Copertina
Autore James Joyce
CoautoreCasey Sorrow [disegni]
Titolo Finn's Hotel
EdizioneGallucci, Roma, 2013, Alta Definizione , pag. 126, ill., cop.fle.sov., dim. 12x19x1,2 cm , Isbn 978-88-6145-652-5
OriginaleFinn's Hotel
EdizionePenguin, London, 1992
PrefazioneDanis Rose, Ottavio Fatica, Seamus Deane
TraduttoreOttavio Fatica, Giovanna Granato
LettoreRenato di Stefano, 2014
Classe narrativa irlandese
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Indice


Introduzione
 .i..'. .o..l di Danis Rose                          7

Nota del traduttore
 Giacomo Giacomo di Ottavio Fatica                  19


                James Joyce: Finn's Hotel

1.  La relittigiosità irlandese                     35

2.  Bontà verso i pesci                             39

3.  Il raccontino del tino                          43

4.  Issy e il drago                                 47

5.  Il bacione                                      53

6.  Le stanghe della memoria                        63

7.  Un firmamento costellato d'astri                69

8.  La casa delle cento bottiglie                   79

9.  Eccoquì Convenir Hominognuno                    85

10. A voi la pìstola                                95


Postfazione
 Finn's Hotel. Una storia dell'Irlanda
 scritta da James Joyce di Seamus Deane            109



 

 

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Pagina 9

.i..'. .o..l



Ecco un'altra versione. Ai bei tempi, e per essere belli lo erano davvero, c'era un giovanotto che camminava per la via e questo giovanotto che camminava per la via incontrò una bella ragazza di nome Nora Barnacle...

Era James Joyce — Sunny Jim — enfaticamente l'uomo giusto al posto giusto. Aveva gli occhi azzurri e la carnagione chiara e portava un cappello che secondo Nora lo faceva somigliare a un marinaio svedese. Lei, la più vezzosa d'Irlanda, aveva i capelli rosso scuro come una palude al tramonto, gli occhi blu mare in burrasca e l'aria strafottente. Abitava al Finn's Hotel, un austero edificio di mattoni lungo la via dove, sfuggita a un convento di Galway e a uno zio manesco (certo Mick, non Mark), rigovernava le stanze e serviva ai tavoli.

Deh, non dovess'ella! Di lì a poco James aveva conquistato l'amore di Nora e Nora quello di James; lui la portò con sé a bordo di una nave sopra la faccia degli abissi, palpitante di passione, lasciandosi dietro lo scandalo. Dopo tante traversie e traversate si ritrovarono, due sbandati, a vivere a Parigi. Lui intanto, in un esilio senza idillio, era diventato il maestro della prosa: aveva scritto Ulisse. Non aveva, però, ancora raggiunto il suo scopo: forgiare nella fucina della propria anima la coscienza increata della sua razza ribelle.

Poi, com'era già successo a un predecessore, san Patrizio, la voce dell'irlandese lo chiamò più volte in sogno. Quella voce e quei sogni – difficilissimi da decifrare per il resto del mondo – avrebbero dominato la sua ultima, grande, onnivora opera, Finnegans Wake. Questo, però, soltanto in seguito. Per il momento non sapeva da che parte cominciare. Alla fine, sin dalla più tenera età lungimirante, si mise a raccogliere il materiale, dapprima a rilento, poi con sempre maggiore sicurezza.

Nel metodo compositivo di Joyce ricorre uno schema. Dapprima crea un testo, o più testi, dove chiama a raccolta i personaggi. Lo elabora fino a un certo punto e poi lo abbandona, avendolo nel frattempo (con i personaggi ormai in loco) riconcepito. Poi elabora di nuovo la versione reimmaginata, attingendo all'occorrenza ai testi precedenti.

Così vediamo il Ritratto dell'artista da giovane emergere dai frammenti di Stefano Eroe, Ulisse emergere dai frammenti di un seguito del Ritratto, da Giacomo Joyce e da un racconto di Gente di Dublino progettato e mai scritto (intitolato anche quello Ulisse). I suoi grossi tomi sono, in un certo senso, un processo in due fasi: una non poteva bastare. Le opere iniziali sono come enzimi che accelerano la creatività.

L'ultimo romanzo non fa eccezione. L'idea di base vedeva un anziano Finn McCool dormire sull'argine del Liffey mentre in sogno gli scorreva accanto la storia dell'Irlanda. Inquadrata questa idea seminale, che si sarebbe in parte realizzata in Finn's Hotel, Joyce cominciò a scrivere.

Il Finn's Hotel, un posto dove la gente va e viene, fa da trait d'union fra Ulisse e Finnegans Wake. È un'opera in sé compiuta e allo stesso tempo una meravigliosa introduzione serio-comica e di facile lettura ai temi e ai personaggi chiave del libro successivo, di conclamata difficoltà.

Finn's Hotel nasce come una serie di favole: prose brevi, concise e concentrate ("epicleti", per usare il neologismo joyciano), incentrate su momenti formativi della storia o del mito irlandesi che abbracciano il millennio e mezzo dall'arrivo in Irlanda di san Patrizio. Le compose nel 1923, all'incirca sei mesi dopo essersi definitivamente liberato dell' Ulisse e prima di concepire la trama, la struttura o la pura e semplice immensità dell'epico Finnegans Wake.

Gli episodi di Finn's Hotel sono scritti in una singolare varietà di stili e in genere in un inglese semplice. Presi nell'insieme costituiscono il preludio vero (e finora sconosciuto) alle voci multimodulate di Finnegans Wake. Joyce li compose uno per volta, rivedendone alcuni e lasciandone altri in forma di abbozzo prima di accantonarli. E rimasero così, quasi dimenticati, alcuni per sedici anni (finché Joyce non rovistò in quell'armadio a caccia di materiale per le ultime parti di Finnegans Wake che aveva scritto), e alcuni per sempre, vale a dire finora. Un solo episodio, quello su Pop (Eccoquì Convenir Hominognuno) è a sé stante. Verso la fine del 1923, riprendendolo in considerazione vi scorse un'apertura, un possibile sviluppo narrativo da seguire e ampliare nella sua nuova epopea irlandese (che si contrapponeva alla sua vecchia epopea dublinese): Finnegans Wake.

Per gli studenti di letteratura inglese James Joyce è il nonno di tutte le canaglie. Non gli è bastato lasciarsi dietro quella "cronaca giocosa, onninclusiva e farraginosissima" che è l' Ulisse. Non gli è bastato nemmeno lasciarci quel libro pantagruelico, pressoché impubblicabile e sconcertante che è Finnegans Wake. Ci ha lasciato più di cinquantamila pagine manoscritte su cui scervellarci, molte praticamente impenetrabili data la calligrafia quasi illeggibile, oltre a decine di taccuini decisamente caotici, fogli e fogli con elenchi di parole a caso che rimandano l'una all'altra e letteralmente a migliaia di lettere. E per capire fino in fondo i suoi romanzi è davvero necessario studiare tutta quanta l' œuvre, integralmente, fin nei minimi particolari.

La sfida più ardua per esegeti e testualisti ("pulisciti le glosse con quello che sai") è stata Finnegans Wake: da dove viene, dove va a parare e, in nome di Dickens, di che cosa parla. Adesso però, in quest'universo di accenni e congetture, di suggerimenti non dati alla stampa, i testi intermedi che costituiscono Finn's Hotel arrivano come una specie di stele di Rosetta, una nuova lente attraverso la quale osservare le zone oscure del libro dei sogni.

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Pagina 21

Giacomo Giacomo



Com'è come non è – come qui ho fatto scrivere a Joyce – si direbbe che a scadenze più o meno prolungate mi ritrovi a cimentarmi con la sua opera. E non è storia di ieri. Più di vent'anni fa Giulio Einaudi mi aveva proposto di ritradurre l' Ulisse. I diritti, allora ancora cinquantennali, stavano appunto per scadere e l'editore concupiva già il suo bel Millennio, inteso proprio come oggetto fisico, palpabile, cospicuo. Con una ragguardevole dose d'incoscienza, quella credo che fa smuovere ogni impresa, avevo accettato quasi subito e, se non ricordo male, mi ero messo al lavoro senza, com'è mia consuetudine, star lì a temporeggiare. Ma non avevo fatto in tempo a giungere al traguardo della cosiddetta Telemachia, i primi tre capitoli dedalei del libro, che l'Italia pensò bene di adeguarsi al resto della comunità internazionale, a quei paesi cioè più "progrediti" in materia di copyright, statuendo in base a chissà mai quali criteri che da allora in poi settant'anni erano un lasso assai più equo per rimpolpare – se ce ne fosse stato mai bisogno: e ce n'è sempre, pare – le misere finanze degli eredi. Eh già, gli eredi.

[...]


È uno schema, questo, che si è riproposto con pochissime varianti durante tutta la campagna del modernismo artistico – fatta eccezione per la componente autodistruttiva perseguita con coerenza e grande impegno, ed esiti adeguati, dal primo dada – e nel caso di Joyce, non soltanto uno scrittore ma un intero genere, una scuola, una letteratura, una vera e propria industria, raggiunge picchi acuti, insuperati per acribia e molestia. Questo lo schema: i primi estimatori si sentono tanto ma tanto audaci per non dire osé, ma non ci metteranno molto a transitare sull'altra sponda, quella dell'ordine più intollerante, possibilmente inalterabile, della conservazione a tutti i costi, come comprova ogni regime rivoluzionario. Da avanguardoni si passa così senza soluzione di continuità avanguardiani; nella fattispecie, da joysuini si passa joysuiti. È in sintesi la storia delle militanze artistiche moderne, o moderniste. Lui, Joyce, col suo ipertesto avrà voluto dare pur filo da torcere ai professori nei secoli a venire e a tutt'oggi sembra assai ben avviato sul cammino – a tutto scapito del libro, della vitalità del libro e della vita del lettore; per giunta io non sono un professore e di secoli è già tanto se ne ho visto uno finire. E allora torno a chiedermi: perché? Perché ho accettato?


Perché Joyce, con pochissimi altri e più di tutti gli altri, è il precipitato della soluzione modernista. È l'artefice che finalmente scrive il Libro, secondo l'evangelista Mallarmé, cioè l'opera d'arte totale, wagneriana o no, cioè ancora e sempre il mito della Grande Opera alchemica, passata però al setaccio dell'ottica sprezzante modernista, triturata dalla catena di montaggio, logorata dalla vita di trincea e dal lascito della grande guerra, un orizzonte ruggine cruento irto di filo spinato. Per James Joyce, il narcisissimo Sebastiano in odor di santità, il risultato è una trapunta di handicap: dell'uomo in primo luogo – viziato dal rapporto con la madre permissiva, con il padre, "il più frivolo" degli uomini, vezzo che avrebbe grevemente ereditato, con Nora, rapporto di squallore non comune (almeno in questo superato dal discepolo, l'altro martire delle patrie lettere, san Beckett, nel rapporto con la devotissima Suzanne); dal non confronto con gli altri grandi della sua stagione, precauzione forse giustificata ma che lo penalizza, perché dimostra che non era cieco solo dagli occhi del corpo; dall'imbarazzante panache con cui sfruttava gli altri, tutti gli altri, ai propri fini, come se gli fosse dovuto eccetera eccetera eccetera; dell'epoca – postbellica, revanscista, micragnosa e via scadendo d'attributi; dell'ambiente – asfittico irlandese sì ma bloccato deliberatamente a quello stadio conflittuale conveniente quanto basta, quanto occorre alle pretese dell'autoesiliato, l'esilio una categoria tagliata su misura, come gli abiti costosi e piuttosto pacchiani che faceva pagar sempre a qualcun altro. E altro, molto altro avrei da aggiungere a contrasto dell'ex-voto eroico che ci hanno propinato per decenni agiografi timorati, restii a mettere a confronto vita e opere, testo e traduzione, a cavarne scintille illuminanti. Perché il bello è che l'opera, malgrado tutto, se non proprio per quello, tiene. Il primo bardo idioeclettrico d'Irlanda fa faville: una trapunta di handicap e di stelle, quel "firmamento d'astri" che un Tristano e un'Isotta trasmogrificati in Finn's Hotel ammirano starry-eyed, come ogni appassionato dí letteratura. Anche qui con tutti i limiti del caso. Ma nessuno come lui, meglio di lui sa fare di necessità virtù. Joyce, per dire, non è nemmeno il "prodigioso lettore" che hanno voluto farci credere, bensì un piluccatore quanto mai avvertito; non fa che piluccare tutto il tempo, dappertutto (da qui l'effetto enciclopedico) con un superlativo senso dell'economia finalizzato unicamente all'esito. Tanto gli basta.


E arriviamo al dunque: più di qualunque altro scrittore forse Joyce non aveva niente da raccontare, se non quello che ognuno, se uno va a grattare, ha: i propri grami e molto poco interessanti casi personali, epperò tutto da dire. Per farlo era dotato di un orecchio unico, assoluto, di un senso del linguaggio come nessun altro, né prima né dopo, mai. Nella sua cecità vedeva la "meccanica" più che il contenuto del linguaggio. Questo, e la superba lente d'ingrandimento che aveva appreso a usare nella vita d'ogni giorno come poi nell'opera, gli permisero di convogliarvi tutto. E, una volta di più cattolico confesso, ha ritenuto che corrispondesse al Tutto. L'uso controllato di un simile linguaggio avrebbe preservato la sanità mentale dell'autore. Ci sarebbe da ridire su tutta la formula junghiana, su quello che significa, o non significa, ogni termine, a partire da "sanità mentale" – e poi, Joyce era davvero sano di mente, anche secondo l'accezione più comune? È follia essere parlati, specie da tutti: dare a tutti voce vuol dire sbarazzarsene. Se poi se ne ricava addirittura un'opera eccelsa, non resta che inchinarsi all'evidenza.

[...]


Per il lettore il libro, questo libro, rappresenta l'opportunità di un guado meno arduo, superabile con pochi brevi allegri accorti balzi, tra i due pinnacoli o aberranti trullipani che sono l' Ulisse e Finnegans Wake.

[...]


Per chiudere – e aprire una buona volta le danze – mi limiterei a trascrivere l'attacco del primo epicleto, un termine che, accanto al pur troppo fortunato "epifania", Joyce utilizzava fin dai tempi dei Dubliners. Un epicleto, spacciato ormai dai più come piccola epica, per chi non lo sapesse rimanda a un'invocazione allo spirito santo perché nel sacramento dell'eucarestia avvenga il miracolo della transustanziazione dell' arton epiousion, del pane quotidiano in trascendente, o soprannaturale per Simone Weil, o supracéleste per René Guénon, o sobra tota cosa, nell'occitano dei catari; e azzardare raffronti eretici non era estraneo allo scrittore. Volendo è dato leggervi anche il senso di imputazione o atto d'accusa; è stato fatto, con modesto tornaconto.

Ecco l'attacco, prima nella veste joyciana:

"Topside joss pidgin fella Berkeley, archidruid of the Irish chinchinjoss, in his heptachromatic sevenhued roranyellgreeblindigan mantle..."

Poi en travesti:

"Il nonplusultra del bisnìs relittigioso Berkeley, arcidruido della relittigiosità irlandese, nel tabarro eptacromatico settunto rosarangialverblindaco..."

Una prima, generica esegesi potrebbe anche richiedere più pagine.


Beh, questo è Joyce, signori, uno scrittore che fa qualcosa che nessun altro scrittore sa fare o sa fare così bene con le parole e quel qualcosa è, più che in ogni altro scrittore, il testo stesso. Il suo vovage au bout de l'anglais è innervato dalla musica dei vicoli, dei vichi lui direbbe, e delle sfere. Il grano di partenza, il nocciolo esplosivo è sempre fonico: fiat vox; il resto, tutto il resto ne consegue.

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Pagina 39

2.
Bontà verso i pesci

Poco tempo dopo aver nuotato in questa val di lacrime il piccolo straniero Kevineen si divertiva a giocare con la spugna la sera che era di tinozza. Crescendo sotto l'influsso della santa religione che gli era stata instillata sulle ginocchia della vecchia nonna la signora Jones diventò sempre più devoto e assorto come all'epoca Dio sa quando, reclamando per quaranta giorni indulgenza e per dieci quarantena, s'assettò sopra un piatto di brodo di castrato.

Il fatto è che non aveva proprio tempo per le ragazze e cose simili e diceva spesso e volentieri alla carissima madre e alle care sorelle come la carissima madre e le care sorelle andassero più che bene per lui. Di lui sappiamo anche che a sei anni aveva scritto un tema premiato dalla scuola sulla bontà verso i pesci d'acqua dolce.

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Pagina 43

3.
Il raccontino del tino

Kevin nato sull'isola d'Irlanda nell'oceano irlandese

essendogli stato concesso il privilegio di un altare cum bagno portatile va a Lough Glendalough tra i due fiumi

dove il pio Kevin vive da solo su un'isola nel lago

e sull'isola, un'area purificata da cinque corsi d'acqua, c'è un laghetto

e lì c'è un isolotto dove il benedetto Kevin costruisce una capanna alveare il cui piancito il benedettissimo Kevin scava fino alla profondità di un piede

fatto questo il venerabile Kevin va in riva al lago e riempie a più riprese il tino d'acqua che a più riprese il venerabilissimo Kevin svuota nella cavità della capanna creando così una pozza

dopo aver fatto questo il beato Kevin riempie una volta a metà il tino d'acqua tino che poi il beatissimo Kevin pone al centro della pozza

dopo di che san Kevin solleva la tonaca fino ai lombi e si siede, beato san Kevin, nel semicupio circonferenziale

dove, doctor solitarius, medita con fervore sul sacramento del battesimo ossia la rigenerazione dell'uomo per mezzo dell'acqua.

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Pagina 63

6.
Le stanghe della memoria

I quattro flutti di Erin anche ascoltavano, poggiati alle stanghe della memoria. Avevan l'aria di quattro vecchi dami eminentemente rispettabili, tutt'in tiro per l'occasione nella loro lucente gran tenuta della festa, mezza tuba grigia, redingote su misura a fare da pendant, barìcole da sonda e via scorrendo, ci capiamo, per tutto il mondo, acqua salata a parte, come il quarto visconte Powerscourt o North il banditore al concorso ippico annuale della royal Dublin society.

Ne avevano viste quanto basta: la cattura di Sir Arthur Casement nell'anno 1132, l'incoronazione di Brian da parte dei danesi, l'annegamento del Faraone Phitzharris nel (proletticamente) mar rosso, l'annegamento del povero Matt Kane di Dunleary, la dispersione della fiamminga armada al largo della costa di Galway e Longford, lo sbarco di san Patrizio a Tara nell'anno 1798, lo sbaragliamento della flotta francese al comando del generale Boche nell'anno 2002.

E tale era la loro memoria che li avevano nominati professori esterni alle quattro principali cattedre di scienza di Erin, le università di Mazzaocura, Mazzalitutti, Mazzavicenda, Mazzancollo, dove marconizzarono per quattro volte delle lezioni settimanali sui quattro tempi della Storia: il passato, il presente, l'assente e il futuro.

Salsi vedovi tutti e quattro molti secoli prima avevan divorziato in tronco dalle rispettive maritozze (dalle quali si erano separati rimanendo in ottimi rapporti) con sentenza definitiva emessa dal giudice Spiaccica al tribunale per gli sposi rei a Bohernabreena, il primo per inefficienza nel grattar la schiena, il secondo per aver fatto gas da scappamento senza prima presentare istanza scritta su carta protocollo con tanto di marca da bollo, il terzo per aver tentato di prendersi confidenze unniche dopo un pasto a base di granchi putrescenti, il quarto per via del suo contegno in caporale. Pur essendo ormai trascorso tanto tempo, con uno sforzo di memoria e contando attentamente i quattro bottoni pervinca della patta dei calzoni alla zuava riuscivano tuttora a ricordare il nome delle quattro bellissime sorelle Santasposabrün in quel momento in giro per gli Stati Uniti d'Africa.

Ma rieccoli pimpanti di lì a poco, donnescati dall'immortale rosa di beltà del grembuliebre. Spesso si sarebbero aggrappati tentacolarmente a' fianchi delle navi traghetto fra Northall e Holyhead e dei vaporetti turistici per l'isola di Man, sbirciando con occhio comatoso attraverso gli oblò catarattici delle cabine da luna di miele o nelle sale d'aspetto delle toilette per signore. Ma allorquando i semproni succitati, i Quattro Flutti di Erin, udirono la detonazione dell'osculazione (cataglottismo cataclismico) che con ostentazione (osculum cumbasio necnon suavioque) si erano scambiati Tristano e Isotta, allora essi levarono d'attorno al litoral d'Irlanda il piagnistereo lacrimonioso de' vegliardi.

Salmodiavano gli anziani Flutti di Erin un cantico palestrino a quattro voci, quattro per tutte, tutte unite in allegria di duolo per la solitudine della vecchiaia ma con licenza bardica, data la presenza più che bastevole di uccelli e stelle e strepiti. Questo lo sciacquettio sulla lunghezza d'onda del lor canto:


    Un cielo senz'uccelli, umbramarina e di stelle una
    Bassa a occidente
    E tu, povero cuor, imagine d'amor, frale e lontana,
    Tu rammenti
    Gl'occhi freddomare e 'l soave biancoschiuma fronte
    Le chiome profumate
    Ricadenti come or cade silente
    Ombra dall'etere.
    E perché mai
    Perché rammemorar
    Perché
    Povero cuor ti crucci
    Se quell'amor cui lei con un sospir cedé
    Mai non fu tuo!

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