Copertina
Autore Giovanni Jervis
Titolo Contro il relativismo
EdizioneLaterza, Rma-Bari, 2005, Saggi tascabili 289 , pag. 166, cop.fle.sov., dim. 110x180x14 mm , Isbn 978-88-420-7640-7
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe filosofia , politica , scienze sociali , relativismo-assolutismo
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Indice

    Ringraziamenti                                     VII

 1. I denti della signora Aristotele, Ernesto
    De Martino e l'apparizione di un santo               3


 2. Uno sguardo d'insieme sul relativismo               29

    Un dialogo, p. 30
    Le due posizioni in sintesi, p. 35
    Il relativismo come mentalità, p. 39
    Le ascendenze storiche del relativismo, p. 44
    Alcune note sul relativismo filosofico, p. 48
    Il relativismo come ideologia, p. 53
    Il relativismo come risposta alle delusioni
    del progresso, p. 67
    Relativismo e cultura di massa, p. 69

 3. Dall'antropologia culturale all'antipsichiatria.
    Il relativismo culturale e i suoi limiti            75

    Relativismo contro universalismo, p. 75
    L'antropologia culturale americana e la sua eredità,
    p. 78
    Dall'antropologia culturale all'antipsichiatria, p. 87
    Esiste una natura umana? Un nuovo naturalismo, p. 95
    Naturalismo e identità minoritarie, p. 100
    Tribalismi e neo-tribalismi alla sbarra, p. 102
    Nuove possibilità di intesa, p. 105
    Il peso del passato, p. 107
    Un multiculturalismo con la coscienza sporca, p. 110
    Il relativismo culturale alla prova dei fatti, p. 115
    Perché non possiamo non dirci occidentali, p. 121

 4. Aspetti etici e politici.

    Il relativismo e il consenso disinformato          127
    I richiami etici del relativismo, p. 129
    La retorica del relativismo, p. 134
    Il consenso informato e i suoi insegnamenti, p. 145
    Il problema degli specialismi e il consenso
    disinformato, p. 153

    Note                                               159

 

 

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Capitolo 1
I DENTI DELLA SIGNORA ARISTOTELE,
ERNESTO DE MARTINO
E L'APPARIZIONE DI UN SANTO



Vari decenni or sono Bertrand Russell si divertì a scrivere un breve testo polemico: non pretendeva di essere alta filosofia ma era spiritoso e sensato. Si chiamava qualcosa come Piccola rassegna di spazzatura intellettuale, ossia, nell'originale, An outline of intellectual rubbish. Pubblicandolo, sapeva di esporsi di fronte ai suoi nemici: infatti sosteneva – nientemeno! – che la spazzatura intellettuale esiste. Forse poteva permetterselo perché era Bertrand Russell: ma già a quell'epoca occorreva un certo coraggio.

Per alcuni anni gli studenti furono particolarmente divertiti da uno degli esempi di quel testo: Aristotele – diceva Russell – sosteneva che le donne hanno meno denti degli uomini. Così, parlando con i suoi allievi Russell amava aggiungere che il filosofo greco avrebbe fatto meglio a chiedere, gentilmente, alla sua signora di venire a sedersi per un momento vicino alla sua scrivania con la bocca spalancata. Qui l'intelligenza è nascosta sotto la frivolezza: ovviamente il bersaglio non è la filosofia antica. Invece, la critica si rivolge a chiunque non voglia capire che il modo più semplice per evitare di dire sciocchezze – e soprattutto di ripeterne – consiste nel provare, almeno qualche volta, a fare verifiche in proprio.

Peraltro, bisogna ammetterlo, verificare talora è difficile, perché in certi casi può non bastare la comune diffidenza dell'uomo della strada: non si apprendono in un giorno né il metodo sperimentale né le valutazioni di probabilità. Altre volte, invece, l'andare a controllare risulta abbastanza facile e quella che manca è la voglia. O meglio, manca la disposizione culturale e mentale: Bertrand Russell lo sapeva, e a questo miravano le sue frecciate. Oggi, poi, in molti casi non è neanche necessario muoversi da casa perché montagne di dati utili per sconfiggere le leggende metropolitane sono a portata di Google, ossia di pochi click del mouse: però, viene da chiedersi, persino fra gli studenti universitari quanti lo sanno? Quanti ne fanno tesoro? Se devo dar retta alla mia esperienza di docente, non moltissimi; ed è un peccato perché questo tipo di pigrizia segna – probabilmente – un regresso. Negli anni precedenti il 1968-69, e cioè prima che la loro intelligenza cominciasse a essere fiaccata dai diplomi facili e dall'università di massa, gli studenti italiani che avevano voglia di andare a contare i denti di Aristotele e della sua signora erano – io credo – abbastanza numerosi.

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Certo non potevamo liquidare ciò che vedevamo come pura superstizione. Come si può intuire, la parola superstizione era tabù per De Martino e per chi lavorava con lui, così come la parola folklore; eppure ci rimaneva un dubbio sui meriti reali di quelle tradizioni salentine, un dubbio che si rifaceva alla vecchia idea di Marx sulle religioni come oppio dei popoli. Il tarantismo aveva probabilmente contribuito a mantenere gli equilibri sociali di quei luoghi, insieme ad altre fedi e ad altri riti: ma era lecito chiedersi se per caso imprigionasse le persone in schemi estranei all'evolvere della storia e ostili all'ingresso di nuove idee. Ne discussi con De Martino. Egli però era assai più convinto di me che il tentativo di conferire un senso alla vita mediante il trascendimento magico-religioso arricchisse i gruppi etnici così come i singoli, rendendoli protagonisti di cultura ed elevandoli al di sopra di un'inconsapevole dipendenza da eventi naturali come le malattie.

Io ammiravo la profondità e l'intelligenza del grande antropologo, imparavo e riflettevo. Ma non ero sempre convintissimo di tutte le sue idee. Non poteva darsi invece, insistevo, che gli abitanti del Salento, attraverso i secoli, non fossero stati per nulla aiutati dalla presenza del mito della taranta, e cioè non ne fossero stati incoraggiati né a curare in modo ragionevole il loro benessere fisico e psichico (o almeno, in un modo un po' più ragionevole), né a liberarsi dall'umiliazione dell'analfabetismo, né ad affrancarsi dal potere fino a ieri egemone dei feudatari e dei parroci delle campagne?

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Le difficoltà di convivenza fra i popoli sembrano nascere da altri meccanismi. La simpatia per la semplice religiosità di chiunque non esclude che, nel concreto, le forme storiche delle religioni contribuiscano a devastare il mondo: a questo punto ci si può chiedere quanto incidano i poteri eccessivi degli apparati ecclesiastici e la tendenza dei fedeli a eccedere nell'ubbidienza. Questo tema, naturalmente, non è nuovo e rischia di sollecitare considerazioni scontate. In una lettera alla figlia decenne, Richard Dawkins ebbe a scrivere che oltre a esserci, a disposizione di ciascuno, tante buone ragioni per costruire conoscenze ben fondate, vi sono anche tre cattive ragioni per acquisire credenze: esse si chiamano «tradizione», «autorità» e «rivelazione». E invero fra le più naturali follie della nostra mente sembra vi sia la tendenza a credere che i principi-guida del comportamento debbano venirci dai grandi interpreti della volontà del cielo invece che da tante persone più prossime a noi. Queste ultime, nella maggioranza dei casi, sarebbero state sufficienti a fornirci gli strumenti per vivere: un papà con i piedi per terra, una mamma amorevole e sensata, uno zio che per caso ha viaggiato per il mondo, una maestra di scuola che ci ha insegnato un po' di storia e di geografia e incoraggiato a leggere libri illustrati di divulgazione scientifica.

La plasmabilità del nostro cervello prima dell'età adulta può anche essere utilizzata per ottenere risultati sensazionali e, purtroppo, definitivi: ma bisogna che venga rinforzata da più specifici condizionamenti dottrinari. Se a tre anni crediamo fermamente in Babbo Natale questo non comporta, con tutta evidenza, nessuna conseguenza negativa: ogni bambino è capace di uscire senza aiuti particolari dal mondo delle fate pur mantenendo negli anni successivi una sanissima, divertita tenerezza nei confronti di tutte le evasioni fantastiche. (Un lato fanciullesco e la capacità di giocare con l'immaginario, probabilmente, sono parte intrinseca della migliore sanità mentale di tutti, adulti compresi.) Ma quando da tempo è finita l'infanzia con tutti i suoi Babbi Natale e stiamo già affrontando il difficile passaggio all'età adulta, se per caso accogliamo come parte importante della nostra visione del mondo altre credenze del tutto inverosimili come la verginità di Maria, la transustanziazione, l'idea che il papa sia infallibile quando parla ex cathedra, e magari anche la speranza che Padre Pio ci possa proteggere dal cielo se usciamo sbronzi dalla discoteca, è probabile che qualcosa si sia modificato per sempre nel nostro esame della realtà. (L'idea che la grande tradizione del cristianesimo debba ridursi a credenze del genere non trova, per fortuna, unanimi consensi.)

Si può ricordare qui che il reverendo Charles Lutwidge Dodgson, il quale era un sincero uomo di chiesa e – a quanto pare – assiduo lettore di Pascal, quando assumeva lo pseudonimo di Lewis Carroll lasciava trasparire qualche ambivalenza circa i modi in cui si costruiscono le fedi.


«Adesso sarò io a dare a te qualcosa in cui credere. La mia età è esattamente di centouno anni, cinque mesi e un giorno.»

«A questo non posso credere!» disse Alice.

«Non puoi?» disse la Regina in tono di compatimento. «Prova ancora: fai un respiro profondo, e chiudi gli occhi.»

Alice rise. «E inutile provare,» disse: «non si può credere a cose impossibili.»

«Oserei dire che non ti sei molto esercitata.» disse la Regina. «Quando avevo la tua età, io lo facevo per mezz'ora al giorno. A volte mi è capitato di riuscire a credere a ben sei cose impossibili prima di colazione».

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Capitolo 2
UNO SGUARDO D'INSIEME
SUL RELATIVISMO



Il relativismo contemporaneo è molte cose insieme. Non è solo una interpretazione del nostro momento storico, come nel post-modernismo di Lyotard, né solo una teoria filosofico-letteraria, come nel decostruzionismo di Derrida, né solo una critica alla conoscenza scientifica, come nell'anarchismo epistemologico di Feyerabend, e neppure soltanto una forma di umanesimo ironico, come nei garbati scritti di Rorty. Θ, probabilmente, qualcosa di più di tutte queste teorie: è una ideologia e un modo di pensare. Malgrado le sue dispersioni, il relativismo è un atteggiamento non privo di compattezza, coerente nel suo modo di avvicinare la realtà, capace di esercitare il suo influsso su discipline specialistiche disparate come sulla vita quotidiana di tutti noi, e attivo persino sulle scelte politiche da cui dipende il nostro futuro. Non è banale, spesso non è stupido, ha aiutato molte persone a riflettere; e se è vero che i suoi eccessi offendono il buon senso, le sue radici meritano attenzione.

Come introdurre un tema che ha tante facce? Per esempio entrando in medias res. Alla maniera delle aperture teatrali, si può immaginare un dialogo, o confronto-scontro fra un relativista e un anti-relativista.

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Il relativismo come mentalità

Nell'esaminare le posizioni in gioco, il cui ventaglio è ampio soprattutto dal lato dei relativisti, si può rischiare di perdere di vista il fatto che siamo in presenza di due atteggiamenti elementari verso la realtà. Non si tratta, in pratica, solo di due filosofie ma anche di due mentalità, di due modi di pensare; o meglio, e ancora più radicalmente, di due modi spontanei di percepire le persone e le cose.

Per capire in che senso questo possa essere vero, si può cominciare col prendere il classico esempio di Frege. Di fronte al desiderio di sapere in che senso la Stella della sera è altra cosa dalla Stella del mattino, noi possiamo interrogare in primo luogo chi è incline (magari senza saperlo) a un modo di pensare relativistico, e poi chi, in modo altrettanto inconsapevole, ha una mentalità opposta, anti-relativista, ovvero, se vogliamo, «oggettivista».

Una persona incline al relativismo direbbe che non è appropriato affermare che si tratta della stessa stella in ore differenti. Infatti osserva che da sempre noi chiamiamo «stella», per convenzione e accordo unanime, un particolare punto luminoso che vediamo nel cielo notturno; secoli fa pensavamo che si trattasse di un buco nel velluto della volta celeste e oggi invece interpretiamo quella luce dicendo che a volte è un pianeta, altre volte un sole lontanissimo. Ma questo cosa cambia? Θ evidente che le varie spiegazioni del fenomeno non alterano ciò che per chiunque è il senso della parola «stella». Ossia «stella» è una piccola luce nella volta celeste. Ora, la caratteristica della prima delle due stelle è che si tratta di una luce che vediamo accendersi nel corso dell'imbrunire. Sarebbe assurdo sostenere che quella sembra la Stella della sera: invece, è la Stella della sera. Così, parallelamente, è la Stella del mattino il punto luminosissimo che compare in cielo poco prima dell'alba.

Al contrario l'anti-relativista, o realista, o anti-soggettivista che dir si voglia, centrato com'è sull'oggetto esaminato invece che sulla situazione del soggetto esaminante, liquiderebbe la questione affermando che le due stelle appaiono diverse ma non sono diverse: sono la stessa stella e cioè il pianeta Venere.

Un secondo caso. Alcuni anni fa si sono diffusi, in Occidente, vari allarmi legati allo sviluppo tecnologico: i mezzi di comunicazione di massa hanno fornito a questi allarmi una cassa di risonanza, in genere senza chiedersi quanto fossero giustificati, e la maggioranza del pubblico li ha trattati come pericoli reali. Esempi: i bambini che vivono vicino agli elettrodotti si ammalano di leucemia; le vaccinazioni causano l'autismo; i ripetitori della telefonia cellulare emettono onde molto pericolose. Timori come questi non sono stati affatto ignorati: hanno perfino dato luogo a ricerche scientifiche accurate e che sono durate anni costando, come nel caso degli elettrodotti, milioni di dollari: la loro conclusione è che si tratta di allarmi senza fondamento. Gli anti-relativisti ne hanno preso atto, magari cercando di documentarsi sui vari aspetti dei problemi in gioco. Gli individui di mentalità relativista invece, che sono meno inclini a documentarsi – ed è naturale, poiché non ritengono che i «fatti» parlino da soli – ma in compenso sono i più inclini alle polemiche, sostengono che: a) se quelle ricerche sono dette scientifiche ciò non costituisce un argomento valido; b) per quanto riguarda gli elettrodotti alcuni studiosi sono rimasti col dubbio che possano causare un minimo aumento statistico dei casi di leucemie infantili, e quindi, anche se il rischio è comunque molto piccolo e forse inesistente, ce n'è abbastanza per non costruire case e scuole vicino alle linee ad alta tensione perché le precauzioni non sono mai troppe, e lo stesso vale per molti altri problemi, compreso quello dei rischi dell'ingegneria genetica; c) l'opinione pubblica non può mai avere del tutto torto perché la gente comune percepisce i pericoli che incombono sulla propria pelle.

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L'orientamento mentale che chiamiamo relativista ha dunque varie facce; e peraltro ha anche una sua coerenza. La sua chiave di volta riguarda l'atteggiamento verso la scienza. Il relativista non crede nella scienza, o almeno ne diffida fortemente, e questo significa molte cose. In primo luogo svaluta le verifiche sistematiche, i dati sperimentali, le statistiche, le misure, i modelli, le valutazioni di probabilità: cioè esattamente tutto ciò che costituisce la scienza. Per estensione, poi, ritiene giustificato porre sotto accusa tutto ciò che si presenta con pretese di oggettività e universalità. E questo implica qualcosa di ancora più ampio: il relativista dubita che si possano trovare criteri universalmente validi per separare la verità dalla menzogna, ciò che è funzionale da ciò che è disfunzionale, la giustizia dal torto, e anche il sano dal patologico. In rapporto a questo, ecco l'amore per le particolarità, per le eccezioni, per i fenomeni sui generis, per le verità locali e settoriali. In pratica, quindi, multiculturalismo, localismo e antiglobalismo sembrano essere anch'essi costituenti intrinseci, primari, della mentalità relativista. Per esempio, se relativismo significa (fra l'altro) non credere nel valore planetario, universale, dei principi giuridici fondamentali, una conseguenza significativa consiste nel non ritenere che le iniziative di politica estera dei governi debbano sottostare alle regole del diritto internazionale.

Solo a volte, dunque, il tema unificante sembra riferirsi alle modalità del conoscere, secondo la formula: le conoscenze sono opinioni, e tutte le opinioni si equivalgono. Altre volte invece, benché in modo meno palese, il vero tema unificante del relativismo appare comportamentale: ognuno faccia tutto ciò che vuole, poiché nessuno ha l'autorità di giudicarlo.

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Ora, la tendenza dell'area filosofica relativista è appunto di estendere l'uso del concetto di ermeneutica fino ad applicarlo non solo agli eventi storici e sociali ma, potenzialmente, a tutte le forme di conoscenza. In Hans-Georg Gadamer noi troviamo un interesse schiettamente umanistico per l'esperienza del conoscere ma anche una netta ripugnanza per le scienze naturali, tanto che nel pensiero di questo filosofo l'ermeneutica si propone con molta chiarezza al posto dell'epistemologia.

L'ambito post-nietzscheiano del relativismo, di derivazione ermeneuticista, comprende varie correnti non sempre ben catalogabili. La più importante, o almeno la più nota, è rappresentata da alcuni filosofi parigini, come Jean-Franηois Lyotard, con la sua teoria del post-modernismo, e Jacques Derrida, con il post-strutturalismo o decostruzionismo di cui è stato proponente. I filosofi italiani del «pensiero debole», fra i quali va ricordato Gianni Vattimo, si sono collocati su posizioni simili.

La seconda di queste aree di pensiero, presente soprattutto nella cultura anglosassone, concerne la filosofia della scienza e porta a conseguenze estreme la critica alle illusioni del positivismo. In parte si tratta dell'analisi di come procede il ragionamento scientifico in generale. Uno dei punti sui quali quest'analisi fa leva, è che non risulta in nessun caso agevole accordarsi su quale sia l'essenza di alcuni concetti-base. Per esempio è tutt'altro che scontato il significato esatto di locuzioni come «ipotesi scientifica» e «spiegazione scientifica».

In parte, anche, si tratta di qualcosa di più concreto, ossia dell'analisi sociale (ed eventualmente politica) del mondo degli scienziati, della loro cultura e mentalità, magari dei loro finanziamenti, e delle motivazioni che ne indirizzano ricerche e idee.

Di contro all'oggettivismo ingenuo che fu la debolezza dei positivisti, la filosofia e la sociologia della scienza hanno dimostrato che importanti fattori di precarietà fanno parte del mondo della ricerca. Sia quando vogliamo analizzare la logica del ragionamento scientifico, sia quando esaminiamo la concretezza della vita degli scienziati, scopriamo che le formulazioni descrittive della realtà, a cui essi giungono, dipendono non solo dalla forza di dati verificabili ma anche da scelte, da accordi, da consensi, da convenzioni, perfino da costrutti metaforici. In questo senso la posizione dei relativisti non è che l'estremizzazione di una tematica più generale: per cui, semplificando un po' le cose, si potrebbe dire che mentre tutti i filosofi e sociologi della scienza sanno bene che esiste una quota ineliminabile di convenzionalità nella spiegazione scientifica, i relativisti tendono a sostenere che la scienza è solo una questione di convenzioni.

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Nelle sue forme più strettamente legate al mondo giovanile e alle controculture, il relativismo è anti-sistema, anti-razionalista, incline a preferire la magia alla scienza, e disposto a esaltare i comportamenti marginali e perfino l'uso di droghe come libere forme di espressione personale. In modo particolare nel caso dei giovani e delle loro culture, ma anche più in generale, si può osservare che il concetto di responsabilità non è congeniale al relativismo.

Il relativista è ostile a tutte le posizioni «forti», specie se istituzionalizzate: però sembra non prendere mai in esame la forza, e anche l'aggressività, della propria posizione. Se è vero che predica di lasciar fiorire i cento fiori delle culture e delle opinioni, in pratica ha le sue preferenze, talora persino faziose, e in ogni caso tende a considerare se stesso come un fiore migliore degli altri. Il relativismo, ideologia poco serena, vive delle proprie polemiche e i suoi bersagli sono tutti da una parte sola: il nemico del relativismo è, in sostanza, la razionalità occidentale.

Il relativista, dunque, ama aprire nuove possibilità, ama interrogare, obbiettare, ironizzare, e anche mascherare il proprio pensiero dietro i paradossi. Non si prende l'incarico di formulare una teoria coerente, e meno che mai sistematica. Non giudica e non si espone. La sua è una posizione «di debole responsabilità». Ma proprio in questo è una posizione efficace.

Ciò che caratterizza l'ideologia relativista è una sfiducia nell'idea di oggettività, ma questo atteggiamento conduce, intenzionalmente o meno, ad attribuire un ruolo eccessivo alla soggettività. Se l'attività spiazzante e scettica del relativista svaluta l'universo degli oggetti, con le sue leggi, questo significa che l'atteggiamento di chi è spiazzante e scettico ne viene potenziato. La forza della realtà verrà ignorata: rimane il pieno potere del soggetto giudicante. Più in generale, esiste qui un invito all'autolegittimazione di qualsiasi atteggiamento verso il mondo: e non importa quanto realistico, ossia pertinente al mondo stesso.

Si ha dunque una posizione che è antitetica a quella del ricercatore scientifico. Il lavoro di quest'ultimo consiste nel disciplinare (potremmo dire: nel riportare a terra) i voli possibili della propria intelligenza, piegandola alle verifiche sperimentali. Le idiosincrasie personali, le sviste e gli errori vengono pazientemente stanati, e ogni acquisizione conoscitiva è sottoposta a estenuanti controlli, nella consapevolezza che potrebbero sempre emergere nuovi dati di cui bisognerà tenere conto per modificare le teorie precedenti. Un atteggiamento di umiltà caratterizza il suo desiderio di comprendere i meccanismi della natura.

Nel relativismo accade l'opposto. Gli atteggiamenti mentali, privi come sono di verifiche nella realtà (per i relativisti, la realtà non verifica nulla) acquistano autonomia. Gli atteggiamenti vengono valutati di per sé, o per come si presentano: e in pratica, accade che quasi sempre siano valutati utilizzando criteri moralistici. Ne nasce, come è facile vedere, una discutibile forma di psicologismo. Progetti, propositi, intendimenti, principi ispiratori, sono soppesati indipendentemente dai risultati che producono; per i relativisti, ostili come sono a qualsiasi criterio di oggettività, conta l'intenzione. Di qui nasce l'idea che non sia colpa di singole persone bene intenzionate se poi, per mille motivi, accadono imprevisti, e magari sciagure.

Come osserva Giovanni Sartori, a questo punto ci troviamo di fronte a un modo di pensare di tipo religioso. Chi decide di sintonizzare le proprie azioni su principi «nobili» o «superiori» (o su quella che ritiene sia la volontà di Dio) non tiene in considerazione gli insuccessi, e neppure i disastri: persevera senza deflettere anche nei casi in cui la sua fede produce lutti e distruzioni. Qualcosa di simile, purtroppo, accade su un terreno più laico quando singoli comportamenti sono valutati non per quello che producono ma sulla base di un accreditamento della moralità e buona volontà del loro autore.

Due esempi. Se un ministro della Repubblica, decisissimo a combattere la diffusione delle droghe, fa approvare una legge fortemente repressiva ma poco duttile che produce esiti negativi, tutti i commentatori di impostazione ideologica conservatrice e inclini al relativismo (e cioè, in pratica, poco inclini alle verifiche) saranno dalla sua parte perché loderanno la sua virtuosa risolutezza. Quanto poi agli effetti pratici della sua legge, sosterranno che si tratta di eventi sociali complessi valutabili in mille modi da tanti esperti di scuole scientifiche contrastanti, per cui nulla è sicuro né definitivo.

Il secondo esempio, per quanto diverso, risponde alla stessa logica. Prendiamo il macchinista di un treno che si distrae ignorando una luce rossa e provoca un deragliamento con molti feriti. I commentatori di impostazione ideologica «democratica» (e, naturalmente, relativisti anch'essi) sosterranno che ogni evento ha tante cause, mai una sola: quell'uomo magari era in servizio da molte ore, aveva un salario mediocre, e in ogni caso si trattava di una brava persona, padre di famiglia, sensibile ai temi sociali, incapace di volere il male, e così via.

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