Copertina
Autore Agota Kristof
Titolo Trilogia della città di K.
SottotitoloIl grande quaderno - La prova - La terza menzogna
EdizioneEinaudi, Torino, 2005 [1998], Super ET , pag. 384, cop.fle., dim. 135x208x22 mm , Isbn 978-88-06-17398-2
OriginaleLe Grand Cahier, La Preuve, La Troisième Mensonge
EdizioneSeuil, Paris, 1986
TraduttoreArmando Marchi, Virginia Ripa di Meana, Giovanni Bogliolo
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe narrativa ungherese , narrativa francese
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Indice


  3   Il grande quaderno

139   La prova

267   La terza menzogna


 

 

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Pagina 5

L'arrivo da Nonna


Arriviamo dalla Grande città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, piú il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche.

Camminiamo a lungo. La casa di Nonna è lontana dalla stazione, all'altro capo della Piccola città. Qui non ci sono tram, né autobus, né macchine. Circolano solo alcuni camion militari.

I passanti sono pochi, la città è silenziosa. Si può udire il rumore dei nostri passi; camminiamo senza parlare, nostra Madre tra noi due.

Davanti alla porta del giardino di Nonna nostra Madre dice:

— Aspettatemi qui.

Aspettiamo un po', poi entriamo in giardino, giriamo intorno alla casa, ci accovacciamo sotto una finestra da cui giungono delle voci. La voce di nostra Madre:

— Non c'è piú niente da mangiare in casa nostra, niente pane, carne, verdura, latte. Niente. Non posso piú sfamarli.

Un'altra voce dice:

— E allora ti sei ricordata di me. Per dieci anni non ti eri mai ricordata. Non sei venuta, non hai scritto.

Nostra Madre dice:

— Sapete bene perché. A mio padre volevo bene, io.

L'altra voce dice:

— Sí, e adesso ti ricordi che hai anche una madre. Arrivi qua e mi chiedi di aiutarti.

Nostra Madre dice:

— Non domando niente per me. Vorrei solamente che i miei bambini sopravvivessero a questa guerra. La Grande Città è bombardata giorno e notte, e non c'è piú da mangiare. I bambini sfollano in campagna, da parenti o estranei, dove capita.

L'altra voce dice:

— Allora non avevi che da mandarli da qualche estraneo, dove capitava.

Nostra Madre dice:

— Sono i vostri nipotini.

— I miei nipotini? Non li conosco nemmeno. Quanti sono?

— Due. Due bambini. Gemelli.

L'altra voce chiede:

— E degli altri cosa ne hai fatto?

Nostra Madre chiede:

— Quali altri?

— Le cagne mollano lí quattro o cinque piccoli per volta. Se ne tengono uno o due, gli altri li annegano.

L'altra voce ride molto forte. Nostra Madre non dice niente e l'altra voce chiede:

— Hanno un padre almeno? Non sei sposata, che io sappia. Non sono stata invitata al tuo matrimonio.

— Sono sposata. Il Padre è al fronte. Non ho sue notizie da sei mesi.

— Allora puoi farci una croce sopra.

L'altra voce ride ancora, nostra Madre piange. Ritorniamo davanti alla porta del giardino.

Nostra Madre esce dalla casa con una vecchia.

Nostra Madre ci dice:

— Ecco vostra Nonna. Resterete con lei per un po', fino alla fine della guerra.

Nostra Nonna dice:

— La guerra può durare ancora molto. Ma li farò lavorare, stai tranquilla. Il cibo non è gratis nemmeno qui.

Nostra Madre dice:

— Vi manderò dei soldi. Nelle valigie ci sono i loro vestiti. E nello scatolone lenzuola e coperte. Siate buoni, piccoli miei. Vi scriverò.

Ci bacia e se ne va piangendo.

Nonna ride molto forte e ci dice:

— Lenzuola, coperte! Camicie bianche e scarpe di vernice! Vi insegnerò io a vivere !

Facciamo la lingua a nostra Nonna. Lei ride ancora piú forte battendosi sulle cosce.

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Pagina 75

Il nostro primo spettacolo


La fantesca canta spesso. Antiche canzoni popolari e nuove canzoni alla moda che parlano della guerra. Ascoltiamo queste canzoni, le ripetiamo con la nostra armonica. Chiediamo anche all'attendente di insegnarci delle canzoni del suo paese.

Una sera tardi, mentre Nonna è già coricata, andiamo in città. Vicino al castello, in una vecchia stradina, ci fermiamo davanti a una casa bassa. Dei rumori, delle voci, del fumo giungono dalla porta che si apre su una scala. Scendiamo i gradini di pietra e sbuchiamo in una cantina trasformata in taverna. Degli uomini, in piedi o seduti su panche di legno e su dei barili, bevono vino. Per lo piú sono anziani ma ci sono anche qualche giovane e tre donne. Nessuno bada a noi.

Uno di noi comincia a suonare l'armonica e l'altro a cantare una canzone di successo, dove si parla di una donna che attende il marito partito per la guerra e che tornerà presto, vittorioso.

Le persone, poco per volta, si voltano verso di noi; le voci tacciono. Cantiamo, suoniamo sempre piú forte; sentiamo la nostra melodia risuonare, rimbombare sulla volta della cantina come se fosse qualcun altro a cantare e suonare.

Finita la nostra canzone, leviamo gli occhi sui volti stanchi e vuoti. Una donna ride e batte le mani. Un giovane, a cui manca un braccio, dice con voce roca:

— Ancora. Suonate ancora qualcosa!

Ci scambiamo le parti. Quello che aveva l'armonica la passa all'altro, e cominciamo una nuova canzone.

Un uomo molto magro si avvicina titubante e ci urla sul viso:

— Zitti, cani!

Ci spinge brutalmente uno a destra e l'altro a sinistra; perdiamo l'equilibrio, l'armonica cade a terra. L'uomo sale le scale appoggiandosi al muro. Lo udiamo ancora gridare in strada:

— State tutti zitti!

Raccogliamo l'armonica, la puliamo. Qualcuno dice:

— È sordo.

Qualcun altro dice:

— Non è soltanto sordo. Piú che altro completamente matto.

Un vecchio ci carezza i capelli. Delle lacrime gli scorrono dagli occhi infossati, cerchiati di nero:

— Che disgrazia. Che mondo disgraziato! Poveri piccoli! Povero mondo!

Una donna dice:

— Sordo o matto, lui è tornato. Anche tu sei tornato.

Si siede sulle ginocchia dell'uomo a cui manca un braccio.

L'uomo dice:

— Hai ragione, bella mia; sono ritornato. Ma con che cosa lavorerò? Con cosa terrò fermo l'asse da segare? Con la manica vuota della giacca?

Un altro giovane, seduto su una panca, dice ridacchiando:

— Anch'io sono ritornato. Solo che sono paralizzato da qui in giú. Le gambe e tutto il resto. Non mi si rizzerà piú. Avrei preferito crepare subito, ah sí, restarci sul colpo.

Un'altra donna dice:

— Non siete mai contenti. Quelli che vedo morire all'ospedale dicono tutti: «Quale che sia il mio stato, mi piacerebbe sopravvivere, tornare a casa, vedere mia moglie, mia madre, non importa come, vivere ancora un poco».

Un uomo dice:

— Tu chiudi il becco! Le donne non sanno niente della guerra.

La donna dice:

— Non sanno niente? Coglione! Abbiamo tutto il lavoro, tutte le preoccupazioni: i bambini da sfamare, i feriti da curare. Voi, una volta finita la guerra siete tutti degli eroi. Morti: eroi. Sopravvissuti: eroi. Mutilati: eroi. È per questo che avete inventato la guerra, voi uomini. È la vostra guerra. L'avete voluta voi, fatela allora, eroi dei miei stivali!

Tutti si mettono a parlare, a urlare. Il vecchio, vicino a noi, dice:

Nessuno ha voluto questa guerra. Nessuno. nessuno.

Usciamo dallo scantinato, decidiamo di rincasare.

La luna rischiara le strade e la viuzza polverosa che porta alla casa di Nonna.

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Pagina 77

Lo sviluppo dei nostri spettacoli


Impariamo a fare i giocolieri con la frutta: mele, noci, albicocche. All'inizio con due: è facile. Poi con tre, quattro, finché arriviamo a cinque.

Inventiamo giochi di prestigio con le carte e con le sigarette.

Ci esercitiamo anche nelle acrobazie. Sappiamo fare la ruota, i salti mortali, le capriole in avanti e all'indietro, e siamo capaci di camminare sulle mani con grandissima disinvoltura.

Ci mettiamo dei vestiti vecchi, troppo grandi per noi, che abbiamo trovato nel baule della soffitta: giacche a quadrettoni, larghe e strappate, pantaloni enormi che stringiamo in vita con una corda. Abbiamo trovato anche un cappello nero, rotondo e duro.

Uno di noi si attacca un peperone rosso sul naso e l'altro dei baffi finti fatti con la barba del granturco. Ci procuriamo del rossetto e ingigantiamo la nostra bocca fino alle orecchie.

Cosí vestiti da pagliacci andiamo sulla piazza del mercato. E lí che ci sono piú negozi e piú gente.

Cominciamo il nostro spettacolo facendo molto baccano con l'armonica e con una zucca vuota trasformata in tamburo. Quando attorno a noi ci sono spettatori a sufficienza, facciamo giochi di abilità con i pomodori, o anche con delle uova. I pomodori sono veri pomodori, ma le uova sono svuotate e riempite di sabbia fine. E siccome la gente non lo sa, tutti gridano, ridono, applaudono quando facciamo finta di acchiapparne uno per un pelo.

Continuiamo lo spettacolo con dei giochi di prestigio e lo concludiamo con delle acrobazie.

Mentre uno di noi due continua a fare la ruota e i salti mortali, l'altro fa il giro degli spettatori camminando sulle mani, con il vecchio cappello tra i denti.

La sera andiamo nei locali senza travestimento.

Ben presto conosciamo tutte le osterie del paese, le cantine dove il viticoltore vende il suo vino, i chioschi dove si beve in piedi, i caffè dove vanno persone ben vestite e qualche ufficiale in cerca di ragazze.

Le persone che bevono danno con facilità il loro denaro. Si confidano facilmente, anche. Veniamo a conoscenza di ogni tipo di segreto su ogni tipo di persona.

Spesso ci offrono da bere e, a poco a poco, ci abituiamo all'alcol. Fumiamo anche le sigarette che ci danno.

Dappertutto otteniamo un grande successo. Trovano che abbiamo una bella voce; ci applaudono e ci chiedono il bis molte volte.

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Pagina 115

L'arrivo dei nuovi stranieri


Dopo la partenza di nostra cugina andiamo in città per vedere quello che succede.

A ogni angolo di strada c'è un carro armato. Sulla Piazza Grande camion, camionette, moto, sidecar e, dappertutto, molti soldati. Sulla piazza del Mercato, che non è asfaltata, montano delle tende e installano delle cucine da campo.

Quando passiamo di fianco a loro, ci sorridono, ci parlano, ma noi non capiamo quello che dicono.

A parte i soldati, in strada non c'è nessuno. Le porte delle case sono chiuse, le imposte serrate, le saracinesche dei negozi abbassate.

Torniamo a casa e diciamo a Nonna:

— È tutto calmo in città.

Sghignazza:

— Adesso si stanno riposando, ma oggi pomeriggio vedrete!

— Cosa deve succedere, Nonna?

— Faranno una perquisizione. Entreranno dappertutto e frugheranno. E prenderanno quello che vorranno. Ho già vissuto una guerra, so quello che succede. Noi non abbiamo niente da temere: non c'è niente da prendere qui e io so parlare la loro lingua.

— Ma cosa cercano, Nonna?

— Spie, armi, munizioni, orologi, oro, donne.

Nel pomeriggio, difatti, i militari cominciano a frugare sistematicamente le case. Se non aprono, loro sparano in aria e poi sfondano la porta.

Molte case sono vuote. Gli abitanti se ne sono andati definitivamente o si nascondono nella foresta. Queste case disabitate sono perquisite come le altre, cosí come tutti i negozi e le botteghe.

Dopo il passaggio dei soldati, sono i ladri che invadono i negozi e le case abbandonate. I ladri sono soprattutto vecchi e bambini, anche qualche donna, che non hanno paura di niente o che sono poveri.

Incontriamo Labbro-leporino. Ha le braccia cariche di vestiti e di scarpe. Ci dice:

— Sbrigatevi, finché c'è ancora qualcosa da prendere. Io, è la terza volta che faccio la spesa.

Entriamo nella libreria; la porta è sfondata. Lí non c'è che qualche ragazzo piú piccolo di noi. Prendono delle matite e dei gessetti colorati, delle gomme, dei temperini, delle cartelle.

Scegliamo tranquillamente quello di cui abbiamo bisogno: un'enciclopedia completa in piú volumi, matite e carta.

Per strada un vecchio e una vecchia si accapigliano per un prosciutto affumicato. Sono circondati da persone che sghignazzano e li incitano. La donna graffia il volto del vecchio e, alla fine, è lei a prendersi il prosciutto.

I ladri si ubriacano con l'alcol rubato, si azzuffano, rompono le finestre delle case, le vetrine dei negozi che hanno saccheggiato, rompono il vasellame, gettano a terra gli oggetti di cui non hanno bisogno o che non possono portare via.

Anche i soldati bevono e tornano nelle case, ma questa volta per cercare le donne.

Si odono ovunque colpi di armi da fuoco e le grida delle donne violentate.

Sulla Piazza Grande, un soldato suona la fisarmonica. Altri soldati ballano e cantano.

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Pagina 117

L'incendio


Da molti giorni non vediamo piú la vicina nel suo giardino. Non incontriamo piú Labbro-leporino. Andiamo a vedere.

La porta della catapecchia è aperta. Entriamo. Le finestre sono piccole. È buio nella stanza, anche se fuori splende il sole.

Quando i nostri occhi si abituano alla penombra, distinguiamo la vicina coricata sul tavolo della cucina. Le gambe penzoloni, le braccia posate sul viso. Non si muove.

Labbro-leporino è coricata sul letto. È nuda. Tra le sue gambe divaricate c'è una pozza secca di sangue e di sperma. Le ciglia incollate per sempre, le labbra sollevate sui denti neri in un sorriso eterno: Labbro-leporino è morta.

La vicina dice:

— Andate via.

Ci avviciniamo a lei, domandiamo:

— Non è sorda?

— No. Non sono nemmeno cieca. Andate via.

Diciamo:

— Vogliamo aiutarla.

Dice:

— Non ho bisogno di aiuto. Non ho bisogno di niente. Andate via.

Domandiamo:

— Che cos'è successo qui?

— Lo vedete. È morta, non vedete?

— Sí. Sono stati i nuovi stranieri?

— Sí. E stata lei a chiamarli. È uscita in strada e ha fatto loro segno di venire. Erano dodici o quindici. E intanto che le montavano addosso non smetteva di gridare: «Come sono contenta, come sono contenta! Venite tutti, venite, ancora uno, ancora un altro!» È morta felice, scopata a morte. Ma io, io non sono morta! Sono rimasta coricata qui senza mangiare, senza bere, non so da quanto tempo. E la morte non arriva. Quando la si chiama non viene mai. Si diverte a torturarci. La chiamo ormai da anni e lei mi ignora.

Domandiamo:

— Desidera veramente morire?

— Che cosa potrei desiderare d'altro? Se volete fare qualcosa per me date fuoco alla casa. Non voglio che ci trovino cosí.

Diciamo:

— Ma soffrirà in modo atroce!

— Non preoccupatevi di questo. Date fuoco e basta, se ne siete capaci.

— Sí, signora, ne siamo capaci. Può contare su di noi.

Le tagliamo la gola con un colpo di rasoio, poi andiamo a prendere della benzina da un automezzo dell'esercito. Innaffiamo di benzina i due corpi e i muri della catapecchia. Appicchiamo il fuoco e ce ne andiamo a casa.

Il mattino dopo Nonna ci dice:

— La casa della vicina è bruciata. Ci sono rimaste, sua figlia e lei. La figlia deve aver dimenticato qualcosa sul fuoco, quella pazza!

Torniamo laggiú per prendere le galline e i conigli, ma degli altri vicini li hanno già presi durante la notte.

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Pagina 195

4.


In via della Stazione gli ippocastani sono in fiore. I petali bianchi ricoprono il terreno di uno strato cosí spesso che Lucas non sente nemmeno il rumore dei suoi passi. Ritorna da casa di Clara a notte alta.

Il bambino è seduto sulla panca ad angolo della cucina. Lucas dice:

— Sono solo le cinque. Perché ti alzi cosí presto?

Il bambino chiede:

— Dov'è Yasmine?

— È partita per la grande città. Qui si annoiava.

Gli occhi neri del bambino si spalancano:

— Partita? Senza di me?

Lucas si volta, accende il fuoco. Il bambino chiede:

— Tornerà?

— No, non credo.

Lucas versa il latte di capra in una pentola per farlo scaldare.

Il bambino chiede:

— Perché non mi ha portato con sé? Me l'aveva promesso.

Lucas dice:

— Ha pensato che saresti stato meglio qui con me, e lo penso anch'io.

Il bambino dice:

— Non sto meglio qui con te. Starei meglio ovunque con lei.

Lucas dice:

— Una grande città non è divertente per un bambino. Non ci sono giardini, né animali.

Il bambino dice:

— Ma c'è mia madre.

Guarda fuori dalla finestra. Quando si volta, il suo visetto è stravolto dal dolore:

— Non mi vuole bene perché sono menomato. È per questo che mi ha lasciato qui.

— Non è vero, Mathias. Ti ama con tutto il cuore. Lo sai.

— Allora, tornerà a prendermi.

Il bambino respinge la tazza, il piatto, ed esce dalla cucina. Lucas va a bagnare l'orto. Il sole sorge.

Il cane dorme sotto un albero, il bambino gli si avvicina con un bastone in mano. Lucas guarda il bambino. Il bambino solleva il bastone e picchia il cane. Il cane scappa uggiolando. Il bambino guarda Lucas:

— Non mi piacciono gli animali. E non mi piacciono nemmeno i giardini.

Con il bastone, il bambino colpisce l'insalata, i pomodori, le zucche, i fagioli, i fiori. Lucas lo guarda senza dire niente.

Il bambino torna dentro casa, si mette nel letto di Yasmine. Lucas lo raggiunge, si siede sul bordo del letto:

— Sei dunque cosí scontento di restare con me? Perché?

Gli occhi del bambino fissano il soffitto:

— Perché ti odio.

— Mi odi?

— Sí, ti odio da sempre.

— Non lo sapevo. Puoi dirmi perché?

— Perché sei alto e bello, e perché credevo che Yasmine ti amasse. Ma se lei se n'è andata, è perché non ti amava, neanche a te. Spero che tu sia infelice come me.

Lucas si prende la testa fra le mani. Il bambino chiede:

— Piangi?

— No, non piango.

— Ma sei triste per Yasmine?

— No, non per Yasmine. Sono triste per te, per la tua sofferenza.

— Davvero? Per me? Ti sta bene.

Sorride:

— Eppure io sono solo un povero menomato, e Yasmine è bella.

Dopo un silenzio, il bambino chiede:

— E tua madre, dov'è?

— È morta.

Era troppo vecchia, è per questo che è morta?

— No. È morta per via della guerra. Uccisa da una granata, lei e sua figlia che era la mia sorellina.

— Dove sono adesso?

— I morti sono ovunque e in nessun luogo.

Il bambino dice:

— Sono in soffitta. Le ho viste, quelle due cose d'osso, la grande e la piccola.

Lucas chiede a voce bassa:

— Sei salito in soffitta? Come hai fatto?

— Mi sono arrampicato. È facile. Ti farò vedere come.

Lucas tace. Il bambino dice:

— Non aver paura, non lo dirò a nessuno. Non voglio che le prendano. Mi piacciono.

— Ti piacciono?

— Sí, soprattutto il neonato. È piú brutto e piú piccolo di me. E non crescerà mai. Non sapevo che fosse una bambina. D'altronde, con quelle cose fatte d'osso, non si può sapere.

— Quelle cose si chiamano scheletri.

— Sí. Scheletri. Ne ho visti anche in quel librone che sta in cima alla tua libreria.

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