Copertina
Autore Stephen King
Titolo Mucchio d'ossa
SottotitoloUna storia d'amore maledetta
EdizioneSperling & Kupfer, Milano, 2001 [1999], Paperback 824 , pag. 610, dim. 124x195x36 mm , Isbn 978-88-8174-217-2
OriginaleBag of Bones [1998]
TraduttoreTullio Dobner
LettoreAngela Razzini, 2001
Classe fantasy
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Pagina 1

In un giorno caldissimo dell'agosto 1994, mia moglie mi disse che scendeva al Rite Aid di Derry a prendere una ricarica per il suo inalatore perché la sua era esaurita; un farmaco prescrittole dal medico, che credo oggigiorno si venda senza ricetta. Io per quella giornata avevo finito di scrivere e mi offrii di assumermi l'incombenza. Lei mi ringraziò, ma voleva comperare del pesce al supermercato li accanto; due piccioni con una fava e compagnia bella. Mi soffiò un bacio dal palmo della mano e usci. La rividi in TV. È cosi che si identificano i morti qui a Derry, non si percorre un corridoio sotterraneo di piastrelle verdi sotto lunghi tubi fluorescenti, non ti tirano fuori un cadavere nudo da una cella frigorifera. Si entra in un ufficio con la scritta PRIVATO, si guarda uno schermo TV e si dice si o no.

Il Rite Aid e lo Shopwell sono a meno di un miglio da casa nostra, in un piccolo centro commerciale che annovera anche una vendita e noleggio di videocassette, una rivendita di libri usati che si chiama Spread It Around (dove i miei vecchi paperback alimentano un vivace giro d'affari), un Radio Shack e un Fast-Foto. È in Up-Mile Hill, all'incrocio di Witcham e Jackson.

Aveva parcheggiato davanti al Blockbuster Video, era entrata nel drugstore e aveva presentato la sua prescrizione a Joe Wyzer, il farmacista di allora; ora lavora al Rite Aid di Bangor. All'uscita aveva preso uno di quei cioccolatini ripieni di marshmallow, il suo era a forma di topolino. Io lo trovai più tardi nella sua borsetta. Tolsi la carta e lo mangiai io, seduto al tavolo della cucina con il contenuto della sua borsetta rossa sparso davanti a me e fu come fare la Comunione. Quando alla fine mi rimase solo il retrogusto di cioccolato sulla lingua e in gola, scoppiai in lacrime. Seduto in mezzo ai suoi Kleenex e cosmetici e chiavi e avanzi di Cert piansi con le mani sopra gli occhi, come piange un bambino.

L'inalatore era in un sacchetto del Rite Aid. Era costato dodici dollari e diciotto centesimi. Nel sacchetto c'era anche qualcos'altro, un articolo costato ventidue e cinquanta. Contemplai a lungo quell'altro oggetto, vedendolo senza capirlo. Ero sorpreso, forse persino sconcertato, ma l'idea che Johanna Arlen Noonan potesse aver avuto una seconda vita, una di cui non sapevo nulla, non mi passò mai per la mente. Non in quel momento.


Jo era uscita di nuovo nel sole forte e martellante, scambiando gli occhiali a lenti chiare con quelli da sole, e nel momento in cui emergeva da sotto la tenda davanti al drugstore (qui sto lavorando un po' di fantasia, suppongo, sto sconfinando un po' nel territorio del romanziere, ma non molto, solo qualche centimetro, se volete fidarvi di me), c'era stato quello stridio bisbetico di ruote bloccate sull'asfalto che significa che se non ci sarà un incidente, ci sarà mancato poco.

Quella volta c'era stato, il tipo di incidenti che a quanto pare, a quello stupido incrocio a forma di X, si ripetevano almeno una volta alla settimana. Dal parcheggio del centro commerciale stava uscendo una Toyota del 1989 che svoltava a sinistra in Jackson Street. Al volante c'era la signora Esther Easterling di Barrett's Orchards. Era accompagnata dall'amica, signora Irene Deorsey, anche lei di Barrett's Orchard, che era stata al negozio di video-cassette dove non aveva trovato niente che avesse voglia di noleggiare. Troppa violenza, aveva protestato Irene. Erano entrambe vedove di fumatori.

Come aveva fatto Esther a non vedere il camion arancione della manutenzione stradale che stava sopraggiungendo in quel momento? Lei negò in effetti di averlo visto alla polizia, ai giornali e anche a me, quando le parlai un paio di mesi più tardi. Credo che si fosse solo dimenticata di guardare. Come diceva mia madre (altra vedova di fumatore): «I due guai più comuni della terza età sono l'artrite e la smemoratezza. Per entrambe i vecchi non hanno colpa».

Alla guida del camion c'era William Fraker, di Old Cape. Il giorno in cui mori mia moglie il signor Fraker aveva trentotto anni e guidava a torso nudo pensando a quanto maledettamente desiderava una doccia fredda e una birra dal frigorifero, non necessariamente in quell'ordine. Con altri tre operai aveva passato otto ore a stendere rappezzi d'asfalto sulla Harris Avenue Extension vicino all'aeroporto, un lavoraccio da finire arrostiti in una giornata calda come quella, e Bill Fraker avrebbe detto che si, forse veniva giù un po' allegro, mettiamo intorno ai settanta all'ora in una zona dove il limite era di cinquanta. Aveva fretta di tornare, alla rimessa, mollare il camion e sedersi al volante della sua F-150, munita di condizionatore. E poi i freni del camion, sebbene in condizioni da passare l'ispezione, erano tutt'altro che in buono stato. Fraker li aveva azionati nel momento in cui aveva visto la Toyota sbucargli davanti (aveva anche suonato il clacson), ma era tardi. Aveva sentito stridere i copertoni, quelli del suo camion e anche quelli di Esther che si accorgeva finalmente del pericolo, e per non più di un istante l'aveva vista in faccia.

«Quella è stata la cosa peggiore, in un certo senso», mi confidò. Eravamo a casa sua, seduti in veranda a bere birra, ottobre ormai, e anche se il sole ci intiepidiva la faccia, indossavamo entrambi il maglione. «Sa come sono alte le cabine di quei camion, no?»

Annuii.

«Ebbene lei mi stava guardando, aveva alzato la testa, quasi a storcersi il collo, sembrava, con il sole in pieno sulla faccia. Allora ho visto quant'era vecchia. Mi ricordo di aver pensato: 'Merda secca, se non riesco a fermarmi questa si sbriciola come un pezzo di vetro'. Invece certi vecchi sono indistruttibili, da lasciarti a bocca aperta. Dico, ha visto anche lei com'è andata a finire, con quelle due nonnine ancora vive, mentre sua moglie...»

Lì si interruppe e una vampata gli colorò le guance, facendolo somigliare a un ragazzo deriso a scuola dalle compagne che si sono accorte che ha la patta aperta. Era comico, ma se io avessi sorriso sarei riuscito solo a confonderlo.

«Signor Noonan, mi scusi. La mia lingua se n'è andata un po' per i fatti suoi.»

«Non fa niente», risposi. «Il peggio è comunque passato.» Era una bugia, ma ci servì per tornare in carreggiata.

«Fatto sta che ci siamo presi», disse lui. «C'è stato un bel cozzo e poi quel rumore di cartoccio del lato del guidatore in cui ero entrato con il camion. E vetri infranti. Io sono andato a sbattere contro il volante cosi forte che per una settimana o più non ho potuto respirare senza sentire dolore. E mi è venuto un grosso livido proprio qui.» Si disegnò un arco sul petto appena sotto le clavicole. «Ho picchiato la testa sul parabrezza da farci una crepa, e mi è venuto solo un bernoccolino da niente, una macchiolina scura, niente sangue, nemmeno mal di testa. Mia moglie dice che è perché ho il cranio duro di natura. Ho visto quella donna che guidava la Toyota, la signora Easterling, incastrata fra il cambio e i due sedili davanti. Poi finalmente ci siamo fermati, tutti aggrovigliati insieme in mezzo alla strada, e sono sceso per vedere com'erano ridotte. Guardi, ero sicuro di trovarle morte tutt'e due.»

Non erano morte, né una né l'altra, nemmeno svenute, sebbene la signora Easterling avesse tre costole fratturate e un'anca lussata. La signora Deorsey, che sedeva dall'altra parte, aveva subito un lieve trauma cranico per aver urtato il finestrino con la fronte. Nient'altro. Era stata «medicata e dimessa dall'Home Hospital», secondo la formula di rito del Derry News in questi casi.

Mia moglie, fu Johanna Arlen di Malden, Massachusetts, aveva visto tutto dal punto in cui si era fermata, davanti al drugstore, con la borsetta appesa alla spalla e il sacchetto con il suo medicinale in una mano. Come Bill Fraker, doveva aver pensato che le donne della Toyota fossero o morte, o gravemente ferite. Il rumore dell'incidente era stato un autorevole schianto che aveva bucato la calda aria pomeridiana come una palla di bowling lanciata sui birilli. L'aveva ornato come un ispido pizzo il crepitare dei vetri che andavano in frantumi. I due veicoli si erano incastrati con violenza l'uno nell'altro nel mezzo di Jackson Street, dove l'arancione incatramato dell'autocarro incombeva sul celeste della vetturina d'importazione come un genitore dispotico su un figlio intimidito.

Johanna era corsa verso la strada attraversando il parcheggio. Altri intorno a lei facevano lo stesso. Tra loro, la signorina Jill Dunbarry stava contemplando gli articoli esposti nella vetrina della Radio Shack al momento dello scontro. Disse che le sembrava di ricordare di essere passata di corsa accanto a Johanna; era più che sicura di ricordare una persona in pantaloni gialli, ma non avrebbe giurato sulle circostanze precise. Frattanto la Easterling aveva cominciato a strillare che si era fatta male, che si erano fatte male tutt'e due, sollecitava aiuto per sé e per l'amica Irene.

Nel mezzo del piazzale, vicino a un piccolo grappolo di distributori di giornali, mia moglie era caduta. La cinghia della borsetta non le era scivolata via dalla spalla, ma il sacchetto del farmacista le era sfuggito di mano e l'inalatore ne era rotolato fuori per metà. L'altro oggetto era rimasto al suo posto.

Nessuno l'aveva notata, là per terra vicino alle teche; erano tutti concentrati sui veicoli aggrovigliati, le donne che urlavano, la pozza sempre più grande di acqua e antigelo che filtrava dal radiatore sfondato del camion municipale. («È benzina!» gridava a tutti e a nessuno il commesso del Fast-Foto. «È benzina, attenti che non salti tutto in aria, ragazzi!») Posso pensare che uno o due dei soccorritori l'avessero addirittura superata con un salto, credendo forse che avesse perso i sensi, un'ipotesi più che giustificabile in un caldo che superava abbondantemente i trenta gradi.

Erano accorse sul luogo dell'incidente alcune delle persone che si trovavano al centro commerciale, una ventina circa; altre quaranta o giù di lì erano sopraggiunte dallo Strawford Park, dov'era in corso una partita di baseball. Immagino che si siano dette tutte le cose che ci si può aspettare di udire in situazioni del genere, spesso dette e ripetute. Tutti a guardare senza sapere che cosa fare. Qualcuno che toccava la vecchia mano tremante di Estber attraverso l'apertura deformata del finestrino. Tutti a lasciare immediatamente il passo a Joe Wyzer: in momenti come quelli chiunque indossi un camice bianco diventa automaticamente primattore. In lontananza il guaito della sirena di un'ambulanza ad alzarsi come aria tremula sopra un inceneritore.

Nel corso di tutto questo, ignorata dai presenti, sull'asfalto del piazzale di parcheggio c'era mia moglie con la borsetta ancora a tracolla (dentro, ancora avvolto nella carta stagnola, il topolino di cioccolato ripieno di marshmallow, intatto) e il sacchetto di carta bianca della farmacia poco distante dalla mano protesa. A scorgerla era stato Joe Wyzer, che tornava di gran carriera in negozio a prendere una compressa di garza per la testa di Irene Deorsey. L'aveva riconosciuta sebbene fosse bocconi. L'aveva riconosciuta dai capelli rossi, la camicetta bianca, i calzoni gialli. L'aveva riconosciuta perché l'aveva servita non più di un quarto d'ora prima.

«Signora Noonan?» l'aveva chiamata dimenticandosi completamente della compressa per la stordita ma apparentemente non troppo malconcia Irene Deorsey. «Signora Noonan, si sente bene?» Già sapendo (o così sospetto io; forse mi sbaglio) che bene non si sentiva affatto.

L'aveva voltata. Aveva dovuto farlo con entrambe le mani e anche così aveva dovuto faticare parecchio, inginocchiandosi e spingendo e sollevando, in quel piazzale dove la calura scendeva cocente dall'alto e rimbalzava dal basso. I morti mettono su peso, mi sembra; nelle proprie carni e nella nostra mente, mettono su peso.

Aveva segni rossi sul volto. Quando andai a identificarla glieli vidi con chiarezza persino nel monitor. Quand'ero sul punto di domandare all'assistente patologo che cos'erano, capii. Fine luglio, pavimentazione bollente, elementare, caro Watson. Mia moglie era morta per un colpo di sole.

Wyzer si era rialzato, aveva visto arrivare l'ambulanza e le era corso incontro. Si era aperto un varco nella folla e aveva afferrato uno dei lettighieri nel momento in cui smontava. «C'è una donna laggiù», gli aveva detto indicando il parcheggio.

«E qui ne abbiamo due e anche un uomo», aveva risposto il portalettiga. Aveva cercato di liberarsi, ma Wyzer lo aveva trattenuto.

«Li lasci perdere per ora», aveva insistito. «Quelli stanno tutti abbastanza bene. La donna laggiù no.»

La donna laggiù era morta e io sono certo che Joe Wyzer lo sapesse... ma aveva un'idea precisa delle sue priorità. Concediamoglielo. Ed era stato abbastanza convincente da staccare entrambi i barellieri dal groviglio del camion e della Toyota a dispetto delle grida di dolore di Esther Easterling e dei brontolii di protesta del coro greco.

Giunti da mia moglie, uno dei lettighieri aveva subito confermato ciò che Joe Wyzer aveva già intuito. «Dio santo», aveva esclamato l'altro. «Che le è successo?»

«Il cuore, con tutta probabilità», diagnosticò il primo. «Si è fatta prendere dall'emozione e c'è rimasta.»

Ma non era stato il cuore. L'autopsia avrebbe rivelato un aneurisma cerebrale con il quale aveva forse convissuto senza saperne niente forse da più di cinque anni. Quando si era messa a correre verso l'incidente, quel vaso sanguigno più debole nella sua corteccia cerebrale era scoppiato come una gomma, inondando di sangue i suoi centri di controllo e uccidendola. Probabilmente la morte non era stata istantanea, mi disse l'assistente patologo, ma era stata lo stesso abbastanza rapida... e non aveva sofferto. Solo una grande nova nera che le aveva spazzato via tutte le sensazioni e i pensieri prima che toccasse terra.

«Posso aiutarla in qualche modo, signor Noonan?» mi chiese l'assistente distogliendomi con dolcezza dal volto immobile e dagli occhi chiusi che riempivano il monitor. «Ha qualche domanda? Se appena posso, sono qui per rispondere.»

«Solo una», dissi. Gli spiegai che cosa aveva acquistato mia moglie al drugstore poco prima di morire. Poi gli rivolsi la mia domanda.

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