Autore Stephen King
Titolo On Writing
SottotitoloAutobiografia di un mestiere
EdizioneSperling & Kupfer, Milano, 2017 [2001], Pickwick , pag. XXXI+284, cop.fle., dim. 12,5x19,5x2 cm , Isbn 978-88-6836-400-7
OriginaleOn Writing [2000]
PrefazioneLoredana Lipperini
TraduttoreGiovanni Arduino
LettoreElisabetta Cavalli, 2020
Classe scrittura-lettura , biografie












 

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Indice



      [Manca nel libro N.d.L.]


 VII  Introduzione di Loredana Lipperini

 XXV  Prima prefazione
XXIX  Seconda prefazione
XXXI  Terza prefazione


   1  Curriculum vitae

  93  Che cos'è la scrittura

 100  Cassetta degli attrezzi

 127  Sulla scrittura


 241  Sulla vita: un post scriptum

 261  E inoltre (parte prima): porta chiusa, porta aperta
 275  E inoltre (parte seconda): una lista di libri
 281  E oltre l'inoltre (parte terza)


 

 

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Pagina V

«L'onestà è la condotta migliore»
Miguel de Cervantes



«I bugiardi prosperano»
Anonimo

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Pagina VII

Introduzione
di Loredana Lipperini



                            «Avvicinatevi: Più vicini: Perché più pensate di
                            vedere, più sarà facile ingannarvi. Adesso scorrerò
                            queste carte, e voglio che tu ne scelga una. Non
                            questa, è troppo ovvia. Fa' molta attenzione. Troppo
                            veloce? Lo rifaccio. Sei pronta? Ok. Ne hai scelta
                            una?»

                            J. Daniel Atlas, mago, in
                            Now you see me - I maghi del crimine,
                            regia di Louis Leterrier



Avete dunque scelto una carta, e pensate che quello che vedete, e che leggerete in questo libro, sia tutto vero. Ma non è detto, non necessariamente, non in ogni sua parte, e la grandezza di Stephen King è proprio questa: più pensi di vedere, più vieni ingannato, e l'inganno è nel doppio racconto che vi offre, nelle storie che crea e nella narrazione della sua vita, che probabilmente fa parte della stessa creazione. Perché tutto torna sempre, nel metamondo kinghiano: non solo la sterminata serie di concordanze fra la saga della «Torre Nera» e il resto della sua opera, ma lui stesso così come è presente nei suoi libri (tutti quei padri in fuga, tutto quell'alcol, tutti quei bambini spaventati) e come è raccontato qui. Qualunque sia la realtà, e comunque siano stati e siano davvero i giorni di Stephen Edwin King, figlio di Nellie Ruth Pillsbury, marito di Tabitha Jane Spruce.

Avvicinatevi, dunque. Cercate le sue interviste, compulsate le note introduttive, sfogliate le prefazioni alle raccolte di racconti e naturalmente leggete questo libro: scoprirete che nel tempo ha detto di sé tutto e il contrario di tutto, e va benissimo così. Se la scrittura è magia, e King lo scrive proprio in On Writing - che ritrovate finalmente in libreria, nella nuova, rivelatoria, traduzione di Giovanni Arduino - lui è il più abile dei maghi, è il prestigiatore che sembra offrirvi un trucco banale (quale volete? Il fantasma che appare sul palcoscenico grazie a un gioco di specchi? La donna segata in due?) e invece, now you see me, vi capovolge il mondo che avete davanti. Perché, come diceva il vecchio Samuel Henry Sharpe (che scrisse libri sull'illusionismo che dovreste conoscere, e non è improbabile che li conosca King), «lo scopo della magia non è ingannare il prossimo, ma incoraggiare un approccio verso la vita pieno di meraviglia». Questo è, anche, lo scopo di On Writing: mostrare il curriculum vitae di uno scrittore, vero o falso che sia, e condividere un approccio alla scrittura, e dunque alla vita stessa. Meravigliatevi, qualunque sia la verità.

Del resto, King mette subito sull'avviso il Fedele Lettore (più pensate di vedere, più sarà facile ingannarvi), perché pone in esergo due frasi contrapposte: la prima, di Miguel de Cervantes, ricorda che l'onestà è la condotta migliore. La seconda, anonima, avverte che i bugiardi prosperano. Entrambe sono vere. Solo se si è onesti nel racconto si può essere bravi scrittori, e qui è il cuore del libro. Gli ingredienti imprescindibili, oltre a questo, sono solo due: padroneggiare i principi essenziali (vocabolario, grammatica, elementi di stile) e ricordare che si può diventare bravi se si è già decenti, ma che - mettetevi l'animo in pace - non è possibile trasformare in scrittore decente uno scalzacane né trasformare in eccezionale un pur bravo scrittore. Dunque, l'onestà della storia è il fattore primo. La bugia che riguarda chi la crea non è che un'ulteriore meraviglia.

Questa è la strada, ripete King: tutto può diventare racconto, la gonna rossa della compagna di scuola povera e goffa e gli avanzi putridi delle aragoste nelle tovaglie che arrivano in lavanderia. Perché le storie sono fossili sepolti, frammenti di mondi altri che ti capitano per le mani in modo imprevisto: la scrittura non è acqua sorgiva che zampilla dalla roccia, ma è impastata di fango. Chi scrive è un cercatore con la faccia rivolta a terra, non ha i capelli al vento e la luce negli occhi di chi si ritiene strumento degli dei (anche se lo stesso King, ne La canzone di Susannah, attribuirà al se stesso presente nel romanzo il ruolo di tramite del ka: ma quello è un altro livello della Torre, giusto?). Chi scrive lavora su quei fossili e stabilisce legami: fa convergere le cose lontane, e dunque preziose, che vengono da un'intuizione, e fa crescere sino a farne un mondo quel che all'inizio è solo una frase, un'immagine, un profumo.

Ecco, un profumo può essere un buon esempio di cosa significhi fare lo slalom tra vero e falso, e in cosa consista l'illusionismo narrativo (now you see me) di Stephen King: perché in quelle sue note e interviste e prefazioni e soprattutto proprio qui, in On Writing, sembra che voglia raccontarvi tutto della sua vita: dal colore verde della lingua di sua madre dopo aver leccato decine di buoni omaggio al vomito del dopo-sbornia, passando per l'edera velenosa in cui incappa da bambino. Ma questi, dice anche, non sono collegamenti da seguire alla lettera: sono istantanee di un processo di crescita e, insieme, i tasselli di un'opera parallela che negli anni diventa la sua biografia. Un altro piano della Torre, appunto: oppure, come è pur lecito sospettare, la costruzione di una narrazione che intrattenga e appaghi i lettori, preservando intatto il pudore dell'uomo del New England che non ama parlare di sé. Così trapela dal suo romanzo più disperato (e bellissimo), Revival, e anche nelle pagine che state per leggere: quelle, per esempio, dove la madre Ruth nasconde - in primo luogo a se stessa - i sintomi della sua malattia mortale. Nei momenti difficili bisogna tenere tutto per sé. E, come dice King in un altro punto, «ho passato tutto quello che vi ho raccontato, e parecchio altro che ho preferito tralasciare».

Lecito pensare che anche i racconti - numerosi e generosi - che riguardano il contesto e il dettaglio della nascita di un'idea non siano da prendere sempre alla lettera, e il profumo ci viene in aiuto. Il profumo in questione viene lanciato da Ted Lapidus nel 1981: si chiama Envol, volo, e lo slogan lo definisce come l'essenza «dello spazio, della notte e del tempo». Lo spazio, la notte e il tempo sono anche i temi chiave del racconto «I langolieri», che appare nella raccolta Quattro dopo mezzanotte. Il profumo si sprigiona dall'immagine che costituisce la prima intuizione della storia. King vede una donna che preme la mano su una crepa apertasi nella parete di un jet di linea. E riconosce il suo profumo. L'Envoi. Envoi, non Envol. Ora, il Fedele Lettore - che è un tipo tignoso - non può fare a meno di chiedersi se King abbia cambiato nome al profumo di Ted Lapidus (per non incorrere in guai da eccesso pubblicitario? Ma chi, King? Andiamo!) o se si sia sbagliato, o se anche questa non sia magari una delle piccole cacce al tesoro kinghiane, per cui dentro Colorado Kid trovi uno Starbucks che non era ancora stato fondato ai tempi del racconto, e se per caso te ne accorgi e sei convinto che, sì, è un errore, come quella Co-Op City della «Torre Nera» che doveva essere nel Bronx e invece è a Brooklyn, lui ti dice che non è così. Nel caso di Co-Op City, la spiegazione è che la Co-Op City di Eddie Dean si trova in un altro livello della Torre e qualcosa del genere avviene per Colorado Kid, afferma Io stesso King:

Non c'era uno Starbucks a Denver nel 1980. Non pensate che questa sia una mia svista. I Fedeli Lettori della serie della «Torre Nera» sanno che non è necessariamente un errore, ma un indizio.

Forse

[...]


Dunque, ci accontenta, e lo fa qui, in un libro che per due terzi parla della sua vita, appendendo esche a innumerevoli ami. Perché se racconta della tortura inflittagli dalla baby-sitter Eula-Beulah, grassa, petomane e folle, che prima gli scoreggia sulla faccia e poi lo chiude nell'armadio a muro finché non si addormenta nel proprio vomito, il lettore sarà gratificato per aver scoperto un'altra delle identità che andranno a confluire in Annie Wilkes. E il famoso bambino maciullato dal treno (oh sì, Stagioni diverse, il corpo di Ray Brower uscito a cercare mirtilli)? E le vespe nascoste sotto un mattone di calcestruzzo che lo pungono - e siamo solo alle primissime pagine - non sono le stesse che straziano Danny in Shining? E l'alcolismo, le droghe, Cujo che ricorda «a malapena di aver scritto», le lattine di birra accartocciate e le bottigliette vuote di sciroppo che Tabitha gli scodella davanti per scuoterlo? Non li ritroviamo, tutti o quasi, in decine di romanzi, dallo stesso Shining fino a Doctor Sleep e Revival?

Naturalmente sì, a patto di ricordare ancora e sempre che il gioco della verità con Stephen King non funziona, perché anche la biografia è un racconto, e King è l'equivalente maschile della conteuse per eccellenza, che è la definizione che diede di sé Karen Blixen che, come King, non ebbe una sola identità, né un solo registro, e come lui creò mondi. Nel saggio che la filosofa Hannah Arendt dedica a Isak Dinesen, alias Karen Blixen, ben si dice che «tutto quello di cui aveva bisogno per cominciare era la vita e il mondo, quasi ogni genere di mondo e di ambiente: perché il mondo è pieno di storie, di eventi, di circostanze e di situazioni curiose che aspettano solo di essere raccontate, e la ragione per cui si omette di raccontarle è, per Isak Dinesen, la mancanza di immaginazione - perché solo se si può immaginare ciò che in qualche modo è avvenuto, riviverlo nell'immaginazione, si vedranno le storie, e solo se si ha la pazienza di raccontarle e riraccontarle si sarà capaci di raccontarle bene».

«Moi je suis une conteuse, et rien qu'une conteuse», ripeteva Blixen. E aggiungeva un'altra cosa (che Arendt citava spesso): «Ogni dolore può essere sopportato se lo si narra o se ne fa una storia». Lo ha scritto anche King, più volte. Con una frase breve, e folgorante, in Joyland: «Quando c'è in ballo il passato, tutti diventiamo romanzieri», e, con una più lunga e altrettanto bella, proprio ne «Il corpo»:

Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, poiché le parole le immiseriscono - le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov'è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portare via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare.

Questa è l'onestà evocata da Cervantes: occorre saper ascoltare, occorre raccontare. E On Writing è un libro prezioso e onesto perché è un libro sul passato, sul tempo, sulla scrittura, sul racconto, sull'ascolto, e dunque una biografia («La vita non deve essere di sostegno all'arte, ma viceversa»: segnatevi questa frase, quando la troverete nelle pagine che leggerete). Tanto più preziosa perché contiene una frattura, ha un prima e un dopo, una storia che poteva interrompersi proprio durante la stesura del libro, e quella frattura ne occupa infatti la terza parte.

La storia è nota. Il 19 giugno 1999, King fa una pausa ed esce per la consueta passeggiata di cui spesso racconta, così come racconta e poi smentisce le sue abitudini di scrittura: scrive tutti i giorni tranne Natale, il Quattro Luglio e il giorno del suo compleanno, o forse scrive anche quei giorni, rivela qui. Comunque, cammina lentamente sulla Route 5 e viene travolto da una monovolume azzurra guidata «da un personaggio uscito da un mio romanzo», uno sventurato e svampitissimo quarantenne che si chiama Bryan Smith, che si è messo in viaggio perché aveva voglia di barrette al cioccolato e ha perso il controllo della vettura perché impegnato a tenere lontano il cane dalla carne dentro la borsa termica (oh, santo cielo, non c'era una carne fatale in un minifrigo anche in Mr. Mercedes?). King si salva per un capello, ma ha un polmone collassato, la gamba destra fratturata in una decina di punti, la rotula spaccata a metà, quattro costole rotte, il bacino deviato. Grazie al cielo, ce la fa, a costo di enormi sofferenze, fisiche e mentali.

L'incidente verrà rievocato più volte: in Buick 8, per allusioni. Apertamente in Duma Key, dove il protagonista Edgar Freemantle subisce una sorte quasi identica a King (più l'amputazione del braccio) e percorre la stessa via dolente verso la riabilitazione e il superamento di un trauma esistenziale oltre che fisico. Tutti e due, Edgar e Stephen, guariscono grazie all'arte: Edgar inizia a dipingere, Stephen torna a scrivere. «L'incidente mi aveva in fondo insegnato una cosa sola: l'unico modo per andare avanti è andare avanti. Dire lo posso fare anche quando sai che non puoi», dicono entrambi (la vita non deve essere di sostegno all'arte, eccetera). Quando King tornerà a parlare della monovolume azzurra nel libro conclusivo della saga della «Torre Nera», riuscirà persino a trasformare l'incidente in volontà del destino, o per meglio dire del ka: perché sarà salvato addirittura dal ka-tet di Roland Deschain, a caro prezzo, perché possa continuare la sua opera. La biografia che si fa metanarrazione, ancora una volta.

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Pagina XIX

Ma On Writing è anche un manuale di scrittura, giusto? Certo. Per meglio dire, On Writing è un esperimento di condivisione, e nasce apertamente dall'esigenza di discutere del linguaggio. «Non mi chiedono mai del linguaggio», dice King nella Prefazione. «Magari ci provano con i DeLillo , gli Updike e gli Styron , ma non con gli autori di narrativa popolare. E invece molti di noi plebei si prendono a cuore questo problema, in assoluta modestia, preoccupandosi con passione del mestiere e delle tecniche di raccontare storie su carta».

È vero.

Gli autori popolari, e non solo per i critici americani, sono quelli che scrivono libri molto venduti, ma dalla «lingua di plastica», qualunque cosa significhi questa definizione, che somiglia molto a quella che condannava, ai tempi, gli anime giapponesi («Sono disegnati al computer»). Mentre scrivo queste parole, peraltro, ben tre critici letterari italiani hanno riproposto in varie sedi l'antico lamento sulla morte della letteratura, uccisa dal mercato e dagli autori «popolari» troppo facili, leggibili, scorrevoli, laddove essere scorrevoli significa essere frivoli, e dunque inessenziali, incapaci di cambiare, sia pure per poco, il senso della nostra vita. Esattamente come si scriveva cinquant'anni fa, solo i libri faticosi portano con sé il manganelliano «trauma notturno e immedicabile di una nascita», mentre gli altri possono essere tranquillamente accantonati a favore di House of Cards.

Peccato che King, considerato spesso il simbolo delle perversioni del mercato editoriale, racconti il «trauma notturno e immedicabile della morte» con un linguaggio che tutto è meno che plastica o House of Cards, con tutto il rispetto per entrambe. King non è e non è mai stato uno scrittore horror nel senso canonico. Quel che gli interessa non è l'armamentario del settore, lo spiffero gelato e i ghigni nella notte, ma le emozioni e i sentimenti degli esseri umani, la loro solitudine, la loro possibilità di salvezza o la loro perdizione. Nella prefazione che scrive nel 1977 per la raccolta A volte ritornano è chiarissimo su quelli che sono, a suo parere, i compiti del genere. Raccontare, appunto, la morte.

Le opere di Edward Albee, di Steinbeck , di Camus , di Faulkner , trattano di paura e di morte, talvolta con orrore; ma in genere questi scrittori mainstream lo fanno in modo più normale, più realistico. Il loro lavoro si colloca entro la cornice del mondo razionale: sono storie che possono accadere. Viaggiano lungo quella linea sotterranea che corre attraverso il mondo esterno. Ci sono altri autori ( James Joyce , di nuovo Faulkner, poeti come T.S. Eliot , Sylvia Plath , Anne Sexton) la cui opera si colloca nella terra dell'inconsapevolezza simbolica. Viaggiano sulla sotterranea che corre attraverso il paesaggio interno. Ma chi scrive racconti dell'orrore, quando coglie nel segno, è quasi sempre al terminal dove le due linee fanno capo.

Per questo le brevi (ma importantissime) riflessioni sulla scrittura che occupano la parte centrale di questo libro dicono sostanzialmente poche cose: non innamorarti della tua presunta bravura, leggi, ascolta, esercitati, emozionati.

[...]


Lo scrittore è quello che vede queste cose e crea connessioni. E per farlo deve esercitarsi. Scrittori si diventa, ha sempre sostenuto King. I traumi infantili e i bambini che cercano mirtilli e vengono tranciati da un treno non fanno uno scrittore. Un padre assente o violento non fa uno scrittore. Ci vuole il talento, certo, ma non basta. Ci vogliono il lavoro e lo studio. Ci vuole attenzione. Ci vuole la consapevolezza che la scrittura non fluisce come acqua sorgiva, e che no, non esiste un mondo alla Tolkien dove stenografi baciati dalla sorte e in stato di semitrance mettono su carta o su file la Voce di Ilúvatar. Per realizzare quella straordinaria magia portatile che permette a chiunque di diventare telepata e trasmettere da un luogo all'altro immagini note o folli, conigli con un otto sul dorso e cani idrofobi, o il primo straziante amore di un pistolero, devi aprire le orecchie e gli occhi. E, certo, usare la cassetta degli attrezzi dello scrittore, e quanto troverete suggerito. Consultate il vocabolario, maneggiate correttamente i verbi, evitate l'ostentazione, ricordate che parlare bene fa parte dello scrivere bene, i dialoghi devono essere onesti e l'avverbio non è tuo amico (che piaccia o meno, ha ragione), attenti ai pronomi e alla forma passiva. Siate coerenti. Il resto leggetelo voi. Perché questo dice infine King. Leggete, maledizione. Leggete quel che vi capita a tiro, non rifiutatevi, non dite che non avete tempo, leggete tutto, guardate film, guardate anche House of Cards, giocate, ascoltate musica. Vivete.

[...]

Ecco, è questo che insegna On Writing: a mettere insieme vie apparentemente incompatibili, due pensieri indipendenti che si connettono, come una caldaia rotta e un mondo che si inceppa. Il compito dello scrittore è riconoscerli, unirli e da quella scintilla far nascere una storia che parla di noi. Questo è il segreto numero due. Il primo è ancora più semplice: scrivere è acqua di vita. «Scrivo [...] perché mi dà gioia», dice King, «e, proprio per questo continuerei all'infinito.» Potete farlo anche voi. E questa non è una bugia. È magia.

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Pagina XXIX

Seconda prefazione



Questo è un libro breve perché la maggior parte dei manuali di scrittura creativa sono pieni di stronzate. I romanzieri, compreso il sottoscritto, non hanno un'idea precisa di quello che fanno, del perché funzioni quando butta bene o perché non accada se butta male. Mi sono detto che un testo più corto del solito avrebbe contenuto di conseguenza meno cazzate.

Un'eccezione degna di nota a questa norma è Elementi di stile nella scrittura di William Strunk Jr. Al suo interno non ci sono stronzate o almeno non di facilmente riconoscibili (ovviamente è breve; con le sue ottantacinque pagine lo è molto più del mio). Vi avverto fin da adesso che ogni aspirante autore dovrebbe leggerlo. La regola numero 13 del capitolo intitolato «Principi di composizione» recita: «Omettere parole inutili». È quanto mi sforzerò di fare qui.

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Pagina 4

1



Il mio primissimo ricordo: ero qualcun altro, per l'esattezza l'uomo forzuto del Ringling Brothers Circus, a casa di zia Ethelyn e zio Oren a Durham, nel Maine. Secondo la zia, che se lo rammenta abbastanza bene, avevo due anni e mezzo o tre.

Trovai un blocco di calcestruzzo in un angolino del garage, riuscendo a spostarlo. Lo trascinai lentamente sull'impiantito liscio di cemento, solo che nella mia testa ero vestito con una canotta di pelle di animale, forse di leopardo, e stavo trasportando il blocco lungo il centro della pista. Il folto pubblico era ammutolito. La luce accecante e bluastra di un riflettore seguiva il mio straordinario cammino. I volti sbalorditi dei presenti la dicevano lunga: non avevano mai visto un bambino dotato di una forza tanto straordinaria. «E ha soltanto due anni!» mormorò qualcuno stupefatto.

A mia insaputa, uno sciame di vespe aveva costruito un piccolo nido nella parte inferiore del mattone di calcestruzzo. Una di loro, forse infastidita dall'improvviso trasferimento, volò fuori pungendomi sull'orecchio. Il dolore fu soffocante come una boccata di veleno, il peggiore che avessi mai provato nella mia breve vita, ma si aggiudicò il primo posto solo per una manciata di secondi. Quando lasciai cadere il blocco sul piede nudo, schiacciandomi le cinque dita al gran completo, mi dimenticai totalmente della vespa. Non ricordo se mi portarono da un medico, e non ne ha idea nemmeno Ethelyn (zio Oren, senza dubbio il legittimo proprietario del Calcestruzzo del Male, è morto da quasi vent'anni), ma la zia non si è scordata della puntura, delle dita ferite e della mia reazione. «Quanto hai urlato, Stephen!» mi ha detto una volta. «Quel giorno non eri giù di voce.»

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Pagina 16

9



Ci trasferimmo a Stratford, nel Connecticut. Ormai frequentavo la seconda elementare ed ero innamorato perso di una ragazza carina del palazzo accanto. Di giorno non mi degnava neppure di uno sguardo ma di notte, sdraiato a letto e sul punto di appisolarmi, non facevo che scappare via con lei dal mondo crudele della realtà.

La mia nuova maestra era la signora Taylor, una donna gentile con gli occhi sporgenti e una torre di capelli grigi stile Elsa Lanchester ne La moglie di Frankenstein. «Quando parliamo, sono tentata di metterle una mano sotto i bulbi oculari, nel caso le caschino dalla faccia», amava ripetere mamma.

Il nostro nuovo alloggio era al secondo piano di West Broad Street. A un isolato dalla collina, non lontano dal Teddy's Market e dalla rivendita di materiale edile Burrets, si stendeva un'enorme e intricata area selvaggia, con una discarica sul fondo e i binari della ferrovia nel mezzo. È un luogo al quale spesso torno con la fantasia e che compare di continuo nei miei lavori sotto una varietà di nomi. I giovani protagonisti di It lo chiamano i Barren. Per noi era la giungla. Dave e io lo esplorammo per la prima volta poco dopo il trasloco. Era estate. Si crepava di caldo. Era magnifico. Eravamo nel folto verde misterioso di quel fantastico nuovo posto dove giocare, quando venni colto dalla necessità impellente di andare di corpo.

«Dave!» esclamai. «Portami a casa! Devo liberarmi!» (Ci era stata insegnata quella parola per segnalare evenienze simili.)

David non voleva saperne. «Falla nel bosco», ribatté. Avrebbe impiegato una mezz'ora buona per riaccompagnarmi all'alloggio e non gli passava nemmeno per la testa di sprecare un intervallo di tempo così prezioso perché al fratellino scappava la cacca.

«Neanche per sogno!» mi lamentai, disgustato alla sola idea. «Non potrei pulirmi!»

«E invece sì. Usa le foglie, alla vecchia maniera di cowboy e indiani.»

A ogni modo, ormai era troppo tardi per fare dietrofront. Non avevo scelta. E comunque mi affascinava la prospettiva di cagare da cowboy. Mi calai nei panni di Hopalong Cassidy, che si accovacciava tra le sterpaglie con la pistola sfoderata per non essere colto di sorpresa in un momento tanto delicato. Me la sbrigai e seguii il suggerimento di mio fratello, strofinandomi le chiappe con grandi manciate di lucide foglie verdi. Si scoprì poi che erano di edera velenosa.

Due giorni dopo ero rosso fuoco dall'incavo delle ginocchia alle scapole. Il pisello l'aveva scampata, ma le palle si erano trasformate in un semaforo al momento dello stop. Il culo sembrava prudermi fino allo sterno. Però la mano con cui mi ero pulito era ridotta anche peggio. Era gonfia tipo quella di Topolino colpita dal martello di Paperino, costellata di vesciche gigantesche dove le dita si sfregavano. Quando scoppiarono, si lasciarono dietro solchi profondi di carne viva rosa intenso. Per sei settimane feci bagni tiepidi con l'amido, sentendomi da schifo, umiliato e stupido, mentre ascoltavo dalla porta spalancata mia madre e mio fratello sghignazzare, divertirsi con la classifica radiofonica dei dischi più venduti e giocare rumorosi a omino nero.

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Pagina 104

Gli attrezzi più comuni vanno messi in cima. Il più comune di tutti, la base della scrittura, è il vostro vocabolario. A tale proposito, ficcate dentro ciò di cui disponete senza il minimo senso di colpa o inferiorità. Come disse la prostituta al marinaio timido: «Non importa quello che hai, ma in che modo lo usi».

Certi scrittori hanno un lessico sconfinato. Sanno se esistono davvero termini quali «ditirambo venefico» o «aneddotista fallace» e da trent'anni non sbagliano un solo quiz a scelta multipla delle più prestigiose riviste di linguistica applicata. Per esempio...

La qualità coriacea, indistruttibile e non deteriorabile era un attributo innato della struttura dell'esemplare, e lo collocava nell'ambito di un ciclo di evoluzione paleogenico degli invertebrati che annichiliva le nostre capacità speculative. H.P. LOVECRAFT , Le montagne della follia

Vi è piaciuto? Eccone un secondo.

In alcune [tazze] non c'era prova che fosse stato piantato qualcosa; in altre, mesti steli marroni stavano a testimoniare un saccheggio indecifrabile. T. CORAGHESSAN BOYLE , Budding Prospects

Ed eccone un terzo. Lo apprezzerete, non è niente male.

Qualcuno strappò la benda alla vecchia, cacciandola via a schiaffi con il giocoliere, e quando il resto del gruppo si ritirò a dormire con il fuoco basso che rumoreggiava al vento come qualcosa di vivo, quei quattro si accovacciarono alla luce del falò tra le loro strane cianfrusaglie, fissando le vampe frastagliate seguire quel soffio impetuoso, risucchiate nel vuoto da un maelstrom, da un vortice, in quella desolazione dove il passaggio dell'uomo è sconfessato alla pari dei suoi piani. CORMAC MCCARTHY , Meridiano di sdngue

Altri autori ricorrono a un lessico più semplice e sobrio. Pur non sembrandomi necessari esempi in merito, citerò un paio dei miei preferiti.

Arrivò al fiume. Il fiume era lì. ERNEST HEMINGWAY , Grande fiume dai due cuori

Sorpresero il bambino a combinare qualcosa di brutto sotto le gradinate dello stadio. THEODORE STURGEON, Cristalli sognanti

Ecco che cosa capitò. DOUGLAS FAIRBAIRN, Sparatoria

Alcuni incaricati dei proprietari erano gentili perché odiavano il loro lavoro, altri erano arrabbiati perché odiavano essere cattivi, altri ancora erano freddi perché da tempo avevano scoperto che in caso contrario non si poteva diventare proprietari. JOHN STEINBECK , Furore

L'estratto da Steinbeck è particolarmente interessante. È lungo una quarantina di parole, di cui una decina composte da due o tre sillabe. Ne restano meno di trenta, ma attenti a non essere tratti in inganno: l'autore usa due volte «proprietari» e altrettante «odiavano». Il brano risulta quindi molto semplice. La struttura è complessa, ma il lessico si avvicina a quello dei vecchi abbecedari. Ovviamente, Furore è un ottimo romanzo. Credo che lo sia anche Meridiano di sangue, pur sfuggendomi il significato di interi tratti. E allora? Non riesco a decifrare nemmeno il testo di molte canzoni pop che adoro.

Esiste roba che esula da qualsiasi vocabolario, ma che comunque non va trascurata. Leggete un po':

    «Ehiehiehi, chemminchia, chemminchia vuoi da me?»
    «Ecco Hymie!»
    «Uuuuh! Uuuuuh! Uuuuurgh!»
    «Sucatemi il pupparuolo, vossia!»
    «Yeeeegh, fottiti anche tu, socio!»

TOM WOLFE, Il falò delle vanità

Quest'ultimo esempio è puro gergo da strada trasposto foneticamente. Pochi scrittori, tra cui Elmore Leonard , hanno la stessa abilità di Wolfe di riprodurlo su carta. Qualche termine in slang compare sui dizionari, ma soltanto dopo essere morto e sepolto da secoli. In ogni caso, temo che non troverete mai yeeeegh sull'edizione integrale del Webster's.

Mettete il vostro vocabolario nel primo scomparto della cassetta e non sforzatevi di migliorarlo, almeno non consapevolmente (lo farete leggendo, ovvio... ma in un secondo tempo). Correreste un grave rischio per la vostra scrittura imbellettando il lessico, andando a caccia di parole lunghe forse perché vi vergognate di quelle brevi che usate. Sarebbe come vestire da sera il cagnetto di casa. L'animale ne sarebbe imbarazzato, e rischierebbe di esserlo ancora di più l'autore di una tale sciocchezza. Giurate solennemente e all'istante che non utilizzerete mai «emolumento» al posto di «mancia» o «John si fermò a defecare» invece di «John si fermò a cagare». Se temete che la seconda soluzione sia troppo sconcia e irriverente per il vostro pubblico, ricorrete con estrema serenità a «John si fermò per andare di corpo» o magari persino «John si fermò a 'liberarsi'». Non voglio spingervi a essere volgari, ma semplici e diretti. Ricordate che la regola fondamentale del vocabolario consiste nell'usare la prima parola che vi viene in mente, se è adatta ed efficace. Se esiterete, rimuginandoci sopra, ne scoverete un'altra (per forza, ne esistono miliardi), ma con ogni probabilità sarà più ordinaria e generica della precedente.

È di massima importanza capire ciò che si vuole dire. Se non ci credete, pensate a tutte le volte che avete sentito qualcuno lamentarsi con un «Non riesco a descriverlo» o «Non trovo l'espressione giusta». O alle volte che ve ne siete lagnati voi stessi, in genere con un tono frustrato, lieve o profondo che fosse. La parola è soltanto la rappresentazione di un significato che la scrittura non riesce quasi mai a eguagliare. Di conseguenza, perché diavolo dovreste complicarvi la vita scegliendo un vocabolo che è il lontano cugino di quello che vi sarebbe piaciuto usare?

E non abbiate paura di tenere in considerazione ciò che vi sembra più adatto alle circostanze; tanto per citare George Carlin, in certi ambienti è normale sveltire una pratica, ma sarebbe imperdonabile praticare una sveltina.




2



Nel primo scomparto della vostra cassetta non dovrà mancare la grammatica, e non tormentatemi gemendo esasperati o urlando che per voi è un enigma, lo è sempre stato, per colpa sua avete rischiato la bocciatura al secondo anno di liceo, perché scrivere è divertente ma il resto è una rottura micidiale.

Calmi. Tranquilli. Non mi dilungherò in merito. Non ce n'è bisogno. Le basi grammaticali della lingua madre si assimilano conversando e leggendo... o non si imparano del tutto. A lezione, i professori insegnano (o si sforzano di insegnare) poco più della terminologia tecnica.

[...]

Mi sono dibattuto a lungo se includere nel mio volumetto alcune pagine dettagliate sulla grammatica. In parte mi sarebbe piaciuto. L'ho insegnata con ottimi risultati al liceo, dove si nascondeva sotto il nome di inglese commerciale, e mi ha appassionato da studente. La grammatica americana non ha il rigore di quella del Regno Unito (un pubblicitario londinese con una discreta istruzione riuscirebbe a rendere identica alla fottuta Magna Carta persino una réclame dei preservativi stimolanti), ma possiede un suo fascino sgangherato.

Alla fine ho preferito evitare, forse spinto dallo stesso motivo per cui William Strunk decise di non riepilogarne le norme basilari all'interno della prima edizione di Elementi di stile nella scrittura: se non le conoscete, ormai è troppo tardi. E i disperati all'ultimo stadio (in fondo, neppure io so suonare con la chitarra certi riff o sequenze di accordi) non ricaverebbero comunque un fico secco dal mio libro. Insomma, sto predicando ai convertiti. Però, permettetemi almeno di sfiorare l'argomento. Me lo concederete?

Il lessico utilizzato per parlare o scrivere si articola in otto parti del discorso (nove, contando interiezioni come oh, acciderba o cazzarola). La comunicazione che consta di queste parti deve essere organizzata secondo regole universalmente accettate. Se tale principio viene meno, ne derivano equivoci e fraintendimenti. Un cattivo uso della grammatica è causa di frasi imprecise. Tanto per citare il mio esempio preferito del manuale di Strunk, poi ampliato da E.B. White: «Con cinque a casa e un sesto in arrivo, la mia asse da stiro è sempre pronta».

Nomi e verbi sono i due ingredienti indispensabili della scrittura. Senza di loro, nessun gruppo di parole può formare una proposizione, che infatti è, per definizione, un gruppo di parole con un soggetto (nome) e un predicato (verbo). Questi insiemi cominciano con una lettera maiuscola, terminano con un punto e si associano a creare un pensiero compiuto che nasce nella mente dello scrittore per poi trasferirsi in quella del lettore.

Bisogna sempre e comunque scrivere frasi complete? Ma per carità di Dio! Anche se il vostro lavoro dovesse consistere soltanto di frammenti o enunciati sospesi, non verrete trascinati via dalla Polizia della Grammatica. Persino William Strunk, il Mussolini della retorica, ammette l'incantevole flessibilità della lingua. «È innegabile che gli autori più dotati talvolta trascurino certe regole», afferma. Però poi continua con un'ulteriore considerazione, che vi esorto a valutare scrupolosamente: «A meno che non esista la certezza di procedere per il verso giusto, sarà meglio seguire le norme del caso».

A meno che non esista la certezza di procedere per il verso giusto. Ecco il nocciolo della questione. Se non avete nemmeno un'idea grossolana di come le parti del discorso si trasformino in frasi coerenti, potete essere sicuri di avere colto nel segno? O di non stare sbagliando? Ovviamente la risposta è no. Chiunque conosca i rudimenti della grammatica ne apprezza anche l'innata, consolante semplicità, fatta di nomi, che servono a indicare qualcosa, e verbi, che esprimono un'azione.

[...]

I verbi hanno due forme essenziali, attiva e passiva. Nella prima, il soggetto della frase fa qualcosa. Nella seconda, qualcosa viene fatto al soggetto, che si limita a subire l'azione. Lasciate perdere la forma passiva. Non sono l'unico a sostenerlo. Troverete lo stesso consiglio nel manuale di Strunk.

[...]

L'altro suggerimento che voglio darvi prima di passare allo scomparto successivo della cassetta si riassume in: l'avverbio non è vostro amico.

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Pagina 124

Sarei tentato di affermare che è il paragrafo, non la frase, l'unità di misura base della scrittura, il luogo dove la coerenza prende forma e le parole hanno la possibilità di unirsi a comporre qualcosa di nuovo. La prima scintilla dí vita, se è destino che ci sia, si ha a livello del paragrafo. È uno strumento prodigioso e duttile che può essere di un solo vocabolo o proseguire per intere pagine (addirittura sedici, come nel romanzo storico di Don Robertson Paradise Falls, o poco meno in Raintree County - L'albero della vita di Ross Lockridge). Bisogna imparare a padroneggiarlo se si vuole scrivere bene. L'unica strada è quella della pratica, tanta pratica, per azzeccare il ritmo giusto.

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Pagina 130

Sto per affrontare il nucleo del mio libro armato di due semplici tesi. La prima è che la buona scrittura consista nel padroneggiare i principi essenziali (vocabolario, grammatica, elementi di stile), per poi riempire il terzo scomparto della cassetta con gli attrezzi adatti. La seconda è che, se è impossibile trasformare uno scalzacane in un autore decente, proprio come lo è ricavarne uno eccezionale da uno bravo, è invece plausibile che uno soltanto decente diventi valido e capace, grazie a un sacco di lavoro duro, passione e aiuto al momento opportuno.

Temo che la mia teoria sarà confutata da parecchi critici letterari e insegnanti di scrittura creativa. Pur di vedute liberali, spesso sono irremovibili nell'ambito del proprio campo di competenza. Uomini e donne disposti a marciare in corteo per protestare contro l'esclusione dal circolo sportivo locale di neri e nativi americani (posso solo immaginare la reazione di Strunk davanti a questo vocabolo politicamente corretto ma sgraziato) giurano poi agli allievi che le qualità di un autore sono invariabili e immutabili. Insomma, scribacchini si nasce e tali si rimane. Anche se uno scrittore dovesse aggiudicarsi l'approvazione di un paio di critici influenti, si porterà sempre dietro l'antica reputazione, come una rispettabile donna sposata che da ragazza è stata troppo disinibita. Certa gente non dimentica nulla, punto e basta, e molta critica serve solo a rinsaldare una divisione in caste vecchia quanto lo snobismo intellettuale che l'ha generata. Ormai Raymond Chandler sarà pure riconosciuto una figura di spicco all'interno della letteratura americana del Ventesimo secolo, un precoce cantore della mancanza di valori della vita urbana nell'epoca postbellica, ma esistono ancora schiere di letterati pronti a respingere su due piedi una simile valutazione. È uno scribacchino! strepitano indignati. Uno scribacchino pretenzioso! La specie peggiore! Quelli che credono di passare per uno di noi!

In genere i pochi che cercano di distanziarsi da questa visione arteriosclerotica ottengono risultati modesti. Forse i loro colleghi accetteranno Chandler tra i grandi, riservandogli però un posticino in fondo al tavolo. E non mancheranno i pettegolezzi: Veniva dalla scuola del pulp... comunque, non se la cava male per uno della sua risma... sapevate che negli anni Trenta scriveva per Black Mask... sì, che imbarazzo.

Addirittura Charles Dickens , lo Shakespeare del romanzo, è stato vittima di ripetuti attacchi per le trame sensazionalistiche, la spensierata prolificità (quando non sfornava libri, metteva in cantiere figli insieme alla moglie) e, naturalmente, il consenso della plebaglia di ieri e oggi. Critici e studiosi non hanno mai visto di buon occhio il successo commerciale. Spesso la loro diffidenza è giustificata, ma talvolta viene usata come scusa per non mettere in moto il cervello. Non esistono persone con maggiore pigrizia mentale di quelle con un'intelligenza prodigiosa. Appena ne hanno l'occasione, tirano i remi in barca abbandonandosi sonnacchiose alla corrente... magari fino a Bisanzio, per parafrasare Yeats.

[...]

Se volete diventare scrittori, dovete leggere e scrivere un sacco. Che io sappia, non ci sono alternative o scorciatoie.

[...]

A costo di essere brutalmente sincero, se non avete tempo per leggere, non avete nemmeno il tempo (o gli attrezzi necessari) per scrivere. Punto e basta.

La lettura costituisce il nucleo creativo della vita di un autore. Mi trascino dietro un libro dovunque vada e approfitto di qualsiasi opportunità per sbirciare tra le sue pagine. Il trucco sta nell'impratichirsi a leggere a piccoli sorsi e non soltanto a lunghe golate. Le sale d'attesa sono l'ideale, ovviamente, ma anche gli atri dei cinema prima di uno spettacolo, le interminabili e noiose code alla cassa di un supermercato, e il posto preferito dal mondo intero, il cesso. Potete addirittura leggere guidando, grazie alla rivoluzione degli audiolibri. Di tutti i volumi che mi pappo ogni anno, circa una decina è su cassetta. Coraggio, non lamentatevi se vi perdete qualcosa alla radio; alla lunga, anche Highway Star dei Deep Purple diventa una palla.

Secondo il galateo leggere a tavola è da maleducati ma, se intendete sfondare, la maleducazione deve essere la penultima delle vostre preoccupazioni, seguita a ruota dalle aspettative della buona società. Tanto i giorni come suoi membri sono contati, se siete intenzionati a scrivere con schiettezza.

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Pagina 151

A mio parere, romanzi e racconti consistono di tre parti. La narrazione, che porta la storia da A a B fino a Z. La descrizione, che crea una realtà tangibile per il lettore. E il dialogo, che dà vita ai personaggi attraverso i loro discorsi.

Vi chiederete dove sia la trama qui in mezzo. La risposta, almeno la mia: da nessuna parte. Non cercherò di convincervi che non ho mai pianificato un romanzo, sarebbe come asserire che non ho mai mentito, ma evito il più spesso possibile di fare entrambe le cose. Non mi fido della trama per due motivi: innanzitutto, perché di massima le nostre esistenze ne sono prive, nonostante calcoli e programmi, per quanto scrupolosi e accurati. In secondo luogo, perché sono certo che una struttura rigida non sia compatibile con la spontaneità della vera creazione. È meglio essere più chiari che mai: sono sicuro, sforzatevi di capirmi, che le storie prendano forma quasi da sole. Il compito dell'autore è dare loro un posto dove crescere (e trascriverle, ovvio). Se anche voi proverete a vederla allo stesso modo, lavoreremo insieme a meraviglia. Se invece deciderete che sono matto, non preoccupatevi. Non sareste i primi.

[...]

La trama è un arnese troppo grande, quasi il martello pneumatico dello scrittore. Certo, può servire per tirare fuori un reperto dalla dura terra, non ne dubito, ma sappiamo bene che rischierebbe di distruggerlo. È un metodo goffo, meccanico, banale. Secondo me la trama è l'ultima spiaggia dei bravi autori e la prima scelta dei fessacchiotti. Ciò che se ne ricava tende a essere artificioso e innaturale.

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Pagina 184

Abbiamo parlato di alcuni aspetti fondamentali di una buona narrazione, che rimandano sempre alle medesime idee essenziali: la pratica ha un valore inestimabile (dovrebbe essere motivo di piacere e non una fatica sovrumana) e l'onestà è d'obbligo. Il talento nella descrizione, nel dialogo e nello sviluppo dei personaggi si riduce a vedere e ascoltare con chiarezza ciò che abbiamo intorno, per poi riportarlo con la stessa precisione sulla carta, magari senza adoperare un sacco di inutili avverbi fastidiosi.

Restano ancora parecchi fronzoli e orpelli: l'onomatopea, l'iterazione rafforzativa, il flusso di coscienza, il dialogo interiore; i cambi di tempo verbale (ormai sembra abbastanza di moda ricorrere al presente per i racconti, quelli più brevi in particolare), la questione spinosa dei retroscena (come usarli e in quale misura), il tema e il ritmo (su cui torneremo), e decine di altri punti che vengono sviscerati, talvolta in modo anche troppo esauriente, in corsi e manuali di scrittura creativa.

La mia opinione in merito è piuttosto semplice. È tutto a vostra disposizione, fino all'ultima minuzia, e dovreste servirvi di qualsiasi mezzo che migliori la qualità dei vostri lavori senza intralciare la storia. Se vi piace una frase grondante allitterazioni (i giannizzeri del giammai guerreggiano contro i nababbi del nulla, per esempio), buttatela giù senza problemi, controllando che effetto fa sulla pagina. Se funziona, può rimanere. Se invece è una schifezza (tipo quella di sopra, un incrocio tra Spiro Agnew e Robert Jordan), be', il pulsante CANC sulla tastiera del computer è stato inventato apposta.

Non bisogna essere retrogradi e antiquati, ma non esiste neppure l'obbligo di adottare una prosa sperimentale e frammentata soltanto perché il Village Voice e la New York Review of Books hanno decretato la morte del romanzo. Avete l'opportunità di scegliere tra modernità e tradizionalismo. Cazzo, se ci tenete, scrivete alla rovescia o disegnate geroglifici con i pastelli. Però, a prescindere dalla decisione, arriverà per voi il momento di valutare la bontà del vostro operato. Sforzatevi di lasciar uscire dallo studio o dalla stanzetta soltanto materiale in grado di andare incontro ai gusti dei lettori. È impossibile accontentarli sempre tutti, o anche solo una buona parte: ma provate a soddisfarne almeno qualcuno ogni tanto. Credo che sia stato William Shakespeare ad affermarlo. E dopo avervi messo sul chi va là, nel pieno rispetto delle linee guida del Dipartimento della sicurezza sul lavoro, della NASA, del Mensa e del sindacato scrittori, permettetemi di ribadire che è tutto a vostra disposizione, a portata di mano. Non è un pensiero esaltante? Sbizzarritevi a creare ciò che preferite, accidenti, non importa se bislacco o tragicamente banale. Se funziona, perfetto. Altrimenti eliminatelo, anche se lo adorate. Sir Arthur Quiller-Couch un tempo consigliò: «Uccidete i vostri beniamini». Aveva ragione.

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Pagina 190

Il romanzo che ho impiegato di più a scrivere è stato L'ombra dello scorpione. È anche quello che i miei estimatori di lunga data continuano a reputare il migliore. Forse mi deprime un po' il consenso unanime secondo cui la mia opera più riuscita risale a vent'anni fa, ma preferirei non addentrarmi adesso in questo argomento, grazie. Comunque, completai la prima bozza sedici mesi dopo avere iniziato a sgobbarci sopra. L'ombra dello scorpione comportò più dispendio di tempo del normale perché quasi schiattò nella corsa dalla terza a casa base.

Avevo in testa un volume di vaste proporzioni, con una serie sterminata di figure principali: un'epopea fantasy, se mai ne fossi stato capace. A tale scopo, ricorsi a una narrazione da più punti di vista, aggiungendo un personaggio di spicco in ciascun capitolo della lunga parte d'esordio. Così, consacrai il primo capitolo a Stuart Redman, un operaio del Texas; il secondo a Fran Goldsmith, un'universitaria incinta del Maine, per poi tornare su Stu; il terzo a Larry Underwood, un cantante rock di New York, senza però tralasciare Fran e Redman.

Il mio piano consisteva nel radunarli tutti quanti, buoni, brutti e cattivi, in due città distinte: Boulder e Las Vegas. Chissà, forse i due gruppi sarebbero finiti a combattersi a vicenda. La metà iniziale era anche dedicata alla storia di un virus creato in laboratorio che si diffonde per l'America e il resto del pianeta, spazzando via il novantanove per cento dell'umanità e distruggendo dalle fondamenta la civiltà tecnologica.

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Pagina 260

In una parte di questo volume, forse addirittura eccessiva, vi ho spiegato come ho imparato il mio mestiere. In un'altra, persino più sostanziosa, ho cercato di insegnarvi a crescere professionalmente. In un'altra ancora, probabilmente la migliore, vi ho dato carta bianca: potete e dovreste farcela, e se avrete il coraggio di cominciare, ce la farete. Scrivere è magia, acqua di vita, al pari di qualsiasi attività creativa. L'acqua è gratis. Forza, bevete.

Bevete e dissetatevi.

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