Copertina
Autore Stephen King
CoautoreJohn Farris
Titolo Le voci delle cose - La donna del faro
EdizioneSonzogno, Milano, 2006, Deviazioni , pag. 252, cop.ril.sov., dim. 14x22,4x2,4 cm , Isbn 978-88-454-1365-0
OriginaleThe Thing They Left Behind - The Ransome Women [2005]
TraduttoreNicoletta Lamberti
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe gialli , thriller
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

STEPHEN KING


LE VOCI DELLE COSE



Le cose di cui voglio parlarvi – le cose che loro si lasciarono dietro – spuntarono nel mio appartamento l'agosto del 2002. Ne sono sicuro, perché ne scoprii la maggior parte poco dopo aver aiutato Paula Robeson con il suo condizionatore. La memoria ha sempre bisogno di un aggancio, ed ecco il mio. Lei era un'illustratrice di libri per ragazzi, graziosa (d'accordo, decisamente carina), sposata con uno che lavorava nell'import-export. Un uomo non deve faticare molto per ricordarsi di quando ha soccorso una leggiadra donzella in difficoltà (anche una che continua ad assicurare di essere "sposatissima"). Simili occasioni sono sempre troppo poche, e in genere il prode cavaliere è solo d'impaccio.

Paula era nell'androne, distrutta, proprio mentre scendevo per la passeggiata pomeridiana. La salutai, Ehi, buona giornata, come con gli altri inquilini del palazzo, e lei mi chiese con un tono esasperato e quasi gemebondo perché l'amministratore del condominio doveva essere in vacanza proprio in quel momento. Le feci notare che gli amministratori vanno in ferie così come le mandriane hanno i pollici enormi; quell'agosto, poi, sembrava un momento perfetto per tagliare la corda. In agosto a New York (e anche à Paris, mon ami), gli psichiatri, gli artisti alla moda e gli amministratori di condominio si contano sulle dita di una mano.

Non sorrise. Probabilmente non colse neanche la citazione da Tom Robbins (l'essere criptici è la vera maledizione di noi lettori accaniti). Rispose che poteva anche essere vera la faccenda di agosto, di piantare tutto per Cape Cod o Fire Island, ma il suo fottuto appartamento stava prendendo fuoco e il suo fottuto condizionatore non si sprecava neppure a emettere un ruttino. Le chiesi se voleva che ci dessi uno sguardo, e ricordo ancora come mi squadrò, con i suoi occhi freddi e indagatori. Occhi così probabilmente ne vedono di cose, pensai. E ricordo che sorrisi alla sua domanda: sei un tipo a posto? Mi fece tornare in mente un film, non Lolita (Lolita venne dopo, circa alle due del mattino), ma quello dove Lawrence Olivier si improvvisa dentista con Dustin Hoffman mentre continua a chiedergli Tutto a posto?

Certo, risposi. E almeno da un anno che non molesto una donna. Prima mi capitava due o tre volte la settimana, ma la terapia di gruppo mi sta aiutando.

Una stupidaggine, ma mi sentivo stupido. Mi sentivo in vacanza. Mi squadrò una seconda volta e poi fu il suo turno di sorridere. Si presentò. Paula Robeson. Mi porse la mano sinistra, con l'anello d'oro in evidenza; non la destra, come di solito. Non si trattò di un caso, che dite? Solo in seguito mi informò che il marito lavorava nell'import-export. Quando toccò a me chiederle assistenza.

In ascensore le dissi di non aspettarsi troppo. Però, se mai avesse avuto bisogno di qualcuno che le spiegasse le cause scatenanti delle rivolte della leva di New York o qualche divertente aneddoto sull'antivaiolosa, o che addirittura sviscerasse le implicazioni sociologiche del telecomando (la più grande invenzione dell'ultimo mezzo secolo, secondo la mia modestissima opinione), be', allora avrei potuto esserle davvero d'aiuto.

Si occupa di ricerche, signor Staley?, chiese dentro quel trabiccolo lento e sferragliante che ci portava in alto.

Ammisi di sì, senza aggiungere che era un lavoro nuovo per me. Non la pregai nemmeno di chiamarmi Scott: sarebbe solo servito a spaventarla di nuovo. E certamente non le confessai che stavo cercando di scordare ogni singola nozione sui beni rurali e relative assicurazioni. In realtà, stavo tentando di dimenticare parecchio altro, comprese un paio di dozzine di facce.

Eppure, vedete, continuo a ricordare quasi tutto. Succede, quando ci applichiamo (o anche se non lo facciamo, che è peggio). Mi torna persino in mente un romanziere sudamericano, insomma, uno di quelli del realismo magico. Il nome non è importante quanto la citazione: Da neonati, conseguiamo la nostra prima vittoria quando riusciamo ad acchiappare un pezzettino di mondo, di solito rappresentato dalle dita di nostra madre. Anni dopo capiamo che sono il mondo, e le cose di questo mondo, ad aver sempre cercato di acchiapparci. Borges? Forse. Potrebbe anche essere Remarquez, per quel che ne so. Sul serio, questo non lo ricordo. Rammento solo che riparai il condizionatore e che il suo viso si illuminò quando l'aria fredda cominciò a uscire dalla grata. Ricordo anche che il nostro punto di vista cambia radicalmente quando scopriamo di essere tenuti da ciò che crediamo di tenere. Tenuti come prigionieri, magari – Thoreau era di questo avviso – ma anche tenuti assieme. È un compromesso, e piuttosto onesto, Thoreau o non Thoreau. O così pensavo allora. Adesso non ne sono tanto certo.

E ricordo che tutto capitò nel tardo agosto del 2002, a meno di un anno di distanza da quando il cielo ci crollò addosso e niente fu più lo stesso.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 38

La mattina successiva, mentre ci incamminavamo lungo l'Ottantaseiesima, chiesi a Paula dove si trovava quando aveva sentito le prime notizie.

"A San Francisco", rispose. "Addormentata come un sasso in una suite dell'Hotel Wradling, con Edward che sicuramente russava di fianco. Il 12 io sarei dovuta arrivare a New York, e mio marito a Los Angeles per una serie di appuntamenti. La direzione dell'albergo azionò addirittura l'allarme antincendio."

"Deve essersi presa una bella paura."

"Sì, anche se non pensai subito alle fiamme, ma a un terremoto. Poi dagli altoparlanti uscì una voce gracchiante per informarci che ad andare a fuoco non era l'albergo, ma i grattacieli di Manhattan."

"Cristo santo."

"Venirlo a sapere così, nel letto di una stanza che non è la tua... una voce che rimbomba dall'alto come fosse quella di Dio..." Scosse la testa. Le sue labbra erano così serrate da nascondere ogni traccia di rossetto. "Mi spaventai a morte. Capisco il bisogno impellente di diffondere la notizia, ma non ho ancora perdonato la direzione del Wradling. Non credo ci metterò mai più piede."

"Suo marito arrivò in tempo agli appuntamenti?"

"Vennero annullati. Assieme a molti altri, almeno penso. Restammo a letto con la televisione accesa, cercando di capirci qualcosa. Sa che cosa intendo?"

"Certo."

"Ci domandammo se poteva essere stato coinvolto qualcuno che conoscevamo. Anche qui, non diversamente da molti altri."

"E la risposta?"

"Un broker della Shearson Lehman e il vicedirettore della libreria Border nel centro commerciale. Uno dei due ne uscì illeso. L'altro... be', l'altro no. E lei che mi dice?"

Non ero stato obbligato a usare nessun sotterfugio per introdurre l'argomento. Non eravamo neanche arrivati al ristorante ed eccolo, servito su un piatto.

"Io sarei potuto essere lì", risposi. "Anzi, avrei dovuto. Lavoravo in una compagnia d'assicurazioni al centundicesimo piano."

Paula Robeson si bloccò di scatto sul marciapiede, sgranò gli occhi e mi fissò a fondo. Le persone che dovettero scansarci per continuare la marcia probabilmente ci scambiarono per due innamoratini. "Scott, no!"

"Oh, sì, Scott", replicai. E finalmente raccontai a qualcuno di quando mi svegliai l'11 settembre, sicuro che mi sarei comportato come qualsiasi altro giorno lavorativo, dal caffè nero mentre mi radevo alla cioccolata davanti al notiziario di mezzanotte sul Canale 13. Un martedì normale, né più né meno. Penso che ogni americano lo consideri un proprio diritto. Be', indovina un po'. Lassù c'è un aereo! E punta dritto contro un grattacielo! Ah ah ah, coglione, te l'abbiamo fatta, e mezzo mondo sta ridendo alle tue spalle!

Le raccontai che mi affacciai alla finestra e fissai il cielo delle sette di mattina, senza una nuvola e di un blu così intenso che sembrava quasi di poterlo penetrare con lo sguardo, arrivando fino alle stelle. Poi le dissi della voce. Credo che ognuno di noi ne ospiti parecchie dentro la testa e alla fine ci si abitui. Da ragazzino, una di loro si fece sentire e mi bisbigliò che sarebbe stata una figata masturbarsi con le mutandine di mia sorella. Ne ha almeno un migliaio di paia e non si accorgerà della differenza, mi sussurrò. (Mi guardai bene dal rivelare a Paula Robeson la mia bravata adolescenziale.) Si trattava di una voce assolutamente irresponsabile, più comunemente conosciuta come Mister Hey, Get Down.

"Mister Hey, Get Down?" chiese la Robeson con un tono dubbioso.

"In omaggio a James Brown, il re del soul."

"Se lo dice lei."

Mister Hey, Get Down diventò sempre più quieto con il passare degli anni, soprattutto da quando smisi di bere, ma quella mattina si destò dal letargo giusto per pronunciare una dozzina di parole che mi cambiarono la vita. Che me la salvarono.

Le prime cinque (mentre sedevo sul bordo del letto): Ehi, datti per malato, amico! Le restanti sette (mentre arrancavo verso la doccia, grattandomi la chiappa sinistra): Ehi, prenditi una vacanza a Central Park! Non si trattava di un presagio o di una premonizione. Era Mister Hey, Get Down a parlare, non l'Altissimo. Una particolare versione della mia voce normale (come le altre che gironzolano per la testa) mi stava suggerendo di far sega al lavoro. Ehi, per una volta divertiti, buon Dio! L'avevo sentita l'ultima volta durante una gara di karaoke in un locale sulla Amsterdam. Ehi, scemo, canta assieme a Neil Diamond! Buttati sul palco e datti da fare! Get down!

"Penso di aver capito", mi disse Paula Robeson con un mezzo sorriso.

"Davvero?"

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 57

JOHN FARRIS


LA DONNA DEL FARO



1
La prima volta che Eco Halloran si era accorta della "donna in nero" era stato durante una visita all'Highbridge Museum of Art di Cambridge, Massachusetts. Quel giorno Eco e íl suo capo stavano trattando con il curatore dell'Highbridge, un uomo di nome Charles Carwood. L'Highbridge stava "disacquisendo", come si dice nel ramo, un certo numero di dipinti, soprattutto di artisti del ventesimo secolo il cui stock era rimasto stabile nel sempre instabile mondo dell'arte. L'Highbridge aveva un po' di grane con il fisco e Carwood puntava a realizzare una trentina di milioni con un gruppo di Rappresentativisti.

Il capo di Eco era Stefan Konine, direttore della Gilbard's, la casa d'aste newyorchese. Stefan era un omone, rubicondo come un salmone lessato, che nascondeva l'età e aveva l'hobby dei flipper. Indossava abiti di J. Dege & Sons con l'aplomb del sangue blu. I Rappresentativisti non gli interessavano granché e preferiva che fosse Eco, che alla NYU aveva fatto una tesi sulla Scuola di Boquillas, a seguire la faccenda mentre i quadri venivano sottoposti uno per uno, con reverenza, alla loro attenzione, lì nella sala riunioni al sesto piano. Fuori il cielo era azzurro e limpido. Da una bella fila di finestre il panorama a sud arrivava fino a Charles River.

Eco lavorava per Konine da poco più di un anno. Tra i due si era stabilito un rapporto quasi famigliare. Mentre Eco trafficava con il suo laptop tirando fuori informazioni su questioni di provenienza, Stefan sorseggiava Chablis e scrutava ognuno dei dipinti con la stessa espressione dispeptica, come se stesse cercando di digerire una palla da bowling ingerita per pranzo. Con la testa, più che altro, stava sulla tris in corso a Belmont, ma era attento alle sfumature degli sguardi che Eco lanciava dalla sua parte. Erano una squadra. Conoscevano i segnali l'uno dell'altra.

"E abbiamo", disse Carwood, "questo squisito David Herrera del fondo Oppenheimer, forse il pezzo più importante del ciclo di David sul Big Bend."

Eco sorrise mentre i due inservienti del museo entravano spingendo il carrello con l'enorme tela. Lei beveva 7-Up, non Chablis.

Lo stile del quadro ricordava la Georgia O'Keeffe nella sua incarnazione di Santa Fe. Eco abbassò lo sguardo sullo schermo del portatile, poi lo rialzò. Fu un lungo sguardo, come se stesse cercando di spingerlo fino in fondo alla regione texana del Big Bend. Dopo un paio di minuti Stefan sollevò un sopracciglio. Carwood fremeva sulla sedia. Aveva gli occhi fissi su Eco. L'aveva guardata un bel po', dal momento in cui gli era stata presentata.

Ci sono bellezze che bloccano il traffico, e ce ne sono di quelle che crescono come un'ossessione nel cuore di chi se ne lascia toccare; Eco Halloran era del secondo genere. Aveva una folta criniera di capelli neri. Gli occhi erano grandi tondi e scuri come lucide castagne d'India, con una spolverata di pagliuzze d'oro. Con la vitalità di un folletto, ricca di buone maniere e di autostima, vedeva il mondo con una disponibilità così intensa da lasciare perplesso chi non la conoscesse.

Quando si schiarì la gola Carwood ebbe un sussulto nervoso. Stefan guardò pigramente la sua protetta, con l'inizio di un sorrisetto saputo. Qualcosa stava per arrivare.

Carwood disse: "Forse vorrebbe guardare meglio, signorina Halloran? La luce che viene dalle finestre..."

"La luce va bene." Eco si risistemò sulla poltroncina. Chiuse gli occhi e si toccò con due dita il centro della fronte. "Ho visto abbastanza. Mi dispiace molto, signor Carwood. Ma questa tela non è opera di David Herrera."

"Oh, Dio santo!" esclamò Carwood, con un gemito sofferto come se stesse cercando di decidere se fosse più adatta una crisi isterica o un colpo apoplettico. "La inviterei a essere molto cauta prima di esprimere giudizi potenzialmente perseguibili..."

"Lo sono", ribatté Eco, e riaprì gli occhi. "Sempre molto cauta. È un falso. E non è il primo falso Herrera che mi capita di vedere. Mi dia un paio d'ore e le dirò quale dei suoi allievi l'ha dipinto, e quando."

Carwood tentò di appellarsi a Stefan, che alzò un indice ammonitore.

"Ma le costerà mille dollari per il tempo e la perizia della signorina Halloran. Mille dollari l'ora. Le consiglierei di pagarli. È molto in gamba. Quanto al lotto che ci ha mostrato oggi..." Stefan si alzò con un'aria di buonumore, "grazie per aver preso in considerazione Gilbard's. Temo purtroppo che il nostro programma autunnale sia insolitamente affollato. Perché non prova con Sotheby's?"

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 139

Come faceva quasi tutti i giorni da quando era arrivata a Kincairn, Eco fece colazione in un gelido isolamento in un angolo della grande cucina, quindi raggiunse a piedi il faro. Spesso riusciva a vedere solo fino a pochi passi lungo il sentiero a causa della nebbia. Ma a volte non c'era nebbia; l'aria era limpida e senza vento e il sole nascente inondava con lo splendore del mattino il volto di rame del mare.

Aveva imparato ben presto che John Ransome soffriva d'insonnia e passava gran parte delle ore notturne a leggere nel suo studio al primo piano o a fare lunghe passeggiate nel buio, portandosi solo una torcia lungo i sentieri con cui aveva familiarità fin da quando era bambino.

Il sonno sarebbe venuto con più facilità, le aveva detto una volta come giustificandosi, quando avesse iniziato a dipingere seriamente. Ma il ritratto incompiuto che aveva cominciato a New York su una grande tavola rettangolare di compensato non era stato toccato da quasi sei settimane mentre lui si dedicava a fare schizzi di Eco in formato cartolina, a centinaia, o a osservare silenziosamente il lavoro di lei che prendeva forma. A tarda notte le lasciava post-it di elogio o di critica sul cavalletto.

Quando erano insieme era cordiale, ma preferiva lasciare che fosse lei a condurre la conversazione. Sembrava avere una curiosità senza limiti per la vita di Eco. Per il padre, che era stato gesuita fino all'età di cinquantun anni, quando aveva conosciuto Rosemay, suora missionaria di Maryknoll. Di Peter non chiedeva mai.

C'erano giorni in cui Eco non lo vedeva per nulla. Percepiva la sua assenza dall'isola ma non aveva idea di dove fosse andato, o perché. Non che fossero affari suoi. Ma non era il rapporto di lavoro che si era aspettata. Il fatto che Ransome non fosse capace di riprendere a dipingere la metteva a disagio. E non era nel suo carattere accettare di essere ignorata, o di sentirsi trascurata, troppo a lungo.

"Si tratta di me?" gli aveva chiesto a cena la sera prima. La domanda, lo stato d'animo in cui l'aveva espressa, avevano sorpreso John.

"No. Ovviamente no, Mary Catherine." Sembrava affranto, faceva gesti a caso in sostituzione delle parole che non riusciva a trovare per rassicurarla. "Un fatto di nervi, ecco tutto. Succede sempre. Ho paura di cominciare e... e poi trovarmi ad attingere a un pozzo inaridito." Aveva fatto una pausa per versarsi altro vino. Beveva, prima e dopo cena, più di quanto fosse sua abitudine; aveva mancato un poco la mira e aveva fatto una smorfia. "Paura che tutto quello che faccio sia banale e brutto."

Eco aveva avvertito la sua vulnerabilità, la stessa di tutti gli artisti. Ma non sapeva come gestire la sua confessione.

"Tu sei un grande pittore."

Ransome aveva scosso la testa, ritraendosi dal peso di quella idea.

"Se mai lo credessi, sarei finito." Eco si era alzata, aveva preso un pizzico di sale da una ciotolina d'argento spargendolo sulla macchia di vino che rovinava la bella tovaglia di lino. Lo aveva guardato esitante.

"Come posso aiutarti?"

Lui stava fissando la macchia coperta di sale. "Funziona?"

"Di solito sì, se si fa subito."

"Magari fossero così facili da rimuovere le macchie umane", aveva detto John con improvvisa veemenza.

"Dio è sempre in ascolto", aveva sussurrato lei, pensando che probabilmente era una frase troppo facile, paternalistica e insoddisfacente. Lei sentiva Dio, ma sentiva anche che non aveva molto senso cercare di spiegarlo a un altro.

Dopo qualche momento di silenzio, l'improvvisa ondata di passione di Ransome era rifluita.

"Per me credere non è facile come per te, Mary Catherine", aveva detto con un sorriso stanco e teso. "Ma se davvero il tuo Dio ci guarda, penso che probabilmente la sua vendetta consista nel non far nulla."

Ransome aveva scostato la sedia e si era alzato. Guardando Eco, aveva allungato una mano per sollevarle leggermente la testa prendendole il mento tra pollice e indice. Come studiandola per la prima volta aveva detto: "La luce nei tuoi occhi è la luce che viene dal tuo cuore".

"Questa è una cosa molto dolce", aveva risposto lei con modestia, sapendo che cosa sarebbe arrivato subito dopo. Da settimane stava pensando a questo, e a come avrebbe dovuto reagire.

Lui l'aveva baciata sulla fronte, non sulle labbra. Una sorta di benedizione. Anche questa era stata una cosa molto dolce. Ma il contenuto erotico, così forte da farle schiudere le labbra e accelerare il battito del cuore, l'aveva colta alla sprovvista.

"Devo andar via dall'isola per qualche giorno", aveva detto lui.

| << |  <  |