Copertina
Autore Imre Kertész
Titolo Essere senza destino
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2002 [1999], I Narratori , pag. 224, dim. 140x222x20 mm , Isbn 978-88-07-01561-8
OriginaleRoman eines schicksallosen (Sorstalansag)
EdizioneRowohlt, Berlin, 1975
TraduttoreBarbara Griffini
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe narrativa ungherese , biografie , shoah , storia criminale
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Pagina 5 [ [inizio libro] ]

Oggi non sono andato a scuola. O meglio, ci sono andato, ma solo per farmi esonerare dal nostro professore. Gli ho portato la lettera di mio padre, in cui richiede il mio esonero per "motivi familiari". Il professore ha chiesto quali fossero questi motivi familiari. Io gli ho risposto che mio padre è stato chiamato al periodo di lavoro obbligatorio; a quel punto lui non ha più fatto obiezioni.

Mi sono precipitato fuori, ma non diretto a casa, bensì alla nostra azienda. Mio padre aveva detto che mi avrebbero aspettato là. E aveva aggiunto di spicciarmi, perché forse ci sarebbe stato bisogno di me. A dire il vero mi ha fatto esonerare proprio per questo. O forse per "sapermi al suo fianco l'ultimo giorno", prima di "venire strappato via da casa": già, perché ha detto anche questo, seppure in un altro momento. Se ricordo bene, lo ha detto a mia madre il mattino quando le ha telefonato. Infatti è giovedì, e il giovedi e la domenica, a rigore, è a mia madre che spetta avermi il pomeriggio. Mio padre, però, le ha comunicato: "Quest'oggi non posso mandarti Gyurka", e lo ha poi motivato in quel modo. Ma forse mi sbaglio. Questa mattina ero piuttosto stanco a causa dell'allarme aereo nella notte e forse non ricordo bene. Ma sono certo che lo ha detto. Se non a mia madre, allora a qualcun altro.

Poi ho scambiato anch'io qualche parola con mia madre, a che proposito, non lo ricordo più. Credo anche che fosse un po' arrabbiata con me, perché con mio padre presente non potevo che essere stringato: in fin dei conti oggi è lui che devo seguire. E mentre stavo già per uscire, persino la mia matrigna mi ha rivolto qualche parola confidenziale, in corridoio, a quattr'occhi. Ha detto che sperava, in questo giorno così triste per tutti noi, di poter contare "su un mio comportamento conforme alle circostanze". Non sapevo cosa rispondere e così non ho detto niente. Ma forse lei ha interpretato male il mio silenzio, infatti ha subito aggiunto che non intendeva assolutamente offendermi con quel richiamo che - lo sapeva anche lei - tanto non era necessario. Non dubitava certo che io, da ragazzo ormai quasi quindicenne quale ero, sapessi valutare la gravità del tiro che ci giocava il destino, si è espressa proprio così. Io ho annuito. Non occorreva altro, come ho capito subito. Lei ha fatto ancora un gesto protendendo le mani verso di me, tanto che io già temevo che mi volesse abbracciare. Invece non l'ha fatto, ha solo sospirato a fondo, con un respiro lungo e fremente. Ho visto che le si sono anche inumiditi gli occhi. È stato spiacevole. Finalmente sono potuto uscire.

La strada da scuola fino alla nostra azienda l'ho fatta a passo di marcia. Era una mattina limpida e tiepida, per essere solo l'inizio della primavera. Avrei voluto slacciarmi il cappotto, ma poi ci ho ripensato: camminando controvento il revers poteva piegarsi coprendo la stella gialla, il che contravveniva alle disposizioni. In certe cose è bene che adesso io sia un po' più responsabile. Il nostro scantinato del legname è qui nelle vicinanze, in una via secondaria. Delle scale ripide conducono giù nella penombra. Ho incontrato mio padre e la mia matrigna in ufficio: una gabbia di vetro stretta, illuminata come un acquario, proprio sotto le scale. C'era anche il signor Sütó, che conosco da quando era un nostro dipendente, il contabile e l'amministratore dell'altro nostro magazzino, quello all'aperto, che nel frattempo lui ha acquistato da noi. Almeno questo è quello che raccontiamo. Infatti il signor Sütó, poiché nel suo caso tutto quadra perfettamente dal punto di vista della razza, non porta la stella gialla e, per quanto ne so io, tutta la faccenda è solo un trucco commerciale che fa si che lui badi a quella nostra proprietà e che noi -, ebbene che noi nel frattempo non si debba rinunciare completamente ai nostri introiti.

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Pagina 62

Il mattino dopo ci hanno fatto iniziare il viaggio molto presto. Sotto un bellissimo sole estivo, il treno è partito davanti al cancello, sul binario della ferrovia suburbana - era uno di quei treni merci con un sacco di vagoni color rosso mattone, chiusi sopra e sui lati. Su ciascuno dovevamo starci in sessanta, oltre al bagaglio e a quanto gli uomini con la fascia sul braccio ci avevano dato per il viaggio: una sfilza di grosse pagnotte e grandi scatole di carne - merce prelibata per tutti quelli che alloggiavano alla fabbrica di laterizi, dovevo ammetterlo. Ma già il giorno prima avevo notato l'attenzione e la premura con cui venivamo trattati tutti noi che eravamo in procinto di partire, quasi con una sorta di rispetto, e forse anche questa generosità voleva esserne in un certo senso espressione, almeno questo mi venne da pensare. C'erano anche i gendarmi, armati, burberi, abbottonati fino al mento, quasi dovessero scortare una merce preziosa senza azzardarsi a profanarla, sicuramente perché - immaginavo - c'era un'altra potenza sopra di loro: i tedeschi. A quel punto hanno chiuso gli sportelli scorrevoli alle nostre spalle, dall'esterno hanno dato dei colpi di martello, poi si sono sentiti dei segnali, dei fischi come quelli usati di solito per i treni, uno strattone: e siamo partiti. I ragazzi e io ci siamo messi comodi, nel primo terzo del vagone che avevamo occupato appena saliti vicino ad alcune feritoie situate molto in alto sui due lati, delle specie di finestrini che erano stati accuratamente bloccati con del filo spinato. Ben presto nel nostro vagone qualcuno sollevò l'interrogativo dell'acqua e quindi anche della durata del viaggio. Per il resto non posso dire molto del viaggio. Proprio come era accaduto al casello daziario e da ultimo alla fabbrica di laterizi, anche sul treno bisognava far passare il tempo. Naturalmente adesso era più difficile, non fosse altro che per le circostanze mutate. D'altra parte il pensiero e la certezza che ogni tratto di strada percorso, anche se faticosamente e con fracasso, ogni manovra e fermata ci avvicinavano alla meta ci aiutava a superare i problemi e le difficoltà. I ragazzi e io non perdemmo la pazienza. Rosi ci continuava a ripetere che il viaggio sarebbe durato soltanto fino al momento dell'arrivo. Il Mistoseta fu preso in giro per via di una fanciulla che - come ritenevano di sapere i ragazzi - era qui con i genitori e che lui aveva conosciuto ancora alla fabbrica; per lei Rosi scompariva spesso verso il centro del vagone, specialmente all'inizio del viaggio, e questo faceva molto chiacchierare i ragazzi. E c'era anche il Fumatore incallito: persino qui di tanto in tanto spuntava dalle sue tasche uno strano composto di briciole, dei brandelli di carta e a volte persino un fiammifero, sopra la cui fiamma lui chinava la faccia con l'avidità di un rapace, qualche volta persino di notte. Moskovics (dalla cui fronte si riversavano continuamente sopra gli occhiali, il naso tozzo, le labbra tumide ruscelli di sudore e di fuliggine - come del resto accadeva a tutti, ovviamente anche a me) fino al terzo giorno riuscì, come del resto tutti gli altri, a pronunciare ancora di tanto in tanto qualche parola allegra, un'osservazione divertente, e il Conciaio, seppure con la lingua impappinata, riusciva ancora a buttare lì qualche battuta, magari loffia. Non so come alcuni adulti fossero riusciti a scoprire che la meta del viaggio era un paese chiamato Waldsee, che letteralmente significa Lago del bosco: quando avevo sete, quando soffrivo il caldo, bastava la promessa contenuta in quel nome per darmi un sollievo immediato. A chi si lamentava per la mancanza di spazio veniva giustamente fatto notare che i prossimi a partire sarebbero stati in ottanta a vagone. E in fondo, a ben pensarci, mi era capitato di stare anche più stretto di così: per esempio nella stalla dei cavalli della gendarmeria, dove eravamo riusciti a risolvere il problema dello spazio solo dopo essere giunti all'accordo di stare tutti accovacciati a terra, con le gambe incrociate. Sul treno ero seduto molto più comodo. E quando ne avevo voglia potevo anche alzarmi in piedi e fare persino un paio di passi - per esempio fino al bugliolo, che era sistemato nell'angolo posteriore destro del vagone. Prima avevamo deciso di usarlo se possibile solo per la pipì. Ma col passare del tempo, molti di noi dovettero esperire che la legge della natura era più forte della nostra solenne promessa, dunque non ci rimase che agire di conseguenza, come facemmo noialtri ragazzi e gli uomini, e poi anche diverse donne, si può ben capire, è naturale.

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Pagina 68

Come prima cosa ho sentito le loro voci. Parlavano tedesco, o una lingua molto simile, e lo facevano tutti contemporaneamente, o almeno così sembrava. Da quello che capivo, volevano che scendessimo, solo che intanto si infilavano loro stessi dentro il vagone; per il momento, comunque, io non riuscivo a vedere niente. Ma già girava voce che le valigie e i pacchi dovessero rimanere sul treno. Più tardi - così fu dichiarato, tradotto e riferito di bocca in bocca - tutti avrebbero ovviamente riavuto le cose di loro proprietà, ma prima queste dovevano passare la disinfestazione e, quanto a noi, ci aspettava un bagno: in effetti, anch'io ritenevo che fosse proprio ora. Solo a quel punto le persone del posto si sono avvicinate nella bolgia generale e io sono riuscito a vederle. Sono rimasto piuttosto sorpreso, perché dopo tutto era la prima volta in vita mia che vedevo - così da vicino - dei veri detenuti, con le divise a righe, la testa rasata a zero, i berretti rotondi dei delinquenti. D'istinto sono indietreggiato, è comprensibile. Alcuni hanno risposto alle domande della gente, altri si sono guardati intorno nel vagone, altri ancora già scaricavano le nostre cose con la destrezza di veri facchini, e lo facevano con una strana solerzia volpina. Ciascuno aveva, come ho visto subito, il numero di matricola dei detenuti e un triangolo giallo sul petto, e benché non mi risultasse difficile indovinare il significato di quel colore, sono rimasto lo stesso sorpreso; nel corso del viaggio avevo quasi dimenticato tutta la questione. Anche le loro facce non ispiravano certo fiducia: orecchie a sventola, nasi sporgenti, occhi piccolissimi e incavati che guizzavano furbi. In effetti sembravano proprio degli ebrei, in tutti i sensi. Li trovavo loschi e nel complesso estranei. Quando si accorsero di noi ragazzi, li colse una grande agitazione, almeno così mi è sembrato. Tra loro cominciò un rapido e frenetico mormorio, e a quel punto feci una scoperta davvero sorprendente, ovvero che la lingua degli ebrei, evidentemente, non era solo l'ebraico, come avevo creduto fino a quel momento: "Reds di jiddisch, reds di jiddisch, reds di jiddiscb?" - così a poco a poco ho compreso la loro domanda. I ragazzi e io abbiamo risposto "Nein". Mi sono accorto che non erano molto contenti. Ma poi - partendo dal tedesco mi è stato facile capirlo - all'improvviso erano tutti molto curiosi di conoscere la nostra età. Abbiamo risposto: "Vierzehn, fünfzehn", "quattordici, quindici". Allora hanno subito protestato, con le mani, con la testa, con tutto quanto il corpo: "Seschzajn", "sedici" ci sussurravano da tutte le parti, "seschzajn". Non capivo, e allora ho subito chiesto a uno di loro: "Warum?", "perché?". "Willst di arbeiten?", "Vuoi lavorare?" mi ha chiesto di rimando puntandomi lo sguardo vagamente vacuo dei suoi occhi incavati e circondati da rughe dritto nei miei. Io ho detto: "Natürlich", dopotutto ero venuto per questo, a ben pensarci. A quel punto l'uomo non solo mi ha afferrato il braccio con la sua mano secca, ossuta e giallognola, ma me lo ha scrollato forte e ha detto: "Seschzajn... verschtajst di?... seschzajn...". Ho visto che era arrabbiato e per di più mi è sembrato che tenesse molto alla questione quindi, dopo essermi velocemente consultato con i ragazzi, ho accondisceso con un certo sollievo: va bene, allora ne ho sedici. Inoltre ci hanno messo in guardia: qualunque cosa ci venisse detta e a prescindere dalla realtà dei fatti, non dovevano esserci tra noi fratelli e in particolar modo - con mio grande stupore - gemelli; ma soprattutto: "Jeder arbeiten, nischt ka mide, nischt ka krenk" - questo sono venuto a sapere da loro durante quei due minuti, forse neanche, prima che dal mio posto, sospinto nella calca, raggiungessi la rampa del vagone, dove infine sono balzato fuori al sole e all'aria aperta.

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Pagina 95

Potrei addirittura giurarlo: sulla via di ritorno dalle latrine non ho parlato con nessuno di estraneo. Eppure è a quel preciso momento che posso far risalire l'esatta comprensione della situazione. Là di fronte, in quello stesso istante stavano bruciando i nostri compagni di viaggio del treno, tutti quelli che avevano voluto andare in automobile e tutti quelli che davanti al medico, per motivi di età o altro, si erano dimostrati inabili, esattamente come i bambini e insieme a loro le madri e quelle che lo sarebbero diventate in futuro, quelle dove già lo si vedeva, come fu esplicitamente dichiarato. Anche loro erano stati trasferiti dalla stazione ai bagni. Anche loro erano stati informati su appendiabiti, numeri, su quanto si sarebbe svolto nei bagni, esattamente come era successo a noi. E ci sarebbero stati anche i parrucchieri - così affermò qualcuno - e sarebbe stato dato loro anche il sapone. E poi pare che siano stati condotti nel locale delle docce dove, mi giunse voce, c'erano gli stessi tubi: solo che invece dell'acqua veniva fatto uscire del gas. Tutto questo non lo sono venuto a sapere in una volta, ma a poco a poco, con aggiunte di particolari sempre nuovi, alcuni dei quali venivano messi in discussione, altri invece venivano confermati e addirittura ulteriormente completati. Nel frattempo quella gente veniva trattata - come sentii dire - con molta gentilezza, veniva accudita amorevolmente, i bambini venivano fatti cantare e giocare a palla e il luogo dove venivano sterminati coi gas pare che fosse situato tra prati, boschetti e aiole di fiori: per questo alla fine avevo l'impressione che fosse una specie di burla, uno scherzo goliardico o qualcosa del genere. A questo ha contribuito, se ci penso bene, anche l'abilità con la quale, per esempio, mi hanno cacciato addosso dei panni non miei semplicemente grazie alla trovata del gancio e dei numeri segnati oppure, per fare un altro esempio, il modo come hanno spaventato chi ancora possedeva degli oggetti di valore con le radiografie che alla fine erano rimaste parole vuote. È ovvio - me ne rendevo conto - che tutto questo, considerato dall'altra parte, non era affatto una burla, perché del risultato - per dirla così - potevo convincermi con i miei stessi occhi, anzi, di più ancora con il mio stomaco in continuo subbuglio; tuttavia questa era la mia impressione e in fondo - almeno così immaginavo - non sarebbe potuta andare poi tanto diversamente. In fin dei conti anche qui probabilmente si erano seduti intorno a un tavolo, avevano complottato, anche se in questo caso non si era trattato propriamente di studenti, è ovvio, ma di uomini adulti e maturi, anzi forse, a ben pensarci, è probabile che fossero dei signori in abiti dignitosi, col sigaro in bocca, le onorificenze appuntate sul petto, sicuramente tutti comandanti che non volevano essere disturbati - così me lo immaginavo. A uno viene l'idea del gas: a quell'altro subito dopo viene in mente il bagno, il terzo pensa al sapone, il quarto aggiunge i fiori e avanti così. Su un paio di idee, forse, avevano discusso più a lungo per perfezionarle, altre invece le avevano accolte subito di buon grado, balzando in piedi (non so perché lo ritenessi importante, ma balzavano in piedi) e dandosi la mano - tutto questo lo si poteva immaginare in modo vivido, almeno per quanto mi riguarda. Le idee dei comandanti vengono poi realizzate grazie a tante mani solerti, allo zelo e all'operosità, e non poteva sussistere il benché minimo dubbio sulla riuscita dell'impresa, me ne rendevo conto. Dunque era sicuramente andata così all'anziana signora che alla stazione aveva ubbidito al figlio, e anche al bambino con le scarpe bianche e alla sua mamma bionda, a quella bella donna, al vecchio signore con il cappello nero e al malato di nervi che si era presentato davanti al medico.

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Buchenwald è situato in una zona collinosa, sul dorso di un'altura. L'aria è pura, l'occhio viene allietato da un paesaggio molto vario, dal bosco tutt'intorno e dai tetti di tegole rosse delle cascine giu nella valle. Qui i bagni si trovano sul lato sinistro. I detenuti sono in maggioranza cortesi, ma in un modo diverso rispetto ad Auschwitz. Dopo l'arrivo, anche qui ti aspettano bagno, barbiere, disinfettante e cambio dei vestiti. Le disposizioni sul guardaroba, del resto, sono esattamente le stesse di Auschwitz. Solo che qui l'acqua è più calda, i barbieri svolgono con maggior cura il loro lavoro e l'uomo che distribuisce gli indumenti cerca, fosse anche soltanto con un'occhiata veloce, di indovinare le tue misure. Dopo ti fanno entrare in un corridoio, ti fanno fermare davanti a una finestra scorrevole e ti chiedono se per caso hai qualche dente d'oro. Poi un tuo compatriota che vive qui già da tempo e che ha persino i capelli, scrive il tuo nome in un grande registro, ti consegna un triangolo giallo e un cencio largo, una striscia di stoffa, tutti e due di tela. In mezzo al triangolo, per riconoscere che dopo tutto sei un ungherese, c'è scritta una grande U e sulla striscia di tela c'è stampato un numero, sulla mia, per esempio, 64921. Sono venuto a sapere che è auspicabde imparare al più presto a pronunciare in modo chiaro e comprensibile questo numero, così: "Vierund-sechzig, neun, ein-und-zwanzig", perché d'ora in poi questa sarebbe sempre stata la mia risposta, ogni volta che qualcuno mi avesse chiesto chi fossi. Qui, però, il numero non ti viene scritto nella pelle, e se la cosa ti inquieta e per esempio al momento della doccia fai qualche domanda preoccupata, il vecchio detenuto protesta alzando le mani al cielo e con gli occhi rivolti al soffitto: "Aber Mensch, um Gottes willen, wir sind doch hier nicht in Auscbwitz!".

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L'importante è non lasciarsi andare: finché c'è vita c'è speranza - come mi ha insegnato Bandi Citrom che a sua volta aveva imparato questa saggezza al lavoro obbligatorio. La cosa più importante, in qualunque circostanza, è lavarsi (trogoli in file parallele con tubi di ferro forati, a cielo aperto, davanti dove il campo si affaccia sulla strada). Altrettanto importante è suddividere la razione con parsimonia - non sapendo se ne seguirà un'altra oppure no. Di pane - per quanto sia difficile rispettare questa regola che ci siamo imposti - ne deve avanzare un po' per la prima colazione del giorno successivo, anzi, un pezzo dovrebbe durare fino all'intervallo di pranzo grazie a un'incorruttibile padronanza dei nostri pensieri e soprattutto delle nostre mani che continuamente migrano verso la tasca della giacca: così e così soltanto possiamo evitare l'idea angosciante di non aver niente da mangiare. Che la pezza da piedi che fa parte del nostro guardaroba non sia un fazzoletto, come avevo erroneamente supposto; che durante l'appello o quando si marcia in colonna l'unico luogo sicuro è sempre soltanto il centro; che durante la distribuzione della minestra non si cerchi di stare davanti ma sempre dietro, perché solo alla fine attingono dal fondo del mastello e quindi dalla parte più densa; che si appiattisca con il martello una parte del manico del cucchiaio per farne uno strumento utilizzabile anche come coltello: tutto questo e molto di più ancora, un sacco di cose utili per l'esistenza del prigioniero, le ho apprese da Bandi Citrom, copiandolo e cercando di imitarlo il più possibile.

Perché io non lo avrei mai creduto, invece è un dato di fatto: non esiste luogo dove una condotta di vita ordinata, in un certo senso esemplare, direi addirittura virtuosa sia tanto importante quanto in prigionia. È sufficiente guardarsi intorno nella zona del Block I, dove alloggiano i vecchi del campo. Sul petto il triangolo giallo rivela l'essenziale, la "L" in esso contenuta aggiunge la circostanza che sono arrivati dalla lontana Lettonia, per essere precisi da Riga - come ho poi scoperto. Tra di loro incontri quegli strani esseri che all'inizio mi avevano persino un po' spaventato. A distanza sembrano tutti dei vegliardi, e con la testa incassata, il naso sporgente, la divisa che penzola sporca dalle spalle rattrappite, anche nei giorni più torridi dell'estate ricordano delle cornacchie infreddolite in inverno. Con ognuno dei loro passi rigidi, stentati, sembrano chiedere: ma vale ancora la pena di fare tutta questa fatica? Questi punti interrogativi viventi - per il loro aspetto esteriore, anzi, in un certo senso anche per il loro ingombro non potrei definirli diversamente - nel campo di concentramento vengono chiamati musulmani, come sono venuto a sapere. Bandi Citrom mi ha subito messo in guardia da loro: "Basta guardarli che ti passa la voglia di vivere", ha detto e in questo aveva ragione anche se col tempo sono poi giunto alla consapevolezza che: non basta, occorre ben altro ancora.

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Pagina 145

Ci possono essere casi, possono esistere circostanze che nessuna tecnica, a quanto sembra, sa rendere più difficili ancora. Posso dire che dopo tanta fatica, dopo innumerevoli tentativi e sforzi, col tempo ho trovato anch'io pace, tranquillità, distensione. Per esempio, determinate cose alle quali in precedenza avevo attribuito un'importanza enorme, addirittura incomprensibile, persero ai miei occhi tutto quanto il loro peso. Durante l'appello, per esempio, quando ero stanco di stare in piedi, non mi importava più che lì ci fosse del fango o una pozzanghera: semplicemente mi sedevo, mi accovacciavo e rimanevo così finché i miei vicini mi tiravano su con la forza. Gelo, umidità, vento o pioggia, niente mi disturbava più: non mi tangevano, nemmeno li avvertivo. Anche la fame mi passò; ancora portavo alla bocca qualunque cosa trovassi di commestibile ma lo facevo distrattamente, meccanicamente, per abitudine, per così dire. Durante il lavoro? - non badavo più nemmeno all'apparenza. Se non andava bene, al massimo mi picchiavano, tanto anche di questo non mi importava, anche così guadagnavo solo del tempo: fin dal primo colpo mi buttavo a terra e il resto neppure lo sentivo, perché già dormivo.

Una cosa soltanto si fece sentire sempre più forte dentro di me: la stizza. Se qualcuno mi capitava tra i piedi, anche se mi sfiorava appena la pelle quando marciando perdevo il ritmo (il che succedeva spesso) o da dietro mi pestava il calcagno, io avrei potuto ucciderlo senza esitare neppure un istante, così, su due piedi - se avessi potuto farlo, è ovvio, e se non avessi dimenticato quello che volevo fare prima ancora di aver sollevato la mano. Anche con Bandi Citrom di tanto in tanto mi capitò di litigare: mi rinfacciava di "lasciarmi andare", di essere un peso per la squadra, di mandare in rovina tutti quanti e che avrei finito con l'attaccargli anche la scabbia. Ma soprattutto pareva che per qualche motivo lo mettessi in imbarazzo, che in qualche modo lo disturbassi. Me ne accorsi quando una sera mi trascinò fino ai lavatoi. Mi dimenai e mi ribellai invano quando lui mi strappò con forza la divisa di dosso, cercai ancora invano di raggiungere con un pugno il suo corpo, la sua faccia, quando lui mi strofinò con l'acqua fredda la pelle intirizzita. Gli dissi cento volte che mi scocciava col suo modo di tenermi sotto tutela, che doveva lasciarmi in pace, che andasse a cagare. Allora mi chiese se volevo crepare in questo posto, non tornare mai più a casa e non so quale risposta possa aver letto sulla mia faccia, ma sulla sua io vidi tutt'a un tratto una specie di sgomento, di paura, quella stessa con cui generalmente si osservano gli sventurati che non hanno più speranza, i condannati oppure, diciamo, gli appestati: e allora mi tornò in mente come si era espresso, una volta, a proposito dei musulmani. In ogni caso da quel giorno notai che cercava di evitarmi e io, a mia volta, mi ero liberato anche di quel peso.

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