Copertina
Autore Milan Kundera
Titolo L'ignoranza
EdizioneAdelphi, Milano, 2001, Fabula 136 , pag. 186, dim. 140x220x16 mm , Isbn 978-88-459-1632-8
OriginaleL'ignorance [2000]
TraduttoreGiorgio Pinotti
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe narrativa ceca , narrativa francese , citta': Praga
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Pagina 9

«Cosa fai ancora qui?». La sua voce non era cattiva, ma non era neppure gentile; Sylvie si stava irritando.

«E dove dovrei essere?» chiese Irena.

«A casa tua!».

«Vuoi dire che qui non sono più a casa mia?».

Naturalmente non voleva cacciarla dalla Francia, né farla sentire una straniera indesiderabile: «Sai benissimo cosa voglio dire».

«Sì, lo so, ma ti sei dimenticata che qui ho il mio lavoro? la mia casa? i miei figli?».

«Senti, conosco Gustaf. Farà di tutto perché tu possa tornare nel tuo paese. E le tue figlie... Non raccontarmi storie! Ormai hanno la loro vita! Dio santo, Irena, quel che sta succedendo da voi è così affascinante! In una situazione del genere le cose si sistemano sempre».

«Ma Sylvìe! Non ci sono solo gli aspetti pratici, il lavoro, la casa. Vivo qui da vent'anni. La mia vita è qui!».

«C'è una rivoluzione da voi!». Lo disse in un tono che non ammetteva repliche. Poi rimase zitta. Con quel silenzio, voleva dire a Irena che quando accadono grandi cose non si deve disertare.

«Ma se torno nel mio paese non ci vedremo più» disse Irena per mettere l'amica in imbarazzo.

Questa demagogia dei sentimenti andò a vuoto. La voce di Sylvie si fece calorosa: «Ma cara, verrò a trovarti! Te lo prometto, davvero!».

Erano sedute l'una accanto all'altra davanti a due tazze di caffè vuote da un pezzo. Irena vide lacrime di emozione negli occhi di Sylvie, che si chinò verso di lei e le strinse la mano: «Sarà il tuo grande ritorno». E di nuovo: «Il tuo grande ritorno».

Ripetute, le parole acquistarono una tale forza che, dentro di sé, Irena le vide scritte con la maiuscola: Grande Ritorno. Smise di ribellarsi: fu stregata da immagini che d'improvviso affiorarono da vecchie letture, da film, dalla sua memoria e forse da quella dei suoi antenati: il figlio perduto che ritrova la vecchia madre; l'uomo che si ricongiunge all'amata cui l'aveva strappato una sorte feroce; la casa natale che ciascuno porta dentro di sé; il sentiero riscoperto dov'è rimasta l'impronta dei passi perduti dell'infanzia; Ulisse che rivede la sua isola dopo anni di vagabondaggio; il ritorno, il ritorno, la grande magia del ritorno.

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Pagina 11

In greco «ritorno» si dice nóstos. Algos significa «sofferenza». La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. Per questa nozione fondamentale la maggioranza degli europei può utilizzare una parola di origine greca (nostalgia, nostalgie), poi altre parole che hanno radici nella lingua nazionale: gli spagnoli dicono añoranza, i portoghesi saudade. In ciascuna lingua queste parole hanno una diversa sfumatura semantica. Spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata dall'impossibilità di ritornare in patria. Rimpianto della propria terra. Rimpianto del paese natio. Il che, in inglese, si dice homesickness. O, in tedesco, Heimweh. In olandese: heimwee. Ma è una riduzione spaziale di questa grande nozione. Una delle più antiche lingue europee, l'islandese, distingue i due termini: söknudur: «nostalgia» in senso lato; e heimfra: «rimpianto della propria terra». Per questa nozione i cechi, accanto alla parola «nostalgia» presa dal greco, hanno un sostantivo tutto loro: stesk, e un verbo tutto loro; la più commovente frase d'amore ceca: styská se mi po tobe: «ho nostalgia di te»; «non posso sopportare il dolore della tua assenza».

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Pagina 130

Sono ormai due o tre ore che cammina per quei verdi quartieri. Giunge al parapetto che delimita un piccolo parco da cui si domina Praga: si vede la parte posteriore del castello, il suo lato segreto; è una Praga di cui Gustaf non sospetta l'esistenza; e subito le si fanno incontro i nomi che le erano cari quand'era ragazza: Mácha, poeta dei tempi in cui la nazione, come ninfa dalle acque, emergeva dalle brume; Neruda, cantore della povera gente ceca; le canzoni di Voskovec e Werich, degli anni Trenta, che a suo padre, morto quando lei era ancora bambina, piacevano tanto; Hrabal e Skvorecky, romanzieri della sua adolescenza; e i piccoli teatri e i cabaret degli anni Sessanta, così liberi, così allegramente liberi con il loro humour irriverente; era ciò che aveva portato con sé in Francia: il profumo inesprimibile di questo paese, la sua essenza immateriale.

Appoggiata al parapetto, guarda in direzione del castello: le basterebbe un quarto d'ora per arrivarci. È lì che comincia la Praga delle cartoline, la Praga sulla quale la Storia in delirio ha impresso le sue molteplici stigmate, la Praga dei turisti e delle puttane, la Praga dei ristoranti cari al punto che i suoi amici cechi non possono metterci piede, la Praga che danza contorcendosi sotto i riflettori, la Praga di Gustaf. Dice a se stessa che non c'è luogo che le sia più estraneo di quella Praga. Gustaftown. Gustafville. Gustafstadt. Gustafgrad.

Gustaf: lo vede, i lineamenti sfumati dietro il vetro opaco di una lingua che lei conosce poco, e quasi rallegrandosene dice a se stessa che è un bene, perché finalmente la verità è venuta a galla: non prova alcun bisogno di capirlo né di farsi capire da lui. Lo vede gioviale, in tee-shirt, che grida «Kafka was born in Prague!», e si sente invadere da un desiderio, dal desiderio irrefrenabile di avere un amante. Non per rimettere insieme la sua vita così com'è. Ma per buttarla completamente all'aria. Per avere finalmente il proprio destino.

Perché non si è mai scelta un uomo. Sono gli uomini che hanno sempre scelto lei. Martin ha finito per amarlo, ma all'inizio era solo un'occasione per sfuggire a sua madre. Nell'avventura con Gustaf credeva di aver trovato la libertà. Ma adesso sa che era solo una variante della relazione con Martin: ha afferrato una mano tesa, pronta a sottrarla a circostanze penose che lei non era in grado di affrontare.

Sa di essere incline alla gratitudine; l'ha sempre considerata il suo maggior pregio; quando la gratitudine lo ordinava, un sentimento d'amore accorreva come una docile serva. Aveva per Martin una sincera devozione, ed era sincera quella che nutriva per Gustaf. Ma c'è di che andarne fieri? La gratitudine non è forse solo un altro nome della debolezza, della dipendenza? Quel che adesso desidera è l'amore senza alcuna forma di gratitudine! E sa che un amore del genere occorre pagarlo con un gesto audace e arrischiato. Perché in amore lei non è mai stata audace, non sapeva neppure cosa volesse dire.

E come un'improwisa folata di vento: a ritmo accelerato le scorrono davanti agli occhi vecchi sogni d'esilio, vecchie angosce: vede un gruppo di donne che le corrono incontro, la circondano e, alzando i boccali di birra e ridendo con perfidia, le impediscono di fuggire; è in un negozio dove altre donne, le commesse, si gettano su di lei e le infilano un abito che, sul suo corpo, si trasforma in camicia di forza.

Resta a lungo appoggiata al parapetto, poi si raddrizza. Si sente invadere dalla certezza che fuggirà; che non resterà più in questa città; né in questa città, né nella vita che questa città sta tessendo per lei.

Cammina e dice a se stessa che oggi sta finalmente facendo la passeggiata d'addio cui allora aveva dovuto rinunciare; può finalmente dire il Grande Addio alla città che ama più di ogni altra e che è disposta a perdere ancora una volta, senza rimpianti, per meritare una vita tutta sua.

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Pagina 145

Dovette fare uno sforzo per riprendere il filo della conversazione appena avviata: chiese a N. se avesse subito attacchi per via del suo passato politico; N. rispose di no; tutti, secondo lui, sapevano che aveva sempre aiutato coloro che erano perseguitati dal regime. «Non ne dubito» disse Josef (non ne dubitava davvero), ma insistette: lui, N., come giudicava la sua vita passata? come un errore? come una sconfitta? N. scosse il capo: non si trattava né dell'una né dell'altra cosa. Alla fine, Josef gli chiese cosa pensasse della così rapida e brutale restaurazione del capitalismo. Scrollando le spalle, N. rispose che date le circostanze non c'era altra soluzione.

La conversazione languiva. In un primo momento Josef pensò che N. giudicasse indiscrete le sue domande. Poi si corresse: più che indiscrete erano superate. Se il sogno di vendetta di sua cognata si fosse realizzato e N. fosse stato citato in giudizio, forse allora avrebbe ripercorso il suo passato comunista per chiarirlo e difendersi. Ma, senza quella citazione, oggi per lui il passato era lontano. Non ci viveva più dentro.

Josef si ricordò di una sua vecchia idea, che aveva sempre considerato blasfema: l'adesione al comunismo non ha nulla a che vedere con Marx e con le sue teorie; il periodo storico ha semplicemente offerto alla gente l'opportunità di soddisfare i più diversi bisogni psicologici: il bisogno di mostrarsi non conformisti; o il bisogno di ubbidire; o il bisogno di punire i malvagi; o il bisogno di rendersi utili; o il bisogno di procedere insieme ai giovani verso il futuro; o il bisogno di avere intorno a sé una grande famiglia.

Il cane, di buonumore, abbaiava e Josef si disse: oggi la gente abbandona il comunismo non perché le sue convinzioni siano cambiate o abbiano subìto un duro colpo, ma perché il comunismo non dà più l'opportunità né di mostrarsi non conformisti, né di ubbidire, né di punire i malvagi, né di rendersi utili, né di procedere insieme ai giovani, né di avere intorno a sé una grande famiglia. Il credo comunista non risponde più ad alcun bisogno. È diventato a tal punto inutilizzabile che tutti lo abbandonano facilmente, senza neppure accorgersene.

Aveva comunque l'impressione che il primitivo scopo della sua visita non fosse stato raggiunto: far sapere a N. che, davanti a un tribunale immaginario, lui, Josef, lo avrebbe difeso. Per riuscirci voleva anzitutto dimostrargli che non era ottusamente entusiasta del mondo che si stava affermando lì dopo il comunismo, e fece ricorso alla grande immagine pubblicitaria che aveva visto nella piazza della sua città natale, l'immagine in cui una sigla incomprensibile offriva ai cechi i suoi servigi mostrando loro una mano bianca e una mano nera che si stringono: «Dimmi, secondo te è ancora il nostro paese?».

Si aspettava una risposta piena di sarcasmo nei confronti del capitalismo mondiale che uniforma il pianeta, ma N. non aprì bocca. Josef proseguì: «L'impero sovietico è crollato perché non poteva più tenere sotto controllo nazioni desiderose di affermare la propria sovranità. Ma quelle nazioni sono ora meno sovrane che mai. Non sono libere di decidere né la loro economia né la loro politica estera, e neppure gli slogan pubblicitari».

«La sovranità nazionale è da tempo un'illusione» disse N.

«Ma se un paese non è indipendente e non aspira neppure a esserlo, ci sarà ancora qualcuno disposto a morire per lui?».

«Io non voglio che i miei figli siano pronti a morire».

«Te lo dico in altre parole: c'è ancora qual- cuno che ami questo paese?».

N. rallentò il passo: «Josef,» disse in tono commosso «come hai potuto andartene via? Tu sei un patriota!». Poi, con grande serietà: «Morire per il proprio paese non ha più senso. Forse per te, mentre eri lontano, il tempo si è fermato. Ma loro non la pensano più così».

«Chi?».

N. fece un cenno con il capo in direzione del piano di sopra, come per indicare la sua prole. «Loro sono altrove».

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Pagina 154

«Lo sai, Gustaf ha un ufficio sia a Praga che a Parigi!».

«Sì, ma se non ho capito male è a Praga che vuole stabilirsi definitivamente».

«Fare la spola tra Parigi e Praga non mi pesa. Ho un lavoro qui e laggiù, devo rispondere solo a Gustaf, ci arrangiamo, improvvisiamo».

«Cosa ti trattiene a Parigi? Le tue figlie?».

«No. Non voglio stargli sempre appiccicata».

«Hai qualcuno laggiù?».

«Nessuno». Poi: «La mia casa». Poi: «La mia indipendenza». E ancora, lentamente: «Ho l'impressione che la mia vita sia sempre stata governata da altri. Tranne che nel periodo dopo la morte di Martin. Sono stati gli anni più duri, ero sola con le bambine, dovevo cavarmela. Non avevamo un soldo. Non ci crederai, ma oggi, nel mio ricordo, sono gli anni più felici».

Con stupore Irena si rende conto di aver definito gli anni successivi alla morte del marito come i più felici e corre ai ripari: «Intendevo dire che in quel periodo sono stata per la prima e unica volta padrona della mia vita».

Tace. Milada non interrompe il suo silenzio e Irena prosegue: «Mi sono sposata molto giovane, unicamente per sfuggire a mia madre. Ma proprio per questo è stata una decisione obbligata e non presa in libertà. E c'è di peggio: per sfuggire a mia madre mi sono sposata con un uomo che era un suo vecchio amico. D'altra parte al di fuori della sua cerchia non conoscevo nessuno. Così, anche dopo il matrimonio, sono rimasta sotto il suo controllo».

«Quanti anni avevi?».

«Solo venti. E a quel punto i giochi erano fatti, una volta per tutte. E lì che ho commesso un errore, un errore difficile da definire, impercettibile, ma dal quale è dipesa tutta la mia vita e a cui non sono mai riuscita a porre rimedio».

«Un errore irreparabile commesso nell'età dell'ignoranza».

«Sì».

«E a quell'età che ci si sposa, che si ha il primo bambino, che si sceglie una professione. Poi viene il giorno in cui sai e capisci molte cose, ma ormai è troppo tardi, perché tutta la tua vita è stata decisa in un periodo in cui non sapevi nulla».

«Sì, sì,» conferma Irena «persino il mio esilio! Anche quella è stata solo la conseguenza delle mie decisioni precedenti. Sono andata in esilio perché la polizia segreta non lasciava in pace Martin. Era lui che non poteva più vivere qui, non io. Sono stata solidale con mio marito e non me ne pento. Ma l'esilio non era una cosa che mi riguardasse, una mia decisione, la mia libertà, il mio destino. Mia madre mi ha spinto verso Martin, Martin mi ha portata all'estero».

«Sì, mi ricordo. La decisione è stata presa senza di te».

«Persino mia madre non si è opposta».

«Al contrario, le faceva comodo».

«A cosa ti riferisci? Alla villa?».

«Alla fin fine è sempre una questione di proprietà».

«Stai ridiventando marxista» dice Irena con un sorrisetto.

«Hai visto come, dopo quarant'anni di comunismo, la borghesia si è ripresa in pochi giorni? Sono sopravvissuti in mille modi: alcuni sono finiti in prigione o sono stati allontanati dai loro posti di lavoro, altri invece se la sono persino cavata bene, hanno avuto brillanti carriere, ambasciatori, professori. Ora i loro figli e nipoti sono di nuovo insieme, una specie di confraternita segreta, occupano le banche, i giornali, il Parlamento, il governo».

«Ma sei proprio rimasta comunista».

«È una parola che non significa più nulla. Ma non c'è dubbio che sono sempre rimasta una ragazza di famiglia povera».

Tace e nella sua mente cominciano a scorrere delle immagini: una ragazza di famiglia povera innamorata di un ragazzo di famiglia ricca; una giovane donna che attraverso il comunismo vuole dare un senso alla sua vita; dopo il 1968, una donna matura che abbraccia la dissidenza e scopre grazie a questo un mondo molto più vasto: non solo comunisti che si sono ribellati al partito, ma anche sacerdoti, ex prigionieri politici, esponenti decaduti dell'alta borghesia. E poi, dopo il 1989, quasi si ridestasse da un sogno, torna a essere quella che era: una ragazza invecchiata di famiglia povera.

«Non offenderti per la mia domanda» dice Irena. «Me l'hai già detto, ma l'ho dimenticato: dove sei nata?».

Fa il nome di una piccola città.

«Oggi vado a pranzo con uno di lì».

«Come si chiama?».

Sentendo il suo nome, Milada sorride: «Vedo che ancora una volta mi porta iella. Volevo invitarti a pranzo. Peccato».

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