Autore Milan Kundera
Titolo Un occidente prigioniero
Sottotitoloo la tragedia dell'Europa centrale
EdizioneAdelphi, Milano, 2022, Piccola Biblioteca 776 , pag. 86, cop.fle., dim. 10,5x17,7x0,8 cm , Isbn 978-88-459-3672-2
OriginaleUn Occident kidnappé ou la tragédie de l'Europe centrale [1983]
PrefazioneJacques Rupnik, Pierre Nora
TraduttoreGiorgio Pinotti
LettoreGiorgio Crepe, 2022
Classe storia: Europa , paesi: Cechia , politica , narrativa ceca












 

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Indice


Premessa di Jacques Rupnik              13

La letteratura e le piccole nazioni     19



Premessa di Pierre Nora                 39

Un Occidente prigioniero                43



Note                                    75


 

 

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Pagina 19

LA LETTERATURA E LE PICCOLE NAZIONI
Discorso al Congresso degli scrittori cecoslovacchi
(1967)



Cari amici, nessuna nazione sul pianeta Terra risale alla notte dei tempi e la nozione stessa di nazione è relativamente moderna, eppure la maggior parte di queste percepisce la propria esistenza come una certezza, un dono di Dio o della Natura presente da sempre. I popoli sono in grado di riconoscere nella loro cultura, nel sistema politico e persino nelle frontiere il frutto di una creazione, e dunque fonte di interrogativi o di problemi, mentre ritengono la propria esistenza in quanto popolo un dato inoppugnabile. La storia assai poco felice e frammentata della nazione ceca, che ha conosciuto l'anticamera della morte, le ha consentito di sfuggire a tale ingannevole illusione. L'esistenza della nazione ceca non è mai stata percepita come una certezza, e proprio in questa non-certezza risiede uno dei suoi principali attributi.

Fenomeno, questo, flagrante soprattutto all'inizio del XIX secolo, allorché un manipolo di intellettuali ha tentato dapprima di resuscitare il ceco, lingua pressoché dimenticata, poi, con la generazione successiva, il popolo ceco ormai semi-estinto. Questa rinascita è stata un atto deliberato e, come ogni atto, fondato su una scelta fra pro e contro. Anche se si sono risolti per il «pro», gli intellettuali provenienti dal movimento per la rifioritura della nazione ceca ben conoscevano gli argomenti che pesavano in direzione opposta. Sapevano - è il caso, per esempio, di Matouš Klácel, che ne ha parlato - che una germanizzazione avrebbe semplificato la vita dei cechi, offrendo ai loro figli maggiori opportunità. Sapevano anche che appartenere a una nazione più grande conferisce maggior peso a ogni lavoro intellettuale e ne amplia la portata, mentre la scienza divulgata in ceco - cito Klácel - «limita il riconoscimento del mio assiduo lavoro». Erano consapevoli dei fastidi che debbono affrontare i piccoli popoli che - come diceva Ján Kollár - «pensano e sentono solo a metà» e il cui livello di istruzione - cito ancora Kollár - «è spesso mediocre ed esiguo; non vivendo, non fanno che sopravvivere, non sbocciano né germogliano, non fanno che vegetare, non fanno crescere alberi ma solo rovi».

[...]

Č cruciale che l'intera società ceca sia pienamente consapevole del ruolo essenziale che svolgono cultura e letteratura. La letteratura ceca - è un'altra delle sue specificità - è assai poco aristocratica; è una letteratura plebea strettamente legata al suo vasto pubblico nazionale. Il che è una forza e una debolezza insieme. La forza risiede in un solido retroterra dove la parola risuona con vigore, la debolezza nell'insufficiente emancipazione, nel livello di istruzione, nell'orizzonte mentale come nelle eventuali manifestazioni di incultura della società ceca da cui dipende così strettamente. Temo a volte che l'istruzione possa oggi smarrire quel carattere europeo che stava tanto a cuore agli umanisti e ai leader della resurrezione nazionale ceca. L'antichità greco-romana e la cristianità, fonti decisive dello spirito europeo giacché da esse scaturisce la tensione di ogni sua conquista, si sono pressoché dileguate dalla coscienza di un giovane intellettuale ceco, e si tratta di una perdita irrimediabile. Sopravvissuto a tutte le rivoluzioni dello spirito, il pensiero europeo dà prova di una robusta continuità: si è infatti dotato di un vocabolario, di una terminologia, di allegorie, di miti come di cause da difendere e, a meno di non padroneggiarli, gli intellettuali europei non possono capirsi fra di loro. Ho letto da poco un rapporto sconfortante sulle conoscenze in materia di letteratura europea che hanno i futuri insegnanti di ceco, e preferisco ignorare quanto padroneggiano la storia mondiale. Il provincialismo è non solo prerogativa del nostro orientamento letterario, ma soprattutto un problema che riguarda la vita dell'intera società, l'istruzione, il giornalismo, ecc.

Ho visto di recente il film Le margheritine, che racconta la storia di due signorine meravigliosamente ignobili, assai fiere della loro meschina ristrettezza di vedute e pronte a distruggere con gioia e allegria tutto ciò che supera i loro orizzonti. Mi è sembrato di scorgervi un'allegoria, di ampia portata e di scottante attualità, del vandalismo. Chi è il vandalo? No, non è affatto il contadino analfabeta che in un accesso di rabbia dà fuoco alla casa del ricco proprietario terriero. I vandali che incontro io sono tutti letterati, soddisfatti di sé, con una discreta posizione sociale e senza particolari risentimenti nei confronti di chicchessia. Il vandalo è la superba ristrettezza di vedute che basta a sé stessa ed è sempre pronta a rivendicare i suoi diritti. Questa superba ristrettezza di vedute crede che il potere di adeguare il mondo alla propria immagine sia un diritto inalienabile, e poiché il mondo è per lo più composto di situazioni che la spiazzano lo adegua alla propria immagine distruggendolo. Così un adolescente decapita in un parco una statua colpevole di superare oltraggiosamente la sua essenza umana e, dal momento che ogni atto di autoaffermazione è appagante per l'uomo, esulta nel farlo. Gli uomini che vivono solo un presente decontestualizzato, che ignorano la continuità della storia e mancano di cultura possono trasformare la patria in un deserto privo di storia, di memoria, di echi e di ogni bellezza. Il vandalismo contemporaneo non si manifesta unicamente in forme condannabili agli occhi della legge. Se un comitato di cittadini oppure di burocrati incaricati di un'indagine stabilisce che una statua (un castello, una chiesa, un tiglio centenario) è inutile e decide di eliminarla, non fa che mettere in atto una diversa forma di vandalismo. Fra una distruzione legale e una illegale non c'è grande differenza, così come fra una distruzione e una proibizione. Di recente un membro del parlamento ha chiesto a nome di ventuno deputati che venissero proibiti due importanti e ardui film cechi, inclusa - ironia della sorte! - l'allegoria del vandalismo rappresentata da Le margheritine. Si è scagliato senza pudore contro i due film e ha subito ammesso, sono le esatte parole, di non averli capiti. L'incoerenza di tale posizione è solo apparente. Il peggior crimine di cui si accusano le due opere cinematografiche è proprio il fatto che superando gli orizzonti di coloro che le giudicavano hanno recato loro offesa.

In una lettera a Helvétius, Voltaire ha scritto questa frase magnifica: «Non sono d'accordo con quanto dite, ma mi batterò sino alla morte perché abbiate il diritto di dirlo». Trova qui una formulazione il principio etico su cui si basa la cultura moderna. Chi regredisce nella storia alla fase anteriore a tale principio abbandona i Lumi per far ritorno al Medioevo. La repressione di qualsiasi opinione, inclusa la brutale repressione di false opinioni, va, in fondo, contro la verità, quella verità che si raggiunge solo attraverso il confronto di idee libere ed eguali. Qualsiasi forma di interferenza nella libertà di pensiero e di espressione - indipendentemente dal metodo e dalla qualifica di tale censura - è nel XX secolo uno scandalo, nonché un pesante fardello per la nostra letteratura in pieno fermento.

Č incontestabile: se oggi da noi le arti prosperano, è solo grazie ai progressi della libertà di pensiero. E dall'ampiezza di questa libertà dipende strettamente il destino della letteratura ceca. Non appena si dice libertà c'è chi si irrita, lo so, e comincia a protestare sostenendo che la libertà di una letteratura socialista deve avere dei limiti. Ogni libertà, è evidente, ha dei limiti, determinati dalle condizioni del sapere, dal peso dei pregiudizi, dal livello di istruzione, ecc. Eppure non una sola nuova èra progressista è stata definita dai suoi limiti! Il Rinascimento si è così definito non già per la meschina semplicità del suo razionalismo - risultata manifesta solo a posteriori -, bensì per l'emancipazione razionalista dalle frontiere del passato. Il Romanticismo si è così definito per il superamento dei canoni classicisti e per la nuova materia che ha saputo concepire dopo aver varcato le vecchie frontiere. Analogamente, il termine letteratura socialista non acquisterà un significato positivo finché non avrà portato a termine la medesima emancipazione liberatrice.

E tuttavia, da noi, c' è chi si ostina a considerare una virtù più la difesa delle frontiere che non il loro superamento. Varie congiunture politiche e di ordine sociale ci offrono il destro per giustificare molteplici restrizioni in materia di libertà di pensiero. Ma una politica degna di questo nome sa anteporre gli interessi sostanziali a quelli immediati. E per il popolo ceco la grandezza della sua cultura rappresenta precisamente un interesse sostanziale.

Tanto più che la cultura ceca ha oggi davanti a sé eccellenti prospettive. Nel XIX secolo il popolo ceco ha vissuto ai margini della storia mondiale; nel corso del secolo presente, ci collochiamo al suo centro. Una vita al centro della storia - lo sappiamo bene - non è una scampagnata. Nondimeno, nel magico campo delle arti i tormenti si trasformano in ricchezza creativa. In questo ambito, persino l'amara esperienza dello stalinismo diventa un atout, non meno grande che paradossale. Non approvo che il fascismo e il comunismo vengano messi sullo stesso piano. Il fascismo fondato su un antiumanesimo disinibito ha creato una situazione relativamente semplice sotto il profilo morale: dopo essersi proposto come l'antitesi dei princìpi e delle virtù umanisti, li ha lasciati intatti. Di contro, lo stalinismo è stato l'erede di un grande movimento umanista che, nonostante la furia stalinista, ha saputo conservare non poche posizioni, idee, slogan, parole e sogni originari. Vedere questo movimento umanista rovesciarsi nel suo opposto, trascinando con sé la virtù umana e trasformando l'amore per l'umanità in crudeltà nei confronti degli uomini, l'amore per la verità in delazione, ecc., non può che generare un'imprevista concezione del fondamento stesso dei valori e delle virtù umani.

Che cosa è la storia, quale posto occupa l'uomo nella storia e che cosa è, semplicemente, l'uomo? Domande alle quali è impossibile rispondere dopo questa esperienza come si sarebbe fatto prima. Nessuno ne è uscito identico a com'era. Naturalmente non è in discussione solo lo stalinismo. Le peregrinazioni di questo popolo, dalla democrazia al giogo fascista allo stalinismo e al socialismo (la storia inasprita da un contesto etnico assai complicato), rispecchiano tutti i principali elementi della storia del XX secolo. Il che ci permette forse, rispetto a coloro che non hanno sperimentato il medesimo periplo, di porre domande più pertinenti e di creare miti più densi di significato.

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UN OCCIDENTE PRIGIONIERO
O LA TRAGEDIA DELL'EUROPA CENTRALE
(1983)



1



Nel settembre del 1956, il direttore dell'agenzia di stampa ungherese, pochi minuti prima che il suo ufficio venisse distrutto dall'artiglieria, trasmise al mondo intero per telex un disperato messaggio sull'offensiva che quel mattino i russi avevano scatenato contro Budapest. Il dispaccio finisce con queste parole: «Moriremo per l'Ungheria e per l'Europa».

Che cosa intendeva dire? Di certo che i carri russi mettevano in pericolo l'Ungheria e, insieme, l'Europa. Ma in che senso anche l'Europa era in pericolo? I carri russi erano forse pronti a varcare le frontiere ungheresi e a dirigersi a Ovest? No. Il direttore dell'agenzia di stampa ungherese intendeva dire che in Ungheria era l'Europa a essere presa di mira. Perché l'Ungheria restasse Ungheria e restasse Europa, era pronto a morire.

La frase ha un senso evidente, eppure continua a incuriosirci. Qui, in Francia, in America, siamo infatti abituati a pensare che fosse allora in gioco un regime politico, non l'Ungheria o l'Europa. Non ci sfiora neppure l'idea che a essere minacciata fosse l'Ungheria in quanto tale né, tanto meno, comprendiamo come mai un ungherese che rischia di morire chiami in causa l'Europa. Solženicyn, nel denunciare l'oppressione comunista, non fa certo appello all'Europa come a un valore fondamentale per il quale valga la pena morire...

No, la frase «morire per la patria e per l'Europa» non potrebbe essere concepita né a Mosca né a Leningrado, ma appunto a Budapest o Varsavia.




2



Che cosa rappresenta in realtà l'Europa per un ungherese, un ceco, un polacco? Sin dalle origini, queste nazioni appartenevano alla parte d'Europa radicata nella cristianità romana. Partecipavano a tutte le fasi della sua storia. Per loro la parola «Europa» non è un fenomeno geografico, ma una nozione spirituale, sinonimo di «Occidente». Nel momento in cui l'Ungheria non è più Europa, vale a dire Occidente, viene proiettata al di là del suo destino, della sua storia; smarrisce l'essenza stessa della sua identità.

L'Europa geografica (quella che va dall'Atlantico agli Urali) è sempre stata divisa in due metà che si evolvevano separatamente: l'una legata all'antica Roma e alla Chiesa cattolica (segno particolare: l'alfabeto latino), l'altra connessa a Bisanzio e alla Chiesa ortodossa (segno particolare: l'alfabeto cirillico). Dopo il 1945, il confine tra queste due Europe si spostò a Ovest di qualche centinaio di chilometri, e nazioni che si erano sempre considerate occidentali si risvegliarono un bel giorno constatando che si trovavano a Est.

Nel dopoguerra si sono quindi delineate in Europa tre situazioni fondamentali: quella dell'Europa occidentale, quella dell'Europa orientale e quella, la più complessa, della parte d'Europa situata geograficamente al centro, culturalmente a Ovest e politicamente a Est.

La contraddittoria situazione dell'Europa che chiamo centrale ci fa comprendere come mai, da trentacinque anni, il dramma dell'Europa si concentri proprio lì: la maestosa rivolta ungherese del 1956 con il sanguinoso massacro che ne è derivato; la Primavera di Praga e l'occupazione della Cecoslovacchia nel 1968; le rivolte in Polonia del 1956,1968,1970 e quella degli ultimi anni. Nulla di ciò che accade nell'Europa geografica, a Ovest come a Est, può essere paragonato, per il suo drammatico contenuto e la sua portata storica, a questa catena di rivolte centroeuropee. Ciascuna di queste rivolte era sostenuta pressoché dall'intero popolo. Se la Russia non li avesse spalleggiati, quei regimi non avrebbero potuto resistere più di tre ore. Ad ogni modo, ciò che accadeva a Praga o a Varsavia deve essere considerato nella sua essenza come il dramma non già dell'Europa dell'Est, del blocco sovietico, del comunismo, ma piuttosto dell'Europa centrale.

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L'Europa centrale voleva essere l'immagine condensata dell'Europa e della sua multiforme ricchezza, una piccola Europa ultraeuropea, modello in miniatura dell'Europa delle nazioni concepita sulla base di questa regola: il massimo di diversità nel minimo spazio. Come avrebbe potuto non inorridire di fronte alla Russia, che si fondava sulla regola opposta: il minimo di diversità nel massimo spazio?

All'Europa centrale e alla sua passione per la diversità, infatti, nulla poteva risultare più estraneo della Russia, uniforme, uniformante, centralizzatrice, tesa a trasformare con temibile determinazione tutte le nazioni del suo impero (ucraini, bielorussi, armeni, lettoni, lituani, ecc.) in un unico popolo russo (o, come si preferisce dire oggi, in virtù della generalizzata mistificazione del lessico, in un unico popolo sovietico).

Ma il comunismo è la negazione della storia russa o piuttosto il suo coronamento? Senza dubbio è insieme la sua negazione (negazione della sua religiosità, per esempio) e il suo coronamento (coronamento delle sue tendenze centralizzatrici e dei suoi sogni imperiali).

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Č dunque colpa dell'Europa centrale se l'Occidente non si è neppure accorto della sua scomparsa?

Non del tutto. Agli esordi del nostro secolo, l'Europa centrale divenne, a dispetto della sua fragilità politica, un grande centro culturale, forse il più grande. L'importanza di Vienna è oggi pienamente riconosciuta, certo, ma non mi stancherò di ribadire che l'originalità della capitale austriaca è impensabile senza il contesto degli altri paesi e città, che del resto con la loro creatività prendevano parte attiva all'insieme della cultura centroeuropea. Se la scuola di Schönberg fondò il sistema dodecafonico, l'ungherese Béla Bartók - a mio avviso uno dei due o tre più grandi musicisti del XX secolo - seppe individuare l'ultima, originale possibilità della musica basata sul principio tonale. Grazie all'opera di Kafka e di Hašek, Praga diede vita a un grande corrispettivo romanzesco dei viennesi Musil e Broch. Il dinamismo culturale dei paesi non germanofoni si è ulteriormente accresciuto dopo il 1918, allorché Praga offrì al mondo l'iniziativa del Circolo linguistico di Praga e del pensiero strutturalista. La grande trinità Gombrowicz, Schulz, Witkiewicz prefigurò in Polonia il modernismo europeo degli anni Cinquanta, e in particolare il teatro detto dell'assurdo.

Č legittimo chiedersi: tutta questa grande esplosione creativa era solo una coincidenza geografica? O affondava le sue radici in una lunga tradizione, in un passato? In altre parole: si può parlare dell'Europa centrale come di una vera e propria aggregazione culturale dotata di una sua storia? E se questa aggregazione esiste, è possibile definirla geograficamente? Quali sono i suoi confini?

Sarebbe vano pretendere di definirli con precisione: l'Europa centrale non è uno Stato, ma una cultura o un destino. I suoi confini sono immaginari e a ogni nuova situazione storica debbono essere tracciati daccapo.

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I genitori di Sigmund Freud venivano dalla Polonia, ma è in Moravia, il paese in cui sono nato, che il piccolo Sigmund ha passato la sua infanzia, non diversamente da Edmund Husserl e Gustav Mahler; radici in Polonia aveva anche il romanziere viennese Joseph Roth; il grande poeta ceco Julius Zeyer nacque a Praga da una famiglia germanofona e il ceco era la sua lingua di elezione. In compenso la lingua materna di Hermann Kafka era il ceco, mentre suo figlio Franz adottò integralmente la lingua tedesca. Lo scrittore Tibor Déry, figura chiave della rivolta ungherese del 1956, proveniva da una famiglia germanico-ungarica, e il mio amato Danilo Kiš, eccellente romanziere, è ungarico-jugoslavo. Quale intreccio di destini nazionali celano le figure più rappresentative!

E tutti quelli che ho appena menzionato sono ebrei. In nessun'altra parte del mondo, infatti, il genio ebraico ha lasciato un'impronta tanto marcata. Ovunque estranei e ovunque a casa propria, cresciuti al di sopra delle liti nazionali, nel XX secolo gli ebrei erano il principale elemento cosmopolita e integratore dell'Europa centrale, il suo cemento intellettuale, il compendio del suo spirito, i fautori della sua unità spirituale. Per questo nutro affetto nei loro confronti e tengo alla loro eredità, con passione e nostalgia, come se fosse la mia propria.

La nazione ebraica mi è cara anche per un'altra ragione; nel suo destino sembra condensarsi, riverberarsi, trovare un'immagine simbolica quello centroeuropeo. Che cos'è l'Europa centrale? L'incerta zona di piccole nazioni strette fra Germania e Russia. Insisto su questi termini: piccola nazione. Che altro sono gli ebrei, del resto, se non una piccola nazione, la piccola nazione per eccellenza? L'unica di tutte le piccole nazioni di ogni epoca che sia sopravvissuta agli imperi e alla marcia devastatrice della Storia.

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Oggi l'Europa centrale è asservita alla Russia, a eccezione della piccola Austria che, più per fortuna che per necessità, ha conservato la sua indipendenza ma che, strappata al contesto centroeuropeo, va perdendo gran parte della sua specificità e tutta la sua importanza. La scomparsa del crogiolo letterario centro-europeo fu senz'altro, per tutta la civiltà occidentale, uno degli eventi decisivi del secolo.

Ripeto dunque la mia domanda: com'è possibile che sia rimasto inavvertito e oscuro?

La mia risposta è semplice: l'Europa non ha notato la scomparsa di questo grande crogiolo culturale perché non sente più la propria unità come unità culturale.

Su che cosa si fonda, infatti, l'unità dell'Europa?

Nel Medioevo si fondò sulla comune religione.

Nei Tempi moderni, quando il Dio medioevale si trasformò in Deus absconditus, la religione cedette il posto alla cultura, che divenne la realizzazione dei valori supremi attraverso i quali l'Europa si concepiva, si definiva, trovava un'identità.

Mi sembra che nel nostro secolo si delinei un altro mutamento, non meno importante di quello che separa l'età medioevale dai Tempi moderni. Così come Dio cedette un tempo il posto alla cultura, tocca oggi alla cultura cedere il suo.

Ma a che cosa e a chi? In quale ambito si realizzeranno valori supremi capaci di unire l'Europa? Le conquiste della tecnica? Il mercato? I media? (Il grande poeta sarà sostituito dal grande giornalista?). O la politica? Ma quale? Quella di destra o quella di sinistra? Esiste ancora, al di sopra di questo manicheismo tanto idiota quanto invalicabile, un ideale comune percepibile? Č forse il principio della tolleranza, il rispetto del credo e del pensiero altrui? Ma questa tolleranza non diventa vuota e inutile se non protegge più una produzione ricca e un pensiero forte? O dobbiamo vedere nell'abdicazione da parte della cultura una sorta di liberazione cui occorre abbandonarsi con euforia? Oppure il Deus absconditus tornerà per occupare il posto lasciato libero e rendersi visibile? Non so, non lo so proprio. Credo però di sapere che la cultura ha ceduto il suo posto.

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Dopo la distruzione dell'Impero, l'Europa centrale ha perso i suoi baluardi. Dopo Auschwitz, che ha spazzato via dalla sua faccia la nazione ebraica, non ha forse perso la sua anima? E dopo essere stata strappata all'Europa nel 1945 esiste ancora?

Sì, la sua produzione e le sue rivolte indicano che «non è ancora morta». Ma se vivere significa esistere agli occhi di chi amiamo, l'Europa centrale non esiste più. Più esattamente: agli occhi dell'amata Europa, è solo una parte dell'impero sovietico, e nient'altro.

Perché dovremmo stupircene? In relazione al suo sistema politico, l'Europa centrale è l'Est; in relazione alla sua storia culturale, è l'Occidente. Ma l'Europa sta smarrendo il senso della sua identità culturale, sicché non vede nell'Europa centrale che il suo regime politico; in altre parole: non vede nell'Europa centrale che l'Europa dell'Est.

L'Europa centrale deve dunque opporsi alla forza schiacciante del suo grande vicino, e insieme anche alla forza immateriale del tempo, che lascia irrimediabilmente dietro di sé l'Europa della cultura. Per questo le rivolte centroeuropee hanno un che di conservatore, direi quasi di anacronistico: tentano disperatamente di restaurare il passato, il passato della cultura, il passato dei Tempi moderni, perché solo in quel periodo, solo nel mondo che conserva una dimensione culturale, l'Europa centrale può ancora difendere la propria identità, può ancora essere percepita per quello che è.

La sua vera tragedia non è dunque la Russia, ma l'Europa. L'Europa, quell'Europa per la quale il direttore dell'agenzia di stampa ungherese era pronto a morire, ed è morto, tanto rappresentava per lui un valore essenziale. Al di là della cortina di ferro non sospettava neppure che i tempi erano cambiati e che in Europa l'Europa non è più sentita come un valore. Non sospettava che la frase inviata per telex oltre i confini del suo paese privo di rilievi aveva un'aria desueta e che non sarebbe mai stata capita.

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