Copertina
Autore Adrian Johns
Titolo Pirateria
SottotitoloStoria della proprietà intellettuale da Gutenberg a Google
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2011, Nuova Cultura 248 , pag. 717, ill., cop.fle., dim. 14,7x22x4,5 cm , Isbn 978-88-339-2182-2
OriginalePiracy. The Intellectual Property Wars from Gutenberg to Gates [2009]
TraduttoreMaddalena Togliani, Giuseppe Maugeri
LettoreCorrado Leonardo, 2011
Classe copyright-copyleft , beni comuni , diritto , storia sociale , libri , informatica: storia , informatica: reti , informatica: sociologia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


        Pirateria

 13  1. Pirati di ieri e di oggi
        La pirateria e la rivoluzione della stampa, 21
        Principi di pirateria, 25

 31  2. L'invenzione della pirateria
        Artigiani e autorità intellettuale, 33
        Legge, politica e stampa, 38
        Storia, civiltà e natura della stampa, 46
        Nemici del genere umano, 54

 61  3. La pirateria dei Lumi
        La sfera d'influenza dei pirati, 68
        Pirateria e ragione pubblica, 75

 82  4. Esperimenti con la stampa
        L'invenzione della lettura scientifica, 84
        Isaac Newton e il rifiuto dell'esame, 90
        L'acqua di mare e l'economia politica dei brevetti, 99
        La scienza dei sali, 1o8

114  5. La pirateria farmaceutica e la nascita dei brevetti medici
        La pirateria di parole e cose, 116
        Verità e falsità premeditata, 127
        La medicina sul bilancino, 132
        Il mercato della medicina, 144

147  6. Epopee e planetari
        Congers e copie, 149
        Nazioni e leghe, 154
        La pirateria, il progresso e il pubblico, 163
        Autorialità e invenzione, 167
        Moti perpetui, 181

193  7. La terra di nessuno
        Ristampa: cultura e condotta, 195
        Consuetudine e consenso, 211
        Una Universal History dell'infamia, 218
        La fine di un regno di pirati e l'inizio di un altro, 232

236  8. La nascita di una nazione
        Ristampa e Rivoluzione, 237
        Imitazione e miglioramento, 244
        «La costituzione del nostro pubblico letterario», 258
        Una rete sociale? L'associazione e i suoi insuccessi, 269
        Il sistema americano dell'informazione, 277

281  9. La controrivoluzione della stampa
        Le biblioteche universali e i limiti dell'Illuminismo, 284
        Genealogia e genio, 290
        La controrivoluzione della stampa, 302
        Genio, storia e copyright, 306
        Piccola scienza, 314
        Genio gotico, 318

322 10. Inventori, macchinatori, uomini di scienza
        Brigantaggio legale e declino della scienza, 325
        Dalla riforma all'abolizione, 337
        La campagna abolizionista, 345
        L'Inventors' Institute e l'invenzione della proprietà
        intellettuale, 360
        Le armi e l'operaio, 365
        Proprietà imperiale, 372
        Il diavoletto di Monkswell, 377

380 11. Copyright internazionale e scienza della civiltà
        Le regole del «gioco», 385
        Leviatano, 396
        Pro e contro il copyright transatlantico, 401
        Civiltà e forza societaria, 405
        Due idee di pirateria, 419
        Universalità e Impero, 426

428 12. I primi cacciatori di pirati
        Come acciuffare un ladro, 435
        Arthur Preston e i luoghi della pirateria, 442
        Il re in Parlamento, 449
        La cospirazione, 460
        L'ascesa dei cacciatori di pirati, 463

467 13. La grande guerra dell'oscillazione
        Brevetti, politica e nuovo genere di pirateria, 468
        Pirati e sperimentatori, 478
        Cittadini e scienziati, 485
        La guerra sugli oscillatori, 500
        Autorità culturale, ascolto pirata e natura di un mezzo di
        comunicazione, 520

522 14. Proprietà intellettuale e natura della scienza
        Industria, scienza e bene comune, 523
        Proprietà intellettuale contro economia dell'informazione, 538
        Proprietà tacita, 543
        Il brevetto come meccanismo di jamming, 551
        Beh, proprio l'inferno, 561

564 15. Il pirata in casa e fuori
        Pirateria domestica, 565
        L'economia morale della pirateria musicale, 569
        La lenta morte della musica, 581
        Bibliotecari e banditi a tempo, 586
        Samurai in soggiorno!, 595
        Mondi su nastro, 604

607 16. Dal phreaking al fudding
        Phreaking, 609
        Hacking, 619
        La disintegrazione della convivialità, 627
        Paura e disgusto in rete, 634
        Fudding, 643

650 17. Passato, presente e futuro
        L'industria a difesa della proprietà intellettuale, 651
        La fine della proprietà intellettuale, 665

679     Ringraziamenti

683     Indice analitico


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

1.

Pirati di ieri e di oggi


Verso la metà del 2004, i dirigenti della NEC di Tokyo, gigantesca multinazionale dell'elettronica, vennero informati della contraffazione e vendita dei loro prodotti in Cina. Non ne rimasero sorpresi, si trattava di ordinaria amministrazione per aziende di quel calibro. Oltretutto, all'inizio pareva che l'entità dei danni fosse minima: la riproduzione illegale riguardava solo DVD vergini e prodotti simili. La società tuttavia si mosse subito e reagì come sempre in quei casi, incaricando un'azienda, chiamata International Risk, d'indagare sull'accaduto. Non c'era motivo di sospettare che l'incidente fosse atipico: un fenomeno irritante, certo, ma purtroppo impossibile da sradicare. Era il prezzo da pagare per chi volesse fare business su scala globale.

Due anni dopo, le scoperte di International Risk lasciarono allibiti perfino i maggiori esperti di contraffazione industriale. Non si trattava, infatti, di un intraprendente contraffattore di DVD, ma di una vera e propria organizzazione NEC parallela, attiva in una mezza dozzina di paesi e perfino in diversi continenti. Come sottolineò costernato il vicepresidente della vera società, i falsari avevano «tentato di appropriarsi completamente della marca NEC». La falsa NEC, come l'originale, era multinazionale e molto professionale. I suoi agenti erano dotati di biglietti da visita aziendali ed erano perfino assunti pubblicamente, tramite annunci di lavoro apparentemente del tutto legali. L'azienda pirata aveva non solo contraffatto i prodotti NEC esistenti, ma perfino investito in ricerca e sviluppo per crearne di nuovi. Con il passare del tempo aveva fabbricato tutta una serie di gadget, dai lettori MP3 a costosi sistemi di home cinema. Era materiale di alta qualità, con garanzie analoghe a quelle di NEC (in effetti, l'imbroglio era stato scoperto proprio quando i clienti avevano cercato di far valere la garanzia rivolgendosi a NEC). Per fabbricare i prodotti, la multinazionale autrice della truffa aveva firmato contratti di licenza con più di cinquanta aziende sparse tra Cina, Hong Kong e Taiwan, che in alcuni casi credevano in buona fede di lavorare per la vera NEC. La falsa NEC aveva sviluppato reti di distribuzione sofisticate, permettendo ai propri prodotti di raggiungere un mercato globale che si estendeva fino in Africa e in Europa. Per la stampa internazionale si trattava di un «nuovo passo avanti della contraffazione». Un progresso davvero drammatico e impressionante.

Verso la metà del 2006, quando fu comunicata la notizia della truffa ai danni della NEC, l'informazione si diffuse rapidamente su Internet. Lettori e commentatori della blogosfera non si stancavano di riprodurre gli articoli apparsi sulla stampa e, sebbene esprimessero preoccupazione per le implicazioni dell'accaduto, lo facevano con una punta di gioia maligna. Nessuno di loro poteva avere la certezza che gli hard disk, i chip, gli schermi o le tastiere «NEC» che usava per il proprio blog fossero ciò che sembravano. Alcuni lo trovavano spaventoso, per le conseguenze che questo rischiava di avere sul concetto stesso di conoscenza nel mondo attuale, visto come un'immensa rete. Altri, pur ammettendo tali implicazioni, le consideravano positive: il gigante NEC era stato spinto sull'orlo del disastro da fuorilegge senza nome che si erano dimostrati più veloci, più agili, più furbi. La cassa di risonanza del Web amplificò l'episodio, facendolo diventare il simbolo di ogni paura culturale, dubbio epistemico e sogno liberale ispirato dall'era digitale. L'accaduto faceva intravedere verso quale direzione ci stavano portando le minacce, ormai banali, legate al phishing e al furto d'identità.

Il caso di un Doppelgänger multinazionale sembra proprio una sorta di punto culminante. È difficile immaginare un atto di contraffazione più spettacolare, salvo magari una falsa World Intellectual Property Organization. Del resto, l'atto di pirateria ai danni della NEC aveva dato prova di un tempismo perfetto: proprio allora, infatti, quella forma di contraffazione era stata identificata come la nuova tendenza dilagante, destinata a prendere il posto di hacking e pharming nel campo della pirateria digitale. Fu battezzata brandjacking, cioè furto di brand, e annoverata tra le nuove minacce più pericolose dall'amministratore delegato di International Risk - il quale, non a caso, era un veterano della polizia di Hong Kong ed esperto di rapimenti. Questa forma di contraffazione, ripeté in diversi interventi pubblici, stava diventando una sfida quotidiana per le industrie di elettronica e farmaceutiche, e ricorreva a un modus operandi ben riconoscibile. Di solito tutto iniziava quando una società legittima concedeva a uno stabilimento la licenza per fabbricare i propri prodotti; i ladri di brand che usavano la fabbrica come copertura si appropriavano di tutta la documentazione necessaria per la licenza, la copiavano e la usavano per trovare altri stabilimenti di produzione. Questi ultimi di solito non sapevano neanche di avere a che fare con degli impostori. Dopotutto, i truffatori si avvalevano di tutti gli strumenti - certificati, fatture, moduli, contratti - che di solito sono garanti della legittimità nel capitalismo moderno. I brandjackers più difficili da debellare erano quelli che agivano su scala internazionale, in particolare quelli che concentravano l'attività tra Taiwan e la Cina continentale. Le autorità della Repubblica Popolare talvolta erano restie a prendere provvedimenti contro aziende locali che sostenevano, in modo plausibile, di agire in tutta innocenza. Tali punti deboli furono sfruttati al massimo dal gemello criminale di NEC.

L'esperienza traumatizzante di NEC mette in evidenza tutta la gamma di fenomeni che ricadono sotto il termine di «pirateria», nell'accezione moderna. Essi non si limitano al furto della proprietà intellettuale, ma vanno a toccare addirittura gli elementi cardine della cultura moderna: scienza e tecnologia; proprietà, autenticità e attendibilità; ordine pubblico e politica; le basi stesse dell'attività economica e dell'ordine sociale. Ecco perché la questione della contraffazione preoccupa tanto. La nostra è vista come l'era dell'informazione, perfino della rivoluzione dell'informazione. Eppure è come se, d'un tratto, i nemici della proprietà intellettuale fossero dappertutto, mettendo in pericolo le regole basilari di un'economia dell'informazione. Le università diventano il rifugio di molti appassionati di file-sharing, che si avvalgono senza remore di servizi che l'industria discografica considera come pirateria. Le aziende di biotecnologia, che sperimentano organismi geneticamente modificati nei campi di cotone in India, accusano gli agricoltori locali di essere «ladri di semi» quando questi usano parte del raccolto per seminare. E i dirigenti dell'industria cinematografica di Hollywood vanno in prima pagina quando fanno fronte comune per vendere film on-line, una rara forma di cooperazione motivata dalla paura, condivisa, di perdere il controllo della proprietà intellettuale. La minaccia della contraffazione è tanto tangibile che negli Stati Uniti il Digital Millennium Copyright Act ha perfino reso illegale la divulgazione di algoritmi che potrebbero essere usati per disattivare o eludere i dispositivi antiriproduzione. Uno studente che presenta un lavoro di ricerca in Nevada può essere arrestato non perché colpevole di contraffazione, ma per aver divulgato principi che potrebbero permettere ad altri di praticare tale forma di pirateria. Nell'economia globale odierna non esistono solo libri, CD e video contraffatti, ma anche jeans, motociclette, farmaci, componenti di aerei e, naturalmente, Pokemon. Un romanzo recente immagina il crollo dell'intera economia degli Stati Uniti dopo che il codice sorgente del principale software brevettato è divulgato in larga scala sul Web. «Ai cinesi non è mai andato a genio il concetto di "proprietà intellettuale"», spiega uno scienziato premio Nobel nel 2044, «così sono venuti a vederci le carte». «E quindi adesso, grazie ai cinesi, la ricerca scientifica di base ha perso i suoi sostegni economici. Ormai dobbiamo tirare avanti basandoci soltanto sul prestigio, ma non è molto».

In questa rassegnata protesta è implicita l'ammissione che l'informazione è ormai diventata un fondamento essenziale del moderno ordine sociale, economico e culturale. È lo strumento principale nell'economia globale, e il controllo e la gestione delle informazioni sono diventati sempre più importanti. Nel XIX secolo la chiave del potere economico era detenuta dalle fabbriche; per gran parte del XX secolo al primo posto si trovava l'energia. Ora invece si contendono il primato la conoscenza, la creatività e l'immaginazione. La contraffazione è la più grave minaccia in quest'ordine economico emergente, oltre che di quest'ordine. Uno spettro si aggira per l'Europa, avrebbe potuto scrivere un Engels dei giorni nostri. Ma non è solo l'Europa a essere spaventata, bensì l'intero mondo economico; e il fantasma che incombe su di noi non è un comunista, ma un pirata.

Il problema è ancora più spinoso di quanto potrebbe sembrare, perché non si può ridurre a una lotta di classe incentrata sull'informazione. I contraffattori, in molti casi, non sono proletari alienati, né individui estranei che preferiamo considerare ben diversi e lontani da noi. I pirati siamo noi. Le società di biotecnologia si lamentano, certo, per i ladri di semi, ma spesso sono loro stesse accusate di «biopirateria». La stessa accusa in Occidente è rivolta con facilità anche a pharmers ad alta tecnologia: in questo caso il termine non si riferisce a contraffattori di siti Web senza scrupoli, ma a bioscienziati ed etnobotanisti con credenziali di tutto rispetto, che percorrono i Tropici alla ricerca di nuove medicine. In questi casi, gli istituti di ricerca scientifica e medica da cui dipendiamo sono denunciati per pirateria non perché distruggano una proprietà intellettuale, ma proprio perché la introducono laddove prima era assente. Se c'è un'accusa comune che tutti i protagonisti della globalizzazione, dagli ambientalisti radicali ai funzionari dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, rivolgono ai propri nemici, è proprio quella di pirateria. Nell'era dell'informazione la pirateria, che da una parte rappresenta il rifiuto del capitalismo dell'informazione, dall'altra il suo compimento, è diventata la trasgressione per antonomasia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 28

Da simili esempi possiamo estrapolare qualcosa di molto vicino a un'ipotesi sullo sviluppo della pirateria, secondo cui la riproduzione illegale è essenzialmente un fenomeno legato a frontiere geopolitiche. In base a questa visione, la pirateria fiorisce sempre alle frontiere del processo di civilizzazione. Quindi, per esempio, la troviamo nelle strade affollate della Londra di Shakespeare, e nelle viuzze di Milton. Nel XVIII secolo si diffonde in periferia, nelle province, poi nei paesi limitrofi. Nel XIX secolo s'insedia in America (e in Belgio), nel XX in Giappone, poi in Cina, e ora in Vietnam. In ogni caso, mentre la riproduzione abusiva si allontana sempre più dal punto d'origine, le leggi e norme sulla proprietà intellettuale si affermano nei nuovi territori in cui la pirateria viene progressivamente debellata. La riproduzione illegale sembra emergere ogniqualvolta potenze economiche in fase di sviluppo si trovano accanto a centri nevralgici del commercio. È attribuita ai barbari alle porte, a ciò che i russi chiamano «l'estero vicino». E di conseguenza è destinata a essere eliminata grazie al processo di civilizzazione, foriero di un'economia neoclassica integrata a livello globale.

Naturalmente, si tratta di un mito. La pirateria non è stata debellata nel mondo civile - dove, anzi, il suo impatto resta pari a quello rilevato nelle nazioni in via di sviluppo -, e inoltre esistono forme diverse di modernità. Eppure il mito ha una sua importanza. Il concetto di frontiera evanescente tra noi e gli altri ha conseguenze concrete che dobbiamo affrontare, senza darle per scontate. Mi auguro che questo libro possa fornire qualche suggerimento a tal fine. In particolare, mostrare come le pratiche della pirateria siano dipese dal modo in cui la gente ha concepito cose come le frontiere, le barriere interne o la nazione, mette alla prova gli assiomi dell'ipotesi geopolitica e allo stesso tempo consente di apprezzarne l'attrattiva. Ciò che questo libro - e nessun libro - può fare, è proporre nel dettaglio un'alternativa a questa ipotesi che possa valere a livello locale. Sarebbe affascinante leggere una descrizione precisa del caso cinese, per esempio, o giapponese, o vietnamita, o dell'ex blocco sovietico, ma io non sono in grado di fornirvele. Spero solo che il mio approccio possa essere di esempio per chi vorrà cimentarsi nell'impresa.

Lo stesso vale per i tentativi di affrontare l'attuale crisi della proprietà intellettuale. Forse è proprio in questo campo che l'approccio storico alla pirateria ha le sue conseguenze più significative. Esso ci dice che la pirateria, proprio come le reazioni che provoca, è profondamente radicata nel mondo in cui viviamo. In un certo senso, la storia di entrambe è la storia della modernità stessa, vista non dal basso ma di traverso. Mi auguro che chi mi leggerà fino in fondo giungerà alla mia stessa conclusione: senza una tale visione, gli sforzi per combattere la pirateria vanno considerati con giustificato scetticismo. Essendo mal concepiti, essi di solito si rivelano inefficaci. Peggio ancora, rischiano di trascurare alcune relazioni createsi nel corso della storia e danneggiarne altre. E in casi estremi possono perfino mettere a repentaglio alcuni elementi di modernità che consideriamo essenziali per la vita in una società civile. Non mancano esempi di pratiche antipirateria che suscitano interrogativi del genere, potenzialmente altrettanto gravi di quelli posti dalla falsa NEC. Quando un'azienda californiana crea un falso sito BitTorrent per incastrare gli incauti utenti che scaricano illegalmente i file, al lettore profano viene da chiedersi chi sia il vero pirata. Quando una multinazionale installa di soppiatto nei computer che vende un software per la protezione dei diritti digitali che può renderli vulnerabili agli attacchi di un trojan horse, dove sono andati a finire i diritti del cliente sulla proprietà, per non parlare della privacy? Quando una società di biotecnologia assume dipendenti che si trasformano in agenti provocatori per cogliere sul fatto gli agricoltori «ladri di semi», ci si può chiedere che fine abbiano fatto l'autenticità e la responsabilità. Non è certo una novità che i problemi di privacy, responsabilità e autonomia - problemi al centro della politica tradizionale - siano legati a quelli della proprietà intellettuale. Ma per spiegarlo serve una visione specificamente storica.

In breve, il legame tra creatività e commercio che ha prevalso nei tempi moderni è ora in una situazione difficile. Le sue implicazioni nascono nella proprietà intellettuale ma vanno ben oltre, rischiando perfino di provocare una crisi della stessa cultura democratica. È difficile immaginare una soluzione soddisfacente se la società non trova una nuova interpretazione della proprietà intellettuale e del modo di controllarla. In altri termini, la storia suggerisce che si sta avvicinando una riconfigurazione radicale di ciò che oggi chiamiamo proprietà intellettuale, come effetto delle misure antipirateria e della pirateria stessa. Un esito del genere non è inconcepibile. Cambiamenti altrettanto profondi nella relazione tra creatività e commercio si sono già verificati in passato. Nel XVIII secolo, per esempio, è stato inventato il diritto d'autore, mentre nel XIX secolo iniziò a esistere la proprietà intellettuale. Tra qualche decennio, i nostri successori, guardandosi indietro, potranno ben dirsi che tale trasformazione era imminente ai giorni nostri. Se vogliamo ritardare o impedire tale risultato - o se speriamo di mantenerne il controllo - allora dovremo essere in grado di cambiare il nostro approccio alla pirateria. Per questo è necessario adottare una visione storica, che dovremo applicare per trovare una soluzione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 522

14.

Proprietà intellettuale e natura della scienza


La pirateria rivestì un ruolo centrale nella comparsa della società dell'informazione. E questo non solo nel senso, ovvio, che i pionieri della radio saccheggiavano ognuno le invenzioni degli altri e che i radiotrasmettitori non autorizzati si contendevano la larghezza di banda. A un livello più ampio e profondo, l'identificazione di nuove forme di pirateria (e le strategie intraprese per contrastarle) richiese l'articolazione di ciò che la stessa comunicazione e informazione di massa sarebbero state in una società democratica. Un simile imperativo non interessò forse nessun aspetto della cultura moderna quanto l'impresa definitiva della società industriale occidentale: la scienza. Intorno alla metà del Novecento, le polemiche sulla pirateria e la proprietà intellettuale portarono a rivalutare il rapporto tra ricerca e bene comune. In conseguenza di ciò, cominciò ad affermarsi una diversa visione dell'impresa scientifica: della sua natura, del suo scopo, della sua legittimità e della sua autorità. Una visione che avrebbe avuto grande influenza, tanto da contribuire a modellare, nel dopoguerra, le strutture amministrative e istituzionali del mondo scientifico. Ancora oggi, in effetti, essa continua a modellare ciò che noi stessi consideriamo essere la scienza.

Uno dei motivi per cui tutto questo assume importanza sta nel fatto che la natura della scienza, e il posto che questa occupa, sembrano oggetto di una nuova incertezza. Una delle convinzioni più importanti circa la scienza nel nostro mondo vuole che, così come questa ha globalizzato la propria portata, allo stesso modo ha annullato le frontiere a lungo rispettate tra pubblico e privato, interesse e disinteresse, università e industria. La scienza sembra scavarsi il proprio cammino attraverso le pareti gotiche del mondo accademico con molta più disinvoltura di quella mostrata un tempo. A guidarla è il motore della proprietà intellettuale. I brevetti «incentivano» l'originalità inventiva, affermano i sostenitori - e l'aumento annuale del numero di brevetti depositati testimonia evidentemente del loro successo in tal senso. Per gli oppositori, invece, la «corsa» al brevetto è una forza corruttrice nel cuore della cultura scientifica. Così come le convenzioni proprietarie affluiscono «a monte» dal mondo commerciale per inquinare - si tratta di un linguaggio abbastanza comune - quello della ricerca vera e propria, la biomedicina in particolare viene dipinta come traditrice di una tradizione più antica di «scienza aperta». E se la scienza è semplicemente conoscenza aperta, allora essa in quanto tale è in pericolo. Nel frattempo, non c'è bisogno di aggiungere che molti vedono un'esplosione nell'estensione, nella portata e nel volume delle accuse di pirateria che turbinano intorno alle discipline scientifiche. Questa congiunzione spiega perché i conflitti attuali circa la commercializzazione della ricerca e l'aziendalizzazione dell'istruzione siano così aspri. Tutte le parti in causa vedono in gioco la natura essenziale della missione scientifica. E non è detto che abbiano torto. Ma se quella natura essenziale è in realtà un retaggio delle polemiche sulla pirateria della metà del XX secolo, allora, in un modo o nell'altro, le conseguenze potrebbero non essere quelle che tutti noi abbiamo supposto.


Industria, scienza e bene comune

Nell'America fra le due guerre, come oggi, i brevetti rappresentavano un punto di connessione tra industria e scienza. Le aziende più importanti dovevano la loro esistenza alla creazione, all'acquisto, al controllo e alla manipolazione dei brevetti. Avevano perciò cominciato a dar vita a grossi laboratori partendo da quelle che in precedenza erano state divisioni di brevetto; e, in verità (anche se non sempre nella retorica), questi laboratori rimasero dedicati principalmente alla creazione di ulteriori brevetti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 561

Beh, proprio l'inferno

Viviamo ancora tra i retaggi di questi dibattiti di metà Novecento su scienza e società. Ne abbiamo ereditato i termini, e la cultura della scienza che informa il nostro mondo è quella che ci hanno lasciato loro. Se pensiamo che «l'informazione vuole essere libera», allora stiamo dando voce a un parere sostenuto da Wiener, Polanyi e Plant. E quando ci preoccupiamo (almeno molti di noi lo fanno) che la ripresa dei brevetti e dell'affarismo nel campo della ricerca possa tradire la scienza, facciamo appello a un'immagine quasi mertoniana dell'impresa, anch'essa incorniciata da un dibattito sui medesimi temi. Non a caso, sulle possibilità di sopravvivere al cambiamento lo stesso Merton sembrava meno ottimista alla fine degli anni ottanta di quanto non lo fosse stato negli anni quaranta.

Ciò che sta accadendo oggi alla scienza è sotto certi aspetti un esempio di quanto sta accadendo a tutti gli altri esercizi creativi. Con una differenza molto importante, però. In tutti gli altri campi, la globalizzazione è rappresentata come sostitutiva dei localismi: stili musicali, letterature, mode e così via. Nelle scienze il discorso è diverso. Un carattere di universalità evidentemente nuovo, e orientato al mercato, sembra rimpiazzare non un accumulo di localismi, ma una più antica - e, molti pensano, più nobile - forma di universalità. Questa forma più antica era, in prospettiva, la vera scienza in sé: un impegno obiettivo, e ideologicamente neutrale, che produceva una conoscenza indipendente dal luogo della sua creazione proprio perché era separata dal mercato. È questa differenza a offrire terreno fertile alle critiche della cultura scientifica rivolta ai brevetti, critiche che dall'accusa di degrado sono passate a quella di tradimento. In mano, a quanto pare, ci resta solo il simulacro vuoto di una nobile impresa. Questa è la contesa fondamentale che si nasconde dietro la polemica più irosa, perfino violenta, che oggi scuote il mondo della scienza. E dovrebbe essere ormai chiaro che le premesse di tale disputa sono ancora poco comprese. In particolare, l'immagine di scienza corretta a cui fa appello questa critica non è affatto adeguata in termini storici. Contrariamente alla credenza popolare; "in realtà non c'è stato alcun salto di qualità nel campo dei brevetti scientifici negli anni ottanta. Negli anni trenta alcuni istituti di ricerca andavano in cerca di brevetti con la stessa avidità con cui quelli del MIT e dell'UCSD lo fanno adesso. E come Steven Shapin ha dimostrato nel dettaglio, negli anni intorno alla metà del XX secolo la pratica scientifica - sia in ambito industriale che accademico - non era distinguibile sulla base di alcun rigido fondamento morale. Più precisamente, quella stessa immagine è un relitto dei precedenti conflitti circa la brevettabilità della ricerca e la recinzione dei «terreni comuni» intellettuali e tecnologici. In altre parole, non è alla domanda se la scienza pura sia mai esistita che dobbiamo le dispute sulla proprietà intellettuale e sulla pirateria: quanto all'idea che potesse esistere. Alla luce della storia, non sorprende poi molto che il ritorno alla ribalta della proprietà scientifica ai giorni nostri debba dar sfogo a simili passioni.

Per calmare queste passioni abbiamo bisogno di una diversa comprensione storica della scienza. Fino alla recente ascesa delle scienze della vita, l'opinione diffusa era quella che vedeva nel Progetto Manhattan l'episodio epocale nella scienza contemporanea. Da quel progetto nacquero la Big Science e istituzioni del dopoguerra come la National Science Foundation e i National Institutes of Health. Mentre sarebbe assurdo negare l'importanza della bomba, è tuttavia il caso di formulare una visione alternativa. In questa prospettiva, la storia della scienza moderna non dipenderebbe dalla fisica, e neanche dalla biologia, ma dalla comunicazione e dal calcolo. Tale ricalibrazione comporterebbe la revisione della cronologia, del punto focale, dei problemi e delle fonti della storia della scienza moderna. Il suo momento epocale andrebbe retrodato agli anni venti, con l'avvento della radiodiffusione e della telefonia a lungo raggio. I suoi problemi nodali implicherebbero la natura mutevole dello scienziato e il destino delle norme scientifiche, con l'emergere di una scienza manageriale, aziendale e basata sul lavoro di squadra. La vicenda controversa dei brevetti e dei loro nemici fornirebbe un modo di accedere a questa storia e di comprenderne l'importanza. Se vogliamo venire fuori dall'inferno, questa potrebbe essere una via d'uscita percorribile.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 565

Pirateria domestica

Che la pirateria, intesa in senso lato, possa compiersi in casa, non è una novità. Nella Londra nel XVII secolo i pirati della stampa lavoravano in casa, così come nei primi anni del Novecento i pirati musicali distribuivano le loro copie di canti popolari a migliaia dalle case a schiera di Liverpool e Manchester, e i pirati dell'ascolto, vent'anni dopo, potevano essere intercettati nelle loro abitazioni. Eppure, il concetto di «pirateria domestica» sembrava sempre qualcosa di controintuitivo: e questo rimase vero negli anni sessanta e settanta. Le autorità europee e americane cercarono costantemente, e in egual misura, di distinguere la «duplicazione» o «registrazione domestica» dalla pirateria vera e propria. La pirateria, insistevano, era un'attività commerciale e, quindi, non domestica. La registrazione «privata» era per uso personale, o al massimo per la condivisione tra pochi amici in un contesto non commerciale. Ma, con il proliferare della pratica, questa distinzione si sgretolò. Nelle presentazioni degli avvocati delle aziende, nelle dichiarazioni meno prudenti delle associazioni di categoria e, soprattutto, nella stampa, la «pirateria domestica» divenne per la prima volta una realtà. La registrazione di trasmissioni radiofoniche, poi di dischi e, infine, di programmi televisivi e film venne etichettata come pirata anche quando non aveva scopi di mercato. Alla fine degli anni settanta l'industria musicale la dipinse come la più grande minaccia che avesse mai dovuto affrontare - un pericolo tale da porre a rischio l'esistenza stessa della musica. In seguito, questo genere di retorica sarebbe stata ripresa da Hollywood e dalle emittenti alla nascita dei videoregistratori, e dall'industria dell'intrattenimento di massa con l'avvento delle reti digitali. Quello che molti cittadini vedevano come una pratica innocua - per non dire costruttiva, anzi, visto che rappresentava una forma di aggregazione e che dava modo di emergere a nuove forme d'arte - assunse un significato sinistro. Ogni volta che pigiavano il tasto record, si cominciò a dire ai cittadini, essi contribuivano alla «morte della mutica».

La storia stessa della «casa» modulò il significato di questa proclamata pirateria in almeno due modi. Il primo aveva a che fare con concezioni di ordine morale e politico. Il nido domestico aveva per lungo tempo rappresentato l'unità fondamentale su cui si basava la società. Dall'inizio dell'era moderna, la nazione politica era stata interpretata come un'enorme concatenazione di nuclei familiari. Inoltre, nel diventare il luogo deputato allo svolgimento della maggior parte dei mestieri artigiani e delle attività commerciali, l'ambiente familiare aveva acquisito un'aura potente di decoro morale. La bottega artigiana o di vendita al dettaglio, che occupava il piano terra di un palazzo rinascimentale cittadino, era stata una sorta di spazio misto, in cui il mondo pubblico della strada e quello privato della casa si mescolavano in un'unica dimensione. Attraverso questo spazio la tutela del patriarca si estendeva dalla famiglia alla produzione e alla gestione commerciale. I libri, come abbiamo visto, venivano realizzati e venduti sotto tale autorità, come tutti gli altri beni. Molti dei casi in cui, all'inizio dell'era moderna, i libri sediziosi o diffamatori vennero perseguiti dipendevano dalle distinzioni tra gli ambienti della casa: da chi poteva avere accesso a certe stanze particolari e da quello che poteva farci dentro. Il lavoro clandestino, illegale o semplicemente fatto male era associato ad altri spazi. Poteva ad esempio essere svolto al piano di sopra, nella parte sicuramente privata dell'abitazione: circostanza che implicava l'occultamento. Oppure poteva essere condotto completamente al di fuori della casa, in «angoli» o «buchi»: un linguaggio che sarebbe riaffiorato nelle descrizioni della pirateria radiofonica agli inizi della BBC, e che implicava un che di pericoloso o comunque non confacente alla moralità della famiglia. In realtà la stampa pirata aveva luogo in tipografie situate in normali abitazioni; ma in questi frangenti i contemporanei faticavano un po' a coglierne la natura. Spesso dipingevano le case in questione come in preda a un disordine tale da non poter essere considerate davvero come case. Erano posti del tutto sottosopra, dove i servi comandavano sui padroni; oppure luoghi di adulterio, come si diceva di alcuni dei più noti tipografi whig e tory durante la Restaurazione. La denuncia di «tradimento intestino» fatta da Samuel Richardson intercettava i timori viscerali di un padrone di casa il cui mondo domestico poteva rivelarsi non del tutto domestico.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 634

Paura e disgusto in rete

Fin dai primi anni dell'home computing emersero approcci rivali alla proprietà creativa, compresi quelli che ne decretavano un rifiuto totale. Alcuni erano chiari, aperti, e si dimostrarono praticabili. Altri, pur essendo sotterranei, si rivelarono altrettanto duraturi. A rendere possibile tutto questo non fu l'avventò del personal computer, ma la successiva creazione di una rete digitale affidabile. Verso la metà degli anni ottanta, gli appassionati di home computer potevano acquistare non solo un personal computer IBM, Apple ecc., ma anche un modem telefonico con cui collegarsi, per mezzo del quale potevano connettersi alle prime bacheche informatiche e alle prime reti. Il flusso dei dati era incredibilmente lento per gli standard odierni, ma era sufficiente per lavori di solo testo. Le informazioni potevano essere scambiate, le comunità costruite. Verso la metà degli anni novanta, la consapevolezza di un unico Internet - discendente da quell'Arpanet che tanto aveva affascinato Draper - era ormai diffusa. I primi browser cominciavano a gestire un World Wide Web dai contenuti grafici. I diversi approcci alla proprietà si arroccarono e l'opposizione che li divideva, se possibile, si accentuò. In tale processo finì per rompersi quel legame tra credito e proprietà che aveva preso forma nel XVIII secolo.

In effetti, la situazione che i primi utenti della Rete dovettero affrontare ricordava quella vissuta da autori e librai nel Settecento. Anche allora le rivendicazioni circa la sacralità della paternità di un'opera e circa l'avvento di una nuova età della ragione erano state forti e numerose. I pirati erano stati attaccati per reati che andavano al di là del furto letterale e del contestato credito, fedeltà e autenticità. Pratiche paragonabili a quelle che adesso vengono chiamate furto di identità o phishing (l'imitazione di siti istituzionali) erano dilaganti. La comunicazione a stampa, salutata come emancipatrice, razionale e illuminata, in pratica sembrava piena di problemi. Qualsiasi comunità pretendesse di costituirsi a partire dalla stampa - come la sfera pubblica, ad esempio - dovette affrontare questi problemi prima di acquisire credibilità. Problemi la cui risoluzione non richiedeva solo leggi e concetti filosofici, del resto, ma anche sano buonsenso. Come osservava Kant, la pirateria minacciava la possibilità elementare di una ragione pubblica perpetrando una specie di ventriloquismo. Istanze altrettanto profonde e condivise accompagnarono la nascita del nuovo mondo digitale degli anni novanta. L'esistenza e la natura delle comunità online divennero argomenti di accesi dibattiti. La consistenza, la misura e le implicazioni epistemiche delle pratiche piratesche s'imposero non solo come sfide (per quanto fondamentali) alla proprietà intellettuale, ma anche come una minaccia alla possibilità di un utilizzo razionale della rete. La necessità di formulare l'economia morale delle reti digitali si fece più acuta.

La più nota delle prime comunità in rete fu il WELL (Whole Earth 'Lectronic Link), un gruppo di Sausalito - vicino a San Francisco - cofondato da Stewart Brand. In poco tempo le comunità online - Usenet, i MUD, i Moo, e simili - si moltiplicarono. Le prime bacheche informatiche erano nate ancora prima, visto che erano state create da due appassionati di Chicago alla fine degli anni settanta come un metodo sostitutivo per lo scambio di cassette. Alcuni di questi gruppi, come il WELL, erano piuttosto piccoli e localizzati, altri erano più grandi e adottavano ubicazioni immaginarie, iniziando così un percorso che avrebbe portato a iniziative come Second Life. Non ci volle molto perché gli utenti dichiarassero di sentirsi vicini al sogno à la McLuhan di una psiche che si fondeva in un'unica rete elettronica globale. Un linguaggio più autorevole, tuttavia, chiamò in causa concetti di comunità e di frontiera. Il principale propugnatore di questa visione, Howard Rheingold, era un veterano del WELL, e nel 1987 aveva coniato l'espressione «comunità virtuale» in un volume che intendeva continuare la tradizione del Whole Earth Catalog. La rappresentazione di Rheingold di un dominio di frontiera emergente - allo stesso tempo villaggio pieno di competenze diverse, legate da un «contratto sociale informale, non scritto», e paesaggio instabile, popolato da un numero sempre maggiore di steccati e case coloniche - divenne probabilmente il modello più adottato per descrivere queste pseudo-società. Un principio fondamentale era che i membri dovessero agire come degli amish in versione digitale, condividendo le informazioni al fine di aiutarsi l'un l'altro a costruire le loro fattorie online. Ma questo principio, avvertì Rheingold, era messo a dura prova dalle aziende, che avevano adottato la retorica delle comunità online per piazzarsi sul mercato. I siti aziendali cercavano di convincere i clienti del fatto che fossero parte di una «comunità», mentre in realtà il tutto si riduceva a ricevere messaggi da parte dell'azienda stessa. Una vera comunità richiedeva che i suoi membri lavorassero per rimanere aggrappati a un ideale di creatività piuttosto che di ricettività - una posizione eminentemente miltoniana, si sarebbe tentati di dire. Una «battaglia per la struttura della Rete» sembrava ormai all'orizzonte.

In questa lotta imminente si profilava anche un'altra minaccia. Se il WELL era un adattamento degli ideali conviviali degli anni settanta, un hacker clandestino rappresentava un diverso adattamento, meno rispettabile. Le sue radici avevano qualcosa in comune con i phreaks radicali di stampo hoffmaniano (per dirla con Bruce Sterling, Steal This Book era diventato l'«antenato spirituale dei virus dei computer»). Anche se molto gonfiata dalla stampa, la folla di hackers malevoli era reale e nutrita. All'inizio degli anni ottanta, al fine di sostenerla venne varata una bacheca informatica: le fu dato il nome 8BBS ed era dedicata, in un primo tempo, al phreaking telefonico. Verso la metà del decennio queste bacheche erano ormai diffusissime, e spesso assumevano un'identità esplicitamente pirata: Pirate-80, Pirate's Harbor e Pirates of Puget Sound furono tre delle decine, forse centinaia, di bacheche rivolte alla scena hacker. Il loro scopo era quello di rilasciare codici pirata e di dispensare suggerimenti in materia di phreaking. Un curioso poteva dunque setacciare questi siti in cerca di codici phreaks che poi usava come gettoni di scambio per garantirsi l'accesso a vari gruppi (un po' come le ricette alchemiche avevano fatto da passaporto per i circoli di filosofia alla metà del XVII secolo). Le bacheche (in gergo tecnico BBS, ovvero bulletin board systems) servivano appunto a mettere in contatto il singolo pirata e i gruppi di phreaks. Alcuni di questi siti acquistarono anche una certa notorietà, in special modo quello chiamato Legion of Doom, il nome della vecchia banda guidata dal nemico di Superman, Lex Luthor. Nato come un raduno di phreaks, alla stregua di molti altri gruppi di pirati informatici la Legion of Doom spostò progressivamente il proprio interesse dal phreaking all' hacking. E come molti altri gruppi analoghi, ostentò il libertarismo tecno-elitario e il linguaggio esplorativo tipico del phreaking, adottandone anche certi tic lessicali (come l'onnipresente ph). Soprattutto, gli hackers della Legion of Doom (e gli altri cultori del genere) si appropriarono indiscriminatamente della rivendicazione presuntuosa dei phreaks - derivata a sua volta dalla cultura radiofonica tra le due guerre - ovvero sostenevano che, in quanto adepti del metodo scientifico, meritavano sostegno, non limitazioni. Un messaggio del 1986, poi più volte ripubblicato, dal titolo Conscience of an Hacker o The Hacker's Manifesto, dichiarava tutte queste cose in maniera esplicita. Il proclama, frutto del lavoro di un hacker della Legion of Doom che si faceva chiamare The Mentor, sosteneva che gli hackers erano anzitutto degli esploratori di un sistema telefonico; un sistema che sarebbe dovuto essere a buon mercato per tutti, ma che era invece stato dirottato da «avidi profittatori». Gli hackers erano dunque combattenti per la resistenza. Ma al tempo stesso erano scienziati. The Mentor chiamò in causa la figura del ricercatore solitario perseguitato da una società disorientata e conformista. «Noi esploriamo», insisteva. «Noi cerchiamo la conoscenza [...] e voi ci chiamate criminali». Nel proclama c'era del vero. Quando la polizia intervenne contro la legione, scoprì che, in linea di massima, i suoi membri non avevano rubato nulla. E anche i pirati più seri a cui i poliziotti riuscirono ad arrivare tramite la legione, saltò fuori, avevano fatto girare gratis delle copie di software commerciali.

Man mano che sempre più phreak si incontravano online, venne a costituirsi un contropubblico digitale. Gli hackers svilupparono un certo numero di periodici vistosamente libertari e finalizzati alla conoscenza. I più noti furono «Phrack» (una combinazione di phreak e hack, lanciato nel 1985) e «2600» (chiamato così per il tono fondamentale del phreaking, e orgoglioso di rivendicare un'identità pirata, come si evince dalla fig. 16.3). Quest'ultimo era curato da un individuo allora misterioso che si faceva chiamare Emmanuel Goldstein, come la controfigura di Trockij che sta al centro dell'odio collettivo in 1984 di Orwell. Il suo vero nome era Eric Corley, e aveva alle spalle una lunga carriera di radioamatore. C'era persino un «Legion of Doom Technical Journal», nato come parodia del vecchio «Bell System Technical Journal» e completamente dedito al fenomeno del phreaking. Più che articoli tradizionali, queste riviste contenevano dei philes, ovvero dei contributi indipendenti. Oggi, una generazione più tardi, rappresentano una lettura affascinante. Testimoniano della convergenza, avvenuta intorno alla metà degli anni ottanta, tra phreaking, programmazione e pirateria in un'unica impresa, volgarmente resa - ma erroneamente, a detta di molti - dal termine hacking.

Alla fine del decennio il significato della parola hacker si modificò, fino a identificarsi con quello che adesso, per i fanatici del computer, è un cracker, ovvero un hacker malevolo; uno di quelli che attraverso la rete si introduce furtivamente nei sistemi informatici altrui con l'intento di arrecarvi qualche danno. Se l' hacking, in questa accezione, diventò oggetto di indagini giudiziarie e della pubblica attenzione, ciò avvenne in virtù della sua identificazione con il phreaking. Nel 1989, in Florida, un ufficio per la libertà vigilata scoprì che le sue chiamate venivano reindirizzate verso una linea erotica con sede a New York. La compagnia telefonica indagò, scoprendo che gli hackers non si erano limitati a praticare il phreaking sulle sue linee, ma avevano anche riprogrammato i suoi sistemi digitali. Più o meno in contemporanea, The Cuckoo's Egg di Clifford Stoll raccontava la storia di un giro spionistico di phreakers/hackers che si ispiravano al KGB. E il primo virus online su larga scala (tecnicamente, un worm) infettò circa seimila computer collegati in rete. Amplificati dai media, simili episodi accesero i timori sulla vulnerabilità delle informazioni online in generale. Più precisamente, alimentarono le preoccupazioni circa l'amoralità di quei gruppi di esperti che erano tecnicamente in grado di manipolare tali sistemi. Cominciarono a rincorrersi voci in base alle quali la Legion of Doom stava progettando di mandare in crash l'intero sistema telefonico (una vecchia minaccia ventilata già da Draper molto tempo prima). Quando all'indomani del Martin Luther King Day la rete a lunga distanza andò in tilt, si pensò immediatamente a un attacco hacker: alla fine venne fuori che si era trattato di un guasto al sistema. Nuove leggi e azioni di polizia si moltiplicarono per contrastare una eventuale minaccia ordita da hackers criminali o addirittura sediziosi.

Tutto ciò provocò un profondo esame di coscienza fra i sostenitori della sociabilità online. Tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta si svolsero ripetuti dibattiti circa le implicazioni per le comunità digitali e sulle responsabilità che la perizia digitale recava con sé. La vexata quaestio era l'esistenza o meno di un'«etica» hacker. Emanazione diretta del ritratto della scienza tracciato da Merton, l'assunto che una simile etica esistesse venne proposto da Hackers di Levy, un'opera apertamente basata su questa idea. Ma il punto successivo era quello di determinare se le norme di una tale etica - ammesso che esistesse - fossero conseguenti. Gli scienziati, da un punto di vista mertoniano, non erano particolarmente virtuosi come individui, ma il loro lavoro era plasmato da norme morali legittimate e osservate dalla comunità scientifica in generale. Qualcosa di simile valeva anche per l' hacking? E in caso affermativo, poteva essere sfruttato per sostenere la comunità digitale? Il dibattito più celebre su queste linee fu una «conferenza» tenutasi al WELL nel 1989 sotto l'egida dell'«Harsper's Magazine». A decretarne l'immediata convocazione fu il panico scatenato dal primo worm ad ampia diffusione, ma l'incontro ebbe modo di affrontare temi più ampi, e vide i partecipanti proporre i loro argomenti, cambiare idea e alla fine sposare posizioni irrimediabilmente inconciliabili. Tra i partecipanti c'erano anche un certo numero di veterani, tra cui Lee Felsenstein. Per il MIT era presente Richard Stallman. Diedero il loro contributo anche Emmanuel Goldstein e due crackers noti con il nomignolo di Acid Phreak e Phiber Optik. L'argomento di partenza fu l'etica hacker, variamente interpretata, accreditata e disdegnata. I più ammettevano che l' hacking fosse caratterizzato dal disprezzo per gli ostacoli al progresso tecnico. C'era questo dietro al loro impegno per il libero scambio delle informazioni, e quindi al loro ripudio della proprietà intellettuale. Gli hackers si mostravano antiautoritari, in quanto rivendicavano il diritto e la capacità di «liberare le condutture» per consentire che le informazioni fluissero liberamente (un'immagine molto wieneriana). «Tutto ciò che una volta si diceva sui phreaks è valido anche per loro», osservò uno dei partecipanti. L' hacking faceva affidamento sulla dimensione domestica, aggiunse un altro, perché senza privacy non sarebbe potuto esistere - una tesi suggestiva, che echeggiava gli ideali dell'Illuminismo kantiano. Tutte sciocchezze secondo Goldstein: «Siamo solo individui in esplorazione». Alla fine, portando tali speculazioni a un estremo, un paio di oratori elevarono l' hacking a categoria superculturale. Era semplicemente creatività inventiva tout court, in particolare quel tipo di creatività che implicava la redistribuzione delle macchine esistenti per nuovi usi. Il suo inventore era stato il cavernicolo preistorico, che per primo aveva «hackerato» il fuoco. Su questa base un partecipante suggerì che l'impegno verso una conoscenza condivisa avrebbe potuto rappresentare un desiderio primordiale di connessione. «Questo è l' hacking per me», concluse Felsenstein, trasfigurando la pratica in maniera diversa: «Trascendere l'uso e dedicarsi alla creatività fine a se stessa».

Ma se gli hackers erano creatori, quali limiti e responsabilità dovevano riconoscere? Ecco una domanda importante, con implicazioni politiche reali e sostanziali. «Non c'è niente di sbagliato nell'infrangere la sicurezza», propose Stallman, «quando si realizza qualcosa di utile». E forse i crackers stavano svolgendo un servizio utile. Il vero problema, ipotizzarono alcuni, era che le istituzioni e le società continuavano tranquillamente a raccogliere dati sui cittadini senza il consenso o la consapevolezza di questi ultimi, dati che poi trattavano come fossero di loro proprietà. In tale contesto, intrufolarsi nelle banche dati era un obbligo morale: era l'unico modo per portare alla luce un problema ben più grande. Nonostante l'isteria dei media, dopo tutto, raramente i crackers sceglievano come obiettivo dei privati. «Gli hackers sono diventati capri espiatori», accusò Goldstein. «Scopriamo i buchi del sistema e poi ci prendiamo la colpa per le sue magagne». La vera espropriazione aveva luogo molto prima che gli hackers intervenissero, e l'unico modo per renderla evidente era quello di infrangere le regole. «So di fare la cosa giusta», proseguì, «per conto di altri che non hanno le mie capacità». In altre parole, l'irruzione di Internet poteva essere un «manifesto» che chiamava a una responsabilizzazione generale.

Questo provocò la rottura del dialogo. Clifford Stoll, l'autore che aveva raccontato della rete spionistica, chiese seccamente se un tempo fosse esistita anche un'«etica vandalica». La sua opinione era che i quartieri elettronici fossero «basati sulla fiducia», come quelli veri. Gli hackers erodevano queste basi. Nessuna comunità poteva sopravvivere alla loro «diffusione di virus», alla loro «pirateria di software» e al loro «disfacimento del lavoro altrui». Un partecipante che si faceva chiamare Homeboy si spinse ancora più in là. I crackers lavoravano davvero «per il libero flusso di informazioni», domandò, o erano in effetti «strumenti non retribuiti dell'establishment»? A questo punto, otto giorni dopo l'inizio della conferenza, di punto in bianco John Barlow (autore della Declaration of the Independence of Cyberspace), negò in maniera decisa che i difetti di un sistema potessero giustificare un'azione di hacking. Seguì una rapida escalation di insulti, fino a che Phiber Optik pose fine a tutto quel flusso mettendo online la storia del conto in banca di Barlow. «Se non sapevi che tenevano dei file del genere», gli chiese, «come lo avresti scoperto se non grazie a un hacker?» Apertamente inteso a dimostrare la necessità civile di un hacking piratesco, il gesto smentì drasticamente se stesso in quanto interruppe la conversazione.

Felsenstein ne riassunse l'esito in un clima di esasperazione. «Se pratichi l' hacking, quello che fai è intrinsecamente politico», ammonì; ma l' hacking di per sé, perseguito senza reali scopi politici, era inutile. Il tentativo più importante di fornire un indirizzo normativo alla pirateria digitale, in quanto forma di cittadinanza scientifica, si concluse con questa nota dal realismo scoraggiante. Senza un coordinamento con la realtà sociale, un hacker era solo un aspirante «tecnobandito».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 643

«Fudding»

La trasformazione degli hackers da geni anarchici in criminali e terroristi (terminologia ormai livellata perfino nel WELL) coincise con l'ascesa degli approcci proprietari in un'economia digitale che aspirava a una connessione globale. In questo processo, le questioni legate all'affidabilità, all'accessibilità e alla sicurezza erano di fondamentale importanza. Come già nel XVIII secolo, anche adesso chi poteva creare e garantire sicurezza in un ambiente piratesco aveva la carta vincente. In tutto questo c'erano delle opportunità. Gli hackers potevano affermare di essere agenti pubblici. Il mondo delle imprese, intanto, poteva fare soldi reclamizzando «sistemi fidati» e lanciando proclami sulla sicurezza. Un altro settore poteva occuparsi di sviluppare attività di prevenzione, rilevamento e polizia. Al tempo stesso, le alternative al software proprietario proliferarono, ciascuna con le proprie rivendicazioni morali ed economiche. A proporsi come autorevole sostenitore di queste alternative fu Richard Stallman, del MIT. Stallman affermò che la creazione e la diffusione di software «libero» (il cui codice sorgente, cioè, non è sottoposto a vincoli proprietari) riguardava la costituzione delle comunità. A parer suo, il problema era che nel mondo digitale la proprietà esclusiva rendeva «pirati» tutti coloro che altrimenti sarebbe stati semplicemente buoni vicini. La questione della proprietà era dunque, come sempre d'altronde, materia di filosofia politica, con l'etichetta di «pirata» a indicare che questa era la controparte moderna dei dibattiti sui diritti perpetui e la libertà di parola nel secolo dei Lumi. Quella di Stallman era una posizione abbastanza radicale, tuttavia, di cui molti (soprattutto, ovviamente, quanti nutrivano interessi o aspirazioni commerciali) diffidavano. Nel 1998 questi ultimi coniarono la denominazione alternativa di open source. Il software open source non era la stessa cosa del software libero, perché gli utenti dell' open source consentivano l'integrazione del codice in prodotti successivamente distribuiti su un modello proprietario. Ma le due forme condividevano l'ideale del programmatore come cittadino e artigiano, e in seguito sarebbero state spesso appaiate sotto l'acronimo FOSS (Free and Open-Source Software).

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 648

In sintesi, le origini della cultura digitale in cui viviamo - la cultura in cui la pirateria è la trasgressione per definizione - furono modellate dalle questioni di creatività e comunità, e tali questioni vennero espresse, nel momento critico, in termini di etica. E questo in virtù delle polemiche di metà secolo circa le telecomunicazioni, i monopoli di brevetti e la natura della scienza. Grazie alle pratiche che diedero origine a queste polemiche, il carattere domestico della creatività era già stato valorizzato e insieme contrapposto al mondo conformista e corporativista dei «media», prima dell'avvento dell' hacking digitale. Più specificatamente, l' hacking scaturì dalla pirateria legata alla radio, al telefono e alla duplicazione domestica. Molti tra i primi patiti d'informatica erano attratti da quegli ideali libertari che avevano conosciuto grazie ai radioamatori o ai pirati radiofonici. Il phreaking creò un ponte concreto tra esplorazione telefonica, da un lato, ed esplorazione digitale dall'altro. E i primi appassionati di home computer adottarono sia il supporto delle cassette che le usanze conviviali cari ai duplicatori domestici; con esiti diversi, che però ebbero sempre al proprio centro le questioni fondamentali inerenti la fiducia, l'autorità e l'autenticità. Tanto per fare un esempio, il concetto di perizia si slegò dall'identità professionale. Tornò a farsi profondamente instabile, e a poggiare unicamente sulle opinioni dei consimili, a prescindere da criteri geografici o di affiliazione. Dove reperire opinioni autorevoli, tuttavia, e come distinguerle da quelle spurie, rimasero ovviamente problemi pressanti.

Il mondo delle imprese tentò di sfruttare queste istanze in diversi modi, uno dei quali era appunto il fudding. Una pratica che faceva leva sulle incertezze degli utenti aziendali per favorire un cauto ritorno all'associazione tra autorialità e credibilità. Per un po' funzionò, ma sembrò destinata a fallire di fronte alla forma di autorialità condivisa che era emersa da quei principi pirateschi di metà Novecento per affermarsi in Rete. L' open source godeva di una «credibilità a lungo termine» perché gli utenti capivano che probabilmente avrebbe comportato minori problemi di instabilità, che si sarebbe rivelato meno vulnerabile agli attacchi e meno soggetto a futuri accantonamenti in nome del mercato. Il terreno si era spostato, e non solo a causa del progresso tecnologico, ma anche per le convinzioni culturali profondamente radicate che incisero sul modo di sfruttare le possibilità offerte dalla tecnologia.

Una delle risposte a questo cambiamento alquanto radicale consisteva nel passare a una strategia basata su un altro elemento centrale nella scienza e nella tecnologia moderna: gli standard. L'idea era quella di trattare gli standard non come cose a cui conformarsi, ma come cose da superare. Un'idea che, se fosse stata seguita, avrebbe compromesso l'uniformità delle reti digitali. Avrebbe cioè messo in pericolo la proprietà che più di frequente è considerata come la virtù intrinseca e qualificante di Internet, quella che ha reso globale la sua portata. E lo avrebbe fatto nell'intento di riaffermare un legame tra autorialità e credibilità. Un legame che sembrava ormai essere l'assioma del bell'ordine nel campo della creatività e del commercio. Il modo in cui conciliarlo con le potenzialità di Internet rimane una questione centrale ancora oggi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 650

17.

Passato, presente e futuro


Daniel Defoe creò la prima classificazione della pirateria intellettuale quasi tre secoli fa, ricorrendo a una manciata di categorie semplici come riduzione, compendio e ristampa in caratteri più piccoli. Il corrispettivo attuale di quella tassonomia dovrebbe estendersi fino a comprendere una vasta gamma di delitti: phishing, furto di identità, biopirateria, la pirateria dei semi e così via. Roba da mandare in confusione perfino un tipo mondano come Defoe. Perché oggi sotto l'egida della proprietà intellettuale ci sono più cose che mai, compresi algoritmi, registrazioni, creazioni digitali, geni e addirittura organismi viventi: materie che fino a poco tempo fa non avrebbero lasciato intuire alcun potenziale piratabile sono diventate ora terreno di scorrerie. Intanto, con l'espandersi dell'economia dell'informazione sembra che la pirateria abbia creato metastasi per comprendere e padroneggiare le quali nessuno sembra disporre delle capacità necessarie. Alcune delle sue specie sono delle industrie a tutti gli effetti. Nella retorica politica ed economica l'accusa di pirateria è diventata l'incriminazione tipica dell'epoca, oltre che un elemento onnipresente nella definizione delle politiche commerciali nazionali e internazionali.

In questo contesto, la storia della pirateria contiene due implicazioni importanti. La prima deriva dal fatto che la proprietà intellettuale esiste solo nella misura in cui viene riconosciuta, difesa e usata di conseguenza. Si tratta cioè di una questione pratica che prende forma non solo attraverso la stipula di leggi e trattati, ma anche attraverso le azioni intraprese dalle comunità per attuare quelle leggi e quei trattati nelle case, negli uffici, nelle fabbriche e nelle scuole. Le sfide richiedono risposte, e i compiti della proprietà intellettuale nella vita quotidiana riflettono la storia della loro interazione. Ma negli ultimi anni la natura di questa interazione è cambiata. Mentre la pirateria cresceva e si diversificava, è andata sviluppandosi una vera e propria industria dedicata al contrasto di tale fenomeno. La coesione e la portata di questo settore sono relativamente nuove e sorprendenti. Nei secoli passati, particolari gruppi o settori avevano opposto i propri sforzi ai fenomeni di pirateria, senza però la percezione di una causa comune. Adesso, in genere, questa percezione c'è. Quelli che un tempo sarebbero stati visti come conflitti separati, adottano attualmente gli stessi strumenti, le stesse tattiche e le stesse strategie. La prima implicazione è dunque che abbiamo bisogno di realizzare il significato storico di questa industria antipirateria e di afferrarne le conseguenze ai vari livelli sociali. La seconda implicazione deriva dalla prima. Le misure adottate contro la pirateria possono talvolta interferire con altri aspetti della società ugualmente importanti. In realtà, è possibile che debbano farlo, vista la natura del loro compito. Quando ciò accade, tuttavia, possono innescare reazioni profondamente avvertite. Il risultato è una crisi che veicola in sé le potenzialità per creare un momento di vera e propria trasformazione. Abbiamo già visto l'insorgere di momenti del genere. Ma il cambiamento rischia di essere più profondo quando maggiore è il campo d'azione dell'antipirateria. Potremmo trovarci quindi sul punto di sperimentare un radicale mutamento nel rapporto tra creatività e commercio. Sarà la rivoluzione più estrema nel campo della proprietà intellettuale dalla metà del XVIII secolo a oggi. E potrebbe perfino decretarne la fine.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 664

Il punto è che questi problemi non riguardano tanto una interpretazione restrittiva della proprietà intellettuale. Sono, piuttosto, alcuni degli aspetti centrali della teoria e della pratica politica tradizionale: questioni di privacy, responsabilità e autonomia. Ecco perché valeva la pena di ripercorrere la storia della politica impositiva risalendo fino al XVII secolo e alle origini dell'ordine politico moderno. Sono questioni che hanno pesato su tutta la storia della proprietà intellettuale e della sua applicazione, e continuano a farlo ancora oggi in nuove forme e con i nuovi mezzi di comunicazione. Il controllo sulla pirateria, condotto intensivamente, su larga scala, e coordinato a livello internazionale, è talvolta giustificato (e l'impegno contro la contraffazione dei medicinali ne è un esempio piuttosto chiaro); ma in altri casi il beneficio pubblico non è così evidente. Nell'industria agroalimentare, per esempio, la sola Monsanto - tanto per citare la solita bestia nera - ha riferito di «indagare» ogni anno su circa cinquecento «notizie riservate» sulla pirateria delle sementi, impiegando a tale scopo un'unità di settantacinque dipendenti e coordinando i propri sforzi con diverse società di investigazione private e con le forze dell'ordine di tutto il mondo. Per anni i suoi agenti sono stati accusati di violazione di domicilio o di aver operato come provocatori. Nel mondo digitale, allo stesso modo, alcune imprese private di antipirateria avrebbero messo a punto falsi siti bit-torrent per invogliare gli utenti a scaricare. Inoltre, poiché l'industria che solleva tali preoccupazioni rimane praticamente nell'ombra, la questione vitale su quis custodiet custodes non ha tuttora trovato risposta. Non sono ancora state definite divisioni competenti per responsabilità, poteri e risorse. Negli ultimi anni abbiamo molto sentito parlare dei pericoli della pirateria in tutte le sue forme; abbiamo anche sentito molto parlare dei pericoli di un eccesso nei diritti di proprietà intellettuale. Eppure i problemi sollevati dall'industria antipirateria sono allo stesso tempo più ampi e più immediati di quanto il dibattito prevalente non voglia riconoscere. Sono le ultimissime incarnazioni di questioni fondanti per la società stessa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 665

La fine della proprietà intellettuale

Il confronto tra pirateria e industria della difesa della proprietà intellettuale è forse sul punto di innescare una trasformazione radicale nel rapporto tra creatività e vita commerciale. Questa idea non è così incredibile come potrebbe sembrare. Simili svolte si sono già verificate (in effetti, circa una ogni secolo, dalla fine del Medioevo). L'ultima di una certa importanza, avvenuta al culmine dell'era industriale, catalizzò l'invenzione della proprietà intellettuale. Prima di allora, un'altra svolta aveva avuto luogo nel secolo dei Lumi, portando alla nascita del primo sistema moderno di copyright e del primo regime moderno dei brevetti. E prima ancora, tra il 1660 e il 1690, c'era stata la creazione della pirateria. Per estrapolazione, siamo già in ritardo nel fare l'esperienza di un'altra rivoluzione della stessa portata. Se questa dovesse arrivare in un prossimo futuro, potrebbe far scendere il sipario su quella che allora, in retrospettiva, sarà considerata come un'epoca coerente di circa 150 anni: l'era della proprietà intellettuale.

Il rapporto tra creatività e commercio che ha caratterizzato l'età moderna emerse tra la metà del XVIII secolo e quella del secolo successivo. A delinearlo fu l'istituzione dei sistemi di copyright e di brevetti e, alla fine, il concetto stesso di proprietà intellettuale. La saggezza popolare considera tali concetti quasi assiomatici (e quindi non vede alcun problema nel rappresentare la storia precedente al XIX secolo negli stessi termini). Ma in realtà essi fin dal loro avvento sono stati segnati da sfide, che talvolta non sono riusciti a vincere e che comunque hanno modificato la costituzione e il significato della proprietà creativa. Che non è affatto una peculiarità dell'era digitale. Le critiche proprie del nostro tempo, anche se non sono le più radicali, potrebbero rivelarsi le più efficaci per secoli. La ragione più' evidente di tutto questo è che, a differenza della critica rivolta da Sir William Armstrong in epoca vittoriana, esse ora possono fare appello tanto all'esperienza pratica quanto al principio. Le proprietà di Internet, in particolare, sembrano confermare che ci sono valide alternative alle norme proprietarie. La plausibilità che ne risulta è importante perché, mentre la pirateria e il contrasto a quest'ultima possono innescare una crisi, non possonò certo concepire una soluzione. Per trovare le materie prime necessarie a una tale soluzione ci sarà bisogno di cercare alternative in un ambito parimenti ampio. Per esempio nelle scienze.

Le richieste di una nuova economia della creatività si focalizzano apertamente sul fenomeno del software open source, che sfrutta proprietà delle reti digitali per le quali, si presume, non esiste alcun precedente. Ma traggono altresì sostegno da più profonde convinzioni su come la conoscenza debba essere correttamente generata, distribuita e conservata. L'insistenza di metà secolo sul fatto che l'apertura fosse un principio guida della vera ricerca scientifica ha preso nuova forza nel contesto della biologia molecolare e della biotecnologia. Con il boom del commercio nell'ingegneria biomedica e nelle «scienze della vita», aumentano le ansie sul fatto che le rivendicazioni circa la proprietà possano essere pregiudizievoli per l'interesse comune nel campo della scienza finanziata con fondi pubblici, e perfino ostacolare la ricerca. Queste ansie erano inizialmente altra cosa rispetto ai timori etici che hanno portato il Progetto Genoma Umano (il più importante dell'epoca nell'ambito del connubio tra scienza e settore pubblico) ad abiurare la brevettazione dei geni. Ma si sono fusi a stimolare la nascita di un movimento di «libero accesso», insistendo perché la ricerca finanziata dallo Stato fosse resa disponibile al pubblico dopo un periodo relativamente breve (in genere un anno). Il libero accesso è ormai la norma in gran parte delle strutture pubbliche di ricerca medica negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e veicola in sé la prospettiva di un cambiamento profondo nella cultura e nell'economia della comunicazione scientifica. Per quanto basato sulla pubblicazione digitale, le sue fondamenta ideologiche risalgono infatti ai conflitti sui brevetti della metà del XX secolo, e alla visione normativa della scienza come sapere pubblico da questi generato.

Le controversie sui temi scientifici sono essenziali, ma sarebbe possibile moltiplicare all'infinito i domini in cui dei modelli proprietari forti vengono contestati in maniera affine. È interessante notare che molte delle sfide si focalizzano sulle versioni trasfigurate di pratiche un tempo denunciate come piratesche. Le regole del movimento open source, per esempio, si allineano alla condotta di quei programmatori che furono fermamente condannati da quella che allora era la Microsoft. Progetti di scansione di massa dei libri incoraggiano l'idea di una biblioteca universale in un modo che ricorda la pirateria cosmopolita di epoca illuministica. L'opposizione ai brevetti farmaceutici riporta in auge il sostegno alle licenze obbligatorie che venne portato dal fronte antibrevetto nell'epoca vittoriana. Parte della retorica dei telespettatori pirata deriva da quella degli ascoltatori pirata degli anni venti. Gli accoliti del file-sharing assomigliano per certi aspetti ai duplicatori domestici degli anni sessanta e settanta, e sotto il profilo storico la loro pratica ha avuto inizio proprio con lo scambio di cassette. Queste ricorrenze indicano che quello in atto è più di un semplice cambiamento tecnologico: in gioco ci sono impegni e convinzioni a lungo termine. Due conflitti specifici sono emersi nei primi anni del Duemila come candidati plausibili alla conversione di queste tendenze, altrimenti slegate, in occasioni di coerente trasformazione giuridica e filosofica. Il primo riguardava il copyright, il secondo i brevetti.

Nell'ambito del copyright, la sfida era quella della digitalizzazione di massa dei libri. Google annunciò l'impresa più imponente mai dedicata a questo compito, il suo cosiddetto Library Project, il 14 dicembre 2004. Quattro grandi biblioteche universitarie (Stanford, Harvard, Oxford e la University of Michigan) e un ente pubblico (la New York Public Library) avrebbero preso parte a un progetto estremamente ambizioso, che prevedeva la scansione e la creazione di una copia digitale accessibile del loro patrimonio cartaceo. L'ambizione era quella di realizzare il vecchio sogno di una biblioteca universale - o almeno di fornire il suo «schedario» online. Negli anni successivi altre biblioteche aderirono al progetto, facendolo uscire dai confini del mondo anglofono. Ma poi il progetto si trovò di fronte a un grave problema, uno di quelli più volte ventilato nella storia del copyright, e adesso diventato reale e urgente.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 671

Sembrava dunque che la crisi dei libri digitalizzati, innescata dal progetto di scansione di Google, potesse risolversi in modo creativo combinando un'altra variante del concetto del vecchio registro con le nuove tecniche di antipirateria digitale. È significativo notare, però, come al momento dell'annuncio dell'accordo le risposte non siano state tutte positive. La biblioteca universitaria della Harvard University si rifiutò di partecipare al progetto in quanto si applicava anche alle opere protette da copyright. Il capobibliotecario dell'Università era Robert Darnton. Le ricerche storiche di quest'ultimo sul libro nel XVIII secolo avevano contribuito più di ogni altra cosa a creare la consapevolezza dell'importanza della stampa e dei suoi prodotti all'epoca dei Lumi e della Rivoluzione francese, quando le idee di copyright e di biblioteca universale avevano avuto origine; negli ultimi anni, inoltre, lo stesso Darnton era stato tra i principali fautori della borsa del sapere digitale. Ora, però, lo studioso sottolineava come il regime proposto avrebbe di fatto limitato gli usi dei libri digitali in maniera piuttosto grave. Oltre a ciò, avrebbe creato un unico sistema di accesso - quello di Google - senza concorrenza alcuna. La qualità delle sue copie sarebbe potuta variare: «in molti casi», scrisse Darnton, le copie avrebbero omesso «fotografie, illustrazioni e altre opere pittoriche», riducendo seriamente il loro valore educativo e di ricerca. Altri fecero notare anche che la biblioteca universale avrebbe rappresentato una monocoltura, con tutto ciò che questo poteva implicare (esistevano infatti - ed esistono tuttora - molti altri progetti per digitalizzare e mettere a disposizione libri antichi; nessuno dei quali, però, appare neanche lontanamente paragonabile a quello di Google per dimensioni, né per integrazione alla tecnologia di ricerca dominante). Tutti questi erano ottimi spunti di stampo illuministico, trasportati però nel contesto delle tecnologie del XXI secolo. Inoltre, questo accordo - che, con il suo sistema di registrazione e la sua attenzione su un canale di informazioni piuttosto paternalistico, aveva un'aria decisamente settecentesca - lasciava intatti i problemi che avevano portato alla sua formulazione. La sfida al copyright era solo procrastinata, non disinnescata.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 673

È dunque opportuno concludere facendo qualche congettura. Essendo quello della proprietà intellettuale un concetto relativamente recente, dovrebbe essere possibile concepire un'alternativa che si adatti al XXI secolo piuttosto che al XIX. Supponiamo, quindi, che i due pilastri principali della proprietà intellettuale - di fatto, la stessa proprietà intellettuale - vengano messi alla prova da questa serie di circostanze e si rivelino insufficienti. Che succede allora?

Restrizioni e alternative al copyright e ai brevetti sono sempre esistite: le licenze obbligatorie, le sovvenzioni statali, il riconoscimento di «ricompense» da parte della società civile, un sistema di convenzioni informali, oppure ancora un regime di totale liberismo. Nessuna di queste è diventata consensuale o normale, ma è altrettanto vero che nessuna è mai stata completamente accantonata. È certamente possibile che una soluzione ai problemi del XXI secolo possa essere messa insieme combinandole in qualche modo con la proprietà intellettuale così com'è concepita attualmente. In linea di principio, tali misure ad hoc potrebbero essere prese a tempo indeterminato (ma torna ancora in mente la guerra alle droghe come prova infelice di tale possibilità). Ma potrebbe sembrare una strategia confusa e scoraggiante nella sua indeterminatezza. Più promettente si rivelerebbe uno sforzo che iniziasse dalla riconsiderazione delle premesse del sistema. Queste ultime dovrebbero riflettere la gamma delle pratiche in questione. Nel XVIII secolo, come abbiamo visto, gran parte del dibattito era incentrato sulla misura in cui tali premesse lo facevano. Oggi purtroppo abbiamo perso ogni traccia di tutto questo e tendiamo a dedurre che il copyright in particolare sia nato come estensione della filosofia illuministica. Un processo di revisione dovrebbe avere inizio con un'inchiesta analogamente informata sulle pratiche prevalenti che sono in gioco, e soprattutto su come esse cambino da luogo a luogo e si modifichino nel tempo.

Un simile processo si sposerebbe male con i tradizionali presupposti della proprietà intellettuale. È opinione diffusa che il grosso pregio della distinzione fondamentale tra copyright e brevetti stia nel fatto che essa coglie una differenza semplice e naturale. Ma in una prospettiva storica non è affatto evidente che l'invenzione letteraria e meccanica siano categorie naturali. Al contrario, la distinzione venne molto discussa in passato, senza che un consenso fosse mai realmente raggiunto. Inoltre, la distinzione tra creatività letteraria e creatività meccanica è estranea a gran parte della storia del concetto di autorialità nella prima età moderna: per secoli gli uomini hanno brevettato libri e registrato macchine. Questo non significa che la divisione sia accidentale, comunque, e ancor meno che la si possa abbandonare facilmente. Al contrario, essa venne a crearsi e a consolidarsi per ragioni sostanziali, la cui forza sarebbe difficile negare. Tali ragioni includevano il mutato rapporto tra arti liberali e meccaniche all'inizio dell'era moderna, la rivoluzione scientifica, l'ascesa dell'industria e l'avvento di una sfera pubblica basata sul commercio e sul consumo. Inutile dire che queste furono anche le trasformazioni che modellarono la stessa modernità. Ed è in quest'ottica che si può affermare che la storia della pirateria è la storia della modernità. La questione con cui la società si trova a doversi confrontare, mentre la crisi della proprietà intellettuale raggiunge il suo apice, è dunque questa: la congiunzione tra creatività e commerciò deve continuare a definirsi nei termini di una distinzione binomiale forgiata (tra le polemiche) durante la rivoluzione industriale?

In pratica, naturalmente, disponiamo già di un sistema più reticolare e flessibile di quello. Quelle che però in astratto sembrano dottrine e concetti stabili, finiscono inevitabilmente per frammentarsi in norme convenzionali e regole a lume di naso quando sono messi in pratica in settori diversi. Il principio dell'«utilizzo leale», per esempio, è notoriamente difficile da sistematizzare tra i vari domini. Di conseguenza, anche la competenza risulta frammentata: esistono intere schiere di specialisti addetti alla brevettazione del software, per esempio, che lavorano con abilità e professionalità distinte da quelle messe in campo da quanti si occupano della brevettazione dei geni. Il problema è inquadrare in tali termini categorie di base del commercio creativo. Quello che serve, in effetti, è una tassonomia un po' alla Defoe, che sia attrezzata per il XXI secolo. Algoritmi, genetica e applicazioni di cloud computing, ad esempio, hanno la stessa probabilità di costituire le basi per il progresso e la prosperità dei nostri discendenti di quanto ne avessero le opere meccaniche e poetiche all'epoca di Samuel Johnson. Le distinzioni che le separano sono discutibili, ma non abbiamo motivo di aspettarci che corrispondano in alcun modo diretto a quelle che i contemporanei di Johnson faticavano a stabilire tra planetari meccanici e poemi epici. Riconoscerlo sarebbe una cosa sensata: significherebbe, in effetti, ammettere che i principi di quella che oggi è chiamata «proprietà intellettuale» sono dinamici. In una parola, in tutto e per tutto storici.

| << |  <  |