Copertina
Autore Ken Kalfus
Titolo Plutonio 239
Sottotitoloe altre fantasie russe
EdizioneFandango, Roma, 2011 [2006], Tascabili , pag. 352, cop.fle., dim. 12x16,7x1,7 cm , Isbn 978-88-6044-218-5
OriginalePu-239 and Other Russian Fantasies [1999]
TraduttorePaola Frezza
LettoreGiorgia Pezzali, 2012
Classe narrativa russa
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Indice

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Plutonio 239                        5

Anželika, 13                        41

Birobidžan                          64

Orbita                              141

Budjonnovsk                         182

Sale                                208

Peredelkino                         222


Ringraziamenti                      349


 

 

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Pagina 5

Plutonio 239


Era stato commesso un errore banale, non previsto nella progettazione dell'impianto; qualcuno aveva lasciato aperta una valvola e una tubatura era scoppiata, un tecnico era rimasto intrappolato in un'intercapedine e un piccolo incendio aveva distrutto alcuni terminali. Sulle prime l'allarme venne ignorato: i falsi allarmi scattavano di continuo e sfrecciavano per la centrale come uccelli tropicali nella foresta pluviale. Quando si comprese la gravità dell'incidente, i tecnici della squadra di soccorso scoprirono che un distributore di bibite, in attesa di essere inviato alla manutenzione, ostruiva l'accesso alla stanza dove erano custodite le tute antiradiazioni. Dopo averlo spostato ed essere entrati nel ripostiglio, si resero conto che molte bombole di ossigeno non erano state ricaricate. Quando finalmente raggiunsero il laboratorio, l'incendio era quasi estinto, ma la stanza era satura di fumo contaminato da elementi della serie degli attinoidi. Sdraiato sulla schiena, nell'intercapedine al di sopra del soffitto, lo sguardo fisso sulla corrosione vermicolare che arabescava la superficie del condotto di lamiera a pochi centimetri dalla sua faccia, Timofej aveva inalato le esalazioni per un'ora e quaranta minuti. In quell'arco di tempo aveva fantasticato di respirare banconote da un dollaro, che una volta acquartierate nei suoi polmoni e nel suo midollo osseo bombardavano le fibre del suo corpo con decini, nichelini e monete da un quarto ad alta energia.

Timofej lavorava a 16 praticamente da quando aveva raggiunto l'età adulta, consegnatario dei munifici e trasfiguranti poteri dell'atomo. Per buona parte della sua esistenza, la musica della fissione e il sibilo della cattura e della cessione di particelle lo avevano esaltato. Molto apprezzato per la sua ingegnosità, custodiva nella mente non solo una conoscenza dettagliata della configurazione dell'impianto, ma anche il preciso ricordo di ognuna delle sue riparazioni e di ogni modifica artigianale. Sapeva dove si trovavano tutti i rattoppi e con quale cura erano stati eseguiti. Conosceva quali tolleranze nominali potevano essere superate e di quanto; quali indicatori esageravano, quali minimizzavano e quali potevano essere completamente ignorati. I dirigenti dell'impianto e i ricercatori si trovavano spesso costretti ad affidarsi al suo giudizio. In quelle occasioni, compariva nella sua voce un velo di ironia, mentre lui picchiettava significativamente il dito sul foglio degli schemi tecnici e spiegava perché esistesse solo una soluzione corretta del problema.

Dopo la morte di Timofej, i colleghi ricordarono la lavata di capo da lui ricevuta, qualche anno addietro, da parte di una scienziata ospite. Nessuno rammentava i particolari, solo che la ricercatrice aveva proposto di modificare lievemente il processo di reazione in modo da produrre una quantità maggiore di un certo isotopo che lei impiegava nelle sue ricerche. Da dietro la mezza dozzina di funzionari dell'impianto ai quali lei si era rivolta, Timofej, nel suo camice bianco macchiato e stropicciato, si era intromesso, sollevando obiezioni alla proposta. Sosteneva che le eccedenze dell'isotopo non sarebbero state create nel modo da lei suggerito, e che anzi, secondo i ben noti principi della fisica nucleare, non era assolutamente possibile produrle. Il sangue era salito di colpo al volto da bulldog, quadrato e ben in carne, della ricercatrice. "Idiota!", gli aveva sibilato. "Io sono la segretaria della Sezione nucleare dell'Accademia delle scienze. I fottuti e ben noti principi della fisica nucleare sono praticamente miei! Lei è un tecnico!" Quelli che erano stati presenti ricordarono come Timofej avesse cercato di difendere la sua opinione e come, mentre cominciava a esporre quel che non funzionava nel ragionamento di lei, la sua voce fosse calata di tono e lui avesse iniziato a farfugliare, perdendo di vista l'argomento principale. Lei lo aveva interrotto per rivolgersi agli altri interlocutori. "Ci sono altre domande? Obiezioni sensate?" Alla fine, non fu mai dimostrato se avesse ragione Timofej o la ricercatrice. Il ministero della Difesa respinse la proposta per questioni di bilancio.

I rapporti di Timofej con i colleghi erano più amichevoli, anche se distaccati, e di solito lui pranzava con quelli del suo reparto nella mensa della centrale. Nella sala senza finestre frusciava il mormorio dello scontento. Solo con difficoltà si sarebbe potuto annoverare Timofej fra i più astiosi membri del personale tecnico: e la cosa, giustamente, venne fatta notare in seguito. Tutti scherzavano con trita ironia sulle lacune nei sistemi di sicurezza, e sul precipitoso declino degli stipendi dovuto all'inflazione; in quei commenti era quasi interamente scomparso il senso dell'umorismo da tre mesi, da quando cioè la direzione, dopo una raffica di annunci rassicuranti, accorate spiegazioni e inequivocabili promesse, aveva smesso di pagarli. Nessuno, da allora, fu più retribuito.

Ogni pomeriggio alle quattro, Timofej fuggiva i compromessi e l'incompetenza del suo posto di lavoro a bordo di una vecchia Ziguli acquistata al preciso scopo di risparmiare mezz'ora sul tragitto del tram. Contro ogni previsione, dettata dalle circostanze e dalla sua personalità, si era sposato, a più di quarant'anni, con una elettrotecnica assegnata a un altro reparto. Ora, con l'attenzione che una volta dedicava al reattore nucleare, Timofej sedeva spesso al tavolo da cucina, di fronte alla moglie, e tendeva l'orecchio per ascoltare il loro esile e asmatico figlio di otto anni, Tolja, che nella stanza accanto impartiva ordini imperiosi ai suoi soldatini. Una preoccupante affezione respiratoria, simile a quella del bambino, impediva a Marina di lavorare; il permesso per malattia aveva donato alle sue morbide guance un grazioso colorito.

La famiglia abitava all'ottavo piano di un caseggiato di cemento armato ingiallito dalle intemperie, con una scala di ingresso scalcinata e corridoi privi d'illuminazione. In quell'umido scatolone dimorava un gioiellino di appartamento con due stanze da letto, che odorava di pane fresco e polpette di carne, affacciato su un bosco di betulle. Arabescato d'inverno dalle tracce degli sci e profumato d'estate dalle grigliate di šašlik, dimora di daini, lepri e perfino lupi grigi, il bosco si estendeva a perdita d'occhio, fino alla cinta perimetrale della città.

Mentre Timofej veniva estratto dall'intercapedine, i suoi colleghi pensarono a Marina e al bambino. Lui era cosciente ma confuso, gli occhi sfocati e il viso inespressivo. Circondato da fantasmi in scafandri antiradiazioni, era come se vedesse il reparto per la prima volta: i muri crepati, i cavi elettrici che serpeggiavano sotto i piedi, il cristallo graffiato e annebbiato degli indicatori, le valvole e i tubi chiazzati di muffa, le apparecchiature guaste ammonticchiate in una postazione in disuso e i tubi consunti che sostituivano tratti di conduttura mancanti ed erano assicurati da nastro isolante. Uscì barcollando dal laboratorio, fece una doccia, vomitò due volte, si liberò dei vestiti e fu visitato sommariamente da un medico che gli misurò il polso e la temperatura. Nessuno lo guardò negli occhi. Timofej fu mandato a casa. I colleghi rimasero sorpresi nel vederlo tornare, il giorno dopo. Minimizzò l'incidente e dichiarò di dover sistemare due cosette, prima di potersi prendere quel "congedo" che gli era stato automaticamente concesso. Ma il suo sorriso era smorto come la luna in una notte di mezz'estate e gli tremavano le mani. In ogni caso i colleghi erano troppo indaffarati per intrattenersi con lui. Era in corso una caotica operazione di pulizia e le normali attività della centrale erano state sospese.


Una settimana dopo "l'evento", come veniva definito l'incidente nella centrale e nei ministeri competenti – nessun altro ne era a conoscenza –, Timofej sedeva nel tardo pomeriggio a un tavolino nel bar adiacente l'atrio di un torreggiante albergo dell'era brezneviana, su uno dei vialoni che si diramano a raggiera dal centro di Mosca. Una giacca sportiva doppiopetto color cioccolato al latte, di fabbricazione nazionale, pendeva dal suo scheletro come bucato steso ad asciugare. Aveva solo cinquant'anni ma, curvo e allampanato, il volto segnato da una ragnatela di vene dilatate, sembrava più vecchio di almeno quindici anni; quasi un veterano della guerra. La sua pelle era grigia come cemento bagnato, fatta eccezione per un eritema da radiazioni che gli arrossava la zona intorno a occhi e naso. Dal cranio gli spuntavano ispidi capelli bianchi. Gli occhi azzurri ravvicinati fiammeggiavano sotto i bianchi bruchi delle sopracciglia.

Per natura, non si lasciava impressionare dalle ostentazioni di lusso e agiatezza; inoltre, gli zingari e i mendicanti che bazzicavano vicino all'entrata avevano già, in ogni caso, mitigato la grandeur dell'albergo. Si rendeva conto di come lo spazio del salone intendesse imitare le sublimi vetrate e gli atri marmorei dell'Occidente, ma le travi d'acciaio della copertura a serra incombevano a due piani dalla sua testa, sorrette da muri fatti di blocchi di cemento sgretolati. Una fila di finestroni, muniti di scuri, correva lungo il perimetro superiore e si affacciava sulla sala come nell'interno di una fabbrica. L'unica attrattiva consisteva in un assortimento di piante e felci rigogliose, in vaso, al centro dell'ambiente. Mentre Timofej sorvegliava un bicchiere intatto di vodka, che gli era costato un terzo dei rubli che gli rimanevano, un grasso guardiano vestito di marrone lanciò, con un colpetto, un mozzicone di sigaretta nella terra di una pianta e si allontanò furtivo.

Timofej si sforzò di captare le aspirate e le fricative dentali di una lingua straniera, ma gli altri clienti erano tutti russi o "neri", vale a dire caucasici. Uomini obesi e irsuti in sudicie tute da ginnastica e giacche di pelle a buon mercato facevano capannello intorno ai tavolini di plastica sporchi, soffiandosi il fumo in faccia a vicenda. Di tanto in tanto, alzavano lo sguardo dal bicchiere per lanciare un'occhiata intorno a sé, poi tornavano alle loro trattative. A un altro tavolino, una donna dall'aspetto spigoloso, vestito corto nero scollato e calze nere, leggeva un quotidiano con aria torva.

Seduto proprio dietro Timofej, un solitario giovanotto dalla fisionomia scura e ossuta decise che quel provinciale non sarebbe mai stato in grado di trovarsi una ragazza da solo. Non che ce ne fossero tante in giro, così presto. Si chiese quanto denaro potesse avere quel pollo e come farglielo sganciare.

Certamente ne aveva abbastanza per pagare uno di quei ragazzini in giacca a vento che, a gesti, fermavano le auto sul viale. Il giovanotto, noto come Šiv ai suoi conoscenti di Mosca – amici non ne aveva –, si alzò dal tavolino, abbandonando la sua bevanda.

"La prima volta a Mosca, amico?"

Timofej non fu colto di sorpresa. Alzò lentamente la testa ed esaminò il giovane in piedi davanti a lui.

Il naso dell'uomo era già stato fratturato, oppure non era stato mai neanche scalfito ma il resto del volto gli era stato spaccato molte volte, lasciandolo con zigomi e arcate sopracciliari sghembi e sporgenti. Indossava una giacca sportiva d'importazione, camicia nera e un paio di mocassini neri, anch'essi di probabile produzione estera. I capelli ricci e scuri, piuttosto lunghi, sfioravano il colletto della camicia. Gioielli scintillavano ai polsi e alle dita. Impossibile immaginare l'esistenza di una creatura del genere a 16.

Šiv non gradiva l'assenza di timore negli occhi di Timofej: denotava una profonda ignoranza dei fatti della vita. Ma trascinò una sedia sotto di sé, vi sedette pesantemente e disse, a bassa voce: "Sei tutto solo. Ti piacerebbe conoscere qualcuno?".

Il pollo non rispose e neanche diede segno di averlo sentito. La mandibola era serrata, il volto inespressivo. Šiv si chiese se parlasse il russo. Lui non parlava alcuna lingua straniera e detestava la testardaggine con la quale i forestieri insistevano a parlare la loro. "Sei venuto nel posto giusto", aggiunse. "Sarei onorato di presentarti qualcuno."

Timofej continuò a fissarlo in un modo che Šiv, se solo avesse avuto un po' di buon senso, avrebbe capito quant'era pericoloso. Un pazzo, pensò Šiv. Una perdita di tempo. Ma poi il pollo improvvisamente parlò, con voce stridula, in un russo colto e privo di accenti. "Ho qualcosa da vendere."

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Pagina 26

Il rancore nei confronti di Mosca gli bruciò nel petto, vicino al Pu-239.

Plutonio. Non c'era scampo con quella roba, eterna e universale come il peccato originale. Dalla sua prima sintesi, nel 1941 – che ne aveva fatto Seaborg di quella magica pietra primordiale di sua creazione? L'aveva messa in cassaforte? Si trovava ancora lì? – ne erano state prodotte più di mille tonnellate. Veniva ancora fabbricato, non solo in Russia, ma anche in Francia e in Gran Bretagna; in America ne avevano ancora delle scorte. Era quasi tutto sigillato in contenitori d'acciaio sepolti in miniere o incapsulato nel vetro; innocuo, innocuo, innocuo. Ma quell'infinitesima frazione che non era stata messa al sicuro, quei pochi fiocchetti che erano sfuggiti al controllo durante gli esperimenti nucleari, negli incidenti di trasporto o nei reattori, o a causa di furti e perdite, velavano l'intero pianeta. A un certo punto, entro i prossimi tre mesi, Timofej sarebbe morto con il plutonio in corpo e a lui si sarebbero unite, nello stesso anno, migliaia di altre vittime in Russia e nel resto del mondo. Il suo corpo sarebbe stato trasportato al crematorio municipale dall'astratta sfaccettatura di cemento giallino, vaga celebrazione della vita, dove la struttura chimica della sua pelle, di polmoni, testa e cuore sarebbe stata trasformata dal vento e dal fuoco. In quella fornace, il Pu-239 si sarebbe ossidato per poi ricombinarsi in arbitrari accoppiamenti con altre sostanze, ma senza mai tradire le sue basilari proprietà radioattive. Una piccola quantità sarebbe rimasta nella cenere, interrata nuovamente nel suolo; il resto, trasportato lassù, nella vasta volta del cielo bianco che spazia sulla pianura gelata. Cenere alla cenere.

Ma sarebbe rimasto incorporeo, completamente invisibile, per librarsi ingannevole davanti a noi, come un miraggio nell'umore vitreo dei nostri occhi. La gente si ammala di cancro in continuazione senza sapere quasi mai il perché. Una minima parte di acido nucleico, su un segmento di Dna, si sposta lievemente; la sequenza di un cromosoma è cancellata; si attiva un oncogene. Apparirà solo nelle statistiche, nelle quali rimarrà disgiunto dalla vita e dalla morte degli individui. Va già bene, pensò Timofej, che non siamo in grado di afferrare l'enormità del pericolo; se lo facessimo, saremmo paralizzati dalla paura, non tanto per noi, quanto per i nostri figli. Impossibile venirne a capo; si riesce a riflettervi solo per qualche istante, per poi volgere in fretta la mente altrove. Ma l'incidente lo aveva liberato. Timofej poteva ormai pensare al plutonio con grande distacco.

E non solo al plutonio. Era ora squisitamente conscio di quella eterea soluzione che ogni giorno lo copriva come un bagno caldo: insidiosamente subatomica, microscopica e brulicante, polisillabica. Il suo corpo era impregnato di pesticidi, dei resti liquefatti di batterie elettriche, gas di scarico di benzine al piombo, diossina, nitrati, scorie di metalli tossici, tinture e organismi virali mortali, creati nei liquami di fogna non depurati: l'intera cancerogena discarica del grande impero industriale sovietico. Quasi un emblema dell' Homo sovieticus, Timofej era giunto al termine della sua esistenza come miscuglio di cromosomi danneggiati, tessuti contaminati dai metalli pesanti, ossa sgretolate, membrane frammentate e sangue asfittico. Forse, la disattenzione del suo popolo nei confronti delle conseguenze biologiche del degrado ambientale era il risultato di una sorta di convinzione hegeliana che l'uomo esistesse solo nella storia e non nella natura. Non c'era da stupirsi se tutti fumavano.

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Pagina 64

Birobidžan


1

Le preghiere di Israel furono esaudite.

Una giovane donna, nella penombra, si stringeva tra le braccia come infreddolita, malgrado il calore dei tanti presenti e l'accesa discussione politica avessero appannato di condensa le finestre dell'appartamento. Si proteggeva dal freddo immaginario con un'informe maglia marrone che terminava sopra la vita di un lungo abito azzurro dalle assurde balze. Alta e flessuosa come un giunco, aveva membra sottili e ossute. Senza dubbio una ragazza di città, forse una studentessa, oppure una dipendente del partito. Uno sguardo distratto non sarebbe riuscito a cogliere la bellezza della mandibola quadrata o della bocca decisa e seria, ma lui la apprezzò con l'attenzione di un gioielliere. A suscitare il suo interesse fu l'aura di solitudine che emanava dalla sua persona per fondersi nelle zone ombrose della stanza. Nei suoi contorni indistinti, egli percepì la precisa impronta del proprio bisogno.

Si era allontanato dalla cucina solo per sgranchirsi le gambe e per esprimere il fastidio suscitato dall'andamento della discussione. La sala da pranzo di un tempo era stata trasformata, o meglio, requisita, per accogliere una famiglia di cinque persone. Ma quella sera era stata requisita di nuovo. Il bel parquet, illuminato dalla luce soffusa delle lanterne cinesi, fungeva in quel momento da pista da ballo. Un grammofono suonava una musica vivace e insistente, non esattamente di moda. Al centro della stanza, una giovane studentessa dai capelli rossi era intenta a mostrare al compagno e a un'altra coppia qualche nuovo passo di danza, di cui non pareva troppo sicura. A un certo punto rise della propria inadeguatezza.

"Piede sinistro indietro, Israel? Piede destro di lato, e poi scivolata?"

Lui sorrise distrattamente, lo sguardo appuntato sulla ragazza nell'angolo. Lei osservava la stanza come se assistesse a una scena del tutto insolita, e alquanto sgradevole. Israel notò allora la menorah alle sue spalle, lo shammes, la "candelaservo", un po' storta, che sovrastava un'unica luce. La menorah era il solo elemento religioso della stanza, anche se Hanukkah era la ragione ufficiale della festa del Comitato per le tradizioni culturali.

"Sì, però devi alzare le braccia. L'uomo avanza, e poi retrocede. No, no, in alto. Dietro il sinistro, il destro di lato, chassé, in alto. Ecco, te lo mostro."

Con tre lunghe falcate raggiunse la ragazza con la maglia marrone. "Prego", disse, tendendole le braccia. "Vorrei mostrare il saltello Paterson."

Lei si ritrasse, intimidita, le braccia strette intorno al petto.

"Ir ret Yiddish?" Le chiese se parlava yiddish. La ragazza scosse la testa.

"Prego", disse lui in russo. "Sarebbe un onore."

"Non so ballare."

"Nel giro di tre minuti imparerai."

Le due coppie sulla pista ridacchiarono. La puntina fu portata sul perimetro del disco. Lui strinse la ragazza con delicatezza e la fissò in volto, ma lei distolse lo sguardo. Appena iniziato il brano, Israel si accorse che lei aveva mentito: la capacità di ballare non è facile da nascondere. Fece qualche passo strascicato, incerto, proprio come chi balla bene pensa che debba fare un incapace. Quella bugia lo divertì; un sorriso esplose sul suo volto come il sole che squarcia le nuvole. La ragazza muoveva i fianchi snelli da adolescente a tempo con il ritmo complesso della musica, incapace di resistere. Ma il saltello Paterson non lo conosceva.

"Č uno-due, uno-due, scivolata, con le braccia così", la guidò lui, "in modo che la donna vi possa passare sotto, e poi, così, e questo è il saltello. Mi chiamo Stern. Israel Davidovič. Fai parte del Komzet?"

"No, mi ha invitato la mia amica Rachel Labanova."

"Lidija", disse lui rivolto alla rossa, "provalo con Maksim. Un passo indietro, due avanti. Č un ballo da nepman. Ora, scivolata. Quasi. Di nuovo." Poi, voltandosi verso la sua partner, aggiunse: "Sei portata per il ballo, ma hai bisogno di esercitarti almeno quattro volte al giorno. Rachel Labanova è coinvolta nel Komzet?"

"Ha semplicemente saputo che c'era una festa. Abbiamo appena finito gli esami." La ragazza si accigliò, seccata con se stessa per essersi sentita in dovere di spiegare.

"Capisco. Scivola, scivola! E con chi ho il piacere di fare il saltello Paterson a nome delle masse del proletariato in lotta?"

"Larisa", rispose lei, in tono incolore.

"Larisa", ripeté Israel, riflessivo.

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Pagina 89

Nell'ultima ora la temperatura si era fatta più mite. Israel e le due ragazze camminavano sul marciapiede bagnato ma privo di ghiaccio, tra i rari pedoni. Per una qualche illusione uditiva, il suono del clarinetto basso continuava a serpeggiare nella notte umida, gemendo pezzi di altre composizioni note, accompagnato dalla voce della stessa Larisa, più calda e forte che mai. Per far durare quella illusione, lei chiuse i sensi al duro acciottolato che premeva sotto le suole sottili degli stivali, al baluginio dei lampioni stradali e alla presenza degli amici. Pensò che nel teatro sotterraneo si era in qualche modo esposta, eppure non lo rimpiangeva.

"Birobidžan?", le venne in mente di chiedere.

"La patria del popolo ebraico."

"Si trova in Palestina?"

Israel sorrise con aria di superiorità. "La Palestina è una causa persa, una striscia di deserto avvolta nel mito. Gli arabi non ne permetteranno mai l'esistenza, e neppure gli inglesi. Qualsiasi cosiddetto Stato nazionale ebraico in Palestina sarà sempre uno strumento dell'imperialismo britannico."

"E allora cos'è?"

Israel si fermò per frugare nella tasca del cappotto. Ne estrasse un piccolo quadrato di carta. Guidò Larisa e Rachel sotto la luce di un lampione ed eseguì uno dei suoi giochi di destrezza. Il quadrato cominciò a svolgersi, quasi all'infinito, come fosse stato piegato innumerevoli volte. I passanti voltavano la testa, meravigliati e poi intimoriti, prima di allontanarsi in tutta fretta: era una dimostrazione politica? Con il tempismo di un artista navigato, Israel chiese alle due ragazze di aprire l'ultima piega. Larisa prese un bordo, Rachel l'altro.

"Voila!", urlò Israel. "La patria del popolo ebraico. Creata da operai e contadini ebrei, appoggiata e protetta dalla potenza sovietica, rispettata dal proletariato internazionale. Si trova vicino a Chabarovsk, al confine con la Cina."

Quella che avevano dispiegato era una normale mappa da parete. L'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche mirabilmente contenuta in quella carta. Il bordo meridionale correva frastagliato tra antichi imperi, quello settentrionale si stemperava tra isole e arcipelaghi disabitati e deserti di ghiaccio. Tre fusi orari a est di Vladivostok, il paese si estendeva su quasi tutto l'angolo superiore destro, cercando di sfuggire ai propri confini. Larisa teneva la parte nota della mappa, l'angolo superiore sinistro, dove, nello stesso riquadro pieno di grinze, figuravano l'Europa centrale, Mosca e Berlino.

"Guardate qui", disse Israel, senza che lei vi riuscisse: stava indicando una lingua di Russia molto distante da lei, che si addentrava nella Cina. Chinandosi con difficoltà, pur tenendo la mappa aperta, Larisa si sporse sulle steppe color pesca. Israel le afferrò il braccio per sostenerla. Il suo tocco era caldo. Poi la lasciò per indicare di nuovo il posto. La luce scarsa impediva di distinguere con chiarezza i caratteri minuti. Una folata d'aria mosse la mappa, tendendogliela tra le dita come un pesce che si dibatte sulla lenza.

"Quarantamila chilometri quadrati", spiegò lui. "Terra vergine, ricca di depositi di minerali, legname, suolo fertile. Più grande del Belgio, più grande della zona della Palestina sottoposta al Mandato Britannico, niente arabi. Solo pochi indigeni e colonizzatori russi e cosacchi, tutti entusiasti dell'insediamento ebraico. Ha appena ottenuto la piena approvazione del Comitato centrale."

Rachel guardò con sospetto la mappa e poi Israel. "Hai intenzione di costruirci un teatro?"

"Col tempo. E anche scuole ebraiche, un centro culturale ebraico, una casa editrice ebraica, un giornale ebraico, una sezione ebraica del partito..."

Larisa lo interruppe. "E che mi dici dei luoghi di culto ebraici?"

Israel si strinse nelle spalle con studiata noncuranza. "La libertà religiosa è garantita dall'articolo 65 della Costituzione sovietica."

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Pagina 123

5
Ma qualcuno non scordò, e il ricordo durò per un decennio di giorni e notti, in agguato nelle pozzanghere e nel luccichio delle macchine agricole, sibilò nelle tormente e si accese nei tramonti estivi che occupavano metà del cielo, finché riaffiorò su un tavolo di metallo grigio in un tetro ufficio rivestito a pannelli nella città di Chabarovsk.

Non era come fossero passati solo dieci anni: il fuoco con cui Stalin aveva pulito la nostra nazione aveva consumato rapidamente intere vite. Aveva risparmiato uno degli uomini in quell'ufficio, lasciandolo però con due soli denti in bocca e niente capelli. Una barba grigia spelacchiata gli copriva le guance incavate. L'occhio sinistro era rimasto chiuso in seguito a percosse, e non avrebbe mai più accolto la luce.

Chiamò a raccolta le forze per rimanere eretto sulla sedia di ferro su cui l'avevano fatto sedere. L'odore degli abiti insozzati lo rivoltava, come pure la colonia dell'uomo seduto all'altro lato del tavolo, un tipo bruno, alto e magro, in doppiopetto blu di buona fattura. Si era aspettato di riconoscerlo, ma non fu così. L'ufficiale aveva a malapena alzato lo sguardo quando lui era stato condotto nella stanza, e, per il quarto d'ora successivo, aveva studiato le carte del fascicolo sulla scrivania.

Poi l'aveva fissato con profondo disprezzo. "Štern."

Il detenuto non diede segno di avere udito.

"I cessi Lenin", dichiarò l'ufficiale. "Il reparto gonorrea Stalin."

Malgrado le sue condizioni, Israel non poteva fingere indifferenza. Con un filo di voce, replicò: "Si perde qualcosa nella traduzione".

L'uomo allora lesse l'annotazione con impeccabile accento in lingua originale.

Israel cercò di sorridere, ma gli parve di avere qualcosa di rotto nel viso. "Ir ret Yiddish?"

"Sono nato a Cherson e ho frequentato il cheder locale fino all'età di quindici anni."

"Mia madre era di Cherson."

"Grinspan. Elena Samuilovna. La sua famiglia gestiva una lavanderia che occupava sei operai. Ora, mi puoi spiegare questa frase?"

"La si deve considerare nel contesto."

"Benissimo", disse l'uomo, e prese a leggere.


D.B. LIPŠIN: Spinoza? Perché Spinoza?

M.I. KUGEL: Per il semplice fatto che è stato uno dei più grandi filosofi del mondo.

LIPŠIN: Sì, e un filosofo ebreo.

KUGEL: E allora? Anche Marx lo era.

S.V. BESSERMAN: Marx, però, era uno storico.

KUGEL: Se si vuole costruire una grande università in una repubblica ebraica, la si dovrebbe intitolare a un ebreo.

LIPŠIN: Ma questo è sciovinismo! Allora la sala da concerti la dovremmo chiamare Mendelssohn?

M.B. VEYNSTOK: Perché no?

LIPŠIN: E lo stadio come un grande atleta ebreo? E l'università del Čuvaš come un grande filosofo del Čuvaš? Buona fortuna, allora. La rivoluzione è stata fondata sull'internazionalismo, e se vogliamo che Birobidžan prosperi, è necessario superare questi meschini sciovinismi nazionalistici.

KUGEL: Ma che senso ha Birobidžan, se non quello di garantire la nostra identità nazionale?

LIPŠIN: Ma in un contesto internazionalista! Noi dobbiamo essere innanzitutto fedeli al proletariato mondiale. Prima di chiamare gli edifici con il nome dei nostri eroi, esaminiamone le credenziali di classe.

I.D. ŠTERN: Benissimo, sono d'accordo con Lipšin. Allora battezziamo tutto con i nomi di Lenin e Stalin, e facciamola finita. Università Lenin. Stadio Stalin. Sala da concerti Lenin. Biblioteca Stalin. Cessi Lenin. Reparto gonorrea Stalin.


L'ufficiale ripose i documenti nella cartellina. Corrugando la fronte, scartabellò fino a trovare il foglio che voleva, e poi si mise a scrivere. Si interruppe di colpo, infilò in bocca la punta della matita, e poi, dopo un momento di riflessione, riprese. L'ufficio aveva parecchie finestre, ma erano state tutte pitturate di bianco e lasciavano entrare una luce fioca. Forse era giorno, immaginò Israel, ma malgrado non fossero passate che due settimane dal suo arresto, non ricordava la stagione.

"Facevo dell'ironia", affermò.

L'uomo concluse il rapporto prima di alzare lo sguardo.

"Ironia? Facevi dell'ironia sui due capi della rivoluzione mondiale? Le due più grandi menti mai prodotte dall'Europa? Non ti è mai passato per la testa, Štern, che ci sono argomenti, ideali, troppo importanti per essere mutilati dalla satira e dal sarcasmo? O che questo effetto retorico di attaccamento alla razza potrebbe rappresentare una maledizione per il popolo ebraico? Che è proprio l'innato senso dell'ironia a impedirne il progresso sociale e a minacciarne la sopravvivenza fisica?"

"Be', questo è quello che pensi tu dell'ironia."

"Stai facendo dell'ironia anche adesso?"

L'occhio aperto di Israel era vitreo e assente, l'espressione vacua.

"No."

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Pagina 141

Orbita


                            All'audace intelletto dell'uomo sovietico
                            che per primo penetrò lo spazio

                                              Dedica su un monumento,
                                    Parco centrale dell'Armata, Mosca



Rimasero seduti un minuto, come è nostra tradizione prima di ogni partenza. Tutti presero posto: Jurij, Ivanovskij, Karpov, Kamanin e l'Ingegnere Capo. Ma poiché mancava una sedia, Titov si accovacciò a fianco di Kamanin, gli occhi fissi sul pavimento. Nessuno disse una parola. Fuori dell'alloggio un autobus avviò il motore. Con il casco in grembo, Jurij sorrise all'Ingegnere Capo.

L'Ingegnere Capo si sforzò di restituirgli il sorriso. Abbassò gli occhi sul blocco degli appunti, studiò l'elenco e la tempistica per assicurarsi di non aver dimenticato nulla. Era di cattivo auspicio tornare indietro una volta usciti e, nel caso, bisognava mettersi davanti allo specchio e tirare fuori la lingua. Il ventilatore di Jurij si mise a ronzare.

"Bene", disse l'Ingegnere Capo. Il suo sospiro rasentò un gemito. Batté le mani e le strofinò sulle cosce prima di alzarsi pesantemente in piedi. Gli uomini lo seguirono all'esterno.

Acclamazioni e applausi ritmati: Jurij non aveva previsto quel gruppo di sconosciuti radunati in fondo alle scale. Una graziosa scolaretta in abitò di taffettà con fiocchetti si avvicinò frettolosa, fece l'inchino e gli offrì un mazzolino di lilium rosa per poi correre a nascondersi dietro le gonne della madre. Il sorriso aperto di Jurij riscaldò il diafano viso lunare della donna, che sorrise timidamente, abbassando gli occhi. Non più di una trentina i presenti – personale militare autorizzato e i loro familiari – eppure sembrava ci fosse mezzo mondo. Più tardi saremmo andati tutti tra la folla radunata nella Piazza Rossa. Jurij si incamminò a passo lesto verso l'autobus. L'Ingegnere Capo lo precedette su per gli scalini e gli prese il ventilatore, che aveva le dimensioni e il peso di una valigetta, mentre Jurij saliva a bordo. Alla folla che gridava frasi di incoraggiamento rispose mostrando il pollice alzato.

Superato l'alloggio, l'autobus passò davanti all'infermeria. Le tende erano scostate, ma lui non riuscì a vedere nulla all'interno, abbagliato dal riflesso della luce del mattino sui vetri. Non aveva importanza. Non si chiese quando o se avrebbe mai rivisto l'infermeria. Praticamente tutti alla base sapevamo del lancio. A decine ci assiepavamo lungo la strada, sventolando bandiere e innalzando striscioni che, a causa del regolamento militare, erano cauti nelle esortazioni: "Auguri dal Reparto Produzione!", "Buona fortuna, compagno!" o semplicemente "Avanti!". Una delegazione di Giovani Pionieri aspettava in prossimità del passaggio all'area di lancio, alcuni così emozionati dal suo arrivo da non riuscire a far altro che fissarlo ammutoliti. Dal finestrino, Jurij mostrò il pollice alzato e regalò un sorriso il cui ricordo avrebbe illuminato le notti più buie della loro vita. Mandò baci alle ragazze.

Avvolti dai gas di raffreddamento, il razzo R-7 e la struttura di sostegno erano i soli elementi visibili all'orizzonte. Mentre si avvicinava, l'autobus suonò il clacson.

Si fermò a poche decine di metri dall'ascensore che avrebbe condotto Jurij alla cabina della capsula Vostok. Davanti all'ascensore lo aspettavano Leonov e Popovic, oltre a una dozzina di tecnici e operai, in gran parte visi noti, alcuni con fiori e bandiere, altri con blocchi per appunti e attrezzi. Jurij scese dall'autobus, il casco in una mano e il ventilatore nell'altra. Nell'aria, odore di cherosene.

"Aspetti un momento", disse all'Ingegnere Capo.

Mentre si incamminava lungo la fiancata del veicolo, fino alle ruote posteriori, notò la superficie ondulata dell'asfalto. Appoggiò con cura ventilatore e casco su un rialzo quasi impercettibile. Si voltò verso il mezzo e abbassò la cerniera della tuta di volo.

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