Autore Matthew Kneale
Titolo Storia di Roma in sette saccheggi
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2018, Nuovi Saggi 51 , pag. 438, ill., cop.rig.sov., dim. 14x21x3 cm , Isbn 978-88-339-2976-7
OriginaleRome. A History in Seven Sackings
EdizioneAtlantic Books, London, 2017
TraduttoreBianca Bertola
LettoreGiorgio Crepe, 2019
Classe citta': Roma , storia antica , storia medievale , storia moderna , storia contemporanea d'Italia , storia criminale












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


            Storia di Roma in sette saccheggi


  9         Introduzione

 13   1.    Galli

 39   2.    Goti

 95   3.    Ancora goti

129   4.    Normanni

175   5.    Spagnoli e lanzichenecchi

245   6.    Francesi

311   7.    Nazisti

395         Postfazione


401         Ringraziamenti

403         Fonti e bibliografia

427         Indice delle mappe e delle illustrazioni

431         Indice dei nomi


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Introduzione


Nessuna città è come Roma. Nessun'altra grande metropoli è riuscita a conservare così bene il proprio passato. A Roma si possono attraversare ponti già attraversati da Cicerone e Giulio Cesare, ci si può ritrovare in un tempio risalente a diciannove secoli fa o camminare in una chiesa dove cento papi hanno detto messa. Oltre alle sue famose attrazioni - le fontane, il Pantheon, il Colosseo, San Pietro, la Cappella Sistina - si possono scorgere le tracce della propaganda fascista di Mussolini, in buona parte ancora intatte. I romani hanno perfino conservato il quartier generale della Gestapo risalente all'occupazione nazista. Il fatto che tanto del suo passato sia sopravvissuto è ancora più notevole se si considera ciò che Roma ha subito nel corso dei secoli: dozzine di alluvioni catastrofiche, incendi, terremoti, pestilenze e, soprattutto, attacchi di eserciti nemici.

Quando arrivai a Roma la prima volta, all'età di otto anni, non avevo mai visto un luogo con tanti elementi della sua storia ancora in mostra. Il fascino esercitato su di me dalla città non fece che aumentare, e crescendo vi tornai diverse volte. Negli ultimi quindici anni ho vissuto a Roma, studiandola e imparando a conoscerne ogni pietra. Mi sono reso conto che volevo scrivere del suo passato e mostrare come essa sia diventata quella che è oggi: volevo raccontare l'intera storia dell'Urbe, da tremila anni fa al presente.

C'era un problema, però. Il passato di Roma è un tema assai ampio. La città è cambiata a tal punto che ci sono state molte Roma, ognuna delle quali risulterebbe in gran parte irriconoscibile ai romani vissuti in un momento diverso. I libri che tentano di narrarne per intero la storia tendono a essere fin troppo lunghi, ma anche frettolosi nel loro sforzo di ripercorrere tutti gli eventi. Prima di questo libro ho scritto perlopiù narrativa, e i romanzi, come tante altre cose, richiedono una struttura robusta e chiara. Cominciai quindi a chiedermi in che modo si potesse strutturare la storia di Roma evitando di utilizzare un'infinita sequela di «e poi». Mi venne un'idea: concentrarmi su determinati momenti della sua storia, momenti che avevano provocato un cambiamento nella città e l'avevano avviata verso una nuova direzione. I suoi saccheggi furono una scelta ovvia. Come osservano i romani mestamente, a Roma non sono mai mancati.

Sette mi parve un buon numero. Sette colli, sette saccheggi. Identificai quelli più importanti per la storia di Roma, quelli che erano avvenuti in circostanze particolari, quando la città stessa possedeva caratteristiche ben distinte da altre epoche. Cominciai a immaginare come potesse essere raccontato ogni capitolo, come se si trattasse di una storia. Prima si sarebbe visto il nemico che avanzava sulla città, e avremmo appreso chi era e cosa l'aveva portato lì. Poi ci sarebbe stata un'interruzione per esaminare com'era il luogo prima dell'inizio della crisi, quando ancora poteva godere di un senso di normalità. Si sarebbe avuta così sotto gli occhi una sorta di grande cartolina di Roma che ne descrivesse l'aspetto, l'atmosfera e gli odori; che mostrasse cosa possedevano i romani, ricchi e poveri; cosa li univa e cosa li divideva; com'erano le loro case; cosa mangiavano; in cosa credevano; quanto erano puliti; quanto erano cosmopoliti; come si divertivano; come consideravano il sesso; come si trattavano a vicenda i suoi uomini e le sue donne; e quanto a lungo potevano aspettarsi di vivere. In tal modo si sarebbe visto com'era cambiata Roma dall'ultima cartolina, e così - come unendo i pezzi di un puzzle - sarebbe emerso il quadro intero. Infine, saremmo tornati al momento drammatico del saccheggio, per scoprire come il nemico aveva fatto irruzione, quali azioni aveva perpetrato e come Roma era stata cambiata da quanto era avvenuto.

Ho trascorso quindici anni a fare ricerche per questo libro. È stato un piacere scriverlo, perché ciò mi ha permesso di comprendere meglio una città che, malgrado i suoi difetti, amo intensamente, e che trovo affascinante oggi proprio come la prima volta che ci venni da bambino. In questi strani giorni in cui il nostro mondo può apparire fragile, ho anche trovato qualcosa di piuttosto rassicurante nel passato di Roma. I romani si sono continuamente scrollati di dosso le catastrofi per ricostruire da zero la loro città, aggiungendo via via una nuova generazione di monumenti grandiosi. Insieme, pace e guerra hanno contribuito a rendere Roma il luogo straordinario che è oggi.

Roma, 2017

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

1. Galli

I

Quattordici chilometri a nord di Roma, dove il Tevere si snoda attraverso una piccola pianura, si unisce a lui un piccolo affluente - non più grande di un ruscello - chiamato Allia. Oggi è difficile notarlo. Al di là del Tevere, i camion ruggiscono sull'autostrada A1, e i treni ad alta velocità corrono a nord, verso Firenze e Milano. Serve un po' di immaginazione - e probabilmente anche un paio di tappi per le orecchie - per vedere cosa fu un giorno questo luogo: un campo di battaglia. Qui, nell'anno 387 a.C., il 18 luglio, una data che per molto tempo i romani avrebbero considerato nefasta, l'intero esercito della Repubblica, oscillante tra i seimilacinquecento e i novemila uomini, si radunò per combattere. Di fronte a loro avanzava un esercito di galli.

I romani dovevano avere un aspetto più impressionante. I soldati erano disposti in formazione, muniti di elmi, armature, lunghe lance e ampi scudi circolari, tutto in metallo. Impiegavano tattiche inventate dai greci, formando una barriera eccezionale con gli scudi e le lance. Mentre il nemico tentava di aprirsi un varco a fatica, i romani colpivano in basso con le lance, affondandole in gambe, stomaci e inguini, e poi in alto, puntando al collo e al volto degli avversari. La guerra, duemilacinquecento anni fa, era un brutale scontro faccia a faccia.

Al confronto, i galli erano un'orda indisciplinata. Pochi, o forse nessuno, delle donne e dei bambini si sarebbero fermati ad assistere alla battaglia. Questa non era una tribù in viaggio: si trattava piuttosto di una banda di guerrieri in cerca di guai, gloria e tesori. Come qualunque esercito vagante dell'epoca, è probabile che i suoi membri emanassero un cattivo odore e fossero infestati dai pidocchi. Benché sui galli di questo antico periodo vi siano pochi dati assolutamente certi, possiamo dedurre parecchie cose sul loro conto. Con ogni probabilità alcuni andavano a piedi, qualcuno era a cavallo e altri guidavano carri a due posti, che potevano trasportarli rapidamente nei punti chiave del campo di battaglia. Saranno stati armati di piccoli scudi rettangolari, spade e lance, e avranno avuto elmi di fine fattura. È facile che portassero i capelli lunghi e i baffi, e che indossassero collari a girocollo (torques). La cosa che più saltava all'occhio, però, era ciò che non indossavano. Se qualcuno era vestito, altri probabilmente non portavano nulla a parte una cintura o un mantello. Le fonti successive confermano che i galli a volte combattevano nudi, perché credevano che così sarebbero sembrati più terrificanti agli occhi deI nemico.

Di certo, infine, dovevano sentirsi fiduciosi. A quel tempo i galli di lingua celtica dominavano l'Europa. Per avere un'idea dell'estensione dei loro territori, basta considerare le regioni chiamate «Galizia», il cui significato è «terra dei galli». Esiste una Galizia nella Spagna nordoccidentale, e ce ne sono una in Ucraina e una terza in Turchia. Poi naturalmente c'è il Galles, il cui nome in francese è sempre lo stesso: Pays des Galles. Nel corso dei due secoli precedenti la battaglia dell'Allia, le popolazioni galliche avevano strappato agli etruschi la valle del Po in Italia settentrionale. E intorno al 391 a.C. una di esse, la popolazione dei sénoni, che si era sistemata lungo la costa adriatica vicino alla moderna cittadina balneare di Rimini (a meno di duecento chilometri da Roma), aveva attraversato gli Appennini e saccheggiato la città etrusca di Chiusi. Ora, quattro anni dopo, erano tornati. Era la volta di Roma.

I successi dei galli erano in gran parte da attribuirsi a due abilità nelle quali eccellevano. Erano infatti i fabbri d'Europa, famosi per le loro lavorazioni in ferro, materiale con cui creavano bellissimi ornamenti a complessi motivi geometrici, spesso intrecciati a figure di animali. Erano poi noti per i loro mezzi su ruote, tanto che i pochi termini celtici che erano riusciti a infiltrarsi nella lingua latina indicavano proprio i loro veicoli, dai carretti a mano ai grossi carri da trasporto. I carri da guerra e le armi finemente lavorate avevano portato i celti in tutta Europa.

Per quel che riguarda la vita quotidiana dei sénoni, ci basiamo su fonti scritte che risalgono a parecchi secoli dopo la battaglia dell'Allia e che però ci offrono alcuni indizi interessanti. Innanzitutto, i popoli celtici dell'ultimo periodo vivevano in una società molto meno patriarcale di quella romana. Non era raro infatti che fossero governati da regine, ed esistevano anche druidi donne. I celti avevano poi alcuni tratti in comune con i loro lontani cugini in India. Erano suddivisi in un sistema di caste che, come quello dell'induismo originario, comprendeva classi distinte di sacerdoti, guerrieri, artigiani e contadini poveri. I druidi celtici, che non erano guaritori magici ma sacerdoti che agivano in veste di giudici e consiglieri reali, godevano dello stesso status privilegiato dei brahmini indiani. I celti, inoltre, credevano nella reincarnazione. Ce lo racconta Giulio Cesare, diventato una sorta di esperto durante gli anni trascorsi a conquistarli, mentre antiche leggende irlandesi narrano di farfalle e libellule rinate in forma umana.

È difficile che qualcosa di tutto questo potesse impressionare i romani. Di nuovo, la nostra conoscenza di ciò che i romani pensavano dei galli ci viene da documenti che risalgono a secoli dopo, ma non vi sono ragioni particolari di credere che i loro pregiudizi non fossero già diffusi nel 387 a.C. I romani di epoca più recente consideravano i celti buoni oratori, ma gente primitiva, vergognosamente priva di autocontrollo, ossessionata dalla guerra, inetta, ubriacona e avida. Per quanto brutale, la loro visione conteneva qualche elemento di verità. Ai galli piaceva bere, e le loro tombe in Italia settentrionale traboccavano di elaborati calici da vino. Avevano una grande passione per i combattimenti e per l'oro, e quand'era possibile combinavano i due interessi. Probabilmente era proprio quello che stavano facendo al momento della loro marcia su Roma. Soltanto pochi mesi dopo la battaglia dell'Allia, comparve infatti in Sicilia un gruppo di galli mercenari al servizio del governatore greco di Siracusa, Dionisio, che sembra proprio fossero gli stessi guerrieri che avevano attaccato i romani il 18 luglio. Roma, a quanto parrebbe, non era dunque la destinazione prevista, ma offriva la possibilità di interrompere un lungo viaggio con un po' di lucrosa violenza.

Sebbene i romani di epoca più tarda si sentissero forse superiori ai galli, condividevano con loro più di quanto pensassero. Le antiche lingue galliche e latine erano estremamente simili, tanto che si ritiene avessero origini comuni, risalenti a circa sessanta generazioni prima dei fatti qui esaminati. In altre parole, soltanto 1500 anni prima che si incontrassero sull'Allia, i celti e i romani erano stati un unico popolo.

Ora però erano stranieri e nemici gli uni per gli altri, coinvolti in una furiosa battaglia. Ci si sarebbe aspettato un buon risultato da parte dei romani. Il loro esercito dava il meglio in campo aperto e pianeggiante dove poteva mantenere la sua formazione: proprio il tipo di terreno in cui si trovava in quel momento. Le loro tattiche erano molto più sofisticate di quelle dei galli, che si basavano sull'effetto sorpresa di una carica improvvisa. Eppure, quel giorno per i romani andò tutto storto. Il resoconto più completo ci viene dallo storico Livio, che peraltro non era un narratore obiettivo. Pur scrivendo tre secoli e mezzo dopo la battaglia, quando ormai Roma dominava l'intero mondo mediterraneo, riteneva che durante la straordinaria ascesa della città molto fosse andato perduto. Guardava con nostalgia a un'epoca nella quale, secondo lui, i romani erano stati più resistenti, più semplici, più frugali, morali e altruisti. Intendeva dunque ispirare i suoi contemporanei con i racconti commoventi del coraggio dei loro antenati.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 35

Eppure, per quanto gli eventi del 387 a.C. venissero abbelliti e romanzati, i romani non dimenticarono cos'era accaduto. I galli lasciarono un segno permanente nella loro visione del mondo, incutendo nei cittadini un nuovo senso di paura. I romani iniziarono a vivere nella persistente e sempre più irrazionale convinzione che i nemici celti un giorno sarebbero tornati per finire il lavoro e distruggere la città. Quando gli invasori gallici ricomparvero effettivamente nel Latium - cosa che fecero almeno due volte - i romani risposero dichiarando lo stato di emergenza, il «tumultus gallicus», sotto il quale tutte le esenzioni dal servizio militare erano sospese e i comandanti potevano reclutare soldati senza limitazione alcuna.

Le paure dei romani li persuasero anche a compiere qualcosa di decisamente atipico: il sacrificio umano. Più avanti, ogni volta che Roma subì altre preoccupanti sconfitte per mano o con il contributo dei galli, i cittadini presero l'abitudine di fare prigionieri due greci e due galli - un maschio e una femmina per ogni coppia - e di seppellirli vivi nel mercato del Foro Boario. Questo cruento rituale ebbe luogo in almeno tre occasioni: durante la guerra con i galli del 228 a.C., nel 216 a.C. dopo la sconfitta a Canne per mano di Annibale - metà del suo esercito era composto da galli - e di nuovo nel 114 a.C., quando le forze galliche sconfissero i romani in Macedonia. Ancora nel 21 d.C., quando ormai Roma dominava il Mediterraneo e aveva conquistato tutti i celti d'Europa tranne quelli di Gran Bretagna e Irlanda, una rivolta minore di due tribù galliche in Francia gettò la città nel panico.

I timori di Roma, comunque, provocarono nei suoi abitanti anche risposte più razionali, che ebbero un ruolo cruciale nell'impressionante ascesa dell'Urbe. Dopo l'attacco subito nel 387 a.C., i romani diedero finalmente alla città difese degne di questo nome. Con un'enorme impresa, che potrebbe averli impegnati per ben venticinque anni, i cittadini costruirono una cinta muraria lunga undici chilometri, di cui ancora oggi è possibile vedere alcuni tratti. Le nuove mura, note come Mura Serviane, si dimostrarono preziosissime in diverse occasioni durante le guerre successive. I romani inoltre riorganizzarono il loro esercito per renderlo meno vulnerabile contro un nemico mobile e rapido com'erano stati i galli di Brenno. La fanteria venne protetta da soldati armati di giavellotti e pietre, e le truppe furono divise in unità indipendenti, così se un'ala collassava le altre potevano resistere e continuare. Grazie a questi cambiamenti, l'esercito romano divenne una macchina da guerra formidabile.

La sconvolgente bastonata che Roma subì da parte dei galli la rese dunque più forte, facendola riemergere dalle ceneri come una fenice. Corrompere i barbari per persuaderli ad andarsene potrà essere stato motivo di vergogna, un capitolo della storia da riscrivere, ma era stata la decisione giusta. I cittadini e lo Stato sopravvissero. Come abbiamo visto, i principali monumenti della città, per esempio il grande Tempio di Giove Ottimo Massimo, rimasero intatti. E l'Urbe, non per l'ultima volta, sfuggì felicemente alla catastrofe.

La città si rimise ben presto sulla sua strada espansionista. Anche se le comunità latine da lei conquistate si ribellarono, Roma ne riprese in fretta il controllo e nel giro di pochi decenni dalla sconfitta sull'Allia gli eserciti romani si ritrovarono impegnati in campagne più estese che mai. Durante le lunghe ed estenuanti guerre contro i sanniti in Italia meridionale, contro gli etruschi, i greci di Pirro e i cartaginesi di Annibale, i romani si scrollarono continuamente di dosso le disastrose battute d'arresto - che non mancarono di certo - per riprendersi e tornare a combattere. Così facendo, acquisirono quel coraggio e quella grintosa e pragmatica determinazione che Livio aveva loro attribuito già all'epoca dell'assalto dei galli. Il re Pirro parlò per molti nemici di Roma quando osservò che, se avesse ottenuto un'altra vittoria così, sarebbe stato perso per sempre.

Grazie a quelle vittorie, il popolo romano poté prendersi qualche rivincita. Sembrerebbe che i galli avessero capito cosa sarebbe successo, e in tutte le prime guerre di Roma essi si schierarono con i suoi nemici, ma la cosa non li aiutò. Nel 232 a.C. il comandante romano Publio Scipione Nasica guidò il suo esercito nelle terre di coloro che avevano saccheggiato l'Urbe un secolo e mezzo prima, i sénoni; alla fine della campagna, si vantò di aver lasciato vivi soltanto i ragazzini e gli anziani. I romani fecero in modo di assicurarsi che la loro vittoria fosse permanente. Si impadronirono delle terre più adatte alla coltivazione, distribuendole tra i cittadini romani e gli alleati latini. Il territorio dei sénoni venne solcato da strade romane, e sulla costa fu costruita una città militare, Seria Gallica (Senigallia), affinché dominasse sulla regione.

All'inizio del II secolo a.C. tutta l'area dell'Italia settentrionale occupata dai galli era stata sottomessa, con un accanimento inusuale perfino per i romani. Molti abitanti furono uccisi, dispersi o resi schiavi. E i galli rimasti sul suolo italico continuarono a essere trattati con diffidenza, tanto che furono gli ultimi a ottenere la cittadinanza romana.

Alla fine, però, i due popoli cominciarono ad accettarsi. I romani inclusero i galli nel loro progetto imperiale, e i galli, una volta entrati a farne parte, cominciarono ad assimilarsi agli usi dei conquistatori. Presero a studiare il latino, che, essendo strettamente imparentato con la loro lingua, trovavano piacevolmente facile. Iniziarono a partecipare agli svaghi dei romani, a dare ai loro figli un'educazione romana, ad adorare gli dèi romani e a vivere in città i cui templi e anfiteatri venivano modellati su quelli romani. Arrivarono perfino a commuoversi leggendo le storie di Livio sui coraggiosi eroi degli inizi dell'Urbe. Alla fine, cominciarono a considerarsi romani. La vittoria di Roma non avrebbe potuto essere più completa.

A quel punto, però, galli e romani si ritrovarono uniti contro un nemico comune. I romani infatti non erano gli unici ad aver sconfitto i galli e ad aver occupato il loro territorio. Mentre Giulio Cesare conquistava la Gallia transalpina, un altro popolo si stava impadronendo del cuore delle terre celtiche in Europa centrale. Si trattava dei nuovi barbari.

Stavano arrivando i germani.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 311

7. Nazisti


Villa Ada-Savoia, nella ricca periferia nord-orientale di Roma, non sembrerebbe un luogo dove possa essere mai accaduto qualcosa di significativo. Oggi è l'ambasciata della Repubblica araba d'Egitto, e un paio di soldati dall'aria annoiata ne sorvegliano l'ingresso principale. Sorge a un'estremità del parco omonimo, uno dei più grandi di Roma, dove gli abitanti della zona si godono i picnic domenicali e portano a passeggio cani spazzolati con cura. L'edificio non è antico (risale alla fine del XIX secolo) e neanche troppo imponente. Di forma quadrata e affiancato da una finta torre medievale, potrebbe essere la casa delle vacanze in Toscana di un presentatore di quiz televisivi. Guardando meglio, però, si capisce subito che un tempo apparteneva a qualcuno di importante. Una costruzione abbandonata subito dietro alla villa, oggi sigillata e coperta di graffiti, era un tempo una stalla per cavalli purosangue. Nei paraggi vi sono anche un giardino ornamentale, un piccolo anfiteatro sovrastato da un gazebo in rovina e l'elemento più rivelatore di tutti: un grosso rifugio antiaereo sotterraneo. Se non lo si fosse già intuito dal nome, tutto si spiega osservando lo stemma che compare sulla finta torre medievale, quello della Real Casa di Savoia. Nell'estate del 1943 la villa era la residenza privata del re d'Italia, Vittorio Emanuele III.

Alle cinque del pomeriggio di domenica 25 luglio, il sovrano ricevette un visitatore: Benito Mussolini. Un piccolo convoglio si avvicinò alla villa. Le tre auto della scorta, con le guardie e gli aiutanti, tornarono indietro verso l'ingresso del parco, mentre Mussolini e il suo segretario Nicola De Cesare, che portava con sé una grossa cartella piena di documenti, scendevano da una berlina. Il re li aspettava all'entrata per dar loro il benvenuto, cosa che fece con un certo calore, rivolgendosi a Mussolini con l'appellativo «duce», un termine che nei vent'anni di governo mussoliniano aveva sempre evitato. La porta d'ingresso si richiuse dietro al dittatore e al suo segretario, e i carabinieri fecero parcheggiare l'autista in un angolo tranquillo del parco. Forse, mentre era al volante, questi notò dietro all'edificio un'ambulanza nascosta.

Quel pomeriggio Mussolini appariva stanco e, secondo una fonte, aveva un'ombra di barba sul mento, perché, contrariamente alle sue abitudini, aveva dimenticato di radersi. Del resto aveva passato una notte lunga e faticosa. Aveva presieduto a un incontro del Gran consiglio del fascismo, il primo da parecchi anni, che era durato dieci ore assumendo toni sempre più ostili, perché i presenti si erano accusati l'un l'altro - e avevano accusato soprattutto Mussolini - della disastrosa gestione della guerra. Qualche giorno dopo, una giornalista svizzera di nome M. de Wyss, che visse a Roma in questo periodo e che scrisse un diario di tutto ciò a cui assistette, ricostruì quanto era accaduto in base alla testimonianza di alcuni presenti:

Volarono furiosi attacchi personali e violente invettive. Per esempio, De Vecchi urlò a Frattari: «È questa prostituta che ti permette di restare», poiché Frattari era sostenuto dalla famigerata amante di Mussolini, la Petacci. Tutti urlavano. Alcuni pestavano i pugni sul tavolo. Altri piansero. Il ministro Pareschi addirittura svenne.

L'incontro era terminato finalmente alle tre di notte con la decisione del Consiglio di privare Mussolini dei suoi poteri e di affidare al re il controllo dell'esercito. Mussolini era stato deposto. Ciononostante, il mattino dopo egli decise di ignorare l'intera faccenda. Dopotutto, il Gran consiglio aveva soltanto un ruolo consultivo. Decise di proseguire la giornata come al solito, preparando in silenzio una piccola vendetta contro i traditori. Arrivò nel suo ufficio di Palazzo Venezia alle nove, come sempre, e nel primo pomeriggio tornò a casa, a Villa Torlonia, nella parte nord-est della città. Li venne a sapere che il re lo aveva convocato a Villa Ada-Savoia. Stranamente, Mussolini ricevette istruzioni di non indossare l'uniforme militare abituale, ma abiti civili. La moglie Rachele si insospettì e gli disse di non andare, ma lui la ignorò e, con un completo blu e un cappello nero, uscì nella soffocante calura estiva.

M. de Wyss descrisse la riunione tra Mussolini e il re come uno scontro aspro, nel corso del quale i due, furiosi, si lanciarono accuse a vicenda. A quanto pare, però, i contatti della giornalista le riferirono una versione esagerata dei fatti, e alcune testimonianze raccolte mesi dopo tra coloro che erano stati presenti dipingono un quadro meno drammatico. Il re disse a Mussolini che era a conoscenza di quanto era avvenuto durante la riunione del Gran consiglio. Mussolini, che l'aveva previsto, si mise a sfogliare affannosamente il fascicolo di documenti che aveva portato il suo segretario, cercandone uno che provasse che il ruolo del Gran consiglio era solo di consulta. Il re ribadì che quel voto dimostrava che la fiducia nella capacità di governo di Mussolini era crollata, poi annunciò la sua decisione di nominare un nuovo capo politico: il maresciallo Badoglio. Temendo una reazione violenta da parte di Mussolini, il sovrano aveva un attendente nascosto nella stanza accanto, pronto a intervenire con una pistola carica; ma la precauzione si rivelò superflua. Mussolini parve crollare.

Terminato il colloquio, il re lo ricondusse all'ingresso della villa insieme al suo segretario, chiedendo ad alta voce: «Dov'è l'automobile del duce?» Invece della berlina, però, arrivò l'ambulanza rimasta fino a quel momento nascosta dietro al palazzo. Mentre il re spariva all'interno della casa, Mussolini si trovò il passo sbarrato da un ufficiale dei carabinieri, il capitano Vigneri, il quale gli disse che, per una questione di sicurezza personale, sarebbe dovuto andare con lui. In quel momento le porte posteriori dell'ambulanza si aprirono, rivelando una squadra di carabinieri armati fino ai denti. Mussolini arretrò, mormorando che non gli serviva alcuna protezione, ma Vigneri lo afferrò saldamente per un braccio e lo portò verso il veicolo. Secondo un testimone, mentre entrava Mussolini si bagnò i pantaloni.

Re Vittorio Emanuele non era un personaggio da cui ci si sarebbe aspettato un colpo di Stato per deporre il dittatore d'Italia. Noto per la sua statura ridotta - la regina Vittoria d'Inghilterra, lei stessa tutt'altro che alta, osservò una volta che il sovrano era «terribilmente basso» - non aveva mai voluto essere re, e in gioventù aveva tentato di persuadere il padre a nominare al suo posto l'affascinante cugino, il duca d'Aosta. Così, quando suo padre venne assassinato nel 1900, Vittorio Emanuele accettò il ruolo senza entusiasmo. Preferiva di gran lunga allevare cavalli, andare a caccia e aggiungere nuove monete alla sua vasta collezione - o, durante la prima guerra mondiale, passare il tempo con le truppe italiane al fronte - che adempiere ai propri doveri pubblici. Frugale fino all'avarizia, usava il Palazzo del Quirinale soltanto per gli eventi di Stato, scegliendo invece come residenza Villa Ada-Savoia, assai più piccola. Quando Mussolini si impadronì del potere nel 1922, Vittorio Emanuele gli fu riconoscente per aver salvato sia l'Italia sia la monarchia, questa era la sua convinzione, dalla minaccia bolscevica. E nei vent'anni successivi lasciò ogni decisione nelle sue mani, mantenendo un basso profilo.

Il sovrano che si era sempre tenuto in posizione defilata era stato trasformato in un uomo d'azione dalla disastrosa guerra in cui Mussolini aveva trascinato il paese. NeI 1943 era ormai chiaro che sarebbe stata perduta, e già in gennaio i suoi consiglieri lo avevano esortato a deporre il dittatore e a chiedere la pace agli Alleati. Il re, per natura cauto e fatalista, aveva temporeggiato. Poi, il 19 luglio 1943, Roma venne bombardata per la prima volta. Durante il gigantesco raid diurno al quale parteciparono più di 600 aerei americani, la mancanza di preparazione italiana si manifestò con penosa chiarezza. Il re, osservando tutto da Villa Ada-Savoia, vide che in cielo non vi era un solo combattente italiano, mentre in città le postazioni contraeree non possedevano la gittata necessaria a raggiungere i velivoli nemici. Non incontrando ostacoli, i bombardieri si avvicinarono in perfetta formazione. Quando la polvere dei bombardamenti si dissolse, emersero carenze anche più vergognose dell'impreparazione. I rifugi antiaerei si erano rivelati inadeguati, e non c'erano squadre pronte per cominciare a scavare in cerca dei sopravvissuti. Nel quartiere di San Lorenzo, dov'era caduta la maggior parte delle bombe, morirono quel giorno 1500 romani.

L'attacco rivelò anche ciò che i cittadini pensavano della monarchia. In seguito al bombardamento, la visita di papa Pio XII a San Lorenzo per distribuire denaro fu accolta da grida di gioia e lacrime di gratitudine. Quando poco dopo comparvero Vittorio Emanuele e sua moglie Elena, furono fischiati. Il re venne apostrofato «cornuto» e la regina Elena «puttana». Una donna cercò di sputarle addosso. Quando il sovrano porse alcune banconote agli abitanti, questi le strapparono e gliele tirarono addosso.

Sei giorni dopo, Vittorio Emanuele faceva arrestare Mussolini e nominava al suo posto il maresciallo Badoglio. Quella sera, venuti a sapere della caduta di Mussolini, i romani si riversarono nelle strade scaldate dal sole estivo per festeggiare, alcuni addirittura in pigiama. Dai negozi e dagli uffici vennero lanciate in strada le immagini di Mussolini, mentre i pompieri abbassavano i simboli fascisti, il quartier generale del partito veniva attaccato, la redazione del principale giornale fascista, «Il Tevere», data alle fiamme e i prigionieri del carcere di Regina Coeli liberati. La polizia rimase a guardare, sorridendo. Alcuni fascisti trovati in giro furono picchiati, e un paio anche uccisi - si dice addirittura che il capo della sezione fascista locale di Trastevere venne fatto a pezzi nel retro della bottega di un macellaio - ma, come osservò la de Wyss: «[t]utto considerato, dopo ventidue anni di abusi, non si può immaginare un abbattimento della dittatura più tranquillo e calmo di così».

Badoglio, nella sua prima trasmissione radio da capo del governo, ribadì che la guerra a fianco della Germania sarebbe andata avanti, ma pochi lo presero sul serio, e i cittadini credettero che presto ci sarebbe stata la pace. Purtroppo, non sarebbe stato tanto facile.

Il generale era un grande sopravvissuto. Tra i comandanti dell'esercito italiano, aveva superato la prima guerra mondiale, benché fosse stato incolpato della peggiore sconfitta italiana nella Grande guerra, la disfatta di Caporetto. In seguito aveva assistito all'ascesa al potere di Mussolini, nonostante avesse esortato il paese a resistere al fascismo. Mussolini, al quale piaceva che i suoi colleghi più vicini avessero qualche trascorso compromettente nel caso avesse deciso di liberarsi di loro, gli affidò l'invasione dell'Abissinia. Ora, crollato il fascismo, Badoglio era riuscito a sopravvivere ancora una volta, abbandonando la nave giusto in tempo e assumendo un ruolo fondamentale dopo il colpo di Stato del re. Tuttavia, aveva più di settant'anni ed era cauto quanto il sovrano. Anche se fin dall'inizio intendeva passare dall'altra parte, invece di affrettarsi rimandò il momento, negoziando con gli Alleati.

Nel frattempo Hitler, che non credette mai alle promesse di lealtà di Badoglio, riversò le sue truppe in Italia. Dopo 45 giorni il paese annunciava l'armistizio con gli Alleati. Nel giro di poche ore, le truppe tedesche cominciarono ad avanzare verso Roma.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 323

Dal momento che la Roma fascista fu in gran parte opera di un unico individuo, Benito Mussolini, è giusto aprire una piccola parentesi su di lui. Crebbe in un paesino alle porte della sonnolenta cittadina di Predappio, in Emilia Romagna, dove sua madre, devota cattolica, era una maestra di scuola e suo padre, un fabbro, era anche un ubriacone, donnaiolo e sfaccendato, nonché simpatizzante radicale. Benito seguì sotto vari aspetti l'esempio del padre, ma con molto più successo. Carismatico, egocentrico e ambiziosissimo, a quanto pare venne espulso da due scuole diverse per aver ferito al volto un compagno. Il suo talento per il giornalismo politico e l'oratoria ne accelerò l'ascesa all'interno del movimento socialista, permettendogli di diventare redattore del giornale principale del partito, l'«Avanti!», ma con lo scoppio della prima guerra mondiale mutò orientamento. Mentre l'Italia era ancora neutrale, Mussolini abbandonò il pacifismo rompendo così con i socialisti, e - forse finanziato dai servizi segreti inglesi - esortò gli italiani a unirsi agli Alleati contro l'Austria e la Germania. Dopo aver combattuto in guerra per due anni senza distinguersi particolarmente, individuò un elemento della società italiana che avrebbe potuto costituire una potente forza politica: gli ex soldati, tornati amareggiati dal fronte per scoprire che le loro famiglie facevano la fame e che avevano perso il lavoro.

Mussolini li incitò a impadronirsi del potere e a formare una nuova élite, la «trincerocrazia», mettendosi alla loro guida per contrastare gli ex colleghi socialisti. Mentre i suoi gruppi di squadristi interrompevano con la violenza le dimostrazioni e gli scioperi della sinistra, Mussolini divenne il pupillo della classe benestante italiana, che iniziò a considerarlo la migliore difesa contro la rivoluzione bolscevica. Con il sostegno dei ricchi d'Italia, il 28 ottobre 1922 le squadre fasciste calarono sulla capitale nella cosiddetta «marcia su Roma», e Mussolini si impossessò dello Stato.

All'inizio, quando era ancora di orientamento radicale, Mussolini non aveva dedicato molto tempo a Roma, che descriveva come «una città di parassiti, piena di affittacamere, lustrascarpe, prostitute e burocrati». I romani rispondevano al complimento dimostrando un interesse del tutto trascurabile nei confronti del fascismo, finché questo non li travolse. A partire dal 1922, infatti, in quanto sua nuova capitale e dimora, Roma diventò una delle preoccupazioni principali del dittatore. Come molti imperatori e papi prima di lui, Mussolini era determinato a farne l'incarnazione del proprio pensiero, da trasmettere alle generazioni future come lascito dell'era fascista.

Naturalmente per quella metamorfosi sarebbero state necessarie parecchie opere di demolizione. A Mussolini premeva preservare l'eredità medievale, rinascimentale e, soprattutto, classica della città, vale a dire l'eredità di epoche in cui l'Italia era stata una grande potenza mondiale, ma non era affatto interessato al periodo barocco, quando il paese versava in condizioni di declino, e disprezzava assolutamente ogni testimonianza dell'era liberale. Per come la vedeva lui, il fascismo era l'antitesi del governo liberale, che considerava disorganizzato, egoista, fiacco, indolente, amorale e decadente. Ai suoi occhi, l'Ottocento era stato il secolo dell'individuo, mentre il Novecento avrebbe assistito al trionfo del collettivismo e del nazionalismo. Se i liberali avevano usato Roma come arma di propaganda contro la Chiesa, Mussolini se ne servì per combattere il liberalismo, coinvolgendo anche le abitazioni private dei cittadini. Negli anni del governo liberale i romani avevano vissuto in vecchi edifici bui e polverosi, affacciati su strade tortuose e strette. I romani dell'era fascista avrebbero vissuto in appartamenti pieni di aria e luce lungo strade ampie e diritte, cosa che avrebbe contribuito a trasformarli in un popolo forte e dinamico (alcuni nuovi viali avrebbero anche parzialmente risolto i cronici problemi di traffico).

Le demolizioni cominciarono il 21 aprile 1926, in occasione del 2679esimo anniversario della nascita di Roma. Mussolini, che non era tipo da rimanere nell'ombra, diede avvio egli stesso alle procedure, presentandosi con il piccone che nel giro di pochi anni sarebbe diventato familiare a tutti. L'obiettivo quel giorno era il quartiere di Piazza Montanara, accanto al Teatro di Marcello, una delle mete preferite dai turisti del XIX secolo in cerca di scorci pittoreschi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 331

Oltre alle mostre, i fascisti amavano molto le grandi adunate pubbliche, e Roma si riempi di cortei e dimostrazioni. In tutta la città sfilavano parate militari, soprattutto lungo l'ampia Via dell'Impero tra il Colosseo e Piazza Venezia. Enormi folle venivano inoltre convocate in Piazza Venezia per acclamare le grandi campagne di Mussolini: la battaglia demografica, per convincere gli italiani a moltiplicarsi; la battaglia del grano, che doveva incrementare la produzione italiana; la battaglia della lira, per risanare il valore della moneta; il progetto di bonifica delle Paludi Pontine per eradicare la malaria; l'invasione dell'Abissinia, che avrebbe dato vita a un nuovo impero italiano; e infine - in risposta alle sanzioni imposte all'Italia dalla Lega delle Nazioni per il suo attacco allo Stato africano - la campagna di autarchia per l'autosufficienza economica.

Il fascismo a Roma era ovunque. Parlava dai fasci e dalle aquile scolpite sui palazzi, e dagli slogan dei manifesti affissi sui muri: «Mussolini ha sempre ragione!» «Il fascista non prende l'ascensore!» Soprattutto, era ritratto nel volto di Mussolini, il cui culto, alla fine degli anni trenta, aveva raggiunto un'intensità quasi religiosa e lo presentava come una figura a metà fra un santo, una star del cinema e un supereroe. Quando compariva sugli schermi dei cinema, tutto il pubblico si alzava in piedi. Il dittatore, che affermava di essere diventato una sorta di macchina che quasi non aveva bisogno di dormire mentre vegliava sulla nazione italiana, osservava tutto e tutti dalle pareti degli uffici, dei negozi, delle salette d'attesa di parrucchieri, tabaccai e stazioni. Veniva riprodotto sulle cartoline in vendita che lo ritraevano in dozzine di pose diverse: Mussolini l'oratore, Mussolini lo statista in redingote, Mussolini il soldato in uniforme, Mussolini il diportista, l'aviatore, il cavallerizzo; Mussolini uomo di mondo che guidava un'auto sportiva, Mussolini che si allenava saltando un ostacolo, Mussolini contadino che raccoglieva il grano o piantava un albero in Calabria, Mussolini temerario che accarezzava un animale feroce, Mussolini dall'animo raffinato che suonava il violino, Mussolini che faceva la storia marciando su Roma, o semplicemente Mussolini fascista che faceva il saluto romano. Il romanziere e giornalista francese Henri Béraud osservò: «Dovunque voi andiate, qualunque cosa facciate, il suo sguardo vi seguirà [...] Mussolini è onnipresente, come un dio».

Perfino lo scorrere del tempo a Roma era diventato fascista. Sui monumenti di recente costruzione comparivano due date, quella del familiare calendario cristiano e un'altra, molto più breve, indicata come E.F., Era Fascista, e calcolata a partire dal 1922, l'anno zero dell'Italia in cui Mussolini aveva preso il potere.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 336

Anche la Roma fascista, dunque, malgrado i cantieri e gli ingorghi, riscuoteva consensi. Certo non si poteva negare che fossero stati apportati alcuni miglioramenti. Il traffico rimaneva pesante, ma per lo meno tutti guidavano sullo stesso lato, mentre prima della Grande guerra i romani guidavano dove volevano. Gli alberghi di lusso erano forse costosi, ma si presentavano immacolati ed erano ben gestiti e tenuti per legge a esibire con chiarezza il prezzo delle camere, dunque truffare i clienti era impossibile. Le mance erano diventate illegali (anche se la guida Baedecker del 1930 asseriva che i portieri e gli autisti di taxi se le aspettavano ancora). La città era pulita, e grazie alle centinaia di nuovi bagni pubblici, non si vedeva più gente che espletava i propri bisogni in strada. Era anche sicura, e con gli squadroni di militanti fascisti che pattugliavano treni, tram e stazioni non si rischiava più di essere derubati del proprio bagaglio. Le prostitute, rigidamente confinate nelle case chiuse autorizzate dallo Stato, non infastidivano più i passanti. La cosa davvero notevole era che, per la prima volta da molti secoli, non si vedevano accattoni. Roland Andrew trascorse a Roma un'intera settimana senza che nessuno gli chiedesse soldi neppure una volta.

Inoltre, era diventato più facile raggiungere la città. Sotto il governo fascista le strade italiane, un tempo note per il pessimo stato in cui versavano, si trasformarono. Lo stesso accadde alla rete ferroviaria, che guadagnò nuove stazioni, nuove linee più veloci, servizi elettrici e i famosi treni che arrivavano in orario. Chi aveva davvero fretta poteva addirittura raggiungere Roma per via aerea. Dopo l'apertura di un idroscalo a Ostia, con la Imperial Airways fu possibile raggiungere Roma da Londra in sole 27 ore. Come spiegava il Baedeker del 1930, il peso dei bagagli consentito era di 100 chili, che paragonato gli standard odierni potrebbe sembrare un limite molto alto, ma in realtà includeva anche il peso del passeggero.

Negli anni trenta, inoltre, la Città Eterna era più salubre che mai. È vero che la tubercolosi e il tracoma dilagavano ancora e che scoppiavano regolarmente epidemie di tifo, ma il flagello peggiore, la malaria, era stato finalmente debellato. Con la demolizione dei grandi parchi barocchi e dei loro laghetti, delle pozze e dei vasi pieni d'acqua, il morbo alla fine dell'Ottocento era scomparso e, dopo la bonifica delle Paludi Pontine alla fine degli amni trenta, l'Italia si era in buona parte, se non del tutto, liberata della malattia. Dopo gli anni quaranta del Novecento, come in quasi tutta l'Europa, l'aspettativa di vita italiana, che aveva subito poche variazioni nel corso dei secoli precedenti, conobbe un'impennata, e il tasso di mortalità si dimezzò.

L'alfabetizzazione ormai era ben più diffusa che nella Roma di epoca classica, e la maggior parte dei cittadini sapeva leggere e scrivere. Alcuni aspetti della vita sotto il fascismo, poi, riscuotevano un innegabile successo. Molti giovani romani amavano partecipare agli eventi sportivi e alle assemblee patriottiche della GIL, che si tenevano il sabato pomeriggio. E agli adulti il Dopolavoro poteva offrire genuini passatempi fascisti. A dispetto dei caporioni più militanti, l'Organizzazione in genere non tentava di indottrinare i suoi membri. Nel loro circolo locale, i romani potevano giocare a freccette o a carte o a calcio, ascoltare la radio, godersi un bicchiere di vino o di grappa al bar e magari guardare un film o allestire una produzione teatrale amatoriale. Le vacanze del Dopolavoro comprendevano gite in autobus a carattere culturale, crociere con ballo da sala e uscite sul Mar Adriatico a Riccione. La colta borghesia romana forse storceva il naso di fronte a quelle escursioni, ma esse erano immensamente popolari fra i membri del Dopolavoro, che nel 1939 ammontavano quasi a quattro milioni.

Il fascismo poteva anche essere comodo. A chi non si opponeva - e soprattutto a quei romani che ne traevano i maggiori benefici, cioè gli appartenenti alla classe media - il mondo appariva protetto e sicuro grazie al rigido controllo dell'informazione esercitato dal regime. Mussolini, che aveva cominciato la propria carriera come giornalista politico, si preoccupava molto delle notizie che potevano arrivare alle orecchie degli italiani, anche a scapito di questioni politiche più pressanti. Tutti i giornali stranieri erano proibiti, eccezion fatta per quello del Vaticano, l'«Osservatore romano», che comunque ogni tanto doveva essere venduto sottobanco. Anche se la maggior parte dei giornali non subiva il diretto controllo fascista, tutti, tramite intimidazione, vennero indotti all'obbedienza durante i primi anni del regime, e i giornalisti furono costretti ad aderire al partito. Le informazioni cui avevano accesso erano strettamente limitate e provenivano da una singola agenzia controllata dai fascisti, l'Agenzia Stefani. Se nelle redazioni trapelava qualcosa di improprio, ogni giorno veniva trasmessa una sequela di ordini di censura che illustravano in dettaglio ciò che non sarebbe stato permesso scrivere.

Il risultato di tutti questi sforzi era che la maggior parte degli italiani conosceva il mondo soltanto attraverso il filtro del regime, e viveva beata in uno stato di continua rassicurazione. Per queste persone, l'Italia era un paese dove non avevano luogo dimostrazioni politiche o crimini, dove la corruzione, l'appropriazione indebita e gli incidenti ferroviari non esistevano. L'angoscia di dover leggere articoli sulla Grande Depressione veniva loro risparmiata. In generale, al di fuori dell'Italia sembrava capitasse ben poco, perché Mussolini, sempre attento a non giocarsi opzioni diplomatiche, voleva che anche gli altri regimi fossero trattati con rispetto. Perfino la presunta grande nemica del fascismo, la Russia bolscevica, non venne fatta oggetto di critiche fino al 1936, quando il dittatore legò il proprio destino a quello di Hitler. Le notizie trasmesse alla radio erano altrettanto blande, come anche i cinegiornali proiettati nei circa sessanta cinema di Roma e in gran parte visionati personalmente da Mussolini prima della distribuzione. Di solito essi comprendevano una notizia estera, un paio di notizie sportive e un servizio su un membro della famiglia reale, sul segretario del partito o, più di frequente, su Mussolini stesso che annunciava una nuova campagna o inaugurava una nave o un ponte o un edificio. La notizia finale doveva mettere gli spettatori di buon umore, quindi poteva essere un servizio su una celebrità del mondo dello spettacolo, o qualcosa di divertente che riguardasse bambini o animali. La violenza, il crimine, il sesso e le donne in gonne corte evidentemente non comparivano. Anche le guerre andavano avanti senza che se ne parlasse più di tanto. Benché la conquista dell'Abissinia fosse ben documentata e presentata come un'operazione di impressionante modernità nella quale quasi non si vedevano volti etiopi, il lungo coinvolgimento italiano nella guerra civile spagnola veniva a malapena menzionato.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 340

A Roma, come in tutta Italia, chi viveva meno bene erano i poveri. Benché il partito si vantasse di aver creato una società armonica e priva di odio di classe, la realtà dei fatti era piuttosto diversa. Il sistema delle corporazioni, vagamente modellato su quello delle gilde medievali, pretendeva di aver dato luogo a una «terza via» nella quale i datori di lavoro e i dipendenti, guidati dai sindacati fascisti, lavoravano insieme in concordia per il bene della nazione. In verità si trattava di una finta, che permetteva il libero sfruttamento dei lavoratori. I capi dei sindacati fascisti, infatti, non rappresentavano i propri iscritti, ma, come tanti piccoli Mussolini, li trattavano con prepotenza. Le loro riunioni non lasciavano alcuno spazio ai dibattiti, e chiunque protestasse veniva denunciato alla polizia come sovversivo. Il tanto decantato sistema di previdenza fascista non era certo migliore. Anche se i dipendenti versavano alti contributi per la sanità, le pensioni e il sussidio di disoccupazione, quei fondi venivano depredati regolarmente dallo Stato per pagare le guerre e le grandi opere, come la trasformazione di Roma voluta da Mussolini.

Il fascismo era una dittatura che favoriva la gente ricca e rispettabile. Se la cavava bene anche la vecchia aristocrazia romana.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 343

La Chiesa concordava in pieno, seppure per altri motivi: i fascisti volevano che le donne contribuissero a far vincere loro la battaglia demografica, mentre secondo la Chiesa qualunque ostacolo alla procreazione costituiva un peccato contro Dio. Entrambi i poteri si schieravano energicamente contro l'aborto, e sotto il governo fascista i dottori o le levatrici sospettati di praticarlo venivano mandati al confino in un'isola penitenziario. Entrambe le istituzioni condividevano inoltre lo stesso ideale di donna giudiziosa, virtuosa, semplice, sobria - anche scialba - e ovviamente incatenata alla casa. Il fascismo detestava soprattutto le donne con i capelli corti, e derideva, bollandole come nevrotiche, tutte le donne alla moda, con un'attiva vita sociale o che portavano il rossetto. Ai giornali era proibito pubblicare fotografie di donne con cani piccoli, perché tutte le attenzioni femminili andavano dedicate ai bimbi fascisti. Al contrario, le madri prolifiche erano oggetto di venerazione da parte dello Stato. Il 24 dicembre, Giornata Nazionale della Madre e del Fanciullo, le madri con sette, o idealmente anche undici figli, ricevevano un premio. I padri delle famiglie numerose ottenevano promozioni nei lavori statali e insieme alla propria famiglia avevano accesso a cure mediche, pasti scolastici e biglietti del tram gratis. Gli uomini che invece non riuscivano a sposarsi dovevano pagare una tassa extra per gli scapoli.

Le donne romane venivano attivamente scoraggiate dal cercarsi un'occupazione. Nel 1934 Mussolini le avvertì che il lavoro per loro non era soltanto pericoloso, ma poteva anche renderle sterili. E fin dal 1923 alle donne fu proibito accedere alla presidenza delle scuole medie o insegnare storia o filosofia. Nel 1939 lo Stato adottò misure ancora più severe, annunciando che di lì in avanti alle donne sarebbe stato vietato ricoprire qualunque posizione amministrativa, e che la massima percentuale di lavoratrici ammessa nei posti di lavoro non avrebbe dovuto superare il 10%. Alle italiane rimaneva comunque un'opportunità. Potevano entrare in una delle tante case chiuse cittadine, approvate dai vari capi fascisti (i quali guardavano con nostalgia ai loro giorni da soldato) perché rafforzavano i maschi italiani e offrivano un innocuo sfogo ai mariti, che altrimenti avrebbero potuto mettere in pericolo la stabilità del vincolo matrimoniale imbarcandosi in relazioni extraconiugali.

Se le case chiuse erano ammesse, poco altro lo era. Ecco un aspetto della vita romana che a un visitatore degli anni quaranta del XIX secolo sarebbe apparso molto familiare. Proprio come sotto Gregorio XVI, il papa che odiava i treni e la modernità, negli anni trenta del Novecento Roma era dominata da un rigido controllo morale. Nel XIX secolo i preti avevano pattugliato le strade in cerca di casi di malcostume. Negli anni trenta del Novecento le milizie fasciste facevano lo stesso. Come osservò Maurice Lachin nel 1935, la città non era un luogo per innamorati: «L'amore puro, le passeggiate sentimentali, sono diventate un pericolo [...] Non è prudente avventurarsi di notte per le vie di Roma in compagnia di una donna, perché tutte le sere avvengono retate, e spesso gli agenti zelanti vedono il male dove non c'è». Anche intrattenere una conversazione con una donna poteva essere motivo di noie con le milizie, che dal tramonto all'alba pattugliavano le zone a loro assegnate. Le donne dovevano essere accompagnate per andare al cinema o a ballare e non potevano entrare nei bar. I partecipanti ai circoli del dopolavoro erano quasi tutti uomini. Abbracciarsi e baciarsi in pubblico era severamente proibito, e qualunque donna desse l'impressione di aggirarsi da sola in un luogo pubblico veniva facilmente interrogata, e anche se i suoi documenti erano in regola rischiava comunque di passare una notte in carcere. Le donne nubili o separate che i pettegolezzi tacciavano di promiscuità potevano essere arrestate e portate in una delle isole penitenziario del paese.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 373

La verità, però, è un po' diversa. Pio XII fu informato del rastrellamento quasi subito. Una nobile romana, la principessa Enza Pignatelli Aragona Cortes, che conosceva il pontefice, venne a sapere cosa stava accadendo da un amico che viveva vicino al ghetto. Non avendo un'automobile, ne prese una in prestito - dall'ambasciata tedesca - e dopo aver visto la massa umiliata dei prigionieri in attesa sotto al Teatro di Marcello andò dritta in Vaticano, dove riuscì subito a incontrare il papa e a raccontargli tutto. Sbalordito, il papa fece una telefonata in presenza della nobildonna, probabilmente all'ambasciatore tedesco presso il Vaticano, Weizsäcker. Purtroppo, fu tutto quel che fece quel giorno.

Gli ebrei furono sfortunati con il papa. Come abbiamo visto, nel corso dei secoli pochi papi avevano mostrato simpatia nei confronti degli ebrei romani, e ne avevano mostrata ancora meno dopo che questi avevano cominciato a sostenere l'Italia unificata, ma Pio XII ne provava pochissima. Al secolo Eugenio Pacelli, nato in una famiglia romana con stretti legami all'interno del Vaticano, si era fatto un nome come avvocato ecclesiastico, scalando in fretta i ranghi della Chiesa, e alla fine della prima guerra mondiale venne mandato a Monaco. Lì fu testimone degli eccessi in cui viveva la Repubblica bavarese dei Consigli, destinata a vita breve, fatto che confermò la convinzione di Pacelli che il bolscevismo - secondo lui un movimento con una forte impronta ebraica - rappresentava per la Chiesa la minaccia principale, una minaccia alla quale era necessario opporsi a ogni costo. Al momento di scegliere chi impiegare nella sua lotta contro i bolscevichi, Pacelli non si mostrò schizzinoso. Nel 1933, sei anni prima di diventare papa, negoziò un accordo tra il pontefice e il nuovo Stato nazista, con il quale le potenti organizzazioni cattoliche tedesche si impegnavano a non interferire nella vita politica del paese, lasciando così il campo libero all'ascesa di Hitler al potere assoluto.

La guerra non cambiò le sue idee, e quando la Germania iniziò a trovarsi in difficoltà, Pacelli, ormai Pio XII, sperò di negoziare la pace tra Hitler e gli Alleati, affinché la Germania potesse avere mano libera contro la Russia. Il pontefice dunque non aveva alcun desiderio di fare qualcosa che potesse danneggiare i tedeschi o indurli a mettersi contro il Vaticano. Inoltre, anche se è difficile da dimostrare, alcuni indizi suggeriscono che potrebbe aver covato sentimenti antisemiti, come molte personalità della Chiesa in quel periodo. Nel 1942, quando le notizie relative alla Shoah avevano iniziato a circolare, si rifiutò di commentare ciò che stava accadendo malgrado le forti pressioni del presidente americano Roosevelt, il quale segretamente aveva inviato a Roma un suo speciale rappresentante, Myron Taylor, perché sollecitasse il pontefice a intervenire.

A quel punto, la Shoah aveva raggiunto Pio XII. Quel giorno del 1943, gli ebrei catturati nel ghetto vennero trattenuti temporaneamente al Collegio Militare, a poche centinaia di metri dal Palazzo Vaticano, mentre alcuni soldati che li avevano trasportati si fermavano proprio accanto a Piazza San Pietro per fare un giretto turistico. L'ambasciatore britannico presso la Santa Sede, D'Arcy Osborne, riuscì a incontrare Pio XII poche ore dopo gli arresti e lo esortò a opporsi, ma si sentì rispondere che il papa non aveva alcun motivo di lamentarsi delle autorità tedesche a Roma, poiché queste avevano rispettato la neutralità del Vaticano, e le sue proteste presso l'ambasciatore Weizsäcker avevano già permesso il rilascio di molti ebrei. Ma non era vero. I funzionari del Vaticano erano intervenuti, ma soltanto a beneficio di qualche ebreo convertitosi al cattolicesimo, e quegli interventi erano stati inutili. Dei 1250 prigionieri nel Collegio Militare, quasi un quinto venne rilasciato, ma soltanto perché erano riusciti a convincere il comandante delle SS, Theodor Dannecker, che il loro arresto era stato un errore. Il papa non protestò mai contro il rastrellamento. L'unico commento del Vaticano comparve nove giorni dopo sul suo giornale ufficiale, l'«Osservatore romano», ma non faceva alcuna menzione degli ebrei, limitandosi a compiangere le sofferenze patite da tutti gli innocenti durante la guerra.

Ancora una volta, i diplomatici tedeschi fecero molto di più. Assai delusi dall'inerzia papale, i due ambasciatori tedeschi Weizsäcker e Möllhausen svilupparono un piano elaborato per tentare di allarmare le autorità a Berlino, avvisandole che il papa stava per denunciare l'accaduto (benché entrambi sapessero che non avrebbe fatto nulla del genere). Scrissero una lettera fingendo che fosse opera di un vescovo tedesco di stanza a Roma, Alois Hudal, e la indirizzarono al comandante tedesco della città, il generale Stahel (coinvolto anche lui nella cospirazione); la missiva lo informava della rabbia del papa e fu inviata al Ministero degli Esteri a Berlino insieme a un telegramma di Weizsäcker, il quale sollecitava ancora una volta il rilascio degli ebrei romani e ne suggeriva l'impiego come forza lavoro. Fu un tentativo disperato. La lettera e il telegramma rimasero a languire nel Ministero degli Esteri di Berlino per parecchi giorni prima di essere consegnati alle SS. Difficilmente queste ne avrebbero preso nota, e comunque alla fine non fu necessario. Quando il telegramma di Weizsäcker giunse nelle loro mani, gli ebrei catturati a Roma, che ammontavano a più di mille, erano ormai arrivati o stavano per arrivare ad Auschwitz. La maggior parte venne mandata subito nelle camere a gas. Di quel migliaio sarebbero sopravvissute e tornate a Roma soltanto quindici persone.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 378

Mentre i partigiani diventavano più attivi, lo stesso facevano le camicie nere. Era arrivato a Roma un nuovo contingente, capitanato dall'italo-tedesco Pietro Koch, incaricato da Mussolini di scovare quelli che si nascondevano e i membri della resistenza romana. Il suo reparto speciale di polizia, che i cittadini chiamavano «banda di Koch», si rivelò molto utile ai tedeschi. Fino ad allora questi erano stati riluttanti a perquisire gli edifici della Chiesa, temendo di inimicarsi il papa. Koch invece poteva farvi irruzione - con l'aiuto dei tedeschi - e le SS potevano declinare ogni responsabilità. La notte del 21 dicembre furono colpite ben tre istituzioni ecclesiastiche e più di cinquanta persone vennero scoperte e portate via.

Ormai le proprietà della Chiesa non sembravano più un luogo sicuro, e molti le abbandonarono. Gli ebrei se ne andarono dove potevano, spostandosi da un posto all'altro. Qualcuno si nascose per un po' nella sua vecchia casa nel ghetto ormai deserto. Dopo il rastrellamento di ottobre erano stati lasciati più o meno in pace, ma a quel punto le perquisizioni e gli arresti ripresero. Le autorità offrivano 5000 lire di ricompensa per ogni ebreo consegnato e dalle 2000 alle 3000 lire per le donne e i bambini. Alcuni romani - ma non molti - presero i soldi. Gli stessi ebrei potevano essere pericolosi, e una giovane, Celeste di Porto, si coprì di infamia collaborando con i tedeschi. Soprannominata «la pantera nera», si metteva sui ponti dell'Isola Tiberina vicino al ghetto e indicava tutti gli ebrei che riconosceva. Per ringraziarla del tradimento i tedeschi in seguito liberarono suo fratello, che doveva essere giustiziato, ma questi si vergognò a tal punto della sorella che si riconsegnò alle autorità e venne ucciso.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 384

I partigiani avevano organizzato un'azione spettacolare. Il 23 marzo ricorreva il 25esimo anniversario della fondazione del fascismo, e inizialmente essi avrebbero voluto colpire durante una grande parata e adunata delle camicie nere, ma i tedeschi, preoccupati che quell'ostentazione potesse provocare i romani in preda alla fame, avevano insistito per ridurre le celebrazioni a una riunione nel ben sorvegliato quartier generale fascista, che a quel punto si trovava nel vecchio Ministero delle Corporazioni in Via Veneto. I partigiani allora cambiarono idea. Senza volerlo, i tedeschi si erano messi sotto tiro.

Obiettivo dell'azione erano i circa 150 poliziotti militari appartenenti all'undicesima compagnia del Polizei Regiment «Bozen» delle SS, che nelle ultime mattine avevano attraversato Roma in marcia diretti a nord, per esercitarsi in un poligono di tiro e poi tornare alla loro caserma vicino a Via Nazionale nel pomeriggio. Si dà il caso che questi soldati fossero diventati tedeschi da poco, poiché provenivano da Bolzano, città bilingue annessa da Hitler soltanto qualche mese prima. Due gruppi di partigiani romani, i gappisti e i socialisti della Brigata Matteotti, decisero di unire le forze in un grandioso attacco che infrangeva le regole della guerriglia partigiana. I loro assalti di solito riuscivano al meglio quando erano semplici, improvvisi e condotti su scala ridotta, com'era stato fino ad allora. Questo, che doveva avere luogo nella strada più stretta percorsa dai tedeschi - Via Rasella, vicino a Piazza Barberini - coinvolgeva non meno di diciassette persone, una bomba nascosta in un carrello dell'immondizia e un'azione aggiuntiva condotta con mortai e mitragliatrici. Ciononostante, l'intera operazione filò liscia come l'olio. La bomba esplose, aprendo un enorme cratere nella strada piena di soldati morti e feriti. Quando i mortai dei partigiani cominciarono a colpirli, i tedeschi sopravvissuti credettero di essere stati attaccati da qualcuno che stava sui tetti, così si misero a sparare furiosamente contro le finestre. Tutti e diciassette i partigiani riuscirono a scappare. Con più di metà degli uomini uccisi o feriti, la compagnia delle SS era stata distrutta a tutti gli effetti.

Gli uomini e le donne del GAP e della Brigata Matteotti ce l'avevano fatta, ma altri non avrebbero avuto la stessa fortuna. Il comandante della città, il generale Mälzer, presentatosi sulla scena pochi istanti dopo e avendo appena partecipato a un pranzo dove aveva bevuto molto, ordinò di far saltare in aria tutte le case nei paraggi e di fucilare duecento passanti che erano stati radunati, nessuno dei quali aveva avuto nulla a che fare con l'attacco. Il capo delle SS Kappler, l'ambasciatore tedesco pro tempore Möllhausen e anche Eugen Dollmann - che abbiamo lasciato l'ultima volta vicino alla presunta tomba di Alarico a Cosenza, e che ormai era diventato un colonnello delle SS nonché il rappresentante personale di Himmler in Italia - cercarono di calmarlo, ma poco dopo si unì alla discussione una voce ancora più furibonda. La notizia dell'incidente aveva raggiunto Hitler nel suo centro di comando nella Prussia orientale, dove, purtroppo per i romani, si stava godendo una giornata tranquilla e poteva quindi dedicare completa attenzione all'accaduto. Con uno dei suoi famosi scoppi d'ira, pretese che un intero quartiere della città venisse raso al suolo, e che per ogni tedesco ucciso morissero trenta o cinquanta romani.

Kappler riuscì a ridurre il numero di romani da ammazzare a dieci per ogni tedesco, ma rimaneva comunque il problema di chi scegliere, problema che diventava via via più complicato dal momento che le vittime dell'attacco continuavano a morire per le ferite riportate (alla fine i morti furono trentatré), facendo così aumentare il totale da giustiziare. Dopo una ricerca sempre più disperata, nella selezione finale di Kappler comparivano qualche partigiano catturato, diverse decine di ebrei in attesa di deportazione (il più giovane dei quali aveva soltanto quindici anni), due preti antifascisti, una trentina di ufficiali dell'esercito italiano (uno dei quali era il colonnello Montezemolo, capo dell'FMCR, che aveva sopportato con coraggio settimane di torture senza tradire i suoi compagni) e dieci sfortunati passanti rastrellati dopo l'esplosione, compresi un oste e due commessi di un negozio di borse.

Il giorno seguente all'attacco, 335 persone fra uomini e ragazzi furono portate presso una rete di scavi abbandonati sulla Via Ardeatina, subito fuori dalla città. Fu un massacro compiuto alla rinfusa e in modo caotico, aggravato dal fatto che nessuno voleva assumersene la responsabilità. Inizialmente Kappler ordinò alle SS sopravvissute all'esplosione di sparare alle vittime, ma il loro comandante, il maggiore Dobbrick, si rifiutò, affermando, piuttosto misteriosamente, che i suoi soldati erano troppo superstiziosi per uccidere per ritorsione. Quando anche l'esercito regolare si rifiutò, il compito cadde su Kappler e sul suo gruppo di SS, composto per la maggior parte non da soldati ma da burocrati che non avevano quasi mai sparato un colpo in vita loro. Per aiutarli a superare l'ordalia li si fece bere grandi quantità di cognac, così si ubriacarono e si misero a sparare all'impazzata. Anche il numero di prigionieri era sbagliato. Nell'attacco erano morti trentatré soldati, quindi, secondo la logica di Kappler, avrebbero dovuto essere catturati soltanto 330 romani. Cinque in più erano stati portati lì per sbaglio, ma vennero uccisi comunque perché avevano assistito alla scena.

Le prime vittime, legate a due a due e portate all'interno delle fosse, non opposero resistenza, ma altre sì. Uno fu picchiato a morte. Alcuni vennero colpiti più volte dopo che i primi proiettili non li avevano uccisi, e diversi altri furono giustiziati così malamente che le loro teste si staccarono dal corpo. Altri ancora non morirono subito, ma soffocarono sotto il peso dei cadaveri impilati sopra di loro. Mesi dopo, quando venne perlustrata la zona, fu trovato un corpo a qualche metro di distanza dagli altri. L'uomo era ancora vivo quando i tedeschi avevano fatto saltare in aria il posto per poi sigillarlo, ed era strisciato in un angolo per morire da solo. Il massacro, poi conosciuto come l'eccidio delle Fosse Ardeatine, fu la peggiore atrocità della guerra in Italia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 395

Postfazione


[...]

Dopo due millenni e mezzo di inondazioni, terremoti, incendi, pestilenze, assedi, attacchi e pianificazione urbana politicizzata, è impressionante considerare l'entità di ciò che è sopravvissuto a Roma. Sono rimasti tesori sopravvissuti a ognuno dei saccheggi che abbiamo ricordato. Nei Musei Capitolini è ancora possibile osservare le fondamenta del Tempio di Giove Ottimo Massimo, che dominava il profilo della città quando Brenno e i suoi galli la attaccarono nel 387 a.C. Nel Museo Etrusco di Villa Giulia si può ammirare una bellissima statua di terracotta raffigurante Apollo, che in passato decorava un tempio della prima rivale di Roma, Veio.

È inoltre ancora visibile la maggior parte di quelle Mura Aureliane che non riuscirono a tenere lontani Alarico e i suoi visigoti nel 410. Si può attraversare Ponte Cestio presso l'Isola Tiberina, costruito all'epoca di Cicerone, quando la Repubblica romana lottava per la sopravvivenza. Si possono osservare i templi classici, i resti delle grandi terme cittadine - quelle di Caracalla, di Diocleziano e di Traiano - oltre alle rovine del Palazzo di Domiziano sul Palatino, al Mausoleo di Augusto e alla sua stupenda Ara Pacis. E naturalmente sopravvive il tempio pagano più grande di tutti: il Pantheon, non molto diverso da quando fu costruito quasi diciannove secoli fa. Infine, anche se la prima San Pietro è sparita da tempo, altre chiese dello stesso periodo sono ancora in piedi, come per esempio Santa Costanza, i cui mosaici di scene rurali e volti blu con gli occhi spalancati ci restituiscono il momento preciso in cui il paganesimo cedette il passo al cristianesimo.

Esistono ancora chiese che erano nuove quando gli ostrogoti di Totila fecero irruzione a Roma, come Santa Maria Maggiore e la splendida Santa Sabina, che dopo sedici secoli conserva ancora le sue porte originali in legno intagliato. Si può vedere la Porta Asinaria, accanto alla quale gli isaurici si calarono da una corda per guidare l'esercito di Totila in città. A un chilometro di distanza, in direzione sud-ovest, è possibile attraversare la Porta Latina, oltre la quale i soldati di Roberto il Guiscardo scivolarono silenziosamente entro le mura.

Della Roma del 1527 restano numerose torri medievali, anche se può essere difficile individuarle, poiché molte si confondono con blocchi di case più recenti. Qualcuna, come quella della Casa di Dante a Trastevere, è rimasta quasi identica, ritta all'angolo di un blocco di abitazioni che circonda un cortile. A Trastevere si possono anche trovare anguste case dello stesso periodo con le tipiche scalinate esterne. Vicino al Colosseo si può visitare la magnifica chiesa della vendetta di Pasquale II, San Clemente, e addentrandosi nei profondi scavi sottostanti si vedranno i resti del suo odiato predecessore, l'antipapa Clemente III, e ancora più giù un tempio dedicato a Mitra e alcune stanze appartenute alla dimora cittadina di un ricco romano vissuto in epoca classica, che probabilmente era anche uno dei primi cristiani. A Castel Sant'Angelo si possono visitare gli appartamenti papali dove Benvenuto Cellini fuse i diademi d'oro di papa Clemente. E naturalmente vi sono le chiese e i palazzi rinascimentali e l'elemento più grandioso di tutti, la Cappella Sistina.

| << |  <  |