Copertina
Autore Hans Kammerlander
Titolo Malato di montagna
EdizioneTea, Milano, 2003, Avventure 22 , pag. 262, dim. 128x197x20 mm , Isbn 978-88-502-0441-0
OriginaleBergsüchtig
EdizionePiper Verlag, München, 1999
TraduttoreAlberti Di Bello
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe montagna
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Indice

PREFAZIONE                                    5

PROLOGO                                       7

I     Non so nuotare!                        13

II    Mille metri in verticale               25

III   Amici                                  35

IV    « Mai più qui! »                       47

V     Malato di montagna                     56

VI    Avvicinamento senza successo           67

VII   Verso il «Prato delle favole »         76

VIII  Bloccati dalla neve e dalla tormenta   88

IX    Una tragedia fa il suo corso           98

X     Inferno                               107

XI    1400 + 247 + 550 = 24 ore             115

XII   Secondo tentativo                     126

XIII  Alla ricerca del limite               142

XIV   Di un « cordone ombelicale»
      e di altre corde                      154

XV    Nella rete della burocrazia           169

XVI   Tutto perduto, tutto guadagnato       179

XVII  Gli occhi del Lama                    191

XVIII Tragedia sotto il tetto del mondo     207

XIX   Incontro con la morte                 222

XX    Indietro verso il domani              233

XXI   Piedi freddi                          241

EPILOGO                                     253

INDICE DEI NOMI                             257

 

 

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Pagina 25

CAPITOLO II
MILLE METRI IN VERTICALE
(Sulla parete nord del Sassolungo e del Sass da Putia)



Man mano che crescevo, i giorni volavano sempre più in fretta, così come i mesi e gli anni, nella mia casa di Acereto. Negli anni '60, prima che scalassi per la prima volta il Moosstock, l'alpinismo aveva raggiunto nuovi traguardi. Era l'epoca delle «Direttissime» e delle «Superdirettissime».

La maggior parte delle pareti delle Alpi erano state già conquistate, ma la giovane generazione di alpinisti alla ricerca del nuovo aveva compiuto imprese eccezionali. Ora si sceglievano le vie in verticale, a piombo dalla base della parete alla vetta, e questa evoluzione non risparmiò naturalmente le Dolomiti. Quando le direttissime estive non davano più grandi emozioni, si passava a quelle invernali.

Nel gennaio del 1963, quando avevo appena sette anni e doveva trascorrere ancora un anno e mezzo prima che mi ritrovassi in cima al Moosstock sulle orme dei due stranieri, sulla Cima Grande di Lavaredo si profilò un evento eccezionale. Peter Siegert, Reiner Kauschke e Gerd Uhner, tre intrepidi tedeschi della Sassonia che avevano appreso l'arte dell'arrampicata nella regione dell'Elbsandsteingebirge, attaccarono i 550 metri della parete nord della Cima Grande. Il loro intento era tracciare una superdirettissima molto più diritta di tutte le vie percorse fino ad allora.

Ogni sera mi sedevo davanti alla radio insieme con tutta la famiglia, attendendo con ansia le ultime notizie dalla Cima Grande. Trepidavamo tutti, quando la voce dell'annunciatore comunicava a un vasto pubblico di quanti metri gli alpinisti fossero avanzati quel giorno. Ora dopo ora, i tre «chiodavano» la parete verticale, e, nella parte inferiore, fortemente strapiombante. A intervalli di trenta, quaranta centimetri, piantavano i chiodi di sicurezza nelle fessure, nelle fenditure e nei buchi della roccia. Nel corso di una giornata non riuscivano a percorrere più di quindici, venti metri. Poi, con l'aiuto di una corda sottile, tiravano su i sacchi a pelo, il cibo e il materiale per il giorno seguente. Venivano seguiti con sollecitudine dalla base della parete, e là facevano arrivare anche le ultime notizie. Ogni giorno i quotidiani riportavano ampiamente il bollettino dell'impresa dei tre scalatori tedeschi, e quando il tempo era bello numerosi spettatori si radunavano ai piedi delle Tre Cime.

Rimasero in parete sedici giorni, facendo arrivare ai giornali foto spettacolari. Le immagini mi affascinavano ancora di più dei resoconti radiofonici, perché i tre si attaccavano come ragni agli strapiombi e ai tetti di roccia. La televisione italiana - si raccontava in paese - aveva promesso ai tre giovani un premio di un milione di lire per la vittoria sulla «Superdirettissima». Noi apprendevamo dalla radio che cosa gli scalatori mangiavano per cena, come dormivano nei sacchi appesi alla parete, se faceva freddo e che cosa avevano in programma per il giorno successivo.

Che delusione provai quando infine, al diciassettesimo giorno, Uhner, Kauschke e Siegert - i loro nomi erano ormai sulla bocca di tutti - superarono gli ultimi cinquanta metri e raggiunsero la vetta. Lo spettacolo era finito, e sul mio piccolo mondo tornava a calare il silenzio. Il resto di questa storia, anch'esso ampiamente pubblicizzato, mi interessava ormai solo marginalmente. Non appena i tre ridiscesero dalla cima, furono decorati con una medaglia d'oro. Parteciparono poi a innumerevoli ricevimenti, conferenze stampa e interviste: i media li avevano trasformati in eroi. Tuttavia, come osservò con amarezza il noto alpinista e scrittore Toni Hiebeler, l'impresa compiuta dai tre tedeschi non era stata più pericolosa di quanto fosse «attraversare un grande incrocio pieno di traffico».

Dopo la morte di mia madre, dedicavo tutto il mio tempo libero a scalare le montagne dei dintorni. Intrapresi giri spericolati e spesso anche temerari, anche se non erano neppure paragonabili all'impresa dei tre scalatori sulla Cima Grande. Eppure volevo assolutamente diventare come loro, imparare a scalare bene, e forse anche diventare un po' famoso. Talvolta stavo seduto nel prato, a un centinaio di metri da casa mia, e guardavo incantato col cannocchiale di mio padre la parete nord del Sass da Putia, che mi sembrava incredibilmente lontana, messa là a segnare il confine del mondo. Doveva trascorrere ancora molto tempo prima che mi rendessi conto che quella parete scura era per me solo un inizio.

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Pagina 47

CAPITOLO IV
«MAI PIÙ QUI!»
(Sette Ottomila con Reinhold Messner)



L'uomo saliva a piedi nudi, superando spedito gli ultimi metri di scalata con movimenti sciolti ma potenti. L'aria calda dell'estate aleggiava sul terreno in un alone luminescente. Giù a valle si sudava, e anche in quota le gambe si stancavano in fretta. Tanto più sorprendente appariva lo spettacolo al quale assistevo.

Durante l'estate del 1980 ero salito come guida alla seconda Torre del Sella, e me ne stavo lì, appoggiato a un mucchio di pietre, a gustare il panorama e chiacchierare col cliente, quando vidi arrivare dalla parete nord (quinto grado) un ragazzo abbronzatissimo che veniva su tutto solo. Un saluto, un sorriso, e la conversazione fu subito avviata. Si presentò come Norbert Joos. Era inutile chiedergli da dove venisse; con tutta la buona volontà, non avrebbe potuto dissimulare le sue origini svizzere. Aveva appena eseguito una fulminea libera sulla seconda Torre del Sella, ed ero affascinato dalla padronanza con la quale aveva arrampicato, ma ancor più dai suoi piedi. Non portava le scarpe, e scalare le ruvide rocce delle Dolomiti scalzo richiede una notevole capacità di sopportazione del dolore, oppure... la pelle dei piedi molto spessa. Norbert Joos, che già allora non era il primo venuto nel mondo dell'alpinismo, aveva entrambe.

Joos era uno dei migliori alpinisti svizzeri e aveva quasi quattro anni meno di me, ma aveva già compiuto imprese notevoli. Anche in seguito il suo nome mi capitò sott'occhio più volte, leggendo resoconti di scalate sull'Himalaya. Col suo compatriota Erhard Loretan, intraprese con successo molte ardite spedizioni. Nel giugno del 1982, scalò, a soli 22 anni e in difficili condizioni climatiche, il Nanga Parbat. Due anni dopo, in maggio, era in vetta al Manaslu e nell'ottobre dello stesso anno, con Loretan, era sull'Annapurna. Nel giugno del 1985 conquistò il K2. Tutte cose che neppure lui presentiva mentre stava davanti a me sulla seconda Torre del Sella, senza scarpe, senza zaino, senza corda.

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Pagina 54

All'inizio si procede bene, anche perché ci sentiamo rassicurati dal fatto di poter utilizzare in parte l'attrezzatura degli svizzeri. Al campo I (6200 metri), Friedl non riesce a chiudere occhio per tutta la notte. Il mal di denti che lo affliggeva da qualche tempo è diventato insopportabile, e così è costretto a malincuore a ritornare al campo base. Raggiungiamo in tre il campo II (7100 metri), dove Wolfi si ferma, per filmare il resto della scalata dalla tenda. Durante la notte si scatena una violenta tempesta, che il giorno dopo ci offre i suoi «effetti speciali». La violenza scatenata della natura ci trascina letteralmente verso la cima.

Nel tratto superiore del canale del Lhotse, infatti, il vento ci sospinge in avanti, soffiando alle nostre spalle come un drago sibilante. Riusciamo a stento a mettere un piede davanti all'altro. A volte ho la sensazione di volare, o di essere su uno skilift. Ci alterniamo in testa alla marcia, ma quando vogliamo sostare ci tocca urlare. La tempesta infuria con impeto tale da ispirare angoscia.

Per salire su quella di sinistra delle due piramidi sommitali, dobbiamo uscire dal canale, dove fino a quel momento ci siamo sentiti relativamente sicuri, perché in parte eravamo al riparo dalla bufera. Ora invece si tratta di arrampicare come formiche, del tutto esposti, sulla cresta della montagna, dove il vento ci investe con furia. Non sono più del tutto sicuro che sia giusto continuare. Dal canto suo Reinhold non dice più una parola da tempo. Ci scambiamo un'occhiata. Ha un'espressione preoccupata. Io faccio un gesto interrogativo con la testa verso la cima della montagna. Reinhold alza le spalle, poi fa un gesto di assenso, e tutti e due strisciamo a quattro zampe, come naufraghi, fino in alto.

È il 16 ottobre del 1986, e intorno a noi le fanfare del vento intonano un possente concerto. Sono passati venti giorni esatti dalla scalata del Makalu, e ora siamo sul Lhotse. Reinhold ce l'ha fatta. Solo un paio d'ore dopo la notizia inizia a circolare. Con rapidità fulminea si diffonde di villaggio in villaggio, poiché anche in Nepal Reinhold è ormai un uomo famoso.

Infine, anche le agenzie di stampa diffondono la notizia che lo scalatore altoatesino Reinhold Messner ha scalato per primo i quattordici Ottomila.

Che cosa ci fosse veramente dietro quella notizia, però, erano in pochi a saperlo. In fondo rimase confinata a una cerchia ristretta la consapevolezza che Reinhold non aveva mai fatto uso delle bombole d'ossigeno, che durante la prima spedizione aveva perso il fratello, Günther, che aveva dovuto ripetere due volte la scalata al Nanga Parbat, all'Hidden Peak, al Gasherbrum II e all'Everest; che, infine, per ventisei volte aveva dovuto organizzare e finanziare rischiose spedizioni, prima di riuscire a sopravvivere anche a quel 26 ottobre 1986. Quel giorno non riuscii a vedere sul viso di Reinhold quasi alcun segno di gioia. Fu rischiarato solo da un breve sorriso, poi più nulla.

All'improvviso gridò nella tempesta: «Mai più qui!» Mi fu chiaro allora che non sarebbe più tornato su un Ottomila. In futuro, avrei dovuto arrangiarmi da solo. Nell'istante in cui la voce di Reinhold mi raggiunse, mi staccai da lui, avvertendo che qualcosa era giunto al termine. Una fase della mia vita si era conclusa, e ne soffrii, perché avevo perso un compagno straordinario.

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Pagina 84

Sotto la cima incontro Diego, che è appena salito da quella parte: davanti a noi ci sono mille metri di ripido pendio. È l'inizio, e nel contempo il passaggio chiave della nostra discesa. Anche Diego si allaccia gli sci, e discutiamo dei possibili pericoli, cercando di confortarci reciprocamente. La temperatura è bassa e la neve dà l'impressione di tenere. Diego ha una grande esperienza in tema di valanghe, dato che ogni anno guida un centinaio di escursioni sugli sci, e anche in quella primavera ha fatto dello sci-alpinismo sulle Alpi occidentali.

Sono assolutamente deciso a scendere nel canalone, e tuttavia non riesco a lanciarmi su quel percorso infernale. Mi cresce dentro una gran rabbia contro me stesso. Il canalone ha una pendenza di 50° e so benissimo che posso farcela, ma non sono abituato a vedere, al di sotto dei mille metri di ripido pendio, altri tremila metri di discesa. Quella vista mi mette i brividi, e pian piano l'angoscia s'impadronisce dei miei nervi.

Nella parte alta, il canalone non raggiunge i dieci metri di larghezza. Comincio a scivolare lentamente, spigolando con gli sci, fin quasi a urtare la roccia, poi sposto il peso del corpo e scivolo indietro, fino a toccare l'altro bordo del canalone. Indugio e temporeggio, cercando di convincermi che dovrei provare a saltare. Sopra di me anche Diego non sembra troppo sicuro. Sento che la fronte si copre di sudore freddo.

Il tutto dura una mezza eternità. Piego le ginocchia, per rialzarmi subito dopo, irrigidito. Mi manca la solita scioltezza, perché i muscoli sono contratti come il cervello. Dopo l'ennesimo tentativo, salto, e poi salto di nuovo, con il coraggio della disperazione. Fila tutto liscio, senza problemi: il nodo nella mia testa si è sciolto. Un terzo salto, e riprendo fiato, respirando profondamente.

Lo sci estremo, a queste altezze, è ancora più faticoso di una salita. Dopo qualche salto ti manca il fiato, e per la fatica i muscoli delle gambe sembrano gonfiarsi come palloni. Si riesce a fatica a percorrere un lungo tratto. Del resto, il terreno stesso obbliga a continue soste per valutare di nuovo la situazione.

Dopo il terzo salto, sento uno schiocco sordo. Mi blocco atterrito, perché conosco bene quel rumore. Proprio all'altezza del punto in cui sono atterrato, nella neve si è aperta un'incrinatura che percorre il canalone in tutta la sua ampiezza: è come se sotto i miei occhi si spalancasse una fenditura enorme. Sopra di me il pendio rimane stabile, ma più in basso è evidente che le masse di neve sono in movimento. Lo sci a valle scivola, e riesco a sollevarlo appena in tempo per non perdere l'equilibrio e cadere.

Nei minuti seguenti, sotto di noi si scatena l'inferno, uno spettacolo spaventoso e nello stesso tempo suggestivo. Il manto nevoso si è messo in movimento, su un fronte profondo un metro e largo dieci. Le masse di neve cominciano a scivolare prendendo l'unica strada possibile, quella verso il basso, cioè la nostra. Metro dopo metro, la massa di neve aumenta e si muove a velocità sempre maggiore, finché la valanga riempie l'intero canalone, che presto non riesce più a contenerla. A destra e a sinistra, la valanga supera le rocce, sollevando una nuvola bianca che copre tutto. Intanto quello che all'inizio era un flebile sibilo si è trasformato in un rombo e poi in un tuono. Come in una vasca enorme, la massa nevosa si abbatte sulla spianata che il giorno prima avevamo attraversato faticosamente. Poi, per un attimo pare che la natura voglia riprendere fiato e la slavina si fa più lenta, ma solo per scagliarsi con rinnovata forza giù dal bordo della spianata per altri tremila metri verso i piedi della parete.

Lo spettacolo dura dieci minuti. Diego è sopra di me. Lo guardo e vedo che è diventato bianco come un cencio. Anche a me tremano le ginocchia e le mani con le quali tengo stretti i bastoncini hanno brividi incontrollabili. Diego sbotta: «Così non va, non è possibile». Non sono in grado di rispondergli. Guardo in basso senza muovermi neanche di un millimetro: non avevo mai visto un fenomeno del genere.

Poco dopo torna a regnare il silenzio. Dal basso si alzano nuvole di neve, di un candore abbagliante, e la polvere di neve turbina a gran velocità risalendo verso di noi, come se la valanga fosse tornata indietro per cercare di acchiapparci. Un quarto d'ora dopo siamo ancora avvolti dalla neve. Ritorno in me solo quando la neve che si è depositata sul colletto comincia a sciogliersi, facendomi scendere dell'acqua ghiacciata lungo la schiena.

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Pagina 228

Mi dà una sensazione meravigliosa congedarmi dai due messicani come se ci fossimo incontrati a un angolo di una strada di Kathmandu e avessimo parlato del tempo. Bevo un paio di sorsate dalla bottiglia e proseguo lentamente. Il senso di solitudine è passato: non sono l'unico su questa gigantesca montagna. Ora, però, comincio a sentirmi stanco. Ho l'impressione che le gambe pesino mezzo quintale. Mi sento di piombo, privo di forze, i miei passi diventano pesanti e procedo come un automa sulla neve compatta. Il ritmo si riduce, e ogni dieci, quindici passi mi fermo per aspettare fin quando i battiti del polso diminuiscono di nuovo. «Perché, perché fai tutto questo?» continuo a chiedermi, naturalmente senza trovare risposta.

Mi costringo a guardare solo raramente verso la cima, che sembra incredibilmente lontana. Adesso contano solo i prossimi metri e, ogni volta che mi fermo, mi concentro sul modo di respirare al meglio nel prossimo tratto. Solo dopo avere completamente svuotato i polmoni posso far entrare aria a sufficienza; in caso contrario, dopo un po' comincio ad ansimare in modo incontrollato, e ho la sensazione che non ci sia più aria.

A 8600 metri, 250 metri sotto la cima, mi sento completamente bruciato. Il mio corpo reagisce a stento. Le gambe sembrano di legno, e quando a volte urto contro la roccia non sento più niente. Dal femore in giù, gambe e piedi sono del tutto insensibili. Cerco di ricordarmi se mi sono già trovato in una situazione simile, ma non me ne ricordo e mi sento sempre peggio. L'orizzonte comincia a tremolare davanti ai miei occhi e provo un leggero senso di vertigine, ma non riesco a ordinare e dominare questi segnali. Sono semplicemente sfinito.

Mi siedo, o per meglio dire mi lascio cadere, cercando di riflettere su quello che mi sta succedendo. Lentamente, molto lentamente, mi rendo conto di avere una crisi: ho prestato scarsa attenzione al mio corpo, ignorando i primi segnali d'allarme che mi inviava. Adesso la causa dello sfinimento mi è chiara: la sensazione di avere il successo a portata di mano mi ha impedito di rallentare il ritmo della salita, e così ho esaurito le forze. Più rimango seduto, più mi rendo conto di essere giunto al termine dell'ascensione, ma mi manca anche la forza di arrabbiarmi per gli errori commessi. Sono semplicemente deluso, troppo debole, troppo stanco e privo di volontà per proseguire, e mi è indifferente persino il fatto di non riuscire a raggiungere la cima neppure al terzo tentativo.

Vago qua e là con lo sguardo, ma preferisco non fissarlo sulla vetta: davanti a me c'è un tratto di roccia e neve, tecnicamente semplice da superare, ma estremamente faticoso. Mi trovo esattamente al di sotto del First Step, il primo gradone della cima. Scivolo indietro di un tratto e mi appoggio a una roccia per tirare fuori l'apparecchio radio dal sacco. Il contatto è presto stabilito. Gli operatori e gli sherpa attendevano con ansia, visto che non mi sentono da ore. Spiego loro quello che mi sta succedendo, che non ho più forze, perché le ho consumate tutte in un'ascensione troppo rapida durante la notte, che mi manca ancora un dislivello di duecentocinquanta metri per arrivare in vetta, ma nella mia condizione attuale mi è impossibile superarlo, anche perché l'esperienza mi insegna che 250 metri di dislivello a quell'altezza sono come 2500 metri sulle Alpi. Dico: «Non va, non posso. Cercherò di riprendermi e poi inizierò lentamente a scendere».

Devo attendere un po' prima di avere una reazione dal basso: gli amici nelle tende sono delusi tanto quanto me, visto che tutti noi abbiamo investito molte energie in questa impresa. Comunque mi consigliano di fare attenzione in discesa: la stanchezza è il peggiore compagno che si possa avere in montagna.

Poi viene all'apparecchio Heini Gruber, che mi dice: «Hans, non rischiare. Hai un'esperienza sufficiente e sei abbastanza grande per prendere la decisione giusta».

L'altoparlante della radio ronza.

Racconto a Heini quello che mi è successo nella notte e all'alba, parlo dell'incontro con l'austriaco morto e con i messicani.

Heini non mi interrompe, ma quando smetto di parlare, osserva: «Hans, la tua voce è molto chiara, non sembri affatto stanco».

Quest'ultima frase ha su di me l'effetto di una scossa elettrica. Guardo di nuovo la cima, che non mi sembra più così lontana, e nelle vene ricomincia a scorrermi il sangue. Forza, fiducia, coraggio, decisione, in un istante tutto si risveglia: sono bastate due parole di un amico a fare di me un altro uomo. A queste parole attribuisco il capovolgimento che sopraggiunge, e in quel momento mi rendo conto ancora una volta dell'importanza che ha la presenza di un compagno al proprio fianco. Avere con me almeno la radio si è rivelato un elemento chiave per il successo. Guardo in basso e vedo che i due messicani hanno abbandonato la tenda del bivacco poco dopo di me: nonostante l'ausilio dell'ossigeno, è chiaro che hanno perso lo slancio.

Rifletto. Ho davanti a me tutta la giornata: è ancora mattina e posso prendermi tutto il tempo che voglio per salire, procedendo lentamente e senza intaccare le riserve di energie. In alto splende un cielo blu, e il vento è quasi assente. Ho imbroccato una giornata eccezionale su questa montagna tempestosa, e non ci sono pericoli. Perché dovrei tornare indietro? Resto seduto a riposare cinque, dieci minuti, un quarto d'ora, poi comincio a sentirmi meglio. Le vertigini scompaiono e le gambe riacquistano la sensibilità. Infine mi rialzo, faccio pochi passi verso la cima, e mi ritrovo di fronte a un morto.

Dalla cintola in giù il cadavere è ricoperto di neve, ma la parte superiore, appoggiata a una roccia, è quasi eretta. Mi stupisco di non essermi accorto prima del morto, che sul volto porta ancora la maschera collegata alla bombola di ossigeno vuota che ha accanto. Le mani sono tese in avanti, come se volesse afferrare qualcosa. Sui guanti blu risalta la scritta SHERPA, ma non di uno sherpa si tratta, bensì di un membro della spedizione indiana che alcuni giorni prima si è lanciata in una gara mortale con i giapponesi.

A questa quota non si può fare altro che passare oltre uno scalatore morto, per quanto possa suonare un segno di insensibilità. Riportare indietro il corpo è impossibile, e gli elicotteri non arrivano tanto in alto, anche perché non saprebbero dove atterrare. Guardo l'indiano con un sentimento di tristezza e insieme di rabbia per l'assurdo orgoglio nazionalistico che lo ha condotto a quella fine. Il nuovo incontro con la morte mi riscuote dai miei pensieri, e nella mezz'ora successiva mi imbatto negli altri due indiani. Benché siano lì da due settimane, sembra si siano appena addormentati, ma la loro vista mi turba profondamente. Per quanto cerchi di calmarmi, non ci riesco e mi sento sopraffatto da un senso di timore dal quale non so difendermi.

Il terzo indiano si trova immediatamente al di sopra del Second Step, il secondo ripido gradone di roccia, quasi verticale. Una lacera scaletta con i pioli in alluminio, fissata anni fa dai cinesi, è stata strappata dal suo ancoraggio e giace ai piedi del risalto. I giapponesi l'hanno sostituita con una corda fissa. Risalire quel gradino mi costa una fatica incredibile. Quando infine ho superato il risalto, mi siedo col cuore in gola accanto all'indiano morto: mi sembra quasi grottesco stare seduto accanto a un morto senza sapere più che cosa fare per respirare. Mi concedo una lunga sosta: davanti a me si estende ancora il tratto sommitale una parete di neve dura molto ripida - almeno a 50° - e comincio a chiedermi come farò a salire senza una piccozza. Per la prima volta la mia attrezzatura spartana si rivela un problema.

Le sensazioni cominciano a diventare confuse. Sopra di me svetta una parete apparentemente inespugnabile, accanto a me giace un morto, disteso sulla neve con la maschera strappata dal viso, senza piumino e con la camicia a scacchi sbottonata per metà. E chiaro che l'indiano aveva cominciato a spogliarsi poco prima della morte per congelamento, e del resto si tratta di un fenomeno di cui ho sentito parlare spesso: gli scalatori estenuati, poco prima della crisi finale, sono assaliti da un'improvvisa sensazione di caldo e cominciano a svestirsi. Osservo a lungo l'indiano: accanto a lui c'è una piccozza danneggiata, e alla cintura d'arrampicata sono agganciati chiodi da roccia e da ghiaccio. M'impadronisco della piccozza, senza provare scrupoli perché a lui certo non serve più, mentre può aiutare me nella salita dato che ha la becca ancora intatta. Supero così i successivi cento metri, facendo continue soste durante le quali devo lottare con il sonno che mi assale, come un automobilista che viaggia di notte: gli occhi mi si chiudono per qualche frazione di secondo prima di riaprirsi di scatto. Procedendo spesso a quattro zampe, anziché in piedi, continuo ad avanzare: non riesco a fare più di cinque passi alla volta e ormai non so più che ore sono e quanto manca ancora alla vetta. La riduzione della funzionalità corporea mi consente solo di avanzare meccanicamente, guidato dal subconscio.

Da tempo, ormai, sono indifferente a tutto. Dopo la parete di neve ghiacciata ho raggiunto una cresta pianeggiante che termina, dopo una cinquantina di metri, su una cornice di neve. Non lontano da me si muove qualcòsa, ma non riesco a capire cosa, e del resto sono troppo stanco per sciogliere l'enigma. Da quando il terreno è diventato più pianeggiante, mi sento tutt'a un tratto più leggero, ho accelerato l'andatura e faccio meno pause. Si è alzato un vento fresco e leggero.

Guardo oltre la cresta, e all'improwiso capisco: sono in cima all'Everest. Ho raggiunto il punto più alto della terra.

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