Autore Daniel Kehlmann
Titolo I fratelli Friedland
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2015, I Narratori , pag. 270, cop.fle., dim. 14x22x1,8 cm , Isbn 978-88-07-03142-7
OriginaleF
EdizioneRowohlt, Reinbek bei Hamburg, 2013
TraduttoreClaudio Groff
LettoreLuca Vita, 2015
Classe narrativa tedesca












 

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Pagina 9

Anni dopo, erano adulti da un pezzo e ciascuno invischiato nella propria infelicità, nessuno dei figli di Arthur Friedland ricordava più chi, quel pomeriggio, avesse avuto l'idea di andare dall'ipnotizzatore.

Era il 1984, e Arthur non aveva un lavoro. Scriveva romanzi che nessun editore voleva pubblicare, e racconti che ogni tanto apparivano su riviste. Non faceva nient'altro, ma sua moglie era un'oculista e guadagnava bene.

Durante l'andata parlò di Nietzsche e di marche di gomma da masticare con i figli tredicenni, discussero a proposito di un cartone animato che in quei giorni davano al cinema e aveva come protagonista un robot che era anche il Salvatore, fecero delle ipotesi sul perché Yoda parlasse così poco e si chiesero se Superman fosse più forte di Batman. Alla fine si fermarono davanti alle case a schiera di una strada in periferia. Arthur suonò due volte íl clacson, dopo qualche secondo una porta si spalancò.

Martin, il figlio maggiore, aveva trascorso le ultime due ore alla finestra ad aspettarli, con giramenti di testa per l'impazienza e la noia. Il vetro era appannato dal suo fiato, aveva disegnato facce con il dito, facce serie, sorridenti, e alcune con le bocche spalancate. Aveva ripulito il vetro più volte ed era rimasto a osservare come il fiato lo ricoprisse di una nebbia sottile. L'orologio a muro aveva ticchettato implacabile, perché ci impiegavano tanto? Ecco una macchina, ma era di nuovo un'altra, e di nuovo un'altra, e ancora non erano loro.

D'improvviso una si fermò e suonò due volte.

Martin si precipitò in corridoio passando davanti alla stanza dove la madre si era ritirata per non dover incontrare Arthur. Era scomparso dalla sua vita quattordici anni prima, in punta di piedi e rapidamente, ma la tormentava ancora l'idea che potesse esistere senza avere bisogno di lei. Martin corse giù per le scale e lungo il corridoio di sotto, uscì e attraversò la strada – così in fretta da non vedere la macchina che arrivava veloce. I freni stridettero vicinissimi, ma lui era già seduto accanto al padre, le mani incrociate sopra la testa, e solo adesso il cuore gli si fermò per un attimo.

"Dio mio," disse Arthur sottovoce.

La macchina che aveva quasi ucciso Martin era una Golf rossa. Il guidatore strombazzò insensatamente, forse immaginando che non fosse ammissibile non fare proprio niente dopo un episodio del genere. Poi accelerò e ripartì.

"Dio mio," ripeté Arthur.

Martin si sfregava la fronte.

"Come si può essere così stupidi?" chiese uno dei gemelli sul sedile posteriore.

Martin aveva l'impressione che la sua esistenza si fosse scissa. Era seduto lì, ma al tempo stesso giaceva sull'asfalto, immobile e contorto. Gli sembrava che la sua sorte non fosse ancora del tutto decisa, entrambe le cose erano ancora possibili, e per un istante anche lui ebbe un gemello – uno che là fuori svaniva a poco a poco.

"Potrebbe essere stecchito," disse realisticamente l'altro gemello.

Arthur annuì.

"Ma siamo proprio sicuri? Magari Dio ha in mente ancora qualcosa, per lui. Qualsiasi cosa. Allora non può succedergli niente."

"Ma Dio non deve avere in mente proprio niente. Basta che lo sappia. Se Dio sa che verrà investito, verrà investito. Se Dio sa che non gli succede niente, non gli succede niente."

"No, non può essere. Allora quello che facciamo sarebbe indifferente. Papà, dov'è l'errore?"

"Dio non esiste," disse Arthur. "Questo è l'errore."

Tacquero tutti, poi Arthur avviò il motore e partì. Martin sentiva che i battiti del cuore si acquietavano. Ancora qualche minuto e il fatto di essere vivo gli sarebbe sembrato di nuovo ovvio.

"E a scuola?" chiese Arthur. "Come va?"

Martin guardò suo padre di traverso. Arthur era un po' ingrassato, i capelli, all'epoca non ancora grigi, erano arruffati come sempre, sembrava non avessero mai visto un pettine. "Ho difficoltà in matematica, potrebbero bocciarmi. Francese è sempre un problema. Inglese non più, per fortuna." Parlava in fretta, per dire quanto più poteva prima che Arthur perdesse interesse. "Vado bene in tedesco, abbiamo un nuovo insegnante di fisica, per chimica è come sempre, ma con gli esperimenti..."

"Ivan," chiese Arthur, "abbiamo i biglietti?"

"Nella tua tasca," rispose uno dei gemelli, e adesso Martin seppe almeno chi dei due era Ivan e chi Eric.

Li osservò nello specchietto. Come ogni volta, qualcosa nella loro somiglianza gli appariva finto, eccessivo, contro natura. Eppure solo alcuni anni dopo avrebbero cominciato a vestirsi nello stesso modo. La fase in cui si divertivano a essere indistinguibili sarebbe finita al compimento dei diciotto anni, quando per un breve periodo loro stessi non avrebbero più saputo con certezza chi dei due era chi. In seguito li avrebbe colti ripetutamente la sensazione di essersi persi a un certo punto e che da allora ognuno conducesse la vita dell'altro; così come Martin non si sarebbe mai più liberato completamente dal sospetto di essere morto per davvero sulla strada, quel pomeriggio.

"Cosa guardi con quella faccia da stupido?" disse Eric.

Martin si girò cercando di prenderlo per un orecchio. L'aveva quasi afferrato, ma suo fratello si scansò, gli agguantò il braccio e lo torse in alto con una sola mossa. Martin lanciò un urlo.

Eric mollò la presa e dichiarò allegramente: "Adesso si mette a piangere".

"Stronzo," disse Martin con la voce che gli tremava. "Brutto stronzo."

"Certo," disse Ivan. "Adesso si mette a piangere."

"Stronzo."

"Stronzo sarai tu."

"Tu sei lo stronzo."

"No, tu."

Poi non seppero più cosa dire. Martin tenne lo sguardo fisso fuori dal finestrino, finché fu sicuro che le lacrime non sarebbero più arrivate. Il riflesso della macchina scivolava sulle vetrine dei negozi lungo la strada: distorto, allungato, ridotto a un ovale.

"Come sta tua madre?" chiese Arthur.

Martin esitò. Cosa avrebbe dovuto rispondere? Arthur aveva già fatto quella domanda all'inizio, sette anni prima, in occasione del loro primo incontro. Suo padre gli era sembrato molto alto, ma insieme stanco e distratto, come circondato da una nebbiolina. Aveva provato soggezione davanti a quell'uomo, ma al tempo stesso, e non avrebbe saputo dire perché, anche compassione.

"Come sta tua madre?" aveva detto l'estraneo, e Martin si era chiesto se quello fosse davvero l'uomo che aveva incontrato tante volte nei suoi sogni, sempre con lo stesso impermeabile nero, sempre senza volto. Ma solo quel giorno nella gelateria, mentre mangiucchiava la sua coppa alla frutta con cioccolato fuso, Martin aveva chiaramente capito quanto se la fosse goduta a non avere un padre. Nessun modello, nessun predecessore e nessun peso, solo la vaga immagine di qualcuno che un giorno, forse, sarebbe apparso. E adesso doveva proprio essere quello lì? I denti non erano molto regolari, i capelli arruffati, aveva una macchia sul colletto e le mani sembravano malandate. Era un uomo che sarebbe potuto essere anche un altro; un uomo che aveva lo stesso aspetto di tanta gente per strada, in treno, da qualche parte.

"Quanti anni hai esattamente?"

Martin aveva deglutito e poi gli aveva detto: sette.

"E quella è la tua bambola?"

Martin ebbe bisogno di qualche istante per capire che suo padre si riferiva a Frau Müller. L'aveva portata con sé, come sempre, la teneva sotto il braccio, senza pensarci.

"E come si chiama?"

Martin glielo disse.

"Strano nome."

Martin non seppe cosa rispondere. Frau Müller si era sempre chiamata così, era il suo nome e basta. Si accorse che il naso gli colava. Si guardò attorno, ma la mamma non si vedeva. Era uscita in silenzio dalla gelateria appena Arthur era entrato.

Più tardi, tutte le volte che Martin aveva ripensato a quel giorno, non era riuscito a ripescare il loro colloquio dall'oscurità della memoria, per quanto si sforzasse. Certo dipendeva dal fatto che in precedenza si era immaginato troppo spesso quella conversazione e le cose che si erano effettivamente detti si erano mescolate quasi subito con quelle che lui si era inventato nel corso degli anni: Arthur aveva raccontato davvero di non avere un lavoro e di passare la vita a riflettere sulla vita, oppure era successo che in seguito, quando aveva appreso di più su suo padre, Martin aveva ritenuto questa l'unica risposta calzante? Ed era possibile che, alla domanda perché avesse abbandonato lui e sua madre, Arthur avesse davvero ribattuto che chi si consegnava alla prigionia, al trantran della vita, alla mediocrità e alla disperazione non era in grado di aiutare nessun altro perché lui stesso non poteva essere aiutato, gli veniva il cancro, il tessuto adiposo del cuore si sviluppava troppo, non sarebbe vissuto a lungo e avrebbe cominciato a putrefarsi mentre ancora respirava? Da Arthur ci si sarebbe potuti assolutamente aspettare una risposta del genere data a un bambino di sette anni, ma a Martin sembrava improbabile di essersi davvero azzardato a fare una domanda come quella.

Suo padre era tornato solo tre mesi dopo. Era andato a prendere Martin a casa, in macchina, con due ragazzini spettralmente simili sul sedile posteriore, che in un primo momento Martin aveva scambiato per un'illusione ottica. I due, dal canto loro, l'avevano guardato con curiosità, grande per qualche istante e ben presto niente più che moderata, erano totalmente concentrati su se stessi, tutti presi dall'enigma del loro raddoppiamento.

"Pensiamo sempre le stesse cose."

"Anche se sono cose complicate. Sempre le stesse."

"Se ci chiedono qualcosa, ci viene in mente la stessa risposta."

"Anche se è quella sbagliata."

Poi avevano riso con la stessa identica voce, e a Martin era corso un brivido lungo la schiena.

Da allora suo padre e i suoi fratelli erano passati a prenderlo regolarmente. Erano andati sulle montagne russe, avevano visitato acquari con pesci sonnolenti, avevano fatto escursioni nei boschi intorno alla città, avevano nuotato in piscine che sapevano di cloro, piene di grida infantili e di sole. Si notava sempre lo sforzo di Arthur, non era mai veramente coinvolto, e anche i gemelli non avevano certo fatto mistero che partecipavano soltanto perché ci erano obbligati. Sebbene Martin lo capisse chiaramente, quelli erano stati i pomeriggi più belli della sua vita. L'ultima volta Arthur gli aveva regalato un cubo a colori con í lati che si potevano ruotare, un nuovo giocattolo appena apparso sul mercato. Martin ci aveva passato le ore, avrebbe potuto passarci i giorni, ne era diventato completamente schiavo.

"Martin!"

Si girò di nuovo.

"Dormi?"

Rifletté se fosse il caso di colpire un'altra volta, poi preferì lasciar perdere. Non sarebbe servito a niente, Eric era più forte.

Peccato, pensò Eric. Gli sarebbe piaciuto tirare uno schiaffo a Martin, anche se non aveva niente contro di lui. Semplicemente, lo faceva infuriare il fatto che suo fratello fosse così smidollato, così mogio e pauroso. E poi lo incolpava ancora per quel momento di sette anni prima, quando alla sera i genitori li avevano convocati in soggiorno per comunicare loro qualcosa di importante.

"Volete separarvi?" aveva chiesto Ivan.

I genitori avevano scosso la testa, spaventati, e avevano detto: No, no, ma certo che no, no! E Arthur aveva raccontato dell'esistenza di Martin.

Eric era rimasto talmente allibito che aveva subito deciso di comportarsi come se trovasse la cosa divertente, ma appena aveva inspirato con l'intenzione di mettersi a ridere ecco che Ivan, accanto a lui, aveva cominciato a ridacchiare. Già, funzionava così, quando si era uno e doppio al tempo stesso e quando nessun pensiero apparteneva del tutto a uno soltanto.

"Non è uno scherzo," aveva detto Arthur.

Ma perché lo sappiamo solo adesso?, avrebbe voluto chiedere Eric. E Ivan l'aveva di nuovo preceduto: "Perché solo adesso?".

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Festeggiai il mio ventunesimo compleanno con i miei compagni Finckenstein e Kalm in un fumoso locale per studenti.

"Agostino è un aristotelico in formato ridotto," stava dicendo Finckenstein. "È dentro fino al collo nell'ontologia della sostanza, quindi è superato anche lui!"

"Aristotele non è superato," rispose Kalm. "È la ragione personificata!"

Discorsi che si fanno solo da studenti. Finckenstein portava occhiali spessi, aveva guance molto rosse e la devozione di un bambino. Kalm era un mite fanatico, tomista e acuto difensore della Santa Inquisizione. Nei fine settimana prendeva parte a gare di canottaggio, si interessava di treni in miniatura e, cosa che tra i colleghi lo rendeva oggetto di malcelata invidia, aveva una ragazza. Teneva davanti a sé il libro di Arthur Il mio nome sia Nessuno. Io mi comportavo come se non l'avessi notato, e gli altri due non ne accennavano. Del resto non era una cosa insolita, quell'anno lo si vedeva dappertutto.

"La teoria del tempo di Agostino fa dei gran passi indietro rispetto alla tradizione aristotelica," dissi. "Tutti citano la sua massima che si sa cos'è il tempo fintantoché non ci si pensa. È bella, ma come teoria della conoscenza è debole."

"Però la gnoseologia non era ancora il paradigma," disse Kalm. "Lo era l'ontologia."

Tacemmo, esausti. Misi i soldi sul tavolo e mi alzai.

"Cosa ti affligge, Friedland?"

"Il corso degli anni. La perdita del tempo, la vicinanza di morte e inferno. Cose che non conosci, hai solo diciannove anni."

"Esiste davvero l'inferno?" chiese Finckenstein. "Che dice l'ontologia?"

"Deve esistere," disse Kalm. "Ma potrebbe essere vuoto."

"E cosa succede lì? Fuoco che fa soffrire ma non incenerisce, come in Dante?"

"Dante non descrive l'inferno," disse Kalm. "Dante descrive la verità della nostra esistenza. In ogni caso all'inferno ci siamo di notte, nei momenti di verità che chiamiamo incubi. Qualunque cosa l'inferno possa essere, il sonno è la porta attraverso la quale penetra. Tutti lo conoscono, perché ogni notte siamo lì. La punizione eterna è semplicemente un sogno senza risveglio."

"Bene," dissi. "Allora vado a dormire."

Fuori c'era già il tram. Salii e partì subito, come se avesse aspettato proprio me. Mi sedetti.

"Scusi," disse una voce sottile. Davanti a me era accovacciato un uomo vestito di stracci, con barba rigogliosa e due sacchetti di plastica stracolmi. "Me li dà?"

"Prego?"

"Soldi," disse. "Quello che date al più umile dei miei fratelli. Lo date a me. Dice il Signore."

Allungò verso di me un palmo screpolato. Ovviamente infilai la mano nella tasca della giacca, ma nello stesso istante l'uomo si mise in ginocchio. Poi si distese sulla schiena.

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Pagina 65

Il mio nome sia Nessuno è un allegro esperimento, e dunque il prodotto senza fini specifici di uno spirito giocoso, oppure è una malevola aggressione all'animo di ogni persona che lo legge? Nessuno lo sa esattamente, forse è entrambe le cose allo stesso tempo.

L'inizio è costruito come un racconto vecchia maniera su un giovane che si apre alla vita, del cui nome conosciamo solo l'iniziale: F. Le frasi sono ben articolate, la narrazione scorre vigorosa, lo si leggerebbe quasi con piacere se non si avesse la costante sensazione di essere presi in giro. F. viene messo alla prova, si afferma, lotta, impara, vince, impara di più, perde e continua a evolversi, tutto secondo canoni consolidati. Ma si ha l'impressione che nessuna frase dica semplicemente ciò che dice, è come se la storia osservasse il suo stesso procedere e al centro, in realtà, non stia il personaggio principale, bensì il lettore che segue così volonterosamente tutta la vicenda.

A poco a poco si accumulano piccole discrepanze. F. è in casa, guarda la pioggia che cade, si mette giacca e berretto, prende l'ombrello, esce di casa, gironzola per le strade dove non piove, si mette berretto e giacca, prende l'ombrello e esce di casa, come se non l'avesse appena fatto. Poco dopo compare un suo lontano parente a proposito del quale prima abbiamo appreso, en passant, che è morto già da dieci anni, l'innocente visita a un luna park di un nonno con il nipote si trasforma in un incubo labirintico, un'inettitudine di F. gravida di conseguenze viene cancellata retroattivamente senza giri di parole, come non ci fosse mai stata. È chiaro che chi legge elabora delle teorie. Si ha via via l'impressione di essere vicini a capire, poi si pensa che ormai manchi poco, ma ecco che la narrazione si interrompe – così, senza preavviso, a metà di una frase.

Si cerca nuovamente di vederci chiaro. Forse il protagonista è morto. Forse le discrepanze sono preannunci della fine, per così dire i primi punti difettosi in attesa che il tessuto si laceri del tutto. Perché, sembra chiedere l'autore, cos'altro è la morte se non una fine a metà della frase, una fine insormontabile per colui che ne è colpito, un'apocalisse silenziosa in cui non la persona scompare dal mondo, ma è il mondo stesso a scomparire, una fine di ogni cosa senza punto finale?

Nella seconda parte si parla d'altro. Vale a dire, così assicura l'autore, che tu, sissignore, tu, e non è una formula retorica, tu non esisti. Pensi di leggere quello che c'è scritto qui? È ovvio che lo pensi. Ma nessuno lo sta leggendo.

Il mondo non è come appare. Non esistono colori, bensì lunghezze d'onda, non esistono suoni, bensì vibrazioni dell'aria, in realtà non esiste nemmeno l'aria, unicamente atomi concatenati nello spazio, e anche "atomi" è solo una parola per indicare intrecci di energia senza forma e collocazione fissa, e d'altronde cos'è l'energia? Un numero che rimane costante in tutte le mutazioni, una somma astratta che si conserva, non sostanza ma rapporto, dunque pura matematica. Più attentamente si osserva, più tutto diventa vuoto, diventa più irreale persino il vuoto. Perché anche lo spazio è soltanto una funzione, un modello della nostra mente.

E la mente che crea questi modelli? Non dimenticare: nel cervello non abita nessuno. Nessun essere invisibile fluttua tra le circonvoluzioni, guarda attraverso gli occhi, ascolta dall'interno delle orecchie e parla dalla tua bocca. Gli occhi non sono finestre. Lì ci sono impulsi nervosi, ma nessuno li legge, li conta, li traduce e ci medita su. Cerca quanto vuoi, in casa non c'è nessuno. Il mondo è dentro di te, e tu non ci sei. Perché il "tu", anche visto dall'interno, nel migliore dei casi è qualcosa di provvisorio, raffazzonato alla meno peggio: qualche millimetro di campo visivo che ai lati già scivola nel nulla, con dentro papille ottiche riempite di abitudini e di una memoria che conserva poco e inventa molto. La tua cosiddetta coscienza è uno sfarfallio, è un sogno che nessuno sogna.

Va avanti così per più di cinquanta pagine, e sembra quasi funzionare, a momenti ti convince. Però si insinua la sensazione che anche questo sia soltanto un'ironica dimostrazione di... già, di che cosa? Perché ormai siamo al capitolo finale. È breve e impietoso e tratta, non c'è alcun dubbio, dello stesso Arthur.

Riappare in scena e nel giro di poche pagine si delinea lo smembramento di un essere umano: dotato, privo di coraggio, titubante, egocentrico fino alla meschinità, disgustato da se stesso, ben presto annoiato dall'amore, incapace di dedicarsi seriamente a qualcosa, sfruttando anche l'arte come semplice pretesto per starsene in ozio, non in grado di assumersi delle responsabilità, troppo vigliacco per affrontare il proprio fallimento, un uomo debole, disonesto, superfluo, il cui talento si limita a vacui giochetti intellettuali, all'arte dell'apparenza senza sostanza e alla fuga silenziosa di fronte a qualsiasi situazione spiacevole, alla fine è arrivato al punto in cui, irrimediabilmente tediato dal proprio Io, deve affermare che nessuno possiede un Io, che ogni Io è un'illusione.

Ma anche questa terza parte non è così chiara come sembra. Quest'odio verso se stesso è davvero autentico? Stando a quanto esposto in precedenza non esiste alcun Io e qualsiasi esame di coscienza è privo di senso. Quale parte annulla le altre? L'autore non fornisce indicazioni.

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Pagina 186

Si chiamava Willem ed era uno studente d'arte fiammingo, geniale, chiassoso, amabile, collerico e purtroppo non molto dotato. In quanto ammiratore di Nicolas de Staël dipingeva quadri astratti, cosa che gli rimproveravo definendoli imbelli e da epigono, perché io ero per il realismo, ammiratore di Freud e Hockney, cosa che lui mi rimproverava definendo le mie opere imbelli e da epigono. Litigavamo molto, bevevamo molto, assumevamo droghe in dosi moderate, indossavamo camicie di seta e lasciavamo crescere i capelli fino alle spalle. Per un breve periodo dividemmo un atelier a Oxford, che in realtà era solo un locale sopra una lavanderia, lui dipingeva alla finestra rivolta a nord, io a quella rivolta a ovest, c'era un letto ribaltabile di cui facevamo largo uso e ci sembrava che il futuro si fosse voltato a guardarci, che gli storici dell'arte della posterità ci tenessero gli occhi addosso. Quando lui interruppe gli studi gli diedi del pigrone e non interruppi i miei, al che lui mi diede del borghesuccio.

Durante le vacanze vagammo per la verde umidità del Galles, salivamo sulle colline al crepuscolo, andavamo in cerca di alte scogliere e di gole scoscese, una volta facemmo l'amore sopra una lastra di pietra coperta di rune e la cosa fu ancora più scomoda di quel che avevamo immaginato. Discutevamo, ci minacciavamo a vicenda, urlavamo, bevevamo per riconciliarci e finivamo per litigare di nuovo, ubriachi. Riempivamo blocchi da disegno, camminavamo di notte e in fredde ore antelucane aspettavamo il sorgere del sole sopra il pallore verde piombo dell'acqua.

Alla fine delle vacanze io tornai a Oxford e lui andò a Bruxelles per convincere suo padre a dargli altri soldi. Era íl 1990, l'Europa dell'Est si era liberata, e poiché allora non si scrivevano le e-mail ci mandavamo biglietti, quasi ogni giorno. Ancor oggi mi preoccupa l'idea che tutti i miei sfoghi – tutto il filosofeggiare, tutto il romanticismo, le speranze e le rabbie – siano forse conservati in qualche cassetto. La sua corrispondenza, dal momento che rispedirla mi sarebbe sembrato troppo teatrale, l'ho poi distrutta.

Perché quando nelle vacanze successive andai a Bruxelles, mi accorsi che qualcosa era cambiato. Avevamo l'aspetto di prima, facevamo ciò che avevamo sempre fatto, tenevamo gli stessi discorsi, però c'era qualcosa di diverso. Forse era solo perché eravamo tanto giovani e temevamo di perdere qualcosa, fatto sta che avevamo cominciato ad annoiarci a vicenda. Per compensazione parlavamo a voce ancora più alta e litigavamo ancora di più. Restammo svegli per tre notti di seguito, nei guizzi stroboscopici e nei ritmi rimbombanti di diversi locali, ebbri di stanchezza e di eccitazione, finché tutti i luoghi divennero uno solo e tutti i volti si fusero in uno. A un certo punto finimmo al museo e litigammo per Magritte, poi ci ritrovammo sdraiati nell'erba, poi a casa sua e da un momento all'altro eccoci separati, senza sapere come e in realtà nemmeno perché fosse successo. Willem mi tirò una bottiglia, io mi chinai e quella andò in pezzi sopra la mia testa contro la parete, fortunatamente vuota. Uscii di corsa lasciando lì la valigia, lui mi seguì urlando, la sua voce risuonava nella tromba delle scale, poi dalla finestra mi gridò di tornare indietro, di non farmi più vedere, di tornare, e solo quando non lo sentii più chiesi la strada per la stazione. Una donna me la indicò, preoccupata, certo dovevo essere molto pallido, e d'improvviso vidi il manifesto. Era ancora la stessa foto, erano le stesse parole: Lindemann vi insegna a temere i vostri sogni.

Verso la fine della rappresentazione, che non ero riuscito a vedere — avevo voluto riposarmi un po' su una panchina, e lì avevo dormito fino alle prime ore della sera —, ero davanti al teatro. La gente stava uscendo. Cercai il buffet. Lindemann era seduto a un tavolo, chino, mangiava una minestra e alzò gli occhi scocciato quando presi posto accanto a lui.

"Mi chiamo Ivan Friedland. Posso farle un'intervista? Per l'Oxford Quarterly?" Non sapevo se esistesse un 'Oxford Quarterly', ma Internet non c'era ancora e andare a controllare era difficile.

Esteriormente non era cambiato, le lenti degli occhiali brillavano, nel taschino era infilato il fazzoletto verde. Quando cominciai a fargli delle domande, mi accorsi di quanto fosse timido. Senza riflettori e pubblico sembrava smarrito nella sua insicurezza. Si sistemava gli occhiali, aveva un sorriso forzato e continuava a tastarsi il cranio come per accertarsi che í pochi capelli superstiti fossero ancora al loro posto.

Riguardo all'ipnosi, disse, non si trattava di un singolo fenomeno, ma di una molteplicità di processi: la disposizione a obbedire a un'autorità, una certa debolezza, una generica apertura alle suggestioni. Solo di rado intervenivano altri misteriosi meccanismi della coscienza, non ancora studiati perché nessuno voleva studiarli. Tutto questo portava alla perdita, per breve tempo, del controllo superficiale sulla propria volontà.

Ebbe un accesso di tosse, la minestra gli colò sul mento.

Aveva detto "superficiale", spiegò, perché normalmente nulla di quanto una persona non desidera conoscere o fare può essere introdotto a forza nella persona stessa tramite il trance. Solo di rado si riesce a smuovere qualcosa di profondo, in un'anima.

Gli chiesi cosa intendesse, ma lui stava già pensando ad altro e cominciò a lamentarsi. Si lamentò dei cachet miseri, si lamentò dell'arroganza degli autori televisivi. Si lamentò di una trasmissione da cui avevano tagliato il suo intervento. Si lamentò del sindacato degli artisti teatrali e in particolare della loro cassa pensioni. Si lamentò dei molti viaggi in treno, dei ritardi, degli orari compilati in modo dilettantesco. Si lamentò degli alberghi modesti. Si lamentò degli alberghi buoni perché erano troppo cari. Si lamentò degli stupidi tra il pubblico, degli ubriachi tra il pubblico, degli aggressivi tra il pubblico, dei bambini tra il pubblico, dei deboli d'udito tra il pubblico, degli psicopatici. Era sorprendente quanti psicopatici accorressero a uno spettacolo di ipnotismo. Poi si lamentò di nuovo dei cachet. Gli chiesi se volesse mangiare ancora qualcosa, pagava l'"Oxford Quarterly", e lui ordinò una cotoletta con patatine.

"Facciamo un passo indietro," dissi. "I meccanismi della coscienza."

Giusto, rispose. Meccanismi misteriosi, già, ho detto così. Erano misteriosi anche per lui, sebbene avesse una grande esperienza. Ma non erà un intellettuale e non era in grado di dare spiegazioni. Faceva questo mestiere controvoglia, aveva studiato cose molto diverse.

"E cioè? Cos'ha studiato? Quali cose?"

La cameriera portò la cotoletta. Lui chiese come avessi trovato lo spettacolo.

"Molto emozionante."

"Non occorre che racconti balle."

"Molto emozionante."

Non abbastanza grande, disse, e mi occorse un momento per capire che si riferiva alla cotoletta. Troppo cara per quelle dimensioni. Ma già, al giorno d'oggi tutto era caro, l'uomo della strada viene costantemente spennato.

Gli chiesi se almeno gli piacesse, la cotoletta.

Troppo alta, disse. Una cotoletta va battuta bene, pareva che nessuno lo sapesse più. Esitò prima di chiedermi dove tenessi il registratore.

"Ho una buona memoria."

La memoria è un fenomeno sopravvalutato, disse masticando. È davvero strabiliante come sia facile suggerirle falsi ricordi, e altrettanto facile cancellare i ricordi senza lasciarne traccia. Veramente niente registratore?

Per cambiare argomento gli offrii il dessert, lui ordinò una fetta di Sacher. Poi piegò la testa di lato e si informò se l'"Oxford Quarterly" fosse una rivista studentesca.

"Ha molti lettori."

"Lei cosa studia, giovanotto?"

"Storia dell'arte. Ma sono un pittore."

Il suo sguardo si posò sul tavolo. "Ci siamo già visti da qualche parte?"

"Non credo."

"No?"

"Non saprei dove."

"Pittore," ripeté.

Annuii.

"Pittore." Sorrise.

Gli chiesi quanto fosse grande l'influenza che un ipnotizzatore poteva esercitare sulle persone. Si poteva indurre qualcuno a cambiare la propria vita? A fare cose che non avrebbe mai fatto se non fosse stato ipnotizzato?

"Chiunque può indurre chiunque a cambiare la propria vita."

"Ma non si può indurre la gente a fare qualcosa che non vuole fare?"

Si strinse nelle spalle. Detto tra noi, cosa significa in realtà volere qualcosa o non volerla? Chi sa davvero cosa vuole, chi ha le idee chiare? Si vogliono un sacco di cose, e un momento dopo qualcos'altro. Naturalmente, all'inizio si dice agli spettatori che nessuno può essere indotto a fare qualcosa che in ogni caso non sarebbe disposto a fare, ma la verità è che chiunque è capace di tutto. L'uomo è aperto, è un caos senza limiti e forma definita. Si guardò attorno. Come mai ci voleva tanto per la torta, dovevano ancora metterla in forno?

Io non sono un caos senza limiti, dissi.

Lui rise.

La cameriera portò la torta, e lo pregai di raccontare qualche aneddoto. Nella sua carriera ricca di successi ne aveva certo viste di tutti i colori.

Successi? Mah. Prima, ai tempi gloriosi del varieté, all'epoca di Houdini e Hanussen, un ipnotizzatore poteva ancora mietere grandi successi. Ma in giorni come questi! Comunque una vita per l'arte non si lasciava certo ridurre a qualche aneddoto.

"L'ipnosi è un'arte?"

Forse persino qualcosa di più. Forse realizzava da sempre ciò che l'arte avrebbe voluto raggiungere. Tutta la grande letteratura, tutta la musica, tutta... Sorrise. Tutta la pittura si sforza di conseguire un effetto ipnotico, no? Scostò il piatto. Adesso doveva andare a dormire, uno spettacolo costa fatica, poi si è stanchi da non reggersi in piedi. Si alzò e mi pose una mano sulla spalla. "Pittore?"

"Prego?"

L'espressione del viso era cambiata, non rivelava più nessuna condiscendenza. "Pittore... davvero?"

"Non capisco."

"Fa niente. Non ha importanza. Ma lo pensa sul serio? Pittore?"

Chiesi cosa intendesse dire.

Nulla. Era stanco. Doveva andare a coricarsi. Si guardò attorno, come se gli fosse venuta un'idea, poi mormorò qualcosa che non riuscii a capire. Appariva piccolo e gracile, pallido in viso, gli occhi non si distinguevano dietro le grosse lenti. Alzò la mano in segno di saluto e a brevi passi si avviò verso la porta.

Solo a bordo del traghetto che attraversava il Canale mi resi conto di non riuscire a togliermi la sua voce dalla testa. Pittore, davvero? Non mi ero mai trovato di fronte a un dubbio espresso così energicamente, a uno scetticismo e a una derisione così intensi.

Poco dopo, tornato a Oxford, lui mi apparve in sogno con tanta chiarezza che ancora oggi ho l'impressione di averlo incontrato tre volte. Eravamo di nuovo nel buffet di un teatro, che però nel sogno aveva le dimensioni di una cattedrale. Lindemann stava in piedi sul tavolo, e il suo sorriso era deformato da un ghigno tale che quasi non riuscivo a guardarlo.

"Io non dimentico." Ridacchiava. "Né un viso né una persona che siano stati sul palcoscenico con me. Pensavi davvero che non ricordassi più? Povero ragazzo. E credi di averla dentro di te? L'arte. La pittura. La forza creativa. Lo credi davvero?"

Io indietreggiavo, mezzo furibondo e mezzo terrorizzato, ma incapace di rispondere. Il suo sorriso cresceva a dismisura, fino a riempire il mio campo visivo.

"Tu sai fare ciò che si deve saper fare, ma sei vuoto. Sei vacuo." Risatina acuta e sarcastica. "Adesso va'. Va' in discordia. Va' e non creare. Va'!"

Quando tornai in me ero disteso nella semioscurità della stanza da letto e non riuscivo a capire cosa mi avesse tanto spaventato. Sollevai la coperta. Là sotto, formando una palla umana, gli occhiali che brillavano, stava rannicchiato Lindemann. E mentre lui ridacchiava, mi svegliai una seconda volta, nella stessa stanza, sollevai la coperta con il cuore che batteva forte, ma adesso ero solo e sveglio per davvero.

Aveva ragione, lo sapevo. Non sarei mai diventato un pittore.

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Non sarei diventato un pittore, adesso lo sapevo. Lavoravo come prima, ma la cosa non aveva più senso. Dipingevo case, dipingevo prati, dipingevo montagne, dipingevo ritratti, non erano brutti, c'era mestiere, ma a che scopo? Dipingevo quadri astratti, composizioni armoniche e coloristicamente ponderate, ma a che scopo?

Cosa significa essere mediocri – d'improvviso la questione non mi diede più pace. Come ci si convive, come si va avanti? Che gente è quella che punta tutto su una carta, dedica la propria vita alla creatività, corre il rischio della grande scommessa e poi, anno dopo anno, non realizza niente di significativo?

Ovviamente la natura stessa della scommessa prevede il fatto che si possa perderla. Ma se ti capita davvero... poi si mente a se stessi o si riesce a rassegnarsi in maniera dignitosa? Come si fa a preparare le proprie piccole mostre, tutti orgogliosi, a raccogliere i propri limitati riconoscimenti e a ritenere naturale che molto al di sopra di te ci sia un mondo del successo di cui non fai parte? Come ci si destreggia?

"Scrivi sulla mediocrità." Era stata un'idea di Martin, quella volta, nel giardino del convento di Eisenbrunn. E aveva ragione: potevo comunque diventare uno storico dell'arte con un insolito campo di ricerca. Così scrissi una lettera a Heinrich Eulenböck. Non mentii, ma nemmeno menzionai il titolo della mia tesi: La mediocrità come fenomeno estetico. Spiegai solo come avessi scoperto per caso i suoi quadri in un vecchio catalogo: case di contadini fiamminghi, dolci colline, amene rive di fiumi e mucchi di fieno, dipinti davvero bene, vigorosi e non privi di anima. Ecco, mi ero detto, cosa sarei diventato. Questa competenza ostinata, questa perfezione chiusa in se stessa. Sarebbe stato il mio futuro. Sarei stato io.

Rispose compiaciuto, e mi misi in viaggio. Ero esausto, perché mi lasciavo alle spalle una breve storia con un coreografo francese, una storia piena di passione, litigi, urla, alcol, separazione, riconciliazione e nuova separazione, e un viaggio capitava a fagiolo. Un lungo percorso in treno, un lungo percorso con un altro treno, poi la traversata con il traghetto, poi un lungo percorso in pullman, finché mi trovai finalmente di fronte a lui nel suo studio luminoso. Dalle finestre trapelava il luccichio freddamente nordico del mare.

All'epoca aveva quasi sessant'anni ed era più in forma di quanto mi aspettassi, un signore elegante con i baffi bianchi, abito di buon taglio e bastone di avorio, spiritoso, pacato e distinto. Avevo in programma di ripartire il giorno dopo, e invece rimasi. Rimasi anche il giorno successivo e un altro ancora, e tutta la settimana e tutto l'anno e l'anno dopo ancora. Rimasi fino alla sua morte.




Le luci della metropolitana raggrinziscono, diventano una macchia indistinta e si spengono. La bellezza non ha bisogno dell'arte, non ha neanche bisogno di noi, non ha bisogno di osservatori, al contrario. La gente che guarda a bocca aperta le sottrae qualcosa, la bellezza fiammeggia più vivida dove nessuno la vede: vasti paesaggi privi di case, i giochi delle nuvole verso sera, il rosso-grigio slavato di vecchi muri di mattoni, alberi spogli nella nebbia invernale, il riflesso del sole in una pozzanghera oleosa, le torri a specchio dell'isola di Manhattan, lo sguardo dal finestrino di un aereo subito dopo aver forato la cappa di nubi, le mani dei vecchi, il mare a ogni ora del giorno e stazioni della metropolitana deserte come questa – la luce gialla, il disegno casuale dei mozziconi di sigaretta sul pavimento, i manifesti sbrindellati che sbattono ancora nel vento della corsa anche se il treno è scomparso da un pezzo.

La scala mobile mi porta in superficie, la strada si dispone attorno a me, là in alto si erige la volta del cielo estivo. Guardo in tutte le direzioni – non solo per prudenza, questa è una zona pericolosa, ma perché in fin dei conti siamo al mondo per guardare. I cassonetti dei rifiuti gettano le loro brevi ombre meridiane, un ragazzino passa su uno skateboard, le braccia spalancate, fluttuando e al tempo stesso sull'orlo di una caduta costantemente frenata. Il medesimo raggio di luce lampeggia lassù in una finestra e qui sotto nello specchietto di una macchina parcheggiata. Il quadrato scuro di un tombino, tutto nitidezza schematica, e sopra, in alto, come volutamente contrapposta, la liquescente vaghezza di una nuvola. Apro in fretta una porta, entro e me la chiudo alle spalle. Con un vecchio ascensore che scatarra di piano in piano salgo fino al sottotetto. Solo al secondo piano c'è un magazzino usato di rado, il resto della casa è vuoto. L'ascensore si ferma con un cigolio, esco e apro una porta d'acciaio. Subito mi avvolge il profumo di acrilico, legno e colla, il ricco aroma dei pigmenti. Che bello, quando si può lavorare. A volte mi viene il sospetto che potrei essere un uomo felice.

Nessuno sa di questo studio, nessuno mi ci può mettere in relazione. Non l'ho comprato io, bensì una ditta che appartiene a un'altra ditta con sede alle Isole Cayman che a sua volta appartiene a me. Se qualcuno andasse a controllare al catasto non troverebbe il mio nome. Bisognerebbe impiegare molto tempo e fare tanta fatica per arrivare fino al sottoscritto. Le imposte fondiarie così come le spese per riscaldamento, acqua e luce vengono riscosse automaticamente da un conto cifrato nel Liechtenstein. Fischiettando tra me e me appendo la giacca, mi rimbocco le maniche e infilo il camice. Contro la parete è appoggiata una dozzina di quadri coperti da teli, davanti, sul cavalletto, un dipinto quasi terminato.

Per fortuna non ho bisogno degli occhiali, la mia vista è acuta come sempre. Nato per vedere, destinato a guardare. Mi metto davanti al quadro e lo osservo. La piazza di una cittadina francese. Al centro una scultura coloratissima, chiaramente di Niki de Saint Phalle: una grande figura femminile che tende le braccia verso l'alto. Il cielo è sereno, sul margine della piazza ragazzini con le biciclette stanno attorno a un bambino che si regge la testa fra le mani e piange. Una donna guarda da una finestra, la bocca è spalancata, sta chiamando qualcuno. Da una macchina parcheggiata un uomo alza gli occhi verso di lei con aria minacciosa. Sul bordo della piazza c'è una pozzanghera scura che forse, ma forse no, è una macchia di sangue, dalla quale sta bevendo un bassotto. È successo qualcosa di terribile, e la gente sembra volerlo nascondere. Se si osservasse un po' più a lungo, se si cercassero delle tracce con più attenzione, si potrebbe scoprirlo. Ma se ci si allontana i dettagli spariscono e quello che resta è solo una variopinta scena di strada: luminosa, vivace, allegra. Grandi manifesti fanno pubblicità a una birra, a un formaggio da spalmare, a marche di sigarette, nello stile dei primi anni settanta.

Lavoro in silenzio, a tratti mi sento fischiettare. Mancano ancora solo un paio di cosette. La quiete dell'atelier mi circonda come una sostanza solida. Quassù il frastuono della città non arriva, anche il caldo sembra chiuso fuori. In questo modo si può andare avanti a lungo. Se poi ripenso alle ore di lavoro, quasi non me le ricordo – come se la concentrazione avesse eliminato tutto.

Qui in alto ancora un paio di sprazzi di luce, lì sotto un'ombra e i tratti del volto di quel bambino cancellano una traccia. Sulla targa della macchina ci vuole una macchia di ruggine. Si devono vedere le pennellate, dense, come nei grandi maestri! E poi l'ultimo punto luminoso, un accento di bianco, ocra e arancione. Faccio un passo indietro, sollevo la tavolozza, prendo un po' di nero e con tratto rapido inserisco nell'angolo data e firma: Heinrich Eulenböck, 1974.

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