Copertina
Autore Jin Xing
Titolo Volevo diventare una ballerina
EdizioneSonzogno, Milano, 2006 , pag. 216, cop.ril.sov., dim. 145x223x22 mm , Isbn 978-88-454-1308-7
OriginaleRien n'arrive par hasard
EdizioneLaffont, Paris, 2005
TraduttoreAntonella Viale
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe narrativa cinese
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La jeep è posteggiata davanti alla porta di casa a Pechino. Sono sul sedile posteriore, il materiale per le riprese è ammassato accanto a me: telecamere, fili elettrici, microfoni, cavi, riflettori. Li Xiaoming è davanti, sul sedile del passeggero, con la telecamera in mano. Si volta per riprendermi. Li Jian, al volante, si spazientisce. Saremo in ritardo. Li Xiaoming gli chiede di aspettare ancora un po'. La mamma è uscita per un ultimo saluto. Lui la riprende. È appoggiata alla porta. Vedo le lacrime rigarle il volto, lei, che non piange mai. Non le asciuga neanche. Il mio cuore si stringe per lei: mi ha dato tutto il suo amore, tutto a me, il suo unico maschio. In Cina è il figlio maschio che perpetua la famiglia. È il figlio maschio a essere irrorato d'amore. È il figlio maschio che conta. Ed ecco che lei sta per perdere il figlio in cambio di una figlia in più.

Li Jian tamburella sul quadrante dell'orologio.

"Dobbiamo andare."

Gli faccio segno di mettere in moto. La jeep parte. Mi volto per guardare mia madre un'ultima volta. È sempre là, come irrigidita, il volto devastato. All'improvviso scoppio a piangere anch'io. Li Xiaoming filma. La strada sfila sotto i miei occhi, attraverso una nebbia di lacrime. Mi dico che sto piangendo per mia madre. Ma non è del tutto vero. Sto piangendo anche per me. Un intero brandello della mia vita è andato. La mia vita alla scuola militare, il grado di colonnello, l'esistenza di ragazzo, l'unica che conosco. Tra poche ore sarà finita. Non potrò tornare indietro. Precipiterò nell'ignoto. Hai voglia immaginare, riflettere su pro e contro, discutere i dettagli dell'operazione, prepararti, comprare un intero guardaroba di intimo femminile nei negozi eleganti di Las Vegas... non ho la più pallida idea di ciò che il futuro mi riserva.


Abbiamo appena festeggiato il capodanno cinese del 1995. Ad agosto avrò ventotto anni. E già da due sono ritornata dall'Europa, due anni che aspetto questo momento. Veramente sono più di venti. Fa freddo. La campagna è arsa dal freddo, gli alberi sono spogli. Il paesaggio sempre così ridente di questa regione, è lugubre. Forse l'auto corre veloce, forse ci sono i soliti ingorghi all'uscita di Pechino, non so, non mi ricordo.

All'ospedale delle Colline profumate la dottoressa Yang ci mostra la sua collezione di seni di silicone. Ce ne sono di tutte le taglie: duecento grammi, duecentocinquanta, dalla minima alla massima. Li soppeso. Posso scegliere come in un negozio. È inebriante. Tocco il più grosso con un dito. È sodo, deliziosamente arrotondato, lo voglio. Ma la dottoressa Yang tenta di dissuadermi decantando le qualità del più piccolo. A me sembra ridicolmente piatto. Sembra un seno da ragazzina, da diciottenne. Escluso! Mi serve un vero seno da donna. Li Xiaoming è d'accordo con me. Dal suo punto di vista maschile il più grosso è il più bello, non c'è dubbio. Ma la dottoressa Yang non ne vuole sapere. Sfrutta l'autorevolezza di medico per spiegarmi che mi darà fastidio nella danza. Ma secondo me le sembra sconveniente, troppo vistoso. Una ragazza cinese deve avere un seno sobrio. Contrattiamo e, alla fine, raggiungiamo un compromesso: taglia media.

Comincia così, dal seno. Un'operazione semplicissima, la meno dolorosa delle tre che dovrò subire. E poi sono in buone mani, è stata la dottoressa Yang Peiying a introdurre la chirurgia estetica del seno in Cina e si è fatta una bella reputazione nel suo campo.


Ho una stanza tutta per me. Mi è toccato aspettare e parlamentare per ottenerla. Di solito i pazienti sono ammucchiati in gruppi da cinque a sette in ogni camera. Le singole sono riservate ai dignitari e agli ufficiali di rango superiore. L'amministrazione mi ha avvertito che, se voglio stare da solo, costerà caro. Come minimo il doppio della tariffa normale. Chi se ne frega. Pagherei il triplo, se necessario. In una singola si sta come in albergo. Tranquilli, bagno privato, infermiera specializzata, tivù, telefono... insomma, il lusso. Voglio stare comoda. Li Xiaoming e la troupe hanno preso la stanza accanto per depositare il materiale (ci sono tre telecamere e sei giornalisti). Li Xiaoming potrà anche passarci la notte: l'ospedale è più che disposto a fare uno strappo alla regola pur di occupare tutti i posti. E nel periodo del capodanno i pazienti in chirurgia estetica sono piuttosto rari.

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Lo Stato ha deciso di risparmiare e ci fa rimpatriare in treno. La Transiberiana è appena uscita dalla periferia di Parigi e, immerso nella contemplazione del paesaggio, penso alla predizione della chiromante; sono sicuro che il viaggio a Parigi sia stato il primo di una lunga serie, che tornerò in Francia. Vista dal finestrino del treno, la campagna francese sembra pulita e verde come in una favola. L'erba e le foglie color smeraldo brillano come se un giardiniere compulsivo le avesse tirate a cera a una a una. L'esatto opposto della vegetazione cinese, che sembra sempre ricoperta da uno strato sottile di polvere. Quanto è giusto il nostro proverbio: "La luna è più rotonda all'estero che in Cina!"

Ogni chilometro che mi avvicina all'est, mi rattrista un po' di più. Ma la lentezza del viaggio ha almeno un pregio: assaporo ogni sosta. È sconcertante la facilità con cui si supera il controllo dei passaporti alle frontiere! Allora all'ovest si può passare da un Paese all'altro tanto facilmente? Le difficoltà iniziano tra la Germania Est e l'Unione Sovietica. A quanto pare i nostri visti sono rimasti sulla scrivania di qualche burocrate di Pechino. Quindi ci tocca cambiare treno e spostarci a Varsavia — i documenti per la Polonia li abbiamo, per fortuna —, dove l'ambasciata cinese accetta di ospitarci in attesa che ci preparino dei nuovi visti per l'URSS. Un contrattempo delizioso; potremo fare i turisti ancora per un po' prima del ritorno.

La città di Varsavia mi meraviglia — le donne e i bambini polacchi sono di una bellezza angelica — ma sono molto più attratto dall'URSS, dopo la scoperta dei grandi balletti sovietici agli studios di Changchun.

Mosca, finalmente! Che delusione... A cominciare dalla piazza Rossa, che è grande la metà della nostra Tian'anmen. E Lenin poi, nella sua bara di vetro, è minuscolo, un ometto qualunque. Possibile che sia lui il grande Lenin? Mi ero immaginato una corporatura imponente. L'indomani chiedo all'interprete di accompagnarmi in una panetteria ma, appena la nostra macchina si mette in marcia, un'altra comincia a seguirla. Il KGB di sicuro. Nel negozio c'è una pagnotta calda appena sfornata e chiediamo di comprarla. Il panettiere è riluttante, sembra scontento. Non accetterà subito di vendercela.

"Se mangiate tutto il mio pane, cosa mangeremo noi russi?"

L'interprete mette sul banco un bel fascio di rubli stringendosi nelle spalle e replica: "Di che ti lamenti, compagno? Ti aiuto a raggiungere l'obiettivo del mese!"

A Mosca i negozi sono vuoti, l'economia va male, l'inflazione galoppa. Il rublo non vale granché. Perché i Paesi socialisti sono tanto poveri e quelli occidentali tanto ricchi? Il contrasto mi fa riflettere.

Raggiungiamo il lago Baikal che, da solo, riscatta le tristi scene di Mosca. La distesa d'acqua è così ampia che non si vede l'altra riva e il treno ci mette sette, otto ore per aggirarlo. È dunque questa l'immensità sovietica? Al crepuscolo il cielo si screzia di nuvole rosate, mentre un nugolo argentato plana sullo specchio d'acqua che si estende all'infinito. La bellezza dello spettacolo riscuote anche quelli che sonnecchiavano: Dong Wenhua e Deng Lifang intonano i canti sovietici che abbiamo imparato a memoria e ci mettiamo a piangere per l'emozione. Sono paesaggi del genere che hanno ispirato ritornelli grandiosi come La mia patria è un territorio immenso. Sì, proprio l'immensità è alle radici del vigore dell'arte sovietica, dell'anima russa e dell'impero degli zar. Il senso di dismisura che a Mosca mi era sfuggito, lo colgo davanti al lago Baikal, capisco perché lo Stato russo, benché indebolito, mantenga la fierezza di un impero.

Impressionati dal paesaggio grandioso e turbati dai canti, siamo tutti malinconici quando il treno attraversa la frontiera della Mongolia. Il deserto del Gobi sfila davanti ai nostri occhi, una steppa arida popolata di rari cavalli lanciati al galoppo, poi arrivano i paesaggi ancora più spogli della Mongolia interna. Il mio cuore si stringe un po' di più a ogni passaggio di frontiera. So con certezza assoluta che un giorno lascerò la Cina.

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Un giorno Wang Yanyuan mi parla di piazza Tian'anmen. Almeno, mi sembra sia stata lei. Mi dice che è successo qualcosa di grave, non sa bene che cosa, però, solo che l'esercito ha sparato sugli studenti. La notizia si diffonde come un incendio in tutta la Fondazione. Cerchiamo di conoscere i particolari: chi ha partecipato alla manifestazione, chi è stato arrestato. Chi è stato ucciso. Gironzoliamo intorno agli uffici per cercare di saperne di più.

E, quasi subito, la grande notizia.

"Ne sei al corrente?"

"Di che?"

"Pare che il presidente Bush offra a tutti gli studenti cinesi presenti negli Stati Uniti prima del 4 giugno 1989 la possibilità di rimanere altri quattro anni. E poi quella di avere la carta verde."

Nel nostro piccolo gruppo tutti hanno da dire la loro.

"È uno scherzo."

"No, non credo, ci daranno la carta verde."

"No, ti sbagli, ci faranno soltanto restare più a lungo. Fino al 1994."

"È una trappola."

"Non ci credo."

"Comunque io torno indietro."

"Sei matto. Io rimango."

La stragrande maggioranza di noi decide di rimanere. Come rifiutare? Sappiamo bene che l'America ne approfitta per acquisire gratis dei nuovi talenti, visto che le borse non verranno rinnovate. Ma che importa? Di fronte all'occasione che ci si presenta, l'argomento non ha peso.

Al telefono da Pechino Yang Meiqi mi chiede se riuscirò ad arrangiarmi per mantenermi. Non c'è problema. Andrò a fare il lavapiatti in un ristorante cinese, se necessario. In realtà la Fondazione mi concederà una proroga della borsa di sei mesi.

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L'American Dance Festival si svolge ogni estate a Durham, nella Carolina del Nord. Manifestazione internazionale di danza moderna, è un festival prestigioso. Mi hanno invitato per guardare gli spettacoli, seguire i corsi e presentare una coreografia originale. Con i miei ventun anni sono di gran lunga il più giovane degli artisti, visto che tutti hanno già superato i trentacinque. Mi sento un piccolo studente, per niente sicuro di me. Sarà la mia prima creazione di danza moderna.

La rappresentazione avviene in una notte di luna piena. Ho scelto una musica coreana, Il drago che piange. Gli spettatori sono seduti su un prato di fronte a un palco di cemento. Mi inginocchio in mezzo alla scena a piedi nudi, vestito di bianco, una benda bianca sulla bocca, nella posizione e con l'abito di un uomo che, nella Cina tradizionale, è in lutto stretto per la morte del padre. Più di una cinquantina di ballerine – vestite con il qipao tradizionale, un vestito lungo con lo spacco – si alzano come spettri e mi volteggiano intorno. Sotto la luna piena l'atmosfera è fantasmagorica. Gli spettatori piangono. Appena finita la rappresentazione i giornalisti mi chiedono se il pezzo evoca gli avvenimenti di Tian'anmen. Sono caduti male. Non faccio politica. Il drago che piange esprime il dolore di un uomo che soffre lontano dalla sua terra natale. È un'opera molto personale.


L'affiche dell'American Dance Festival del 1990 mostra una mia foto in pieno volo, presa durante la performance del Drago che piange dell'anno precedente. Quando arrivo a Durham per la seconda estate, vedo l'immagine moltiplicata all'infinito sui muri della città e nei negozi, sui vetri, sulle T-shirt, le borse, e non riesco a crederci. Dopo il successo di "Tremblement", tutta l'America mi riconosce! La mia nuova coreografia si chiama Cultural Exchange. Ho invitato cinque ballerini di nazionalità diverse – russa, camerunese, messicana, venezuelana e cinese – a lavorare su una musica universale, La Tosca di Puccini. Un tavolo da refettorio ci serve da arredo. Ciascuno dei ballerini prende posto sul tavolo e segue un gioco di alternanze e variazioni evocativo di scambi culturali. Durante le prove riusciamo a comunicare senza problemi malgrado le barriere linguistiche ma, proprio il giorno della performance, mi trovo di fronte a una difficoltà insormontabile: il responsabile del refettorio non ci lascia portare via il tavolo.

"Non capisce? Abbiamo assolutamente bisogno del tavolo per ballare. È il nostro arredo principale."

Lui si ostina, fronte corrugata, stretto nelle spalle. Cambiamo tattica...

"Senta, lo prendo in affitto. Quanto vuole?"

Da bravo americano testardo e rigido, rimane inflessibile. Il tavolo appartiene alla caffetteria.

E da lì non si muove.

"Allora lo compro. Mi dica un prezzo."

Niente da fare. Alla fine riesco a scovare nel campus una panca che trasportiamo subito in scena. Avverto gli spettatori che la performance ha subito delle modifiche dell'ultimo minuto. E immagino la fine catastrofica della nuova coreografia. Come farò a segnalare il cambiamento imprevisto ai miei compagni mentre sto ballando? È un ventaglio di seta a tirarmi fuori dai guai: grazie a esso dirigo il balletto come un direttore d'orchestra dirige una sinfonia... The show must go on...

Poco tempo prima dell'American Dance Festival, nella primavera del 1990, Murray Louis mi ha invitato a unirmi alla sua compagnia per tre tournée: una in Kentucky, l'altra in Texas e la terza a San Francisco. Ho colto l'occasione al volo, non soltanto perché danzare con Louis è un'esperienza straordinaria, ma anche perché non sono mai stato all'Ovest. Sino a quel momento, New York a parte, conoscevo solo la Carolina del Nord.

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Per andare all'Accademia reale di Bruxelles ogni giorno attraverso il piccolo quartiere cinese che si trova quasi in centro, vicino alla Monnaie. Mi sento spiato, come se fossi sorvegliato da tutti quei segni, soprattutto dai due ideogrammi che compongono la parola CINA. Mi seguono con lo sguardo, mi apostrofano. Allungo il passo. Mi sussurrano parole che non sono ancora pronto ad ascoltare. La mia vita è piacevole e tranquilla, a Bruxelles. Abito in un bel palazzo del centro storico. Ho due amanti, maître E. e un amico olandese che viene a trovarmi tutti i fine settimana. La mattina, il giovane panettiere inglese di fronte a casa mia mi porta i panini freschi. Il sabato e la domenica gli do una mano alla cassa. Insegno. Ballo. Non ho voglia di tornare in Cina. E tuttavia gli ideogrammi mi chiamano sempre più forte. A volte compro in una gastronomia cinese gli ingredienti per preparare ricette del mio Paese. La domenica vado al grande mercato antiquario e passeggio per le strade che traboccano di cineserie. Ammiro gli scaffali di porcellane, le scatole laccate, le sete ricamate di fili d'oro. Quando vivevo in Cina sognavo di vivere in Occidente e adesso che ci sono, ora che l'eccitazione dei primi giorni si è affievolita, vedo la Cina con altri occhi. Quegli oggetti d'arte sono i testimoni di una civiltà che è tra le più antiche e le più raffinate del mondo. Prendo una scodella laccata di rosso cupo nell'incavo della mano e ne sfioro i contorni con un dito. La superficie è liscia e lucente come l'acqua di un lago. Srotolo della carta di riso dalla calligrafia rigorosa, voluttuosa come un jeté di balletto. L'azzurro delle porcellane ha la trasparenza di un'acquamarina. Il mio petto si gonfia di orgoglio. Mi vergogno dei cinesi che, dato che vivono all'estero, negano l'onore di appartenere al loro popolo. Se uno straniero muore in Cina, le autorità del Paese porgono le scuse. Se un cinese muore lontano dalla sua terra natale, gli stranieri se ne fregano. Nell'esercito consideravo il patriottismo come un effetto della propaganda. Ma adesso, ogni volta che percorro le strade del quartiere cinese, il mio cuore si stringe un po' di più.

All'inizio del 1993, dopo il capodanno cinese, comincio a temere gli ideogrammi. Lo vedo che cercano di attirarmi, di sedurmi. Mi turbano. Cambio il percorso verso l'Accademia di danza. Magari, lontano dalle strade cinesi, il mio desiderio di ritornare in patria scomparirà.


Penso all'operazione per tutto l'inverno. Non ho incontrato altri transessuali dopo quelli di Roma. So che la comunità transessuale è un'isola minuscola. Ma è su quell'isola che devo approdare.

Il chirurgo belga è famoso. È uno specialista mondiale di riattribuzione del sesso. Da dietro alla scrivania, sciorina le sue conoscenze, le sue percentuali di successi. Mi descrive l'operazione: apertura del pene, il prepuzio, i nervi, il glande, tutti i dettagli tecnici. Mi parla di due anni di assistenza psichiatrica obbligatoria, dell'anno che devo passare vestito da donna per verificare la mia capacità psicologica. Mi guarda appena. Le sue mani sfarfallano sulle tavole mediche illustrate. È tutto preso dall'affare. Mi vede già disteso sul tavolo operatorio mentre le sue dita guantate prendono gli strumenti chirurgici uno dopo l'altro. Sono un pezzo di carne in mani competenti.

"E pronto? Quando vuole cominciare la procedura?"

Continua a non guardarmi. Sfoglia l'agenda.

È un vero professionista, il dottore. La mano di sicuro è precisa, impeccabile. Non un movimento sbagliato, non una sbavatura. Si sente. Ma è la vita che gli metto in mano. Dentro di me ho di sicuro una gran paura. Sono incerto. Ho tante domande da fargli: che cosa pensa del mio corpo? Sono un buon candidato? Quali sono i rischi? È davvero possibile diventare donna? La società lo accetta? Vorrei rivelargli che non ho bisogno di due anni di terapia, che sono pronto da almeno dieci. E che, comunque, non ho i mezzi, che mai potrei vestirmi da donna con un corpo da uomo: per me, per la mia cultura, non è corretto.

Invece non gli dico niente.

Lui sta aspettando la mia risposta con la penna in mano. No, impensabile affidarsi a quell'uomo. Non abbiamo niente in comune.

Appoggio le mani sui braccioli della poltrona.

"Grazie. Ho bisogno di riflettere ancora."

Mi stringe la mano.

"Mi chiami quando avrà deciso."

Torno a casa passando per il centro, attraverso le stradine del quartiere cinese. Questa volta gli ideogrammi mi calmano. Non resisto. In Cina sono nato e in Cina rinascerò come donna, a casa.

La telefonata di mia madre mi coglie di sorpresa: la voce è imperiosa, l'ordine diretto.

"Jin Xing, è da tanto che sei partito. Devi rientrare in Cina."

"Mio Dio! Pensavo la stessa cosa, ma non sono ancora pronto."

"Il momento è arrivato."

"Hai ragione. Sento che è la volontà del cielo."

In effetti voglio rientrare per l'operazione, ma mia madre non ne sa ancora niente. Rimane il mio segreto. Le attrezzature del sistema ospedaliero cinese non valgono quelle occidentali. Pazienza. La mia terra natale mi proteggerà, ne sono sicuro.

Il giorno dopo mi licenzio dall'Accademia reale. Faccio le valigie, distribuisco i mobili tra gli amici come avevo fatto alla partenza da Roma e, prima ancora, alla partenza da Pechino. In quindici giorni sono pronto.

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