Copertina
Autore Stephen King
Titolo Cuori in Atlantide
EdizioneSperling & Kupfer, Milano, 2003 [2000], Superbestseller 936 , pag. 590, dim. 125x195x33 mm , Isbn 978-88-8274-521-9
OriginaleHearts in Atlantis [1999]
TraduttoreTullio Dobner
LettoreAngela Razzini, 2003
Classe fantasy
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Pagina 3

1
Un ragazzo e sua madre.
Il compleanno di Bobby.
Il nuovo inquilino.
Del tempo e degli sconosciuti.



Il padre di Bobby Garfield era stato uno di quelli che cominciano a perdere i capelli sui vent'anni e sono completamente calvi intorno ai quarantacinque. La morte per infarto a trentasei aveva risparmiato a Randall Garfield questo esito estremo. Era agente immobiliare e aveva esalato l'ultimo respiro sul pavimento di una cucina altrui. Quando era spirato il possibile acquirente era in soggiorno a cercare di chiamare un'ambulanza da un telefono scollegato. All'epoca Bobby aveva tre anni. Conservava ricordi vaghi di un uomo che gli faceva il solletico e lo baciava sulle guance e sulla fronte. Era più che sicuro che quell'uomo era suo padre. HA LASCIATO UN VUOTO COLMO DI TRISTEZZA, era scritto sulla lapide di Randall Garfield, ma sua madre non era poi così triste e quanto a Bobby... be', come si può rimpiangere una persona che non si riesce a ricordare?

Otto anni dopo la morte del padre, Bobby s'infiammò di violenta passione per la Schwinn nella vetrina della Western Auto di Harwich. Lanciò esche a sua madre sulla Schwinn in tutti i modi che sapeva, finché una sera, mentre rincasavano a piedi dal cinema (avevano visto Il buio in cima alle scale, che a Bobby, che pure non lo aveva capito, era piaciuto, specialmente la sequenza in cui Dorothy McGuire ricadeva all'indietro in una poltrona mettendo in mostra le lunghe gambe), gliel'aveva mostrata. Mentre passavano davanti al negozio, Bobby buttò lì che la bici in vetrina sarebbe stata di sicuro uno splendido regalo di undicesimo compleanno per qualche ragazzino fortunato.

«Non ci pensare neppure», rispose lei. «Non posso permettermi una bici per il tuo compleanno. Tuo padre non ci ha lasciati messi un granché bene, lo sai.»

Randall era già morto ai tempi della presidenza Truman e ora Eisenhower stava finendo il suo secondo mandato quadriennale, eppure «tuo padre non ci ha lasciati messi un granché bene» era ancora la risposta che comunemente otteneva da sua madre ogni volta che suggeriva iniziative che comportassero una spesa superiore al dollaro. Il commento era di solito accompagnato da uno sguardo di rimprovero, quasi che, più che morire, suo marito l'avesse piantata.

Niente bici per il suo compleanno. Così rifletteva malinconico Bobby tornando a casa e si dissolse in lui quasi del tutto il piacere per quello strano film confuso. Non discusse con sua madre, non cercò di blandirla, cosa che avrebbe istigato un contrattacco e, quando contrattaccava, Liz Garfield non faceva prigionieri; no, rimuginò sulla perduta bici... e il perduto padre. Certe volte arrivava quasi a odiarlo, suo padre. Certe volte a trattenerlo dall'arrivare a tanto era la sensazione, disancorata ma molto forte, che sua madre avrebbe voluto che lo odiasse. Raggiunto il Commonwealth Park, quando cominciarono a costeggiarlo - due isolati più avanti avrebbero svoltato a sinistra in Broad Street, dove abitavano - superò le sue solite apprensioni e le pose una domanda su Randall Garfield.

«Non ha lasciato niente, mamma? Proprio niente niente?» Una o due settimane prima aveva letto un giallo di Nancy Drew in cui l'eredità di un bambino povero era stata nascosta dietro un vecchio orologio in una villa abbandonata. Non che Bobby credesse che suo padre avesse accantonato in qualche nascondiglio monete d'oro o francobolli rari, ma se qualcosa c'era, forse potevano venderlo a Bridgeport. Per esempio a uno dei monte di pegni. Bobby non sapeva bene come funzionava il meccanismo degli oggetti dati in pegno, ma sapeva che aspetto avevano i negozi: erano quelli con le tre sfere d'oro appese davanti. Ed era sicuro che quei negozianti sarebbero stati lieti di dar loro una mano. Naturalmente era solo un sogno da ragazzo, però Carol Gerber, quella che abitava poco più avanti di lui, aveva una collezione intera di bambole che le aveva mandato dall'estero suo padre, che era nella Marina militare. Se i padri regalavano le cose, e questo era un fatto accertato, aveva ragione di credere che qualche volta i padri ne lasciassero.

Quando Bobby fece la sua domanda, stavano passando sotto uno dei lampioni posti lungo quel lato del Commonwealth Park e vide la bocca di sua madre cambiare come sempre accadeva quando s'avventurava a interrogarla sul padre scomparso. Era un cambiamento che gli ricordava una delle sue borsette: quando tirava i lacci, tutta la parte superiore si arricciava.

«Ti dirò che cosa ha lasciato», gli rispose sua madre mentre attaccavano Broad Street Hill. Bobby già rimpiangeva di averglielo chiesto, ma ormai era tardi. Se le davi il via, non c'era più modo di fermarla, ecco dove stava il problema. «Ha lasciato una polizza di assicurazione sulla vita scaduta un anno prima della sua morte. Io sono cascata dalle nuvole quando lui non c'era più e tutti, compreso l'impresario delle pompe funebri, sono venuti a chiedermi la loro piccola parte di qualcosa che io non avevo. Ha lasciato anché una pila così di fatture da pagare, che ho smaltito quasi completamente ormai. La gente è stata molto comprensiva con noi, specialmente il signor Biderman, e mai mi capiterà di affermare il contrario.»

Fin qui era tutta storia vecchia, tanto noiosa quanto era pervasa di acredine, ma a quel punto disse a Bobby qualcosa di nuovo. «Tuo padre», aggiunse mentre si avvicinavano alla casa situata alla metà circa di Broad Street Hill, «non ha mai incontrato una scala a incastro che non gli piacesse.»

«Che cos'è una scala a incastro, mamma?»

«Non ci pensare. Ma ti dirò una cosa, Bobby-O: che non mi succeda mai di sorprenderti a giocare a carte per soldi. Di questo ne ho avuto che mi basta e avanza per la vita intera.»

Bobby avrebbe voluto saperne di più, ma si guardò bene dal chiedere ancora; altre domande avrebbero dato la stura a una filippica. Ebbe il sospetto che il film, che trattava di mariti e mogli infelici, avesse rabbuiato il suo umore in qualche modo che a lui, che era solo un bambino, sfuggiva. Lunedì a scuola avrebbe chiesto della scala a incastro all'amico John Sullivan. Pensava che c'entrasse con il poker, ma non ne era del tutto certo.

«Ci sono posti a Bridgeport che si prendono i soldi degli uomini», disse lei quand'erano ormai vicini allo stabile nel quale abitavano. «Là ci vanno gli uomini stupidi. Gli uomini stupidi combinano pasticci e di solito tocca alle donne di questo mondo passare dopo a ripulire. La verità...»

Bobby sapeva che cosa stava per arrivare; era il ritornello preferito di sua madre.

«È che la vita non è giusta», finì Liz Garfield mentre estraeva la chiave e si preparava ad aprire la porta del 149 di Broad Street, Harwich, Connecticut. Era l'aprile 1960, la sera aveva il fiato profumato di primavera e accanto a lei c'era un ragazzino magro magro con i capelli rosso rischio del padre defunto. Lei non gli toccava quasi mai i capelli; le volte non frequenti in cui lo accarezzava, di solito erano il braccio o la guancia, che gli toccava.

«La vita non è giusta», ripeté. Aprì la porta ed entrarono.

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«Di' a tua madre che ormai i miei occhi si stancano molto facilmente. È la verità.» Come per dimostrarglielo, si portò la mano destra agli occhi e ne massaggiò gli angoli con pollice e indice. «Dille che vorrei che tu mi leggessi qualche articolo di giornale tutti i giorni e che per questo voglio pagarti un dollaro a settimana... un pezzo, come lo chiamerebbe il tuo amico Sully, vero?»

Bobby fece segno di sì con la testa... ma un dollaro a settimana per leggere su come andava Kennedy nelle primarie e se in giugno avrebbe vinto Floyd Patterson? Magari con finalino gustoso con Blondie e Dick Tracy? Ci avrebbero creduto forse sua madre e il signor Biderman giù alla Home Town, ma Bobby no.

Ted si stava ancora strofinando gli occhi; la sua mano si librava come un ragno sopra il suo naso affilato.

«Allora?» lo sollecitò Bobby. La sua voce risonò stranamente atona, come quella di sua madre quando le aveva promesso di riordinare camera sua e lei era andata a vedere alla fine della giornata e aveva scoperto che ancora non ne aveva fatto nulla. «Qual è il lavoro vero?»

«Voglio che tieni gli occhi aperti», rispose Ted.

«Per vedere che cosa?»

«Uomini bassi in soprabito giallo.» Ted si massaggiava ancora gli angoli degli occhi. Bobby avrebbe voluto che la smettesse, c'era qualcosa di inquietante in quel gesto. Sentiva qualcosa sul fondo, era quello il motivo per cui continuava a stropicciarseli e palparseli in quel modo? Qualcosa che pregiudicava la sua attenzione, interferiva con il corso normale e ben ordinato dei suoi pensieri?

«Ometti?» Era così che sua madre chiamava le grucce che usava per riporre i vestiti e Bobby s'immaginò un guardaroba di pastrani gialli.

Ted rise, una risata spontanea e solare che fece prendere coscienza a Bobby del suo grande disagio. «Non intendevo bassi di statura», precisò. «Uso 'basso' alla maniera di Dickens per intendere persone dall'aria alquanto stupida... e alquanto pericolosa. Il tipo di individui che troveresti a giocare a dadi nei vicoli, per esempio, a passarsi una bottiglia di liquore nascosto in un sacchetto di carta durante la partita. Il tipo di individui che si appoggiano a un palo del telefono e fischiano alle donne che passano dall'altra parte della strada mentre si puliscono il collo con fazzoletti che non sono mai veramente puliti. Individui che considerano eleganti i cappelli con la piuma nella fascia. Individui che danno l'impressione di avere tutte le risposte a tutte le domande più stupide della vita. Non mi sto spiegando molto bene, vero? C'è niente di quel che ho detto che evoca in te qualche ricordo, un'idea?»

Sì, c'era. Era un po' come sentir definire il vecchio imbroglione calvo: la sensazione che una certa parola o una frase fosse proprio quella giusta anche se non si era in grado di spiegarne il perché. Gli ricordava il signor Biderman e la sua peculiarità di sembrare sempre con la barba lunga anche quando aveva le guance ancora umide del suo dolciastro dopobarba; la certezza che sentivi guardandolo che quand'era solo in macchina si scaccolava il naso o passando per la via controllava la vaschetta della restituzione delle monete di tutti i telefoni senza nemmeno accorgersi di farlo.

«Ho capito», disse.

«Bene. Mai, dovessi vivere cento vite, ti chiederei di rivolgere la parola o anche solo avvicinarti a uomini come quelli. Vorrei chiederti però di starci attento, fare un giro dell'isolato tutti i giorni, Broad Street, Commonwealth Street, Colony Street, Asher Avenue, e di nuovo qui al 149... giusto per vedere quel che c'è da vedere.»

Un mosaico cominciava a comporsi nella mente di Bobby. Il giorno del suo compleanno, che era anche stato il primo giorno di Ted al 149, il nuovo inquilino gli aveva chiesto se conosceva tutti nella via, se avrebbe riconosciuto

(gente di passaggio facce di persone ignote)

degli sconosciuti, se si sarebbe accorto dell'arrivo di qualcuno da fuori. Nemmeno tre settimane più tardi Carol Gerber era saltata su con quell'idea che Ted fosse in fuga da qualcosa.

«Quanti ce ne sono?» chiese.

«Tre, cinque, forse di più ormai.» Ted alzò le spalle. «Li riconosci dal lungo soprabito giallo e dalla pelle olivastra... anche se quella pelle scura è solo un camuffamento.»

«Come... intendi come Man-Tan o qualcosa del genere?»

«Sì, immagino di sì. Se sono in macchina, li riconoscerai dalle loro automobili.»

«Che marca? Che modello?» Bobby si sentiva come Darren McGavin in Mike Hammer e si ammonì a non lasciarsi trasportare troppo dall'entusiasmo. Non era in TV. Ma l'emozione era grande lo stesso.

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Pagina 132

7
Al "Pocket".
Via la camicia.
Davanti al "William Penn".
La Ninfa francese.



A colpirlo subito fu l'odore di birra. Era congestionato, come se lì dentro si bevesse dai giorni in cui le piramidi erano ancora nella fase progettuale. Poi furono il suono di un televisore, non sintonizzato su Bandstand bensì su una delle varie soap opera del pomeriggio («Oh John, oh Marsha», le chiamava sua madre), e i rintocchi delle palle da biliardo. Solo dopo queste prime percezioni sensoriali, i suoi occhi diedero il loro contributo, perché avevano avuto bisogno di adeguarsi. Lì dentro la penombra era quasi tenebra.

Il locale si allungava a dismisura, vide Bobby. A destra c'era una porta ad arco oltre la quale si apriva uno stanzone che sembrava sconfinato. Quasi tutti i biliardi erano coperti, ma ce n'erano alcuni intorno ai quali, in brillanti oasi di luce, si aggiravano con movenze languide i giocatori, fermandosi di tanto in tanto per chinarsi e tirare. Altri uomini, quasi invisibili, sedevano ad assistere su alti scanni disposti lungo la parete. Uno si stava facendo lucidare le scarpe. Avrebbe potuto avere mille anni. Davanti a lui c'era un ampio locale pieno di biliardini Gottlieb: un miliardo di balbettanti lucine rosse e arancione creavano effetti cromatici da mal di pancia da un avviso a grandi lettere che ammoniva: SE MANDATE IN TILT LA STESSA MACCHINA DUE VOLTE SARETE INVITATI A USCIRE. Curvo sul Frontier Patrol, combatteva con foga un uomo che portava in testa lo stesso cappellozzo ispido del giovane di poco prima, evidente segno distintivo dei bulli in motocicletta di laggiù. Dalla sigaretta appesa al labbro inferiore il fumo gli saliva davanti alla faccia e oltre la radice dei capelli pettinati all'indietro. Teneva un giubbotto legato intorno alla vita con la fodera rovesciata all'infuori.

Il lato sinistro era occupato da un bar. Era da lì che giungevano il suono della TV e l'odore di birra. Tre uomini sedevano distanziati, tutti e tre affiancati da sgabelli vacanti, chini su bicchieri da pilsener. Non avevano niente dei gioviali bevitori di birra che si vedevano nelle pubblicità; a Bobby sembrarono le persone più sole al mondo. Si chiese come mai non cercavano almeno di star vicini per scambiare qualche parola.

A pochi passi dall'ingresso c'era una scrivania. Dalla porta dietro di essa uscì un ciccione e per un momento Bobby sentì sommesso il suono di una radio. Il ciccione aveva un sigaro in bocca e indossava una camicia piena di palme. Schioccava le dita come quello che ci sapeva fare con il suo astuccio da stecca e sottovoce canticchiava: «Choo-choo-chow, choo-choo-ka-chowchow, choo-choo-chow-chowl» Bobby riconobbe il brano: era Tequila dei Camps.

«Chi sei?» chiese il ciccione a Ted. «Non ti conosco. E lui non può entrare comunque. Non sai leggere?» Agitò un pollice grasso e con l'unghia nera in direzione di un avviso sulla scrivania: VENTUN ANNI O FUORI!

«Tu non conosci me, ma credo che conosci Jimmy Girardi», replicò in tono cordiale Ted. «Mi ha detto che tu sei l'uomo a cui mi devo rivolgere... se sei Len Files, s'intende.»

«Sono Len», confermò l'altro. A un tratto i suoi modi si fecero considerevolmente più amichevoli. Tese una mano bianca e carnosa che ricordò a Bobby i guanti indossati da Topolino, Paperino e Pippo. «Ah, tu conosci Jimmy Gee! Quella vecchia canaglia di Jimmy! Suo nonno è giusto di là a farsi una lustrata. Gli piace avere le scarpe belle lucide di questi tempi.» Ted sorrise e gli strinse la mano.

«Quello è il tuo ragazzo?» chiese Len Files, sporgendosi da dietro la scrivania per guardare meglio Bobby. Bobby sentì nel suo alito odore di mentine Sen-Sen e di sigari, odore di traspirazione sul suo corpo. Aveva il colletto della camicia cosparso di forfora.

«È un amico», rispose Ted e Bobby temette di esplodere per la felicità. «Non voglio lasciarlo in strada.»

«Capisco, a meno che ti vada di pagare per averlo indietro», commentò Len Files. «Mi ricordi qualcuno, ragazzo. Chi potrebbe essere?»

Bobby scosse la testa, un po' spaventato all'idea di somigliare a qualcuno del giro di conoscenze di Len Files.

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Eppure, mentre si mescolavano e distribuivano le carte, sempre più ci si trovava a discutere non di film o ragazze o lezioni, sempre più ci si trovava a discutere di Vietnam. A dispetto di quanto buone fossero le notizie o di quanto gravi le perdite vietcong, sembrava non potesse mancare mai almeno una fotografia di americani morti e feriti dopo un'imboscata o di bambini vietnamiti in lacrime davanti ai resti fumanti del loro villaggio. C'era sempre qualche angosciante dettaglio infilato nelle ultime righe di quella che Skip aveva battezzato «la colonna quotidiana degli ammazzamenti», come la notizia della strage di bambini quando affondammo le lance vietcong nel Delta.

Nate naturalmente non giocava a carte. Non dibatteva nemmeno i pro e i contro della guerra; dubito che sapesse che il Vietnam era stato un tempo sotto i francesi o che fine avevano fatto i monsieur tanto sfortunati da trovarsi nella città fortificata di Dien Bien Phu nel 1954, meno che mai chi poteva aver deciso che era ora che il presidente Diem assurgesse alla grande risaia celeste in maniera da lasciare libero il campo a Nguyen Cao Ky e ai suoi generali. Nate sapeva solo che lui non aveva nessuna vertenza in corso con quei vietcong, che non sarebbero sbarcati a Mars Hill o a Presque Isle nell'immediato futuro.

«Hai mai sentito parlare della teoria del domino, bamba?» chiese un pomeriggio a Nate una polemica matricola formato mignon di nome Nicholas Prouty. Da tempo ormai il mio compagno di stanza non frequentava più il salotto del terzo piano, preferendo l'atmosfera più tranquilla del piano sottostante, ma quel giorno era passato da noi a trattenersi qualche minuto.

Guardò Nick Prouty, il figlio di un pescatore di aragoste divenuto discepolo devoto di Ronnie Malenfant, e sospirò. «Quando spunta il domino, io mi congedo. Credo che sia un gioco noioso. Questa è la mia teoria del domino.» Mi scoccò un'occhiata. Io distolsi gli occhi il più in fretta possibile, ma non in tempo per evitare il messaggio: Che diavolo vi ha preso? Poi se ne andò nelle sue pantofole pelose verso la stanza 302 dove rimettersi a studiare, riprendere, in altre parole, la sua rotta designata da medicina generale a odontoiatria.

«Riley, il tuo socio è fottuto nel cervello, lo sai?» commentò Ronnie. Aveva una sigaretta infilata nell'angolo della bocca. Ora strofinò un fiammifero con una mano sola, una sua specialità (gli studenti troppo brutti e abrasivi da agganciare ragazze sviluppavano ogni sorta di specialità), e se l'accese.

No, amico mio, pensai. Nate sta benissimo. Siamo noi che siamo fottuti nel cervello. Per un momento provai disperazione autentica. In quel momento mi resi conto di essere finito in un terribile pasticcio e di non avere la più pallida idea di come venirne fuori. Sentivo gli occhi di Skip su di me e pensai che se avessi raccolto le carte, le avessi scagliate in faccia a Ronnie e l'avessi piantato in asso così, Skip mi avrebbe sostenuto. Probabilmente con sollievo. Poi la sensazione passò. Passò rapida com'era arrivata.

«Nate sta bene», disse a voce alta. «Ha solo qualche idea strana.»

«Qualche strana idea comunista», sottolineò Hugh Brennan. Aveva un fratello maggiore nella Marina e le ultime notizie di lui gli erano arrivate dal Mar della Cina meridionale. A Hugh i pacifisti stavano sul gozzo. Come Repubblicano sostenitore di Goldwater avrei dovuto condividere i suoi sentimenti, ma il tarlo di Nate aveva cominciato a scavare dentro di me. Avevo un assortimento di concetti in scatola, ma nessuna vera argomentazione in favore della guerra... né il tempo di svilupparne una. Ero troppo occupato a studiare la mia sociologia, figuriamoci se potevo mettermi ad analizzare i risvolti della politica estera statunitense.

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