Copertina
Autore Étienne Klein
Titolo Le strategie di Crono
EdizioneMeltemi, Roma, 2005 , pag. 154, cop.fle., dim. 146x209x13 mm , Isbn 978-88-8353-423-2
OriginaleLes Tactiqwues di Crono
EdizioneFlammarion, Paris, 2004
TraduttoreAntonio Perri
LettorePiergiorgio Siena, 2006
Classe fisica , filosofia
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Indice

  9 Introduzione
 15 Capitolo primo
    L'orologio è davvero così loquace?

 20 Capitolo secondo
    La parola "tempo", ovvero l'imbarazzo dei dizionari

 27 Capitolo terzo
    Un fiume che non sgorga da una sorgente

 30 Capitolo quarto
    Il tempo prima di Crono

 34 Capitolo quinto
    Il tempo che si ferma, ovvero il mondo abolito

 37 Capitolo sesto
    Con il tempo, non tutto va via

 43 Capitolo settimo
    La noia, ovvero il tempo messo a nudo

 48 Capitolo ottavo
    Cos'è che fa passare il tempo?

 52 Capitolo nono
    L'eterno ritorno, ovvero i vizi del circolo

 60 Capitolo decimo
    La causalità, ovvero l'impossibilità del tac-tic

 66 Capitolo undicesimo
    "Viaggi" nel tempo e altre ucronie

 70 Capitolo dodicesimo
    L'antimateria, ovvero la fine del viaggio

 77 Capitolo tredicesimo
    1905: l'"adesso" da il suo addio all'Universo

 83 Capitolo quattordicesimo
    L'avvenire esiste già nel futuro?

 86 Capitolo quindicesimo
    Il tempo trasforma in freccia ogni pezzetto di legno?

 93 Capitolo sedicesimo
    La banda dei kaoni mette il tempo sottosopra

100 Capitolo diciassettesimo
    2002: il tempo cosmico accelera?

106 Capitolo diciottesimo
    Tempo... ma solo di tanto in tanto?

110 Capitolo diciannovesimo
    Danza delle supercorde e valzer a più tempi

117 Capitolo ventesimo
    Teorie cercano origine del tempo, disperatamente

123 Capitolo ventunesimo
    La mente è cronoclasta, perciò l'orologio è utile

128 Capitolo ventiduesimo
    Infiniti sviluppi dell'istante presente

132 Capitolo ventunesimo
    L'inconscio, ovvero il tempo senza più corso

136 Capitolo ventiquattresimo
    Il fisico, il romantico e il geloso.
    Ovvero, i drammi del non possedere

139 Capitolo venticinquesimo
    La fisica ha forse dimenticato la morte?

149 Bibliografia

 

 

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Pagina 27

Capitolo terzo

Un fiume che non sgorga da una sorgente


"Il tempo è un fiume fatto di eventi... ", notava Marco Aurelio (Pensieri, IV, 43), imperatore e nondimeno avveduto filosofo - oppure, chissà, filosofo e a dispetto di ciò imperatore. Questa metafora, che associa implicitamente il tempo all'idea di un liquido che scorre, non è affatto invecchiata: un millennio più tardi Sant'Antonio parlava del proprio orologio come di qualcosa "che gocciola", e continuiamo a essere imbevuti dell'idea che il tempo sia una specie di liquido che "scorre", del tutto indipendentemente da noi. L'idea, del resto, è penetrata in noi a tal punto che non la mettiamo mai in discussione: la doxa non è forse caratterizzata dal prendere per buona una verità a priori, trasformando una semplice forzatura in un vero e proprio processo verbale? Poiché esprime l'idea che il presente cambi costantemente - proprio come l'acqua che scorre - questa immagine in fondo non si limita a riproporci un semplice dato di fatto?

Ora, un fiume non è mai identico a se stesso perché è fatto di elementi che si rinnovano costantemente - e lo stesso può dirsi di noi esseri umani: anche noi in un certo senso "scorriamo", perché ogni istante che passa ci proietta in un mondo nuovo e in un io inedito. Perciò non c'è alcuna ragione che ci impedisca di sostenere - seguendo Eraclito - che la sola cosa immutabile sia proprio la proprietà delle cose e degli esseri di cambiare, cosicché nulla può mai restare identico a se stesso. Da questo punto di vista il cambiamento e la contingenza sono, paradossalmente, espressione di una legge senza tempo. Sempre in azione, essi sono manifestazione dell'eternità e fanno sorgere questo interrogativo: qual è dunque l'ordine soggiacente o immanente che governa delle realtà in perpetuo movimento? Eppure, in una maniera che in definitiva si rivela davvero sorprendente, il nostro modo di parlare del tempo come di un fiume accoglie sistematicamente l'opinione opposta: associa cioè il tempo alla labilità, al moto. Secondo il nostro modo di vedere, insomma, è il tempo che scorre, non il mondo e neppure noi stessi.

Questo modo di esprimersi non è neutrale, dato che ipostatizza l'idea stessa di tempo attribuendo a quest'ultimo, sia pure in forma implicita, proprietà che non necessariamente possiede. Per questo è opportuno scovare alcuni di questi a priori nascosti che il fiume trascina con sé mentre scorre.

Tanto per cominciare, se il tempo fosse un fiume quale sarebbe il suo "letto"? In relazione a cosa, insomma, diremo del tempo che "scorre"? E le sue "sponde"? Non è difficile rendersi conto che l'idea di scorrimento postula surrettiziamente l'esistenza di una realtà intemporale entro cui il tempo dovrebbe passare, ottenendo lo strano risultato di "ricondurre" [rivé] quest'ultimo al suo contrario - quasi che il tempo fosse rivestito di "non-tempo".

In secondo luogo, nel caso del fiume il "motore" dello scorrimento ci è noto: è la gravità. Poiché l'altitudine a monte è maggiore di quella a valle, l'acqua scorre sempre nello stesso senso - ossia dall'alto verso il basso. Ma cos'è che fa scorrere il tempo? In questo caso la gravita non c'entra: ieri, oggi e domani sono momenti di tempo del tutto equivalenti, sono in un certo senso alla stessa "altezza". Perciò il corso del tempo non è il risultato di una specie di caduta; ma allora cos'è che spinge il presente a scorrere verso il futuro - a meno che non sia invece il futuro a venire verso di noi?

Infine, dire che il tempo scorre come un fiume implica che abbia una certa velocità in relazione alle sue sponde. Nel linguaggio corrente del resto, attribuiamo costantemente al tempo proprio la proprietà della velocità: non diciamo forse che il tempo passa "sempre più veloce"? Ma in genere una velocità è la derivata di una quantità data in relazione al... tempo! Ne segue dunque che per ricavare la velocità del tempo dobbiamo stabilire il ritmo della variazione del tempo in relazione a... se stesso! Ci siamo appena lanciati nel confronto, ed eccoci già con le spalle al muro.

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Pagina 49

Capitolo ottavo

Cos'è che fa passare il tempo?


                    Mi aggiro senza meta attraverso i
                    giorni come una puttana in un mondo
                    senza marciapiedi.
                                                 Cioran

                    Nel passato c'era molto più avvenire
                    di adesso.
                                                 Le Chat



La prima matematizzazione del tempo fisico, annunciata da Galileo e formalizzata da Newton, è consistita nell'ipotesi che esso avesse una sola dimensione. Il ragionamento che portava a tale conclusione era semplice: un solo numero è sufficiente a datare un evento fisico, dunque esiste un solo tempo alla volta. E dato che il tempo non smette mai di passare, lo si rappresenta mediante una linea perfettamente continua. Questa raffigurazione è conforme a ciò che ci insegna la nostra esperienza: siamo spesso testimoni di eventi che si sovrappongono nel tempo (ossia eventi che hanno luogo simultaneamente), ma non ci troviamo mai davanti a lacune. Il tempo ignora le pause caffè, e non prende mai permessi. Il suo involucro che tutto racchiude non ha nessun "buco" da cui sia possibile evadere, neppure per poco: il tempo si identifica con un flusso, formato da istanti infinitamente vicini e che si succedono gli uni agli altri senza soluzione di continuità.

Questa rappresentazione, vecchia ormai di molti secoli, ci ha talmente condizionato che ormai siamo come assopiti: la forza dell'abitudine ci induce a credere che sia sufficiente a esaurire l'intera problematica della rappresentazione del tempo. Semplice formalizzazione dell'immagine del fiume che scorre? Elementare matematizzazione della nostra intuizione del tempo? A pensarci bene, si tratta di una rappresentazione che induce a porsi strane questioni, tutte riconducibili a quelli che potremmo chiamare i "problemi di linea" del tempo.

Anzitutto, per generare una linea a partire da un punto bisogna disporre di qualcosa di cui l'istante è privo; ma questo qualcosa, necessario a produrre una durata, non è altro che... il tempo! La raffigurazione del tempo mediante una linea è dunque fondamentalmente incompleta: omette infatti di indicare come si costruisce questa linea. Poiché il presente di per sé conduce solo a un altro presente, è assolutamente necessario che qualcosa - un "piccolo motore" - faccia questo lavoro al suo posto. Ma cosa è mai questo "motorino" che tira le fila di tutto e che, ininterrottamente, rinnova il presente se non il "nucleo", il "cuore" stesso del tempo? Non è proprio il tempo a prolungare ogni istante sotto forma di continuità temporale, vale a dire sotto forma di durata? Senza la sua dinamica, la novità unica di ciascun istante non potrebbe in nessun modo manifestarsi. Tutto questo ci induce a cambiare il nostro modo di guardare la linea del tempo: il cuore del tempo non è nella linea con la quale lo si rappresenta, ma nella dinamica nascosta che genera questa linea.

A questo punto, però, si pone un secondo problema. Per poter dire che un'infinità di punti forma una linea, non è forse necessario che tali punti coesistano allo stesso tempo sotto lo sguardo di qualcuno? Bergson aveva notato che questa rappresentazione del tempo per mezzo di una linea non era in realtà che una spazializzazione del tempo, che rasentava la sua negazione: "l'ordine che stabiliamo deriva dal fatto che la successione diventa simultaneità e si proietta nello spazio. [...] Per dare a questa argomentazione una forma più rigorosa, immaginiamo una linea retta, infinita, e su questa linea un punto materiale A che si sposta. Se questo punto prendesse coscienza di se stesso, sentirebbe di star cambiando in quanto si muove: percepirebbe una successione; ma questa successione avrebbe per esso la forma di una linea? Certamente, a condizione però che in qualche modo esso potesse sollevarsi al di sopra della linea che percorre e percepire simultaneamente più punti giustapposti di essa: ma con ciò stesso darebbe luogo all'idea di spazio, ed è nello spazio, non nella durata pura, che vedrebbe svolgersi i cambiamenti che subisce" (Bergson 1888, pp. 67-68).

Una linea, in effetti, può essere percepita sotto forma di linea solo da uno spettatore che sia esterno a essa. Ma qualunque forma di "levitazione" al di sopra del tempo è impossibile: non possiamo mai tirarci fuori dal presente per osservarne la continuità con il passato o il futuro. Ma allora come diavolo siamo giunti a parlare di una "forma del tempo", dato che ciò presuppone la possibilità di riuscire a guardare il tempo dall'esterno - ossia proprio quella visione di cui siamo privi? Se così fosse, saremmo simili a dei pesci rossi misteriosamente capaci di descrivere la forma esterna della loro vasca!

Sant'Agostino, che aveva presentito questa difficoltà, nelle sue Confessioni si stupisce di poter sentire il passaggio del tempo: "Come posso essere nel presente e allontanarmene a sufficienza per rendermi conto che il tempo passa?". Quasi sedici secoli più tardi, questo problema continua a dare le vertigini anche alle menti più solide, anche se ormai la spiegazione avanzata da Bergson per contestare la spazializzazione del tempo fisico non tiene più: oggi sappiamo descrivere il fatto che una linea è una linea senza che sia necessario proiettarla in uno spazio che la contiene e la supera in grandezza: la sua "topologia" e le sue proprietà essenziali, ad esempio la sua continuità, possono essere definite matematicamente in modo intrinseco - vale a dire senza fondarsi su ciò che è "esterno" alla linea. Ma non è tutto: ci si può anche interrogare circa la localizzazione della linea del tempo. Se infatti tutto è contenuto nel tempo, in quale spazio anteriore al tempo deve essere tracciata questa linea del tempo? Fluttua nel vuoto, o si poggia su "qualche cosa"? Ritroviamo qui il problema della riva, di cui si è già parlato a proposito della metafora del fiume. Dentro cosa si svilupperebbe il tempo? Il tempo che tutto ingloba, come lo si può rappresentare in qualcosa? C'è forse un "al di fuori" del tempo? Possiamo immaginare che il tempo crei il mondo man mano che passa, istante dopo istante, quasi lo portasse sulle sue spalle e avanzasse assieme a lui; oppure si può ritenere che esso si limiti a percorrere un territorio che è già lì, presente dall'eternità.

Emergono in tal modo due interpretazioni radicalmente diverse del tempo fisico. In base alla prima ipotesi, rappresentare il tempo mediante una linea significa raffigurare la produzione stessa di questa linea: è come se il tempo creasse lui stesso i punti percorsi, come se una forza creatrice intrinseca al presente lo traesse fuori dal nulla facendone ogni volta un'entità nuova. Nella seconda ipotesi, invece, quella rappresentazione riproduce piuttosto una specie di scena infinita; ma si tratta di una scena già data, in attesa di quel che può verificarsi al suo interno: dentro questa scena, si sviluppa il tempo. Quale dei due punti di vista bisogna scegliere? E soprattutto, è davvero necessario sceglierne uno? Lascerò questa domanda in sospeso, perché per prima cosa è necessario descrivere meglio quale forma (o quali forme) può assumere la linea del tempo.

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Pagina 83

Capitolo quattordicesimo

L'avvenire esiste già nel futuro?


                    L'avvenire è inevitabile, ma può non
                    aver luogo. Dio bada agli intervalli.
                                        Jorge Luis Borges

                    Chi parla dell'avvenire è un furfante,
                    perché è l'adesso che conta. Invocare
                    i posteri è come parlare ai vermi.
                                                   Celine



L'avvenire non esiste ancora, dunque non esiste: questa la conclusione di Aristotele, a tutta prima incontestabile. Eppure ne parliamo come se dovesse giungere con certezza, come se per noi in un certo senso fosse qualcosa di presente, come se fossimo sicuri che più tardi vi sarà ancora un presente. Le nostre incertezze, i nostri interrogativi non vertono sul fatto che l'avvenire sarà (del che non dubitiamo), ma sul problema di conoscere di cosa sarà fatto e cosa avverrà in esso. Da ciò nasce l'ambiguità dell'avvenire: niente ci vieta di vedervi realizzati tutti i progetti, finanche i più insensati - perché sulle prime non fa alcuna resistenza alla nostra volontà o ai nostri desideri; tuttavia, nessuna trama futura è certa a priori e ciascuno di noi può morire dopo un istante, senza che nulla glielo lasci presagire. Ecco perché lo statuto dell'avvenire è così ambivalente: certo quanto alla sua esistenza, esso è del tutto incerto quanto alla forma che assumerà.

Ma qual è il luogo dell'avvenire? Sant'Agostino ha dato una risposta davvero molto convincente a questa domanda: l'avvenire può essere presente soltanto nel nostro animo - o nella coscienza, come oggi si preferirebbe dire: essa soltanto, infatti, è in grado (assieme al sogno?) di rappresentarsi ciò che non è - e in particolare ciò che non è ancora. Per formarsi, l'idea di avvenire presuppone in effetti l'attesa: dall'avvenire ci separa una durata; ma è necessaria anche l'immaginazione, perché possiamo anticipare l'avvenire solo in modo funzionale; infine l'avvenire presuppone la memoria, sola in grado di riconoscere ciò che esso avrà di necessariamente ripetitivo - ad esempio autunni e inverni, primavere e poi estati; oppure gioie, dolori e di nuovo gioie. La memoria, insomma, è ciò che "arreda" a priori l'avvenire; senza di essa, potremmo pensarlo soltanto come un grande vuoto.

Insomma, non ci sono dubbi: a quanto pare l'avvenire esiste solo per la mente, ma non in sé. Esiste perché lo attendiamo, non perché è in qualche modo legato al presente o al passato da rapporti di necessità: l'avvenire non può essere determinato dal nesso con una anteriorità qualunque. Eppure, affermare che l'avvenire esiste solo nella coscienza e non nel mondo significa concedergli un'ontologia davvero molto particolare: l'avvenire sarebbe soltanto "il correlato immaginario di una coscienza in veglia", per usare l'efficace espressione di Andre Comte-Sponville (2001, p. 77).

È accaduto però - e accade ancora - che alcuni fisici, ispirandosi alla relatività di Einstein, diano un'altra interpretazione delle cose. Per costoro il passato, il presente e l'avvenire sono sempre stati "già lì", legati indistintamente a formare una specie di realtà senza tempo: di conseguenza l'Universo sarebbe privo di una vera e propria storia - anche se noi "osservatori" gliene attribuiamo una, perché siamo noi stessi a "svolgere" il filo del tempo. Questo punto di vista, in particolare, era difeso da Hermann Weyl, intimo amico di Einstein: "Il mondo oggettivo semplicemente è; esso non avviene. Solo per la mia coscienza, che avanza strisciando lungo la linea d'universo del mio corpo, una piccola parte di questo mondo vive nello spazio come immagine fugace destinata a cambiare ininterrottamente nel tempo". È probabile che siamo proprio noi a produrre una storia di cui l'Universo altrimenti sarebbe privo: in questo caso il mondo non avverrebbe [parsserait], ma saremmo noi a farlo accadere [passer] muovendoci al suo interno [en y passant]. Tutto sarebbe da sempre stato lì - il passato, il presente e il futuro - ma a causa al nostro stesso percorso saremmo in grado di scoprire questa realtà temporale già tutta dispiegata soltanto a poco a poco, istante dopo istante. Insomma il "piccolo motore" del tempo saremmo proprio noi!

Oggi il fisico Thibault Damour, specialista della relatività generale, formula idee che conducono alle stesse conclusioni - anche se le declina a modo suo. Secondo Damour il fatto che il tempo passi è solo un'illusione dovuta al carattere irreversibile del nostro processo di memorizzazione: "proprio-come la nozione di temperatura non ha alcun senso se consideriamo un sistema formato da un piccolo numero di particelle, così è probabile che l'idea dello scorrere del tempo abbia un senso solo per alcuni sistemi complessi, evolutisi al di fuori dell'equilibrio termodinamico e in grado di gestire in modo specifico le informazioni accumulate nella loro memoria" (Damour, Carrière 2002, p. 52), Il tempo dunque si ridurrebbe a un'impressione di ordine psicologico, legata alla strutturazione estremamente complessa del nostro cervello: nella sezione spaziotemporale che siamo in grado di osservare, abbiamo l'impressione che il tempo scorra "dal basso verso l'alto" dello spazio-tempo - mentre in realtà quest'ultimo rappresenta un blocco rigido, privo di qualunque dinamica interna.

Possiamo prendere sul serio questa tesi, e dire che siamo noi stessi il motore del tempo? Si tratta di una tesi difficile tanto da accettare quanto da rifiutare - che la si voglia fondare sulla relatività generale o su una forma di idealismo filosofico. La soluzione migliore, in definitiva, è insistere nel sostenere che sia una semplice questione di "punto di vista" - contrapponendosi in tal modo a ogni forma di dogmatismo.

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Pagina 110

Capitolo diciannovesimo

Danza delle supercorde e valzer a più tempi


                Era un uomo fedele.
                Il problema era che aveva troppe donne.
                Hélène Weigel (moglie di Bertolt Brecht)



Sinora abbiamo dato per scontato che la fisica, fedele in ciò all'esperienza comune, ipotizzi che lo spazio abbia tre dimensioni e vi sia un unico tempo, senza dubbio relativo, legato a filo doppio alla materia, ma in ogni caso unico. Eppure, se analizziamo alcune teorie molto audaci e ancora in fase di sviluppo nel campo della fisica delle particelle, scopriremo che tale situazione potrebbe cambiare in un prossimo futuro - anche se le reticenze al riguardo sono colossali. È davvero possibile che vi siano più tempi... allo stesso tempo?

I fisici delle particelle si interessano a oggetti - le particelle appunto - che è impossibile vedere tanto sono piccoli. Inoltre, si interessano alle loro interazioni reciproche. Quattro generi di interazione sono davvero fondamentali: la gravitazione, l'interazione elettromagnetica e due interazioni nucleari che agiscono solo su scala microscopica. La prima, detta "debole", regola alcuni processi radioattivi; l'altra, detta "forte", tiene uniti i costituenti dei nuclei atomici.

Nel corso degli anni Ottanta fu fatta una prodigiosa scoperta: si riuscì infatti a provare - dapprima solo teoricamente, in seguito anche per via sperimentale - che l'interazione elettromagnetica e l'interazione nucleare debole, sebbene a prima vista fossero molto dissimili, non erano indipendenti l'una dall'altra. In un'epoca antichissima, anzi, avrebbero costituito addirittura un solo e unico fenomeno: l'interazione "elettro-debole". Questa scoperta fondamentale è il risultato di un uso astutissimo del concetto di simmetria, perché si è notato che era possibile dedurre la struttura di un'interazione fra particelle unicamente a partire dalle loro proprietà di simmetria. La preliminare identificazione delle simmetrie associate alle interazioni elettromagnetica e nucleare debole ha reso possibile in seguito unificarle da un punto di vista teorico, disponendole nello stesso "stampo". Questo fecondo procedimento è stato quindi applicato anche all'interazione nucleare forte. Il risultato ottenuto costituisce il "modello standard" attuale della fisica delle particelle, sperimentato in modo molto approfondito in particolare grazie al LEP (Large Electron Positron Ring), il grande collisionatore del CERN. Questo successo ci consente di affermare che le forze non sono semplici ingredienti da introdurre in modo arbitrario nelle teorie accanto alle particelle su cui si esercitano, ma sono invece il risultato di proprietà di simmetria alle quali quelle stesse particelle ubbidiscono.

Grazie al modello standard, i fisici sono riusciti a descrivere il comportamento di particelle a scale di distanza dell'ordine di 1O elevato alla -18 metri. Ma a distanze di molto inferiori le equazioni cessano di funzionare: viene così alla luce la necessità di una nuova fisica, la cui elaborazione dovrà necessariamente tenere conto della gravitazione - sinora considerata in modo marginale. Questo "ampliamento" della fisica potrà realizzarsi solo cambiando la nostra rappresentazione degli oggetti fondamentali, dunque anche quelle dello spazio e del tempo.

Oggi è allo studio un percorso in apparenza molto promettente: si tratta della teoria delle supercorde - e a scanso di equivoci dico subito che gli alpinisti in tutto questo non c'entrano nulla. I fondamenti di tale teoria sono stati elaborati nel corso degli anni Settanta, allo scopo di costruire un quadro generale entro il quale potessero essere ricondotte la fisica dei quanti - che descrive le particelle elementari - e la relatività generale - che invece descrive la gravitazione. Queste due teorie sembrano in effetti concettualmente incompatibili: le particelle quantiche sono descritte in uno spaziotempo piatto, assoluto e rigido, mentre lo spazio-tempo della relatività generale è flessibile e dinamico. Nella teoria delle supercorde, che supera entrambe, le particelle non vengono più rappresentate come oggetti dimensionali ma da oggetti longilinei e privi di spessore - ossia da "supercorde" - che vibrano entro spazi-tempi il cui numero di dimensioni è superiore a quattro. Per la precisione, questa teoria sostituisce tutte le particelle puntiformi che conosciamo con un oggetto esteso, la supercorda appunto, che può essere aperta (e dunque terminare con due estremità) oppure chiusa su se stessa; le sue differenti modalità di vibrazione corrispondono alle diverse particelle possibili: così un tipo di vibrazione corrisponde all'elettrone, un altro al neutrino, un terzo al quark... Le comuni particelle corrispondono pertanto alle modalità di vibrazione provviste delle frequenze più basse. Le particelle più pesanti, invece, corrispondono alle modalità di vibrazione le cui frequenze sono più elevate; ma dobbiamo ancora scoprirle.

Per capire in che modo sia potuta nascere l'idea (folle?) di aumentare il numero di dimensioni dello spazio-tempo è necessario fare ritorno ai magnifici anni Venti dello scorso secolo. All'epoca Einstein si chiedeva se gli effetti elettromagnetici potessero essere considerati come una proprietà geometrica dello spaziotempo. Un'idea simile si era rivelata esatta per la gravitazione: Einstein stesso, infatti, aveva reso geometrico questo concetto per mezzo della sua relatività generale, senza contare che l'elettromagnetismo e la gravitazione presentano alcune somiglianze - se non altro perché la loro forza varia sempre in base all'inverso del quadrato della distanza.

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