Copertina
Autore Hanna Krall
Titolo La linea della vita
EdizioneGiuntina, Firenze, 2006, Schulim Vogelmann 134 , pag. 122, cop.fle., dim. 11,4x29,4x1 cm , Isbn 978-88-8057-263-3
OriginaleWyjatkowo dluga linia
EdizioneWydawnictwo, Kraków, 2004
PrefazioneWlodek Goldkorn
TraduttoreClaudio Madonia, Maria Madonia
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe narrativa polacca
PrimaPagina


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Pagina 9

Il palazzo

Ha tre piani, è intonacato, ha il tetto spiovente sorretto da una capriata di legno, ha un atrio centrale, ha la pianta rettangolare.

Θ stato costruito quattrocentosettanta anni fa.

Si innalza su scantinati profondi, vasti, tortuosi come un labirinto.

Il palazzo fu costruito in circulo civitatis. Il che avrebbe dovuto voler dire «nel centro del mondo», invece significa a malapena: nella cerchia cittadina.

Il suo primo proprietario fu, nel sedicesimo secolo, il mercante di spezie Jan Aromatarius.

Nel secolo diciannovesimo divenne di proprietà dei coniugi Arnsztajn — Franciszka e Marek. Lei poetessa, lui dottore in medicina.

Il secolo finiva, e marito e moglie decisero di farsi un ritratto per ricordo. Scelsero un apprezzato studio fotografico — Atelier Photographique (anche l'indirizzo era in lettere d'oro: Faubourg de Cracovie, Krakowskie Przedmiescie).

Marek A. posava in piedi: impettito, sicuro di sé, gli occhi chiari, i baffi spioventi che gli ricadevano sul labbro superiore. Teneva una mano infilata nel risvolto della finanziera, l'altra posata su un libro. Un librone, certamente un trattato scientifico. Doveva averlo portato con sé. A meno che A. Stepanoff, il proprietario dell'atelier, non avesse nel suo studio gli accessori opportuni.

Franciszka A. era seduta su una sedia – nera di capelli, bella, i grandi occhi pensierosi. A. Stepanoff l'aveva pregata, chissà, di sorridere, ma lei non aveva l'abitudine di sorridere a richiesta.

La treccia se l'era annodata dietro la nuca. Nella foto non si vede. La treccia era molto bella, lucida, quando era sciolta le arrivava ai fianchi. Non se la taglierà per tutta la vita. Quando saranno già tutti morti – nuora, marito, figlio, fidanzata del figlio –, quando nel grande appartamento buio al primo piano saranno rimaste in due, lei e una bambina di otto anni, la sua nipotina, si riannoderà la treccia ogni mattina, invariabilmente. Di tanto in tanto la nipotina si inginocchierà sul pavimento, reggendo un giornale in una mano e le forbici nell'altra, e le pareggerà le punte dei capelli. Saranno sempre più sottili, sempre più tristi.


Primo piano. Medicina e poesia

Sono stato un'altra volta dalla signorina B., raccontava – poteva raccontare – Marek Arnsztajn a cena, dopo aver fatto visita a un'ammalata (si sforzava di parlare distintamente e a voce molto alta: sua moglie da qualche tempo aveva problemi di udito). Mi lasciano perplesso i suoi spasmi. Forse dipendono da qualche mutamento nel cervello? O da mutamenti periferici, che agiscono di riflesso? La malata una volta è caduta dalla carrozza, quindi potrebbero essersi sviluppati dei mutamenti regressivi dei nervi periferici. Che i mutamenti periferici possano causare spasmi è noto da tempo. Frerichs ha dimostrato un caso del genere, nel semestre invernale. Depone in favore di ciò anche la paresi degli arti inferiori. La diagnosi che ho formulato è di epilepsia reflexa, e la terapia è la stessa dell' epilepsia peripherica, i nervi bisogna stimolarli tramite galvanizzazione, ma se questa non dovesse produrre miglioramenti...

Ti leggerò una poesia, diceva – poteva dire – Franciszka Arnsztain. Udiva appena se stessa, e aveva paura di parlare a voce troppo alta. In ogni caso, leggeva a mezza voce, quasi un sussurro:

        Oh, che tristezza! Il mio verde
        Palazzo mutato
            In rovine.
        Fra le nude cime degli alberi
        Splende d'azzurro dei cieli
            Un livido pezzo;
        Nella volta ridotta in macerie
        Si affaccia fendendo le ombre
            Una grigia giornata;
        Il tetto svolazza di foglie
        E pareti di alberi spuntano
            Come fantasmi...

Bella, si complimentava Marek A. Un po' triste, ma molto bella.

Sai di che cosa parlavo alla Società Medica? diceva un'altra sera, di ritorno da una riunione scientifica. Dell'applicazione della pilocarpina alla cura dell'eclampsia.

Di che? domandava Franciszka A., poiché suo marito, nella foga della sua esposizione, si era dimenticato che era sorda.

LA PILOCARPINA APPLICATA...

Belle parole, mormorava incantata, con un fil di voce, Franciszka A. In particolare eclampsia. Anche pilocarpina suona bene, ma eclampsia mi piace di più.

L'eclampsia è una malattia pericolosa, la informava lui in tono grave. Talvolta culmina con la morte a causa della diluizione del sangue. Lo sai che Breus curava l'eclampsia con bagni caldi? Jaquet con l'ausilio di preparati sudoriferi, e Schroder avvolgeva i malati in grosse coperte di lana inzuppate nell'acqua. Io per l'essudazione somministravo la policarpina. Se poi ci si debba affidare completamente a questo ritrovato è un altro paio di maniche. Si può coadiuvare con l'applicazione di forti dosi di cloralio, la cosa migliore tramite enteroclisma...

Ho scritto una poesia, gli faceva sapere Franciszka A.

        Laggiù ad occidente il sole si immerge,
            Di porpora avvampa
        Fra mucchi di neve profondi, su una strada infinita,
            Avanzo a fatica sull'orma del sole;
        Come uno stormo di farfalle dalle candide ali
            Dolce cade la neve...
        Gli spiriti maligni richiamando con carezze
            Silenziosi intrecciano la rete...



Medicina e poesia — seguito

Di una grave inversione e prolasso della placenta — un caso felicemente risoltosi grazie al tempestivo intervento di Marek Arnsztajn. Secondo la reazione fatta da «Medicina. Rivista settimanale per Medici Pratici, pubblicata dal Collegio dei Medici»:

... all'incirca verso la mezzanotte sono stato chiamato al capezzale della pluripara Roz. R. Verso le ore dieci era stato partorito un bambino vivo, in buone condizioni. Dopo una vana attesa dell'espulsione della placenta la levatrice tratteneva il cordone ombelicale legato, mentre la puerpera si gonfiava notevolmente. Fuoriuscì all'esterno un corpo, quale la levatrice non aveva mai visto prima in trent'anni di pratica. Cosa accadesse alla paziente non lo rammenta. Nel giro di venticinque minuti circa ero arrivato sul posto. Trovai la paziente molto pallida, aveva le estremità fredde. Fra le cosce giaceva un corpo color rosso livido, della dimensione di una testa di uomo adulto. Non v'era dubbio che avessimo a che fare con un prolasso della placenta (prolapsus uteri inversi).

Mentre mi lavavo le mani con acqua e sapone e le disinfettavo successivamente con il sublimato, mi domandavo come dovessi condurmi in questo caso...

Con la mano destra ho accompagnato la parte della placenta che si era arrovesciata in avanti, in direzione dell'asse del piccolo bacino; successivamente, aprendo le dita, accompagnavo verso l'alto la parte incavata del fondo, infine, chiudendo la mano a pugno, ho ricacciato il fondo... Tutta l'operazione è durata dai cinque ai sei minuti... La paziente si è completamente ristabilita.

Il caso qui descritto merita attenzione in considerazione del suo felice esito, che viene a dimostrare quanto un soccorso tempestivo sia richiesto in siffatte circostanze.

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Pagina 43

Primo piano. La morte

Dai giornali:

«(...) Fin dal primo pomeriggio le strette viuzze della città vecchia confinanti con la strada in cui si trova l'abitazione della famiglia del defunto dottor Arnsztajn si sono inondate di una folla di persone che desideravano rendere l'estremo omaggio all'Estinto.

Alle ore tre pomeridiane è avvenuto il trasporto della salma, che non è stata collocata nel carro funebre ma è stata portata a spalla fino al luogo dell'eterno riposo.

L'annuncio dell'imminente funerale ha attirato una folla sempre crescente di persone che arrivavano da ogni parte della città, cosicché per quanto l'occhio poteva spaziare le strade erano invase da una marea innumerevole di teste.

(...) Durante il funerale tutti i negozi affacciati sulle vie percorse dal corteo funebre sono rimasti chiusi.

(...) Il feretro portato a spalla era seguito dai familiari più stretti.

Fra le migliaia di persone che formavano la moltitudine abbiamo notato il signor voivoda, numerosi rappresentanti dei gradi militari, della polizia, della magistratura, del mondo medico, della locale intellighenzia e immense schiere di gente motivata dal dolore profondo causato dalla scomparsa del dottor Arnsztajn, che godeva di un ineguagliata popolarità. Non solo nelle sfere dalle quali egli stesso proveniva, ma anche nella massa anonima della popolazione povera, alla quale per quarantasette anni ha portato il suo aiuto samaritano.

(...) I medici, quando erano essi stessi ammalati, o colpiti dalla malattia nei loro familiari, si rivolgevano solitamente a lui, ed egli era giustamente orgoglioso del titolo per questo motivo conferitogli di medicus medicorum.

Al Pronto Soccorso

Per onorare la memoria dell'insigne Dottor Marek Arnsztajn offre zl 10 A. Borsukiewicz.

Per l'erigendo monumento a Jan Kochanowski

In luogo dei fiori per la tomba del Dottor Marek Arnsztajn di venerata memoria, medico illustre e galantuomo, offrono zl 20 il Dottore e la Dottoressa Majewski».


Secondo piano. Il diavolo

Il lunedì di Pasqua Jan Arnsztajn si recò da un amico, redattore di un giornale locale. Notò nel vestibolo un oggetto inconsueto: un grosso e pesante bastone, fatto di legno ritorto, che terminava con una testa di diavolo scolpita. Il diavolo era minaccioso e bello. Arnsztajn ebbe l'impressione che lo stesse guardando – con occhi attenti, socchiusi. E che sorridesse, di un sorriso inquietante ed enigmatico.

Posò la mano sulla scultura – e fece un passo indietro. Era la mano sinistra, quella ferita in guerra e deturpata da svariate operazioni (la destra per fortuna era a posto e con quella continuava a giocare benissimo a tennis).

Afferrò nuovamente il bastone, con la mano sana, e disse che gli sarebbe piaciuto averlo.

Lo puoi prendere, disse l'amico, ma non è un oggetto ordinario. Lo ha intagliato tanto tempo fa un pastore ucraino. Ha avuto molti proprietari, e a ciascuno di loro ha portato dapprima fortuna, poi sventura. Tutti, chi prima chi dopo, sono morti di tisi.

L'amico lo aveva saputo da Józef Czechowicz. Il poeta gli aveva portato il diavolo ligneo insieme alla storia del pastore il giorno prima. Aveva intenzione di tornare a prenderselo e forse voleva disfarsene, ma Arnsztajn giurò che non aveva paura delle superstizioni.

Si portò a casa il bastone.

Un paio di mesi dopo si ammalò di influenza. Dopo l'influenza gli diagnosticarono la tubercolosi. Un anno dopo ebbe la prima emorragia polmonare.

Trascorse tutto il periodo della malattia sotto la cura premurosa della fidanzata, dapprima nel suo appartamento al secondo piano, poi a Zakopane. Giurava di non credere alle superstizioni, di aver contratto la malattia dai suoi pazienti, ma la sua fidanzata gettò il bastone nella spazzatura.


Secondo piano. La morte

Dai giornali:

«(...) Nella giornata di ieri ci ha raggiunto la notizia immensamente triste della morte del dottor Jan Arnsztajn, medico assai conosciuto nella nostra città.

(...) Ancora studente, già si era consacrato al lavoro nelle file delle organizzazioni che lottavano per l'indipendenza.

(...) Si arruolò nelle Legioni, VI battaglione.

(...) Per approfondire le sue conoscenze mediche si recò a Vienna, dove studiò le malattie del cuore e dei polmoni presso il famoso professor Neumann.

(...) Per lunghi anni è stato campione di tennis della nostra città.

(...) Il defunto dottor Arnsztajn ha espresso, prima di morire, il desiderio d'essere sepolto nella sua divisa di ufficiale dell'esercito polacco.

Il suo desiderio sarà esaudito.

(...) Da Varsavia ci riferiscono:

Nella giornata di ieri si sono svolti nella capitale i solenni funerali del defunto dottor Jan Arnsztajn.

(...) Al centro del tempio fra il verde e le luci spiccava il feretro; sul feretro la sciabola e il berretto da ufficiale.

(...) Nella giornata invernale limpida e soleggiata è sceso nel riposo eterno della terra del cimitero un uomo coraggioso».

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Pagina 61

Primo piano. Provincia notte

Eugeniusz Górniewicz era colonnello. Medico veterinario, abitava con moglie e figli nella caserma della città di Z.

Nel settembre del trentanove gli abitanti della caserma andarono alla guerra.

Le prime bombe tedesche colpirono gli edifici militari e le famiglie degli ufficiali lasciarono in tutta fretta gli appartamenti. Alcune ore dopo nella caserma abbandonata cominciò ad arrivare gente.

Arrivavano sui carretti dalle campagne vicine, venivano a piedi dalle periferie, portavano sacchi vuoti, spingevano cariole vuote e barrocci a mano. Per tutto il giorno portarono via sulle braccia e sui carretti oggetti di proprietà degli ufficiali.

Eugeniusz G. e i suoi figli tornarono dal fronte e dall'ospedale da campo. Trovarono la loro casa spogliata e saccheggiata.

Lasciarono la città di Z., andarono ad abitare nel palazzo al primo piano, in quello che era stato l'appartamento di Franciszka e Marek Arnsztajn.


Primo piano. Le lenzuola

Gli ufficiali che tornarono dalla guerra cominciarono a organizzare la resistenza. A denunciarli fu Jadwiga K., la moglie del capitano, che era in prigionia. (Non sappiamo che cosa ne sia stato di lei in seguito. Il marito morì in un lager. Perché abbia fatto quella delazione – non si sa). La Gestapo arrestò diverse persone. fra loro Eugeniusz G. e i suoi tre figli. Il più giovane aveva sedici anni. Dopo mesi di torture li trasferirono in carcere al Castello.

Il comandante del carcere era l'SS Paul Domnik, uno che amava i cavalli. Quando il suo cavallo preferito si ammalò, fu mandato a chiamare Eugeniusz G. Il colonnello guarì il cavallo; il comandante per ricompensarlo lo salvò da Auschwitz, e tirò fuori i suoi figli da Majdanek. Li mandarono a lavorare nelle scuderie del carcere.

Un giorno la Gestapo richiese dei carri aperti con i cavalli e i conducenti. Fu spiegato che servivano alla liquidazione del ghetto.

Paul Domnik designò i fratelli Górniewicz, raccomandandosi che non sfiancassero i cavalli.

Si presentarono nel ghetto alle cinque del mattino. Videro i cadaveri — per le strade, nei cortili, vicino ai bidoni dell'immondizia. Provarono a contarli, ma non c'era verso, i cadaveri erano centinaia. Di gente viva non ne videro, ad eccezione dei militi della polizia ebraica. Una SS ordinò loro di portare fuori dalle case coperte, piumini e cuscini, per qualche motivo gli interessavano solo questi articoli da letto. I fratelli li caricavano sulle piattaforme e li portarono al raccordo ferroviario.

Nei piumini e nei cuscini trovavano bambini nascosti dai genitori e nascosti nei letti. I più piccoli erano morti soffocati, i più grandi avevano il cranio fratturato. I fratelli portarono i bambini sulla piazza; la sera furono avviati al crematorio, a Majdanek.

In un appartamento c'era una carrozzina. Ci deposero un piccolino che avevano trovato sotto un cuscino e pregarono un milite della polizia ebraica di portar via la carrozzina. Il milite era un giovanotto dall'aria allegra. Prese il bambino e fischiettando si allontanò per il corridoio. Il corridoio terminava in una scala di legno, il milite non aveva voglia di portar giù la carrozzina a braccia, lo spinse con il piede, la carrozzina si rovesciò e la salma ruzzolò per le scale.

I militi della polizia ebraica una volta liquidato il ghetto furono fucilati in uno dei cortili. I tedeschi avevano il fucile mitragliatore, ma li ammazzavano sparando un colpo alla volta. Così ebbero più tempo per guardare il terrore, il pianto e le implorazioni di pietà. I militi erano oltre un centinaio, l'esecuzione durò due ore.

Dopo aver portato fuori piumini, coperte e cuscini, i fratelli G. fecero ritorno al Castello.

I prigionieri del Castello venivano spediti nei lager, o li ammazzavano sul posto — fino all'ultimo giorno di occupazione. I corpi degli uccisi giacevano nella cella più grande. Formavano una catasta di sei metri di larghezza, sette di lunghezza, alta un metro e mezzo. Le misure se le rammentò Czeslaw G., che entrò nella cella per cercare nella catasta qualcuno ancora vivo. Ne trovò alcuni e li spostò sul pavimento. Pose loro sotto il capo i cuscini degli ebrei, quelli che aveva preso nel ghetto.

In un'altra cella aspettavano gli uomini destinati a Majdanek. Uno della Gestapo, che si chiamava Tanzhaus, cominciò a contarli. L'ultimo della fila era il giovane prigioniero Slawomir Jurga. In una manica aveva nascosto un lungo bisturi chirurgico. Quando il tedesco gli si avvicinò, gli trapassò il collo e il cuore, poi andò alla porta, ci appoggiò il bisturi e ci si gettò contro.

Due giorni più tardi l'Armata Rossa fece ingresso in città.

Eugeniusz Górniewicz e i suoi figli tornarono nel palazzo.


Primo piano. Casablanca

Il più vecchio dei fratelli G. costruirà navi.

Il mezzano tornerà dal carcere con la tubercolosi e poco dopo morirà.

Il più giovane diventerà medico veterinario. Andrà in Marocco. Farà terreni da pascolo sui monti dell'Atlante, curerà il bestiame, farà amicizia con i berberi, riceverà dal re un'onorificenza, e la proposta di prendere la residenza permanente. Dirà di no, perché in Marocco non è possibile parlare del Castello.

Tornerà in Polonia.

Scriverà del Castello.

Racconterà del Castello.

Sai cosa mi sono ricordato? dirà alla figlia, già ammalato e prossimo a morire. Che quelle fratture dei crani erano sempre vicino alle tempie e sempre triangolari. Sai perché? Il calcio del fucile. Un colpo assestato col calcio del fucile lascia sempre un segno triangolare.

Sai cosa mi sono ricordato? Che quando quello spinse giù la carrozzina col piede e il bambino ruzzolò per le scale io feci un salto e gli mollai con tutta la forza un calcio nel culo. Se lo meritava, ma due giorni dopo li fucilarono, e lui piangeva, e pregava ad alta voce. Se lo meritava, però forse non avrei dovuto...

Sai chi mi è tornato in mente?

Slawek.

Fece qualche passo... Con quel coltello conficcato nel petto. Che gli spuntava dal petto...

La porta dell'ambulatorio era aperta,

C'era uno specchio appeso al muro.

Ci si appoggiò con tutt'e due le mani.

Noi stavamo alle sue spalle.

Vedemmo la sua faccia nello specchio, e anche lui vedeva noi.

Fece una smorfia... era un sorriso, voleva farci un sorriso... Staccò le mani e cadde in terra. Sullo specchio rimasero le impronte insanguinate delle mani.

Sai che cosa ho pensato?

Non bisogna pensare, lo interromperà la figlia. Raccontami del Marocco, piuttosto. Delle montagne, dei berberi, del deserto...

Ho pensato che non ho mai picchiato nessun bambino.

Lo sai perché?

Perché mi rammentavo di quei bambini.

Non bisogna rammentare, dirà la figlia. Raccontami del Marocco. Ci sei mai stato a Casablanca?

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Pagina 81

Franciszka Arnsztajn. La decisione

Le scrittrici sue conoscenti le trovarono rifugio nei dintorni di Varsavia – rifugi sicuri e del tutto comodi. Lei potrà abitarvi fino alla fine della guerra, signora, assicurarono a Franciszka Arnsztajn, ma F. A. disse che aveva preso una decisione diversa. Sarebbe andata nel ghetto.

Una sua amica (che gestiva a Zakopane la pensione «Albione», dove F. A. soggiornava spesso) le chiese – perché nel ghetto.

Per stare con tutti gli altri, spiegò Franciszka Arnsztajn.

La sua amica le fece visita nel ghetto, e dopo la guerra parlava con la gente che poteva saperne qualcosa.

Raccontò alla nipote che F. A. aveva con sé un abito da festa, un lungo vestito nero. Aveva il cornetto acustico. Aveva la Divina Commedia di Dante e le sue poesie. Queste cose le conservava in una borsa di pelle consunta, come quelle che portavano le levatrici una volta.

La nipote si domandava quale fosse questo vestito. Tutti i vestiti della nonna erano lunghi e neri, ma uno era rifinito da un colletto di raso. La nipote suppose che fosse proprio questo che F. A. considerava l'abito delle feste.

Era finita all'ospedale, venne a sapere l'amica.

Pare fosse morta di tifo.

Pare fosse guarita.

Pare avesse tirato fuori la croce della Polonia Restituta cucita nella spallina.

Si era appuntata la croce.

Pare avesse detto: sparate.


I tedeschi sparavano ai degenti, nel 1943, fra il diciotto e il ventuno di gennaio.

L'ospedale, l'ultimo rimasto nel ghetto di Varsavia, si trovava in via Gisia al numero 6/8. Lì erano stati riuniti infermiere e medici sopravvissuti alla liquidazione di tutti gli altri ospedali ebraici. La maggior parte dei malati si trovava nel reparto malattie infettive (spadroneggiava il tifo) e in quello chirurgico (ferite da arma da fuoco).

I pazienti giacevano a due, tre per letto. Erano macilenti, estenuati, soli.

In uno di quei letti poteva giacere Franciszka Arnsztajn.

Aveva con sé il vestito?

Se è così vorrebbe dire che non glielo avevano rubato mentre era malata, che non l'aveva venduto e non lo aveva barattato con del pane.

La Polonia Restituta poteva avercela, la croce era fatta di tombacco dorato (nell'officina di Gontarczyk, in via Miodowa) e non aveva un valore di mercato.

E se anche ce l'aveva, il vestito, fece a tempo a indossarlo?

I tedeschi entrarono nell'ospedale la mattina presto. Nessuno si aspettava che sarebbero entrati quel giorno. Nella parte ariana di Varsavia continuavano i rastrellamenti e la gente veniva deportata al lavoro coatto in Germania. Gli ebrei ritenevano che i tedeschi, tutti presi dai polacchi, non avrebbero intrapreso una nuova azione di trasferimento.

L'azione cominciò di lunedì.

Le SS spinsero i malati meno gravi fino all'Umschlagplatz, gli altri li ammazzarono sul posto. Si avvicinavano ai letti e sparavano con le pistole.

Un gruppetto di medici e di degenti si nascose nel rifugio. Li trovarono martedì e mercoledì, e li condussero ai vagoni.

Sarà riuscita Franciszka Arnsztajn, indebolita dal tifo, ad alzarsi dal letto? «Sparate» voleva dirlo in piedi...


Poteva essere accaduto prima — nel luglio o nell'agosto del 1942, nel corso dell'azione di trasferimento chiamata Groίe Aktion.

Ogni giorno l'azione cominciava all'alba: alla sede delle SS arrivavano gli ufficiali della polizia ebraica e ritiravano una busta sigillata con la ceralacca. Dentro la busta c'era la lista con gli indirizzi.

Dopo le sei venivano chiusi i portoni delle case prescelte. Erano case a più piani, spesso prive di ascensore. Si facevano scendere i vecchi per le scale. Si portavano giù i bambini. Nel cortile i tedeschi controllavano i documenti, lasciavano andare prima di tutto becchini e carrettieri.

Questo durava un'ora e mezzo o due.

F. A. aveva abbastanza tempo per vestirsi.

Non tirò fuori il cornetto acustico.

Era circondata dal silenzio.

Non udiva le grida «Tutti giù in cortile!» né «Juden raus!»

Non sentiva lo scalpiccio dei piedi per le scale, né il fracasso delle porte sfondate, né il pianto, né gli spari.

Non aveva intenzione di scendere giù.

Non cercava di nascondersi.

Cercava di pregare.

Dio dei miei padri, gran Dio di Israele,

Tu che un tempo mi strappasti dalle mani del nemico...

– disse a mezza voce, ma il seguito non se lo rammentava.

... – donde questo coro di dolore

Che popolo è questo preso da tanta evidente disperazione?

– cominciò, ma le parve innaturale: lei sapeva da dove veniva il dolore e che popolo era quello.

Da un paio di giorni le frullavano in testa delle parole – sempre le stesse che non erano una preghiera, né Dante:

    Da secoli solo questo c'è
    La fame lo sterminio e tu
    Da secoli solo questo c'è
    La fame lo sterminio e tu
    Da secoli solo questo c'è...

Non sentì arrivare i passi.

Vide la porta aprirsi con impeto.

Si alzò dalla sedia.

Schiessen Sie, disse con accento irreprensibile, perché aveva studiato scienze naturali a Magdeburgo.

Così poteva sembrare.

Poteva anche essere andata in modo del tutto diverso.

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