tipica dei bambini, da non confondersi con l'innocenza, ripresi l'abitudine di andare in visita il sabato pomeriggio a Siloam; adesso, però, ci andavo quasi sempre da solo. Quando il nonno mi chiedeva perché non portavo più i miei amici inventavo delle scuse: le mamme li avevano mandati a fare delle commissioni, preferivano giocare a calcio o guardare una partita dei Gantock Rovers, oppure si lamentavano della salita per arrivare a casa sua, oppure erano troppo timidi. Non gli dicevo che in realtà ero io a non volere che venissero, neppure Smout, che si sarebbe comportato con la discrezione di un topolino. Allora non lo sapevo, ma la verità era che mi vergognavo profondamente di lui, del nonno.

Il nonno non nominava mai mia madre, e io nemmeno. Dopo avere lavorato un po' nel giardino ci sedevamo sulla panchina, al sole, e lui mi faceva delle domande sulla scuola, sui miei amici e su Bessie, che stava per sposare mio padre e diventare la mia matrigna. Appena gli dissi che non andava in chiesa e non voleva essere sposata da un pastore smise di interessarsi di lei. Il nonno non considerava nemmeno le persone che non andavano in chiesa. Perché, allora, ce l'aveva tanto con i cattolici? Persino Mick Flynn e Pat McGuire, i più incalliti bestemmiatori del quartiere, andavano a messa regolarmente.

Se pioveva o faceva freddo stavamo seduti in salotto davanti al camino, l'uno di fronte all'altro. Il nonno leggeva, si lisciava la barba, a volte annuiva e ogni tanto alzava lo sguardo e mi sorrideva. Sarebbe toccato a me ereditare quei libri, resoconti ampollosi e moralistici sull'opera dei missionari tra i pagani.

Chiunque avesse sbirciato dentro casa avrebbe trovato quella scena assai toccante: il bambino silenzioso in kilt e l'uomo alto, barbuto e pio, così legati da non avere bisogno di dirsi nulla per mezz'ora di fila. Io, in realtà, mi sentivo sempre più oppresso. Esasperato, cercavo di contare i ticchettii del grande orologio sormontato dall'aquila di legno. Provavo sollievo ogni volta che dovevo scivolare giù dalla sedia e andare in cantina a prendere del carbone. Impiegavo sempre più tempo del necessario.

Senza rendermene conto stavo sottoponendo il nonno a una serie di test. La famiglia Frame era stata buttata fuori dal bilocale in cui viveva in Laverock Street, vicino al Davidson's Vennel, perché non aveva pagato l'affitto. I loro mobili erano stati scaraventati in strada. La signora Frame aveva un neonato in braccio e altri cinque bambini piccoli; uno di loro, Jean, era in classe con me. Il signor Frame non lavorava da anni, per colpa del mal di schiena, diceva. Secondo qualcuno faceva il furbo, cioè fingeva apposta di essere invalido. Una volta io e i miei amici lo avevamo seguito per controllare se, quando pensava di non essere visto, si raddrizzava e si metteva a camminare normalmente. Ma non era successo. O aveva mal di schiena sul serio o era molto bravo a fare il furbo.

Lo sfratto in se non mi aveva turbato: era stato troppo emozionante. A colpirmi era stata la rabbia dei vicini dei Frame contro gli ufficiali giudiziari e gli agenti di polizia. Le donne gridavano e agitavano i pugni in aria. Mi era sembrato strano che tanta sofferenza e odio potessero dipendere dalla semplice mancanza di denaro.

Ero curioso di sapere che cosa ne pensava mio nonno.

- Martedì hanno cacciato di casa i Frame - dissi. - C'ero anch'io.

Il nonno interruppe la lettura. La bocca gli si indurì.

- Sono arrivati i poliziotti, e le donne li insultavano.

- Non dovevi stare lì, Fergus.

- La signora Frame ha sei bambini. Li hanno portati all'ospizio dei poveri.

- Lì si occuperanno di loro.

- Lei non era d'accordo. Urlava che era una vergogna.

- Non pagare ciò che si deve è una vergogna ben peggiore.

Riflettei su questo concetto. Era troppo profondo per me.

- Perché nessuno gli ha dato i soldi per pagare l'affitto? domandai.

Molta gente a Gantock avrebbe potuto farlo. Ne vedevo a dozzine la domenica nell'Auld Kirk. Alcuni arrivavano in carrozza dalle ville del West End. Anche mio nonno aveva dei soldi in banca, o almeno così sosteneva zia Bella.

- Non si aiuta la gente dandole del denaro, Fergus. Se non hai lavorato onestamente per guadagnarlo, il denaro fa più danni che altro.

- Ma il signor Frame non può lavorare come gli altri. Soffre di mal di schiena.

Una volta qualcuno aveva detto che non doveva fargli così male, visto che aveva sei figli. Non avevo capito il nesso. Forse lo avrebbe capito il nonno.

- Il mal di schiena non gli impedisce di frequentare i locali pubblici.

- Vuoi dire i pub?

- Esatto, Fergus.

Tornai a riflettere. Non c'era niente di più facile che andare al pub: bastava spingere la porta ed entrare. Perfino il signor Chalmers, che aveva una gamba sola, ci riusciva senza difficoltà.

- Penso che sia anche un giocatore d'azzardo.

Non avevo mai visto il signor Frame piazzare una scommessa con un allibratore di strada, ma probabilmente lo faceva, come molti altri uomini. Non capivo che cosa c'entrasse con il mal di schiena.

- Puoi star certo, Fergus, che se uno merita il Suo aiuto, il Signore non glielo fa mancare.

Diceva queste cose senza essere sfiorato dalla minima ombra di dubbio o pietà. Ero piccolo, ma avevo l'impressione che in realtà fosse mio nonno a decidere se meritavi l'aiuto di Gesù. Non era stato lui a decidere che mia madre non ne aveva diritto?

Poi ci fu il caso di Jack Burnett.

La signorina Cochrane stava scrivendo alla lavagna, quando Jack prese il calamaio con la mano sinistra, perché era mancino, e glielo tirò addosso. Fortunatamente sbagliò mira, ma un po' d'inchiostro imbrattò la faccia della signorina Cochrane, come sangue nero. Jack veniva sempre costretto a sedere nel primo banco perché non riusciva a fare le operazioni né a scrivere correttamente. La signorina Cochrane lo scherniva di continuo. Era anche troppo facile: Jack indossava vestiti troppo larghi e aveva delle orecchie enormi. Di solito il mio compagno sopportava, limitandosi a fare il broncio. Perciò restammo tutti di stucco quando improvvisamente s'infuriò e tirò il calamaio alla signorina Cochrane.

Fu chiamato il signor McGill, il direttore, che arrivò in pantofole brandendo la cinghia. Jack non volle chiedere scusa, tanto sapeva che non sarebbe servito a rendere meno severa la punizione. Il direttore gli diede sei cinghiate su ogni mano davanti alla classe con tutta la forza che aveva. Dopo la quarta Jack crollò in ginocchio e chiese pietà urlando. Le bambine scoppiarono a piangere. Smout, seduto accanto a me con le braccia conserte (una postura assunta da tutta la classe), chiuse gli occhi e si lecco le labbra: erano secche come le mie.

Dopo, quando Jack ci fece vedere le mani, sembravano delle polpette di carne trita.

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Anche se a quel tempo non ne ero consapevole, l'infanzia trascorsa in Lomond Street aveva fatto di me un poeta. Negli anni in cui abitai a Siloam e frequentai la Gantock Academy, la mia preoccupazione principale fu quella di trasformarmi in un gentleman, primo passo della campagna per farmi accogliere un giorno al Corse Castle come uno di famiglia. Ciò nondimeno il poeta che era in me, per quanto represso, sopravviveva. Il responsabile del dipartimento di inglese della Gantock Academy era il signor Andrew Birkmyre, un presbiteriano macilento con il viso a chiazze e la voce stizzosa. Odiava Burns perché si era preso gioco del diavolo, Shakespeare perché aveva privato Lear della consolazione di sapere che Cordelia era andata in paradiso e Keats perché preferiva gli antichi greci agli antichi ebrei. Essendo obbligato a parlare di Tam o' Shanter, di Re Lear e dell' Ode all'urna greca perché erano nel programma stabilito dalle autorità scolastiche di Edimburgo, Birkmyre ci dettava commenti copiati da libri di accademici aridi come la polvere dimenticati da cinquant'anni. Quanto alla lettura dei testi veri e propri, faceva del suo meglio per scoraggiarla.

Se un tema aveva i punti messi nella posizione giusta, non conteneva errori di ortografia né abbreviazioni come don't al posto di do not ed era scritto in maniera leggibile, Birkmyre gli assegnava un bel voto, indipendentemente dalla banalità del linguaggio e del contenuto. All'inizio seguii questa sua ricetta e ricevetti le lodi del professore. Poi qualcosa fece crescere in me un'avversione per quel modo di scrivere, e consegnai alla rivista della scuola un articolo composto con il mio stile, più omerico che presbiteriano, sul lancio degli anelli. Descrivendo come certi uomini anziani nel lanciare il pesante anello di ferro producessero suoni che ben rappresentavano la tensione e le aspettative di quel gioco tradizionale, usai il termine «scoregge». Sapevo che il signor Birkmyre non avrebbe gradito, ma tutti i sinonimi che mi venivano in mente suonavano falsi, inefficaci e disonesti. «Flatulenze» era troppo perbene, più adatto a una conversazione tra signore in una chiesa che a un gioco fra rudi lavoratori dei cantieri navali.

Tenendo il mio articolo fra indice e pollice, il signor Birkmyre mi urlò di alzarmi, suscitando per la prima volta, da settimane, l'interesse e lo stupore della classe. Era risaputo che alcuni allievi copiavano i compiti degli altri nei bagni della scuola, dove c'era il rischio di contaminare i quaderni degli esercizi, ma io ero notoriamente troppo indipendente e altezzoso per ricorrere a una tale pratica furtiva.

- Corse-Lamont, - sbraitò il signor Birkmyre con la voce roca e la faccia rossa come un pomodoro - mi sbaglio se dico che non le piacerebbe essere definito feccia?

- Nossignore.

- Allora vorrebbe spiegarmi perché, in questo articolo, ha usato un linguaggio da feccia?

La classe non era mai stata così partecipe durante una lezione di Birkmyre. Qualcuno cominciò addirittura a fare domande.

- Di che cosa parla l'articolo, signore?

- Che genere di linguaggio usa, signore?

- Per favore, ce lo legga, signore.

- Tenete a freno la lingua - ruggì Birkmyre. - Io credo che lei abbia deciso deliberatamente di ostentare il suo disprezzo per me, per i suoi compagni e per questa scuola.

- Ce lo legga, signore - esclamarono i ragazzi. - Lasci giudicare a noi.

L'impiego da parte di Birkmyre della parola «feccia» aveva suscitato in me alcuni dubbi: «scoregge» era un termine che rispecchiava la verità, ma lo avrebbe usato un gentleman? Esisteva forse una contraddizione fra verità e «gentlemanità»?

Avrei detto «scoregge» parlando con Cathie Calderwood? Sì, in determinate circostanze avrei potuto farlo. Cathie non era tanto la mia dea quanto la mia naiade. Per giunta una naiade che sognava satiri.

Ma non avrei osato dire «scoregge» davanti a Meg Jeffries, che adesso lavorava in un negozio di vestiti per signora. Avrebbe affermato che le mancavo di rispetto. Mi avrebbe chiesto se avrei detto «scoregge» a Corse Castle.

E con Mary, l'amante della verità? Mi voltai a guardarla. Da quando abitava a Ravenscraig era più in carne e aveva un aspetto più sano, ma i ratti del Vennel continuavano a tormentarla negli incubi notturni.

- Venga qui - urlò il signor Birkmyre.

Avanzai verso la cattedra.

- La mano - disse il professore brandendo la pesante cinghia di cuoio ben alta sulla testa.

Nel corso della mia carriera scolastica ero stato punito parecchie volte, o almeno con una frequenza sufficiente a farmi imparare qualche trucco: sapevo, per esempio, qual era il momento giusto per ritirare la mano facendo sì che il colpo finisse sulla coscia dell'insegnante, oppure, nel caso di un professore maschio con le gambe divaricate, sulle sue palle. Ma in tutte le circostanze precedenti avevo fatto qualcosa di sbagliato, fosse anche il semplice aprire gli occhi mentre recitavo il Padre nostro assieme alla classe. Stavolta, invece, meritavo una lode, non una punizione.

- Fa resistenza? - tuonò Birkmyre.

- Non ho fatto nulla di male.

- La farò espellere. Crede che quel kilt la protegga? Al contrario, la rende più vulnerabile.

Era la prima volta che Birkmyre diceva qualcosa di spiritoso, anche se non lo aveva fatto apposta. La classe scoppiò a ridere pensando a me che venivo preso a cinghiate sul sedere nudo.

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Quando feci amicizia con Archie Dungavel, figlio cadetto di lord Gilbertfield, capii di essere in vista della vetta. Avevo un aspetto più aristocratico del suo, ma tutti sapevano che lui era nobile. Entrammo in servizio nei Perthshire Highlanders lo stesso giorno.

Nella fotografia, Archie mi tiene un braccio sulle spalle. È l'unico che non sorride. Se la Chiesa di Scozia o la Chiesa d'Inghilterra fossero stati luoghi adatti a un gentleman, Archie sarebbe potuto diventare sacerdote. Era morbosamente religioso e aveva delle gambe magrissime: due handicap piuttosto gravi per un ufficiale degli Highlanders. Ed era ansioso di farmi conoscere sua sorella, lady Grizel.

Lasciate che vi presenti gli altri tre personaggi che compaiono nella foto. Erano tutti rampolli di buona famiglia. Con loro non ero intimo come con Archie, ma credo che tutti mi ammirassero e fossero orgogliosi della mia amicizia. In prima fila, accanto ad Archie e a me, c'è Charlie Brack. Suo padre era baronetto e aveva una tenuta dalla parti di Dunkeld. Charlie era sempre di buon umore e non prendeva niente sul serio, neppure la guerra. Era un ottimo imitatore comico.

Il più alto e impettito dei due in seconda fila è Hamish Dunloskin. La proprietà di suo padre era nell'Argyll. Sebbene avesse solo diciannove anni era presuntuoso perfino quando pisciava. I soldati del suo plotone avevano coniato per lui diversi soprannomi, uno era «Scopa-nel-culo». A volte avevo l'impressione che sospettasse di me, che mi considerasse un impostore. Per fortuna considerò sempre indegno di lui indagare seriamente.

Vicino a Hamish c'è Andrew Dalgleish. Suo padre non aveva titoli nobiliari, in compenso era ricchissimo; possedeva una grande casa a Edimburgo e un fondo nel West Lothian. Roseo e timido come una ragazzina, Andrew arrossiva di continuo. Una volta mi mostrò una foto di sua sorella: aveva l'aria più tenera di lady Grizel, ma non più di lui. Ogni volta che incasinava il suo plotone nelle esercitazioni gli venivano le lacrime agli occhi.

Gli allievi della Gantock Academy, anche quelli che abitavano nelle ville più lussuose della città, non potevano fare a meno di entrare quotidianamente in contatto con svariati membri della classe lavoratrice, come donne delle pulizie e cameriere, carbonai e spazzini, gelatai, garzoni di bottega e commessi. Nonostante le loro pretese, erano semplicemente membri più facoltosi della stessa tribù. I miei nuovi amici, invece, come mi aveva preannunciato il maggiore Holmes, appartenevano a una tribù affatto diversa, una tribù le cui divinità erano assai potenti. E avevano bisogno dei sergenti non solo come aiutanti ma anche come interpreti.

Avevano tutte le fortune senza bisogno di sforzarsi, quelle fisiche come quelle sociali. Perciò fu quasi una sorpresa scoprire, nelle docce comuni, che i loro piselli e ombelichi non erano più raffinati di quelli di un calderaio. Nessun calderaio di mia conoscenza, tuttavia, sarebbe mai stato tanto indelicato da parlare di sua sorella insaponandosi i genitali, come invece faceva Archie. In realtà non si può dire che ai miei nuovi amici mancassero la delicatezza, il buon gusto o il rispetto per le donne, solo che, in quanto prodotti di un processo evolutivo altrettanto strabiliante di quello che aveva condotto alla comparsa degli elefanti, non avevano bisogno della delicatezza per apparire delicati, né del buon gusto per sembrare persone di buon gusto, né del rispetto per le donne per dare l'impressione di rispettare le donne. Per quanto si sforzassero, non riuscivano a essere volgari.

Con discrezione, assunsi il loro comportamento a modello. Poiché i semi dell'aristocratica sicurezza di sé li possedevo già per questioni genetiche, imparai in fretta e con sagacia. Ciò che mi costava più fatica era non sembrare borioso. Gli aristocratici, avevo notato, non erano snob. Consapevoli del fatto che in società non c'era nessuno al di sopra di loro, famiglia reale a parte, non facevano caso a chi stava sotto. Assumere una sublime indifferenza per le gerarchie, e al tempo stesso aspettarsi deferenza da tutti, è un esercizio molto difficile, se non l'hai praticato dalla nascita. A volte mi capitava di inciampare in atteggiamenti di insensata modestia o di inutile arroganza.

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Torquil nacque a metà febbraio, mentre il terreno era duro come ferro per il gelo.

Quando fu il momento, Betty chiamò accanto a sé sia me sia Mutt-Simpson. Strinse la mia mano sinistra e la sua destra.

Udii una delle infermiere che diceva all'altra: - Guardali, si direbbe che il padre sia sir James!

- Non hai paura che il Signore ti fulmini, Whitehouse? - ribatté la collega. - Come osi insinuare una cosa del genere su Betty T. Shields?

In salotto, poco prima del parto, Mutt-Simpson si lasciò andare al sentimentalismo: - È la donna più sincera, più bella e più preziosa del mondo, Fergus. Che Dio le faccia avere un parto facile e tranquillo.

In quell'istante entrò Dorcas con un vestito nuovo. Io allargai le braccia ma lei si gettò fra quelle di Mutt-Simpson. Non fece domande su sua madre, ma domandò al baronetto se gli piaceva il suo vestito nuovo.

Già a quattro anni era così vanitosa da passare anche un'ora davanti allo specchio facendo pratica di inchini e riverenze così snob che si adombrava se il figlio di un contadino della sua età le chiedeva di giocare, così autoritaria che pretendeva di avere ragione in tutto. A tre anni voleva a ogni costo sedersi sul vasino in salotto, come le principesse del XVII secolo.

Mi si spezza il cuore a scrivere cose spiacevoli della mia figlioletta con i capelli rossi, tanto simile a mia madre.

A un certo punto entrò la signora Shields e si diresse verso il tavolino degli alcolici.

- Potete rilassarvi - disse. - È un maschio. Stanno bene tutti e due.

Poi levò il bicchiere rivolgendosi a Mutt-Simpson.

Il baronetto posò una mano sulla testa di Dorcas e le disse: - Hai un fratellino, mia cara.

- Non voglio un fratellino.

Non lo disse con tristezza, come una bambina che teme di non essere più amata come prima. Lo disse con sdegno, fissandomi imbronciata come se fossi io il colpevole.

- Vuole vederti - annunciò la signora Shields.

Naturalmente diedi per scontato che intendesse me. Mutt-Simpson, con una bella faccia tosta, diede per scontato che intendesse lui. Entrambi ci avviammo verso la porta.

Dorcas preferì restare dov'era. Mentre uscivamo prese a calci una gamba del tavolino dei liquori. Sua nonna l'avrebbe fatta smettere.

Betty aveva l'aria stanca, ma era lucida. Porse a me la mano e a Mutt-Simpson la guancia.

Un'infermiera teneva in braccio il piccolo avvolto in uno scialle. Ce lo fece vedere. Come al solito balbettammo qualche saluto dal suono ridicolo. Nella voce di Mutt-Simpson, almeno così mi parve, c'era anche una sfumatura di trionfo.

I neonati si assomigliano tutti; sono ancora la materia prima dell'umanità, non esseri umani individuati. Gli amici che riconoscono giubilanti precise somiglianze con la madre o il padre, o con uno zio o una zia, danno semplicemente il benvenuto al piccolo nella razza umana.

Ciò che non va mai detto, però, è che il nuovo arrivato assomiglia a un uomo che non dovrebbe avere vincoli di sangue con lui e che notoriamente è in ottimi rapporti con sua madre. Pertanto nessuno dei presenti esclamò che mio figlio era uguale a sir James. Non lo disse Betty, né il dottore, né le infermiere, né Mutt-Simpson, anche se tutti ce l'avevano stampato in faccia, e non lo dissi nemmeno io.

In realtà, con i suoi capelli radi e la sua abitudine di produrre smorfie di inutile benevolenza, Mutt-Simpson assomigliava un po' a tutti i neonati, ma in questo caso c'era qualcosa in più.

Che cosa può fare un marito educato scoprendo che il bimbo appena partorito da sua moglie molto probabilmente non è figlio suo ma di un ricco rivale? Forse, in qualche angolo del pianeta, esistono tribù primitive in cui, in circostanze del genere, il marito ingannato afferra il bambino e gli sfracella il cranio contro il baniano più vicino; poi, mentre la sua rabbia sacrosanta è ancora calda, taglia la testa alla moglie e i genitali al traditore. E tutto fra gli applausi degli spettatori, contenti di assistere a un atto di giustizia in linea con le antiche usanze della tribù.

Ma come marito educato non potevo sfogare i miei sentimenti in quel modo. Al contrario dovetti accettare che il bambino mi fosse messo in braccio e sorridere paternamente. Dovetti anche accettare le congratulazioni di Mutt-Simpson. Ma la cosa peggiore fu essere costretto a dire a Betty che nostro figlio era bellissimo, che ero orgoglioso di lei e di lui, che ero l'uomo più felice di Scozia e che avremmo brindato tutti alla sua salute e alla salute del piccolo con lo champagne portato apposta da sir James.


Devo aggiungere per correttezza che, crescendo, Torquil venne ad assomigliare sempre meno a Mutt-Simpson e sempre più a suo nonno, Donald McGilvray: aveva la sua stessa aria grave e devota. Solo che l'oggetto della venerazione di Torquil non era un Dio vendicativo, bensì la bellezza della creazione artistica. Quando aveva cinque anni, il suo pittore preferito era Botticelli. I miei tentativi di suscitare in lui qualche interesse per il lancio degli anelli o i girrs fallivano invariabilmente. In suo favore va detto però che Torquil non mi guardò mai dall'alto in basso come sua sorella.

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