Autore Andrea Kerbaker
Titolo Breve storia del libro
Sottotitolo(a modo mio)
EdizionePonte alle Grazie, Milano, 2014 , pag. 268, cop.fle., dim. 14x20,5x2,2 cm , Isbn 978-88-6833-065-1
LettoreMargherita Cena, 2015
Classe libri , storia letteraria , scrittura-lettura , collezionismo , biografie












 

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Indice


In principio era la scrittura
    Prima dei manoscritti                             7

Una pazienza da certosini
    Il tempo degli amanuensi                         22

Il primo libro non si scorda mai
    Johannes Gutenberg e la sua Bibbia               38

Deutschland Über Alles
    Incunaboli alla tedesca                          49

Italians Do It Better
    Manuzio e gli altri                              64

Visto, non si stampi
    Le mille miopie della censura                    80

Cent'anni di brutte abitudini
    Il Seicento, secolo barocco                      96

Sempre servo suo
    Le dediche a stampa e quelle autografe          108

Gli olandesi stampanti
    I Paesi Bassi del Seicento,
    piccola oasi di libertà                         119

Nel mezzo del cammin
    Il primo Settecento                             128

Conoscenze enciclopediche
    I libri dell'Illuminismo                        139

La grande bellezza
    Baskerville, Didot, Bodoni                      149

L'Italia s'è persa
    Breve intermezzo sulla prematura scomparsa
    di una delle nostre protagoniste                162

Le ali della libertà
    Nasce l'industria editoriale                    168

Il fascino discreto della borghesia
    Il grande romanzo dell'Ottocento                177

Vendere! E venderemo!
    La nascita del marketing e dei premi letterari  188

Tanti editori in cerca d'autore
    Le nuove sigle editoriali del Novecento         199

Un libro per tutti e per nessuno
    Grandissimi autori da pochissime copie          213

Opere su carta
    I libri d'artista                               224

Lotta di classe, più libri alle masse
    Il dopoguerra e l'editoria diffusa              234

Magnifiche sorti, e progressive
    Due parole a mo' di conclusione                 248


Breve (ma non troppo) bibliografia                  257


 

 

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Pagina 12

«Tanti sistemi di scrittura restano ancora indecifrabili (per quanto nella maggior parte dei casi siano stati decifrati), e pertanto silenziosi ai nostri occhi, a causa della nostra ignoranza: rune scandinave, ogham celtici, glifi maya, iscrizioni enigmatiche a Kahün nel Fayyum in Egitto, petroglifi e dipinti rupestri, sistemi di scrittura figurativi degli indiani del nord America, impronte di mani nelle grotte argentine, messaggi Yukaghir incisi su corteccia di betulle siberiane, geroglifici ittiti... Cosa dire poi dei sistemi di scrittura cuneiforme, cubica, fenicia, aramaica, accadica, ebraica, cretese, elamica, gujarati, narari... fino al Braille, sistemi che ci sfuggono e restano per sempre silenziosi?»

Aiuto! Sta parlando il critico d'arte Gilles de Bure, quindi neppure un esperto di scritture, e mi sono già perso.

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Pagina 15

Per arrivare alla forma del libro come lo intendiamo noi ci vogliono ancora parecchi secoli, e molte tappe. Occorre anzitutto passare attraverso l'invenzione dell'alfabeto. Come ci insegnano a scuola, si tratta di una trovata dei fenici; a leggerla così, abituati come siamo, rischia di parere una cosa tutto sommato naturale; invece, a ben pensarci, è un'intuizione decisamente geniale: passare dagli infiniti ideogrammi a una serie limitata di segni che, composti diversamente, possano riassumere tutta la realtà, è un'idea di straordinaria novità. E mi piace immaginare il primo ideatore guardato magari con compassione da tutti gli altri, che ritenevano comodissimo il sistema degli ideogrammi e non vedevano perché mettersi a studiare, con enorme fatica, una modalità alternativa.

Contemporaneamente all'invenzione dell'alfabeto, anche il mondo dei materiali permette un notevole progresso. Poco lontano dai fenici prende infatti a svilupparsi l'industria del papiro; il materiale giunge dall'Egitto, prodotto da piantagioni diffuse soprattutto nella valle del Nilo. Fin dall'inizio il suo utilizzo, favorito dai ceti sociali più in vista, è piuttosto ampio; in tutto il territorio egiziano, per iniziativa degli stessi faraoni, sorgono fabbriche che lo lavorano e si incaricano di distribuirlo, spesso dopo averlo spalmato con olio di cedro per una migliore conservazione. Delle diverse fasi di lavorazione ci è rimasta una descrizione piuttosto dettagliata nella Storia naturale di Plinio, che io qui risparmio per carità di patria. È più interessante sapere che di questa produzione gli egiziani erano anche abbastanza gelosi; è il principale motivo per cui nel II secolo avanti Cristo, nel tentativo di impedire a Pergamo di sviluppare una biblioteca troppo importante, Tolomeo smette di fornire il papiro alla città asiatica. I cittadini di Pergamo scoprono allora che si può scrivere anche su supporti derivati dalle pelli di capra o di pecora. Il nuovo materiale, che prende il nome dalla città, si chiamerà pergamena. Le dobbiamo essere davvero grati: molto più resistente del papiro all'usura del tempo, ci ha permesso la conservazione di centinaia di testi che altrimenti sarebbero andati irrimediabilmente perduti. In Cina, nel frattempo o poco più avanti, si inizia a sviluppare la produzione della carta, che però rimane confinata all'Estremo Oriente almeno fino all'inizio del secondo millennio.

Con alfabeto, papiro e pergamena si fa strada un nuovo modo di scrivere, simile al nostro. E anche il modello di conservazione dei libri diventa per certi versi un lontano parente di quello che abbiamo continuato a praticare fino all'avvento del computer. Delle vicende dell'inizio di questa avventura non conosciamo troppo; molto di più sappiamo invece del mondo del libro presso i romani, su cui ci sono pervenute parecchie testimonianze, anche se frammentarie.

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Pagina 19

Gradualmente, a partire dal primo secolo dopo Cristo, nel mondo romano il rotolo del volumen viene affiancato da una forma nuova, utilizzata dai cristiani. È il codex, che introduce il concetto di pagine stese. I fogli vengono infatti dapprima piegati, poi legati insieme, a costituire un quaderno con pagine diverse, cioè il primo antenato del libro vero e proprio. Il modello era già stato usato in precedenza, con tavolette di cera, ma soltanto per tenere insieme due o tre fogli; con i primi secoli dopo Cristo, í fogli aumentano, e i codices sono sempre più simili ai nostri libri. Anche se la forma stesa convive con quella arrotolata per qualche centinaio di anni, evidentemente il codex, infinitamente più comodo, finisce per prevalere; a partire dal III o IV secolo, dei rotoli rimarrà soltanto il nome, volumen.

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Pagina 52

In italiano, «incunabolo» è un termine sfortunatissimo, che sembra sempre una parolaccia: circostanza che impedisce ai professori di parlarne in classe senza che ogni volta non si sollevino tra i ragazzi risatine imbarazzate e irritanti. Peccato, perché la parola è stata plasmata dal latino con un'etimologia molto seria (incunabula erano le fasce delle culle per bambini) per indicare i libri a stampa pubblicati nel primissimo periodo, in quei cinque decenni scarsi che separano l'invenzione di Gutenberg dal 1500. Pochi anni, ma moltissimi libri: la tipografia è infatti una delle industrie mondiali di tutti i tempi che si sviluppa con maggiore rapidità. Nel giro di quel primo cinquantennio, la troviamo sparsa in quasi 300 città del continente (per la precisione, 271, secondo il più recente Incunabula Short Title Catalogue, uno straordinario indice elettronico di tutti gli incunaboli esistenti, redatto dai signori della British Library con britannico ordine e scrupolo). Nella gran parte dei casi, si tratta di imprese di dimensioni piuttosto modeste: le città che stampano più di 500 titoli, alla media di appena dieci all'anno, sono soltanto 14, di cui 5 in Germania (Augusta, Colonia, Lipsia, Norimberga e Strasburgo, allora tedesca), altrettante in Italia (Bologna, Firenze, Milano, Roma e Venezia), 2 in Francia (Lione, Parigi) con Basilea e Deventer a rappresentare rispettivamente Svizzera e Olanda. In totale, secondo l'elenco, i titoli stampati sono attorno ai 30.000. Se li moltiplichiamo per una tiratura media di 200 copie, significa che di colpo nel mondo occidentale circolano suppergiù 6 milioni di volumi: un fenomeno di dimensioni semplicemente eccezionali.

Alle radici di questa produttività ingente sta un'organizzazione del lavoro piuttosto efficiente: in tutte le officine si afferma infatti ben presto una chiara suddivisione dei mestieri, con attribuzioni abbastanza precise. Due tipi di addetti, punzonisti e fonditori, si occupano di quello che oggi definiremmo hardware: la preparazione dei caratteri. I primi, che in gran parte provengono dal mondo degli orafi, per la precisione richiesta al mestiere, incidono le matrici; i secondi le fondono. I caratteri, divisi per tipo e lettera, vengono poi collocati in grandi casse, da dove li selezionano i compositori, che, utilizzando una base chiamata ancora oggi compositoio, preparano le pagine per la stampa. A questo punto entra in scena chi si occupa della impressione fisica: quelli che mettono l'inchiostro sulle forme di stampa (i battitori), e i torcolieri, cioè chi stampa al torchio: [...]

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Pagina 69

Quella che conosciamo per certo è l'incredibile carica innovativa che Manuzio riesce a mettere nella manifattura di un libro. Se Gutenberg, da buon tedesco, aveva spostato la tipografia dall'ambito della bellezza a quello della tecnologia, Manuzio lo riporta nel campo dell'estetica. Come si diceva, è il ruolo di noi italiani; la locomotiva ha un bel pigiare gli stantuffi; alla fine il mondo intero chiede un ritorno alla bellezza.

Manuzio ottiene il risultato in pochissimi anni, introducendo innovazioni che coprono praticamente tutti gli aspetti del libro. Particolarmente memorabili quelle che riguardano la fattura fisica del prodotto. Da un lato, con le sue edizioni compare il frontespizio. Fino ad allora la prima pagina partiva subito con il testo, tutt'al più dopo una rapidissima indicazione di titolo e autore. Qualche frontespizio s'era già visto, qua e là, ma senza alcuna sistematicità. Con Manuzio si inaugura invece la tradizione di dedicare scientificamente la prima pagina al titolo dell'opera, dando adeguata evidenza all'autore, allo stampatore e all'anno di pubblicazione. Nel contempo, nell'ultima pagina si perfeziona il colophon, quello cioè che contiene le indicazioni tecniche sulla data in cui s'è finito di stampare. Impostazioni tanto perfette che ancora oggi, dopo cinquecento e passa anni, i libri si presentano in questo modo; e in questo lunghissimo periodo, in cui è stato messo in discussione quasi tutto, nessuno ha mai contestato quella primitiva idea di presentare il contenuto di un libro nelle sue pagine iniziali e finali.

La rivoluzione iniziata dalla prima pagina prosegue all'interno, dove il carattere utilizzato diviene qualcosa di totalmente nuovo. È il corsivo, introdotto in un'edizione di Virgilio del 1501. Un carattere ancora oggi attualissimo, che porta alto nel mondo il ruolo del nostro Paese, visto che è universalmente noto come italic. Ancora a 300 anni di distanza uno scrittore che se ne intende, Anatole France, tesserà le lodi di quel momento e delle sue invenzioni: «Non esistono tipi più belli di quelli usati tra il 1525 e il 1600. Le arti industriali, cioè le arti che erano mescolate alla vita, fiorivano allora in tutto lo splendore di un'espansione mai vista prima. Il bello era una cosa familiare e alla portata di tutti gli artigiani. L'operaio sapeva come dare una forma superba tanto allo stampo di una lettera che al cancello di un parco o al camino di un salone. Nel Rinascimento, il disegno di una maiuscola o delle lettere italiche, i contorni del & o del c, tutte le lettere interfacciate e tutte le doppie avevano una bellezza mai più ritrovata dopo».

A quelle estetiche si aggiunge un'ulteriore, straordinaria innovazione, che riguarda il formato: fino a quello scorcio di secolo, tutti i libri a stampa erano enormi, nel cosiddetto formato «in folio» (cioè con i grandi fogli piegati una sola volta, e quindi con pagine alte circa quaranta centimetri), o al massimo «in quarto» (con una piega in più, e pagine alte almeno una trentina di centimetri): volumi ponderosi, pesanti, che obbligavano il lettore a stare seduto lunghe ore per poter leggere senza soccombere al peso. Anche su questo aspetto fondamentale, Manuzio interviene con decisione, nella direzione di semplicità e snellezza. Piegando ulteriormente i fogli, i volumi possono ridurre le dimensioni a quelle che in gergo si chiamano «in ottavo» o «in dodicesimo», ancora oggi utilizzate da tutta l'industria editoriale; libri portatiles, come li battezza lui, da vero antesignano, che si possono portare con sé, e leggere in qualsiasi condizione. In pratica, per la prima volta nella storia è stato inventato il tascabile.

Per questa concentrazione di interventi su ogni aspetto fisico delle pubblicazioni, i libri di Manuzio sono da subito completamente differenti dagli altri; una riconoscibilità che l'editore veneziano pensa bene di riassumere con un segno grafico, evidente e forte: la celeberrima figura del delfino attorcigliato intorno a un'ancora, introdotta a partire da un libro del 1502, e da allora rimasta come sinonimo di perfezione di stampa, in tutto il mondo.

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Pagina 78

Insomma, tutto bene. Forse anche troppo, pensa qualcuno. Perché in questa messe di pubblicazioni, non sempre la qualità è di casa. Il letterato fiorentino Anton Francesco Doni, per esempio, un tipo senza peli sulla lingua, non la manda a dire: «Quei primi che scrissono, presono i passi, e in poco tempo abbracciarono ogni cosa. Coloro che son venuti di mano in mano, hanno letto quel che hanno armeggiato gli altri, e pigliando un boccon di stracciafoglio da uno e da un altro un'imbeccata di carta, ora infilzando sei parole e ora rappezzandone quattr'altre, facevano un libretto, per non dir libro o libraccio. Noi altri ci mettiamo finanzi una soma di libri, nei quali ci son dentro un diluvio di parole, e di quelle mescolanze ne facciam dell'altre, così di tanti libri ne caviamo uno. Chi vien dietro piglia quegli e questi fatti di nuovo e rimescolando parole con parole ne forma un altro anfanamento e ne fa un'opera. Così si volta questa ruota di parole, sotto e sopra mille e mille volte per ora: pur non s'esce dall'alfabeto, né del dire in quel modo e forma (e le medesime cose, mi farete dire!) che hanno detto tutti gli altri passati, e di qui a parecchi secoli si dirà quel che diciamo noi ancora».

L'invettiva, comprensibilissima, sta nell'introduzione al secondo trattato della sua Libraria, che si pubblica a Venezia alla metà del secolo. Un testo ironicamente dedicato a coloro che non leggono: «Deh, quanto siate voi felici più degli altri uomini voi che non sapete l'abc, e quanto più obligo avete voi alla sorte e ai padri vostri, che non vi fecero stentare a imparare a leggere!» Purtroppo, ben presto qualcuno ascolterà quest'invettiva; e forse allora anche il Doni avrà capito la ricchezza di poter leggere quello che si vuole, quando si vuole, come si vuole.

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Pagina 152

[...] Anzi, le collezioni: perché Giambattista Bodoni, di Saluzzo, è il terzo di tre eccezionali protagonisti della tipografia che accompagna l'Illuminismo e la Rivoluzione francese – un inglese, un francese e un italiano, accomunati da un fine ultimo estetico, ma quasi morale: fare della tipografia un'arte e non soltanto una tecnica.

Il primo dei tre, John Baskerville, è forse quello più conosciuto in campo letterario, anche se per merito non tutto suo. Il suo cognome è diventato infatti celeberrimo in due occasioni di cui è stato ispiratore. [...]

[...]

Molto diversa, e meno controversa, la storia di Firmin Didot, figlio d'arte. Era nato infatti a Parigi nel 1764 da una famiglia che già da una cinquantina d'anni era attiva nella stampa, in un'officina creata nel 1713 dal nonno François Didot. Come usava allora, í Didot erano tipografi, editori, e anche inventori di caratteri tipografici.

[...]

Tutti questi onori, e molti altri, Bodoni li raccoglie grazie alla straordinaria coerenza della sua opera, caratterizzata da un'attenzione assoluta all'aspetto estetico della stampa. Un lavoro lungimirante e costante, che il tipografo, dopo un periodo iniziale a Saluzzo e a Roma, esercita per oltre 40 anni a Parma, dove arriva nel 1768, a soli 28 anni, per dirigere la stamperia Ducale.

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