Copertina
Autore Yehoshua Kenaz
Titolo La grande donna dei sogni
EdizioneGiuntina, Firenze, 2005, Israeliana , pag. 278, cop.fle., dim. 132x209x17 mm , Isbn 978-88-8057-223-7
OriginaleHaishah hagdolah min hachalomot [1973]
TraduttoreAntonio Di Gesù
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe narrativa israeliana
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Pagina 26

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L'Ungherese non sapeva se avrebbe scostato la tenda accanto al letto.

Aprì gli occhi e quel giorno non era un giorno festivo né feriale, né un giorno come tutti gli altri giorni. Per quanto si sforzasse di allontanare il momento del risveglio, non era capace di dormire dopo le sei del mattino. Si era sempre alzato prima delle cinque per andare al lavoro; nei giorni festivi riusciva a dormire un'altra ora, un'ora e mezzo, ma dopo si sentiva male tutto il giorno, perché il suo corpo era abituato a un ciclo di sonno regolare, e quando questo ciclo veniva turbato, l'Ungherese era afflitto da tremendi mal di testa, una specie di confusione e fiacchezza.

Stava sdraiato sul letto accanto alla finestra e si chiedeva se scostare la tenda per lasciare entrare nella stanza la prima luce del sole mattutino. Osservò e scoprì che l'origine delle sue esitazioni era un certo pudore. Era capace di analizzare per ore le proprie reazioni e i propri sentimenti. Era sempre solitario, e la ricerca interiore era un sostituto del dialogo e dell'amicizia con il prossimo. Ora la domanda «Scostare la tenda o no» aveva assunto un significato fatale, strategico, da valutare con estrema serietà.

Solo da un anno aveva cominciato a notare che l'ora bramata era sempre più vicina e questo pensiero risvegliava in lui delle speranze. Ecco, aveva pensato allora, verranno giorni in cui sarà possibile crescere, recuperare un po' del tempo perduto. Non sarebbe stato più una bestia da soma o una macchina, vincolato dalle leggi della produttività e dalla routine dei turni di lavoro. Quest'oscillazione crudele tra lo sforzo di compiacere tutti e la stanchezza, lo spreco del tempo libero e di quel poco tempo che aveva per eseguire íl piano sarebbero cessati. Finalmente sarebbe stato libero, avrebbe fatto ciò che veramente voleva: avrebbe letto libri, per recuperare tutti quegli anni in cui non aveva visto neanche una pagina; avrebbe visitato località di Israele in viaggi organizzati, in compagnia di gente, e forse avrebbe persino fatto amicizie, se non era già troppo tardi.

Poco tempo prima aveva comprato in un negozio di libri usati accanto alla stazione centrale un libro in tedesco, una biografia del presidente Kennedy. Il libro aveva attirato la sua attenzione per la serietà dell'argomento e per l'interesse generale che presentava, ma dopo il lavoro era sempre troppo stanco per concentrarsi su un libro come quello e si limitava a dare un'occhiata ai titoli di qualche quotidiano straniero. Da tempo gli era chiaro ormai che anche il suo tempo libero non era libero dalla pressione del lavoro. Era una specie di tempo sprecato, quello tra il ritorno dal lavoro e l'ora di andare a letto presto per alzarsi all'alba dell'indomani e soddisfare la fabbrica. Non bisogna dire, aveva stabilito l'Ungherese, che tu sei diventato schiavo del lavoro, dei bisogni materiali; è più corretto dire che sei diventato una bestia da soma, poiché le tue reazioni, i tuoi impulsi, e persino le tue giornate a casa sono dettate dal lavoro. È impossibile evitare che il lavoro prenda il sopravvento sulla tua vita interiore o esteriore. Per questo non leggeva il libro sul presidente Kennedy, ma lo sfogliava di tanto in tanto, guardava qualche pagina, per immaginare il piacere che lo attendeva quando si sarebbe dedicato a letture serie e sistematiche.

Ogni anno l'Ungherese andava alle terme, anche se quelle giornate di svago lo ripiombavano nella disperazione. Il suo corpo non aveva bisogno di cure. Persino durante quegli anni, prima che andasse in pensione, non lo avevano turbato malattie o dolori, ma solo una stanchezza comprensibile, fisiologica, dopo un'intera giornata di lavoro in fabbrica. Faceva quella settimana di vacanza per cambiare aria, per uscire dalla routine della sua stanza e dei venerdì sera in compagnia degli S. Voleva gustare nuova aria, nuovo clima, nuovo comfort, nuova vita sociale e lì stava la causa della sua depressione.

Che cosa aveva? si chiedeva. Forse i lunghi anni di solitudine, gli anni di perenne vedovanza, avevano ucciso la sua capacità di integrarsi in società, di essere come gli altri, di partecipare alla loro conversazione, di fingere, almeno, di essere come loro? Forse era la maledetta timidezza a fermarlo a ogni secondo, ed ecco che lo tormentava pure con la domanda se scostare la tenda o no. Era sempre così, come ignorarlo? Come non ammettere che il resto degli operai avevano costituito un gruppo, e si frequentavano anche al di fuori del lavoro, si scambiavano visite, giocavano a carte il venerdì sera e organizzavano feste tra amici; lui invece il venerdì sera andava a cena dagli S., che erano due persone come lui. Dove stava la radice del male? Era lui a tirarsi in disparte, ad allontanarsi dalla società, o erano loro a non volerlo accogliere, a non andare oltre íl cordiale rapporto di lavoro? Le cose erano così complicate e le cause e gli effetti erano talmente intricati che era impossibile capirci qualcosa.

Di per sé avrebbe potuto continuare con la sua vita solitaria, tra il lavoro e il riposo, perché dalla vita non si aspettava nulla. Era molto attento a condurre una vita onesta, si guardava dal nuocere al prossimo, dal disturbare, dal trovarsi in un posto dove non era sicuro di essere il benvenuto, ma non sapeva come imparare a non pensare troppo. Nonostante ciò aveva avuto non poche ore di serenità e persino di gioia. Così, da solo. Amava la propria stanza che, sì, era veramente modesta ma sempre in ordine, pulita, dignitosa. Non aveva mai aspirato ad altro. Però la domanda «Perché deve essere così?» spesso gli dava molto fastidio. Qual era il suo difetto che lo allontanava dalle amicizie e allontanava gli altri da lui? Perché le cose erano andate a finire così, perché dovevano rimanere così?

Certo la maggioranza degli operai era piu giovane di lui, alcuni erano proprio dei ragazzi, ma c'erano anche alcuni che erano solo appena più giovani di lui e anch'essi facevano parte del gruppo degli operai, la differenza d'età non era d'intralcio. Di nuovo: egli non desiderava particolarmente la loro compagnia e non aveva — per quanto ne sapesse lui, in tutta onestà – alcun sentimento di inferiorità nei loro riguardi. Ma qual era la causa di tutto ciò? Loro erano assieme alle loro famiglie e ai loro amici, avevano occasioni liete, certo in maggior parte erano cose vane, ma gli rodevano il cuore d'invidia.

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[...] Allungò la mano dal letto al tavolo e prese il libro che aveva comprato. Sperava di leggerlo a fondo. Bisognava fare qualcosa, le sue mani non sarebbero più state capaci di compiere alcun lavoro. Toccò il libro. Bisognava leggerlo. Era un libro serio, di storia. Aprì il libro e ne guardò l'impaginazione. Improvvisamente la domanda su chi avesse letto quel libro prima di lui, prima che fosse stato venduto al commerciante di libri usati, lo infastidiva. Il nome del vecchio proprietario era scritto, sembrava, sul frontespizio ma era stato cancellato sistematicamente con inchiostro nero. Perché l'uomo aveva cancellato il proprio nome? O era stato il commerciante a cancellarlo? No, il commerciante non l'avrebbe cancellato. Perché dunque l'uomo aveva cancellato il proprio nome?

L'Ungherese si alzò, accese la luce nella stanza che diventava sempre più buia e tornò a sedersi sul letto. Girò la pagina e la indirizzò verso la luce della lampada. Strizzò gli occhi, per distinguere le lettere cancellate. Non sapeva perché la cosa lo interessava talmente ma sentiva che questo desiderio era più forte di lui. Non disperò. Di nuovo voltò la pagina, l'avvicinò agli occhi, ma inutilmente. La cancellatura era molto forte. Perché l'uomo aveva cancellato il proprio nome? Per paura? È un fatto certo: tu ora stai cercando di scoprire il suo nome; esattamente per questo motivo l'uomo non voleva lasciare una traccia simile, che andasse di mano in mano, in un ciclo commerciale vile e tanto sporco, senza sapere in che mani sarebbe caduto.

L'Ungherese sapeva che il proprietario del libro era un uomo. Una donna non avrebbe letto un libro simile, non ne aveva dubbi. Sarebbe, dunque, riuscito a scoprire chi era l'uomo, o almeno alcune allusioni al suo carattere? Certo, disse l'Ungherese, così io sbircio il mondo, da dietro uno spiraglio della tenda della mia stanza, nascondendomi e desiderando vedere, conoscere, ma non essere scoperto mentre faccio ciò. Rigirò il libro tra le mani. C'era forse qualcosa scritto sul dorso? Strappò la bella fodera ché aveva messo al libro. No, non c'era niente sulla copertina oltre al titolo, al nome dell'autore e della casa editrice tedesca, e a una brutta macchia bruna, forse di caffè che ci si sarà versato sopra.

L'Ungherese sfogliò il libro. Chissà se l'uomo aveva annotato qualcosa sulle pagine. Ci sono persone che sono solite annotare i propri commenti sui bordi delle pagine quando leggono un libro, e sottolineano con una linea retta i passaggi che ritengono importanti. Aprì il libro in alcuni punti, a caso, ma non trovò nulla. Il fatto che qualcuno avesse letto il libro prima di lui, lo avesse tenuto tra le mani come lui faceva in quel momento, risvegliava in lui una strana sensazione, febbrile. Qualcuno aveva già letto quelle parole a casa propria, da qualche parte, aveva sfogliato le pagine con le proprie dita, ma perché era stato così attento a non lasciare nel libro alcun segno della sua persona? Aveva forse avuto paura che qualcuno avrebbe contaminato il segno della sua persona con vili sguardi, con curiosità, con occhiate spregevoli e con il desiderio di unirsi a lui in un patto forzato?

Ecco un segno che testimoniava che l'angolo di una delle pagine era stato piegato! Come segnalibro? Aveva interrotto qui la sua lettura? Sembrava che a questo punto l'uomo avesse chiuso il libro, spento la luce sul comodino, si tosse coperto e avesse chiuso gli occhi per dormire. Era un uomo anziano, un suo coetaneo, doveva appartenere alla cerchia di quanti in Israele erano in grado di leggere il tedesco. Dove abitava? Era stato lui a macchiare la copertina con il caffè o con un altro liquido scuro? Ma la macchia non rivelava nulla. L'Ungherese controllò il segno della piegatura, cercava di rifarla nello stesso punto, seguendo il solco rimasto sulla pagina. Allora, ecco, così. Che cosa si può dedurre da questo? Se avesse letto il libro e fosse arrivato a questo punto, forse avrebbe capito meglio il senso di quell'angolo piegato e del perché proprio in quel punto. Perché l'uomo si era stancato di leggere a questo punto? L'Ungherese lesse alcune righe. Che cosa si poteva scoprire da queste?

«Noi riponiamo la nostra speranza comune in un futuro in cui tutti gli uomini potranno lavorare e mangiare a sazietà; in cui tutti i bambini potranno studiare e tutte le famiglie potranno abitare in appartamenti decorosi. Noi vogliamo che nella nostra terra ogni uomo sia libero dalle catene del crimine e possa mettere a profitto le proprie capacità senza inciampo e senza limitazione. Ma non potremo realizzare questo progresso finché gli uomini cozzeranno contro porte chiuse e altri si godranno tutti i piaceri superflui — aveva detto il Presidente a Miami Beach, in Florida, quattro giorni prima dell'attentato».

Chi aveva letto quelle righe e, colto dal sonno, aveva piegato l'angolo della pagina, aveva spento la luce sul comodino, si era coperto con un lenzuolo e aveva chiuso gli occhi per dormire? O forse la piega era stata fatta per contrassegnare questa pagina e poi tornare a leggerla?

L'Ungherese toccò la pagina del libro: la carta era pesante, non era più bianca, i bordi avevano cambiato colore, erano diventati grigiastri. Il libro era stato poggiato a lungo su uno scaffale al sole. Ma non era fatto di quella carta sottile e brutta che oggi si trova nei libri. La carta era eccellente, raffinata. Sottopose la pagina a leggera trazione e la pagina non si strappò. Esaminò la rilegatura: le pagine erano state cucite, un sedicesimo dopo l'altro, ed erano state incollate bene. Nella prima pagina spiccava il ritratto del defunto presidente: il suo volto era sollevato verso sinistra e aveva un sorriso sulle labbra, un volto buono, naturalmente. La piega delle labbra sul lato sinistro della faccia era più profonda della piega del lato destro, e questo sorriso aveva qualcosa di scettico. Una grazia misteriosa e il fascino dell'intelligenza risaltavano in quel ritratto. L'Ungherese sorrise alla fotografia, imitando il sorriso del presidente. Improvvisamente si confuse e immaginò che quello fosse il ritratto dell'individuo che aveva posseduto il libro prima di lui, lo aveva letto e poi lo aveva venduto al commerciante. Quando si riprese dalla confusione, un'amara delusione gli punse il cuore e non lo lasciò più.

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Bella abitava in una baracca accanto al mercato piccolo. Un enorme arbusto d'oleandro, sempre in fiore, cresceva davanti alla facciata della baracca. Pian piano l'oleandro si era impossessato della baracca e i fiori rosei dall'essenza amara avevano occultato ogni macchia nera nel rivestimento di pece delle pareti e separavano la baracca dall'esterno. La gente raccontava che quando Bella era venuta ad abitare lì con il padre, il vecchio rabbino era malato e allora l'oleandro era una pianta come le altre. Dopo la morte del padre di Bella, l'oleandro aveva cominciato a crescere in modo non naturale. Bella prima non aveva mai messo piede lì ma un giorno venne e rimase. Nessuno sapeva da dove fosse venuta o che cosa avesse fatto prima. Al suo arrivo, però, la sua faccia era già gialla e rugosa, come quella di una vecchia, e la sua schiena era ricurva. Solo i suoi occhi neri bruciavano di una luce buia e rifiutavano di spegnersi. La sera, quando il caldo nella baracca era insopportabile, Bella si sedeva accanto all'oleandro sul suo sgabello. Di fronte, davanti all'ingresso della sede delle giovani esploratrici, tutti si riunivano per ascoltare la fisarmonica e il mandolino: due giovani seduti su una panca suonavano canzoni russe, tristi e lunghe, e tutti li ascoltavano con gran meraviglia. Il suonatore di mandolino era di carnagione chiara e aveva gli occhi azzurri, i capelli biondi e il naso schiacciato. Era allegro, aveva il vezzo di muovere in continuazione la testa e faceva l'occhiolino alle ragazze. Il suonatore di fisarmonica, invece, era piccolo e scuro, aveva occhi tristi ed era immerso nella musica, come se fosse stato costretto ai lavori forzati, e un tremolio nervoso di tanto in tanto deformava l'angolo delle sue labbra. Le ragazze della sede delle giovani esploratrici guardavano dalle finestre, ridevano, gesticolavano, alcune persino ardivano scendere, mettersi davanti alla panca, e si univano al duo, canticchiando a voce bassa. Bella ascoltava dal suo lato della strada, seduta sullo sgabello accanto al suo oleandro.

A quel tempo la veranda nella strada degli Spanioli in estate era piena, strapiena di angurie. Collane di cipolle, di aglio, di peperoni, erano appese a essiccare e tra le pareti della casa si conservava ancora il fresco della notte. Il venerdì sera sgranocchiavano montagne di semi di zucca tostati, salati e profumati.

I chamsìn dell'inizio dell'estate spingevano in aria turbini di polvere gialla, bruciante, e colonne di pezzi di carta si levavano in un vortice. Brandelli di giornali e sacchi di carta marrone, sottile carta da pacchi, grigi pezzi di cartone e pacchetti di sigarette arrivavano a ondate dal mercato grande fino alla strada degli Spanioli e al mercato piccolo, si abbattevano contro gli steccati e i cipressi che fiancheggiavano le case, contro le tegole, e arrivavano fino agli orti lontani. Una nevicata di pezzi di carta che si accumulavano e venivano a coprire tutto.

Nei vasi della veranda il geranio era in fiore e rosso, infocato, si riversava sul parapetto. Piante intere. Levanà staccava i petali dei gerani rossi, se le attaccava con la saliva sulle unghie e diceva: «Ho fatto la manicure!». Teneva a lungo le dita aperte, le guardava e rideva: che signora! Che signora!

La vecchia nonna stava a letto nella veranda, in un'agonia che non aveva fine. Il padre di Levanà stava seduto nella stanza in penombra, fumava una sigaretta dopo l'altra e giocava con un coltello a serramanico. Il fratello di Levanà, che si chiamava Avram, stava seduto in una pozzanghera in cortile e giocava con il rubinetto: rubinetti erano il suo sogno.

Il fatto successe durante la prima vacanza estiva dopo che Levanà aveva abbandonato l'istituto femminile. Bella passava con le sue ceste nella strada degli Spanioli, diretta al mercato grande, anche se abitava vicino al mercato piccolo. Voleva risparmiare qualche soldo e per questo andava con le ceste fino al mercato grande che si trovava dall'altro lato della colonia.

Nessuno sapeva quale fosse la fonte di sostentamento di Bella la Nera, né se avesse parenti o conoscenti. Vestiva sempre di nero.

Quando Bella si avvicinò al cortile della casa di Levanà, si fermò per un attimo. Levanà corse al cancello e Avram la seguì. Levanà allungò la mano, ancora decorata con i petali di geranio, alzò il braccio, sollevò la mano stretta a pugno e agitò il dito medio verso Bella per tre volte. Forse i bambini, con il senso dei bambini, sentivano che Bella stava per impazzire, che la pazzia si era diffusa ormai dentro di lei e sul suo volto, soprattutto negli occhi, che erano stati colpiti per primi e forse per questo si erano conservati più giovani, ardenti, mentre il corpo e il volto si stavano spegnendo, si erano coperti di rughe, erano ingialliti, e la pazzia non bastava più a preservare la loro giovinezza e a mantenerli immutati.

Forse per questo presentimento che infondeva loro la certezza che non ci fosse alcun pericolo, Levanà e suo fratello Avram avevano fatto quel gesto volgare con la mano. Bella indossava, come al solito, il vestito nero con cui l'avevano vista arrivare nella colonia. Aveva posato le ceste a terra e guardava Levanà e il fratello. In quell'istante il terreno cominciò a bollire sotto i piedi di Levanà e Avram. Bella li guardò, sputò sulla sabbia (un'intera pozzanghera di saliva, pensava Levanà quando quella scena le ritornava in mente) e li maledisse sottovoce, muovendo soltanto le labbra. Il volto di Bella in quel momento era immobile, privo di espressione, solo gli occhi bruciavano del loro fuoco oscuro; il fratello di Levanà gridò: «Ci sta maledicendo! Ci sta maledicendo!»

Levanà osò avvicinarsi a Bella e le disse «Vecchia strega! Strega puzzolente!». Avram si avvicinò ancora di più e fece cadere le ceste di Bella. Levanà prese le ceste a calci e rise, e ancor prima che Bella la Nera facesse in tempo a gridare, Levanà e il fratello erano già scappati fino alla fine delle strada degli Spanioli. Levanà rise ed emise un grido di gioia, mentre il fratello Avram mise le mani a mo' di tromba, se le portò alla bocca e cominciò a suonare. La sabbia era ardente e nella loro corsa Levanà e il fratello si erano immaginati di volare sulla terra senza che i loro piedi toccassero il suolo.

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Zion era rimasto a casa per tutto il giorno e Levanà aveva di nuovo notato in lui l'inquietudine che le preannunciava disgrazie. Conosceva la sua agitazione nei giorni in cui un solo pensiero lo assillava. Allora era tutto preso dal suo egoismo, chiuso in sé, raggomitolato come un porcospino, pericoloso. Non lo sopportava più. Ogni giorno sperava che Zion rimanesse un poco a casa e ora erano due giorni che usciva solo di sera per andare al lavoro e lei non sopportava il suo silenzio, il suo fingersi estraneo, il suo odio.

«Perché non ti compri un parrucchino e te lo metti in testa?» disse Levanà. «Gli piacerai di più alle tue ragazze. Questa medicina non ti servirà. E non raccontarmi che è contro la forfora».

«Non sono affari tuoi» rispose Zion e si vedeva che cercava di trattenere la collera.

«Sei ridicolo, Zion. Sei davvero ridicolo, con questa tua cura per i capelli. Hai paura di diventare calvo?».

«Ma che vuoi?».

«Che non ti renda ridicolo, Zion. Tutta la casa puzza di questa medicina. Forse ci hanno pisciato dentro, non lo so. Ma fa una puzza!».

«Hai mai sentito la puzza che fai tu?!» disse Zion.

Eli era in piedi alla finestra e guardava fuori. Erano i giorni della fine dell'estate e il chamsìn essiccava la terra. Eli vedeva vapore salire da terra e da lontano l'aria era come una parete divisoria di vetro che tremolava incessantemente. Si appoggiava con entrambi i gomiti al davanzale della finestra con la testa rivolta verso l'esterno.

«Ti ho amato così come sei» disse Levanà e cercò di osservare la reazione di Zion alle sue parole. Lui la guardò e il suo volto esprimeva disprezzo. Si allacciò i sandali, si fermò improvvisamente e la guardò di nuovo. Dio, pensava, che ci ho visto in questa donna? Che me ne faccio ora? Che vuole da me? Perché ha tutte queste pretese, come se io le dovessi qualcosa?

«Lasciami in pace ora, Levanà. Non ho la pazienza di sopportarti. Mi senti?».

Di tanto in tanto Eli si sollevava sui gomiti e le gambe gli penzolavano contro il muro, staccate dal pavimento.

«Rovini il muro, Eli» disse Levanà.

Girò la testa verso di loro sorridendo e poi guardò di nuovo fuori. Il fratello e la sorella giocavano in cortile e non aveva voglia di unirsi a loro. Il davanzale della finestra era freddo ed era piacevole aggrapparvisi.

«Eli, perché non vai a giocare fuori?».

Che voleva dire quando gli aveva detto di amarlo così com'era, si chiedeva Zion. Si riferiva al passato? Al presente? In generale? O forse voleva provocarlo per il suo desiderio di prendersi cura del suo aspetto esteriore, alludendo di essere a conoscenza della sua relazione con una donna?

«Come andrà a finire, Zion?» chiese Levanà. Era una domanda che gli faceva spesso, come se lui fosse un bambino sciocco che faceva capricci. Sarebbe andata a finire, pensava Zion, che non avrebbe più sopportato di vedere la sua faccia, avrebbe aperto le ali e se ne sarebbe volato via.

«Qualcuna ti ha detto che sei troppo vecchio per lei e hai scoperto che ti mancano i capelli? Come fai a non vergognarti di te stesso, Zion?».

Che aveva? (,ome mal lo sfidava? Aveva torse trovato il suo punto debole e pensava di poterlo sconfiggere? Zion voleva farle quanto male poteva, persino darle delle percosse che l'avrebbero rimessa al suo posto, l'avrebbero umiliata. Lei gli stava davanti con i capelli spettinati, vestiti miseri e ripugnanti, priva di qualsiasi grazia; persino la sua sensualità animale che un tempo aveva amato in lei, quel temperamento tempestoso che lo eccitava, anch'esso si era affievolito ed era stato soffocato da quella scorza dura, bestiale, che la ricopriva ora.

«Vediamo la tua pelata» disse Levanà.

Gli si avvicinò. Lui era seduto sul letto, aveva le mani poggiate sul materasso e la testa ritta verso di lei. Gli si avvicinò e la sua vicinanza lo disgustò. Non avrebbe potuto sfuggirle, gli stava davanti e gli guardava la testa. Lui vedeva i peli delle sue ascelle e le macchie di sudore nel tessuto della camicia gialla che lei aveva indossato tutta l'estate. Quelle cose lo nauseavano ma non cambiò posizione e la sua faccia rimase impassibile. L'odore del sudore di lei, familiare e disgustoso, gli arrivava al naso.

Quando gli toccò i capelli, Zion sentì che non sarebbe riuscito a controllarsi. L'aggredì e le diede due violenti schiaffi sulla faccia. Levanà era come stordita e rimase immobile per un istante al suo posto. Quando sollevò le mani per difendersi la faccia, lui le afferrò, gliele immobilizzò dietro la schiena e la spinse sul letto. Mentre si trovava così, immobilizzata dalle mani di Zion, Levanà emise soltanto un urlo. Lui le diede ripetutamente colpi sul viso, sulle cosce, sulle braccia, ma lei non gridò più. Dapprima aveva chiuso gli occhi per difendersi, poi li aprì e lo guardava dritto negli occhi. A ogni percossa, la faccia di Levanà si contorceva e poi riassumeva immediatamente l'espressione precedente, e gli occhi erano spalancati per guardarlo, per scrutargli gli occhi, per scoprire la radice del male che forse si vedeva in essi.

Quando sfogò su di lei tutti i suoi colpi, Zion rimase ansimante a guardarla. Gli occhi di Levanà erano ancora fissi nei suoi, lo rimproveravano, duri, asciutti. Lui era sudato e respirava pesantemente per lo sforzo. «Vado a lavarmi le mani» disse «per togliere la sporcizia, per pulirmele da te».

Levanà distolse lo sguardo da lui e guardò Eli che, in piedi con le spalle rivolte alla finestra e gli occhi bassi, stava immobile e piangeva in silenzio, mordendosi le labbra per non farsi sentire.

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