Copertina
Autore Tuomas Kyrö
Titolo L'anno del coniglio
EdizioneIperborea, Milano, 2013, n. 218 , pag. 342, cop.fle., dim. 10x20x2,2 cm , Isbn 978-88-7091-518-1
OriginaleKerjäläinen ja jänis
EdizioneSiltala, Helsinki, 2011
TraduttoreNicola Rainò
LettoreDavide Allodi, 2013
Classe narrativa finlandese
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Pagina 9

Capitolo primo


dove si racconta di come Vatanescu va
all'estero a cercare lavoro, dice addio alla
sorella e si fa una bella grigliata



Ci sarebbero state certo delle alternative, il nostro eroe avrebbe potuto rubare macchine, recuperare il rame dei cavi del telefono o vendere un rene. Ma tra tutte le cattive soluzioni quella che gli proponeva Jegor Kugar era la migliore. Gli garantiva un contratto di lavoro di un anno, il trasporto fino al teatro delle operazioni e un impiego per la sorella, con in più il bonus di una dentatura nuova e una mastoplastica completa.

Vatanescu lasciò un bigliettino all'ex moglie promettendo che le avrebbe fatto avere gli alimenti non appena avesse messo da parte un po' di soldi. Dopo il divorzio i rapporti con la madre di suo figlio Miklos si erano un po' deteriorati. Diciamo pure che erano putrefatti, nonostante la reciproca buona volontà. Quando l'amore svanisce il vuoto che resta è presto riempito da gelosia, rancore, vendette, recriminazioni e ripicche.

Vatanescu si sedette sul bordo del letto dove dormiva sua madre abbracciata a Miklos. Senza svegliarlo gli sfilò il calzino destro e con un gessetto colorato tracciò su un foglio di carta il contorno della pianta del piede.

Avrai le tue scarpette da calcio.

Papà te le va a comprare.

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Pagina 12

Il pulmino Volkswagen maculato di ruggine prese la via del nord, con il cambio che protestava nelle salite, i freni che mandavano scintille nelle discese, e i passeggeri sbattuti di qua e di là uno addosso all'altro a ogni curva. Il trabiccolo aveva l'età di Vatanescu, vale a dire che era dell'epoca del calcio totale degli olandesi, o per essere più precisi, esattamente dell'anno in cui il nostro eroe aveva intravisto un lumicino di libertà. L'unico canale televisivo del suo paese natale trasmetteva tutte le sante sere lo stesso discorso del dittatore, ma un giorno il rituale era stato interrotto per un attimo da un'immagine dei Monty Python. Che diavolo era successo, da dove veniva fuori il folle scherzo del Ministero dei Passi Arguti?

Vatanescu era attaccato al seno di sua madre Nadia, che aveva gli occhi incollati sullo schermo, e insieme al latte una goccia del mondo libero, libero di sragionare, era colata nel bambino.

Vatanescu strinse la mano della sorella che dormiva sul pianale del furgoncino.

Se potessi ti proteggerei.

Ma prima devo occuparmi di me stesso.

Sei sempre stata tu a proteggere me.

Mara Vatanescu aveva ereditato il carattere volitivo e autoritario della nonna Murda e in altre circostanze avrebbe potuto essere un'energica nomade o un ministro degli Esteri, ma al presente, in quell'unica realtà che era la sua, non era altro che la più misera tra i miseri seduta sul suo unico bene commerciabile. Vatanescu, che non riusciva a chiudere occhio, vedeva sfilare dal finestrino del portellone campanili ignoti e paesini lontani popolati da sconosciuti provvisti di padelle di teflon, decoder digitali, di tempo per pranzare, studiare e fare sesso, di progetti per il futuro e mutui per comprare case, di terapie ortodontiche per i bambini, di un'età della pensione e una concessione cimiteriale, di un epitaffio e fiori sulla tomba e di tutto quanto l'ambaradan.

Vatanescu aprì una lattina. Il contratto di lavoro con Jegor Kugar prevedeva pensione completa, ovvero un'amaca e carne in scatola. Sul fondo della lattina era indicato l'anno della confezione, 1974, e il paese di provenienza, SWE. Erano destinate in origine ai sopravvissuti di una guerra atomica che, per sfortuna dei produttori, non era mai scoppiata. Le conserve erano invecchiate in una Svezia priva di armamenti nucleari, che aveva poi finito per rivenderle all'antico fornitore. Il quale a sua volta le aveva rifilate al sindacato internazionale del crimine, che ne faceva buon uso alimentando la manovalanza occasionale. La carne precipitò nell'esofago di Vatanescu fino a raggiungere lo stomaco, dove rimase a fermentare e provocare crampi, seguiti da opportune flatulenze.

Degli aerei atterravano e decollavano da qualche parte in lontananza quando all'alba Klara scese dal furgone. Vatanescu sentì attraverso la sottile lamiera del pulmino il ronzio del motore in folle di una macchina di lusso e si avvicinò al finestrino. Uno dei compagni di viaggio, Pudas, si lamentò del tanfo che aleggiava lì dentro, così denso che si poteva tagliare con l'apriscatole.

Cosa sarà mai un po' di puzza di scoreggia.

A me mi stanno portando via la sorella.

Si trovavano in un'area abbandonata, di fianco alla Mercedes c'erano due tipi grandi e grossi che senza troppo sforzo di immaginazione si potevano definire dei deficienti. Occhiali da sole, tute sportive coi bottoni a pressione del genere che usavano negli anni Novanta quei lavativi che ciondolavano attorno ai chioschi degli hamburger con i capelli impomatati da quintali di gel. Si atteggiavano a gangster del cinema, senza grande successo visto che la loro vera natura, come la loro identità e i loro problemi, travalicava i confini nazionali. Piccoli trafficanti polacchi, torturatori radiati dall'esercito ucraino, molestatori espulsi dalle scuole del Turkmenistan e ragazzi molestati in quelle albanesi che la vita aveva trasformato in bruti.

Vatanescu vide uno dei due deficienti aprire la portiera della Mercedes. Klara si rannicchiò sul sedile posteriore, e a lui tornò in mente il giorno in cui aveva imparato a nuotare.

Non so nuotare, non mollarmi. Ho paura dell'acqua! Ehi ma... nuoto. Nuoto!!!

Vatanescu premette i polpastrelli delle dita contro il vetro, la Mercedes ripartì dal suo lato, Jegor Kugar risalì nella cabina del Kombi, lo si sentì rovistare tra le cassette e l'attimo dopo ecco di nuovo la musica degli Skorpion.

I bei ricordi restano belli anche nei momenti brutti?

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Pagina 72

Usko Rautee portò il cucchiaio alla bocca, fece girare la sua poltrona e guardò fuori dalla finestra. Bella e brutta allo stesso tempo, sotto il sole del mattino, la sua città natale. Come la vita, o Yoko Ono. O come i suoi clienti. Così il gusto del suo yogurt: niente di che se non un che di vagamente sgradevole.

I campanili e le ciminiere si stagliavano contro il cielo, ai loro piedi la massa dei palazzi, meraviglie dell'Ottocento, orrori degli anni Settanta, banalità dell'inizio del XXI secolo. Campanili e ciminiere continuavano a dominare il paesaggio, pur avendo perso la loro funzione originaria. La produzione delle fabbriche era stata delocalizzata in paesi meno cari, i capannoni industriali trasformati in palazzetti dello sport e studi televisivi. Certo, si andava ancora in chiesa per sposarsi, ma Dio aveva abbandonato quei luoghi, così come l'intero pianeta, per la galassia successiva.

Usko Ratee raschiò il fondo del vasetto e avvertì la presenza di Dio. Lo yogurt prometteva all'uomo stressato di oggi quello che la chiesa in passato gli faceva intravedere. La vita eterna, l'equilibrio psichico, maggiore energia sul lavoro e il paradiso dopo il purgatorio. Per arrivarci non era più necessario morire, bastava vivere.

Il gusto dello yogurt era sgradevole, ma non si ha mai niente per niente. La santità è sempre andata di pari passo con la rinuncia e la sofferenza.


Usko aveva classificato i clienti in tre grandi gruppi. Al primo appartenevano i pappemolli. I pappemolli con il loro ambiente erano come il mercurio e il teflon. Tutto gli scivolava addosso e se mai qualcosa gli restava attaccato erano le briciole della pizza sul petto e il portafogli di papà o mamma nella manina.

Usko aprì un altro vasetto di yogurt domandandosi da quando il mondo era quello che era. Oggigiorno chiunque abbandonasse gli studi godeva di diritti e di un livello di vita da re. Conseguenza del progresso, degli sgravi fiscali e dell'abbassamento dei prezzi, qualcosa di straordinario e al tempo stesso mostruoso. Tutto aveva avuto inizio con l'invenzione dell'ascia, poi della ruota, seguita dalla produzione in serie di automobili, per arrivare infine a un mondo dove in ogni stanza c'è una playstation. E in cucina del pane già affettato. Il casco in testa e il sensore per la retromarcia in macchina.

Cosa aspettarsi da uno nato in un mondo come questo? Niente, perché qui si nasce clienti, e dai clienti non ci si aspetta niente, hanno sempre ragione. Il pappamolle sa perfettamente come adattarsi a uno stampino. Desidera essere una celebrità, un giocatore di poker o un plurimilionario. Senza la minima idea di come riuscirci. Il pappamolle si trascina fino alla morte dentro scarpe con la chiusura a strappo, perché non ha mai imparato ad annodare i lacci.

Usko ne aveva pena, ma senza esserne toccato più di tanto. Come provava pena per se stesso, che mangiava yogurt magri per affrontare la vita. Negli anni Settanta di fronte a problemi del genere uno aveva il diritto di sbronzarsi. Ed ora ecco il prezzo da pagare, lo yogurt.

Le faccende domestiche, vale a dire il settore pulizie e igiene, era un indicatore dello sviluppo sociale, come era stato un tempo il sistema delle carceri. I pappemolli rifiutavano ogni impiego nei servizi di pulizia, salario di partenza troppo basso e lavoro troppo pesante per la considera- zione che gli era data. Quei pochi di loro che accettavano il posto finivano per addormentarsi in qualche angolo della tipografia che avrebbero dovuto ramazzare.

D'altra parte l'indolenza è legata al livello di responsabilità. Sotto la pressione di mutui, figli e alimenti da pagare anche i pappemolli se la sentivano di impugnare la scopa.

Le teste d'uovo erano un caso più drammatico. Il loro impiego era sparito contemporaneamente alle macchine da scrivere elettriche negli uffici. Punte avanzate del progresso in qualità di disegnatori industriali e amministratori di sistema, sei anni dopo erano buoni al massimo come operatori ecologici o baby sitter. Ma a differenza delle macchine da scrivere elettriche, né la carrozzeria né il motore delle teste d'uovo riuscivano a starsene seduti sul pavimento del soggiorno a farsi maltrattare da un marmocchio di tre anni. E a un certo punto gli veniva voglia di una birra, anche se avevano perso il gusto per ogni cosa. Un bel boccale di quella forte, meglio due, e poi magari un bel cicchetto. Erano stati inesorabilmente rimpiazzati dai computer, c'era poco da fare.

Mentre trangugiava il suo yogurt Usko sentiva schiarirsi le idee. Il lavoro non veniva trasferito in Cina semplicemente perché un borghese senza scrupoli voleva delocalizzare, ma perché i consumatori desideravano merci a buon mercato. E allora viva i prezzi bassi. Tutti hanno oggi la possibilità di comprare di tutto, vale a dire i mezzi, la solvibilità, i crediti bancari. E in questo ambito, la vendita a prezzi bassi, che la democrazia funziona innegabilmente al meglio.

Inutile offrire alle teste d'uovo un posto di addetto alle pulizie, hanno fegato e ginocchia così deboli che non riuscirebbero mai a lucidare i pavimenti. Non sono sfaccendati come i pappemolli, ma hanno un ego ipertrofico che ha resistito a decine d'anni di sbronze passando per indennità di disoccupazione e sussidi di solidarietà e redditi minimi senza mai cedere a una carriera per quanto promettente nel settore delle pulizie.

Il terzo gruppo con cui Usko aveva a che fare ogni giorno era quello degli umanisti con lunghi studi superiori, disposti ad accettare soltanto mansioni di loro stretta competenza. E se il territorio di competenza era l'etnologia e la loro specializzazione l'evoluzione della conocchia sull'isola di Judinsalo e le conseguenze per i proprietari terrieri metrosessuali della fine del XVIII secolo, lui non sapeva che pesci pigliare. Quando proponeva a gente con una formazione così raffinata un posto da addetto alle pulizie, si sentiva domandare se si trattasse di un classico paradosso, di una metafora o di una stigmatizzazione. E così gli umanisti si ritiravano con la loro cartella a tracolla nel ristorante vegetariano più vicino in attesa di una sovvenzione che non sarebbe mai arrivata. A differenza dell'afflizione.

Usko Rautee richiuse il suo vasetto, lo posò sul davanzale della finestra e si asciugò i baffi. Si schiarì la voce, si alzò in piedi e andò ad aprire la porta che dava sul corridoio. Una persona attendeva sulla panca predisposta a quel fine.

"Avanti!" fece Usko Rautee senza degnarla di uno sguardo. Poi inforcò gli occhiali e riattivò il computer.

Usko sorrise al nuovo cliente, era sempre da li che cominciava. Ogni persona rappresentava una possibilità, almeno per lui. Per il sistema ogni persona portava in sé la possibilità della propria eliminazione.


Era un uomo stanco e logoro, uno che aveva perso il suo impiego regolare, disposto ad accettare qualsiasi lavoro. Disse di avere esperienza nel settore edilizio, nella pastorizia e nel ritagliare sagome di carta all'angolo tra la Via del Parco e Piazza Ceausescu a Bucarest. Veloce ad apprendere, di poche pretese. Nessun certificato di lavoro e nessuna referenza, ma a prova delle sue competenze prese dal tavolo un paio di forbici e dalla stampante un foglio di carta. E in pochi secondi ritagliò un ritratto del tutto somigliante a Usko Rautee. Che da parte sua gli domandò se fosse pronto a un lavoro vero, al di là dei passatempi creativi.

Lei ha la possibilità di distinguere tra lavori veri o meno.

Noleggi la mia testa, le mie mani, i miei piedi per otto ore, stabilisca un prezzo e mi paghi alla fine della giornata. Io voglio delle scarpe coi tacchetti.

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Pagina 208

Al primo anno della scuola elementare di Puistola, Sanna Pommakka non sognava di occuparsi di cavalli né di fare l'infermiera come le altre compagne di classe. Lei voleva stupire la gente, fargliela sotto il naso. Voleva fare la prestigiatrice. Sbalordire il pubblico, portarlo a domandarsi com'era riuscita a fare quella cosa. E quell'altra. E quell'altra ancora!

Nel 1981, a sette anni, Sanna Pommakka aveva trovato nella biblioteca di quartiere il Grande manuale di magia di Solmu Mäkelä, e in quel preciso istante aveva avuto la certezza del suo futuro nel mondo dello spettacolo.

Sanna stringeva un fazzoletto in un pugno e quando lo apriva ne uscivano otto. Faceva sparire delle monetine. Indovinava il numero e il colore della carta a cui pensava il padre. E così raccoglieva gli applausi, la meraviglia e le domande che aveva sperato. Quando poi Babbo Natale le aveva portato la valigetta del piccolo mago, aveva toccato íl cielo con un dito.

Ma l'attenzione e gli apprezzamenti che da piccoli si ricevono a casa possono risultare ingannevoli rispetto all'accoglienza che poi ti riservano i tuoi pari. I genitori vogliono solo la felicità dei figli, ma finiscono per esporli a future delusioni. Quando Sanna aveva fatto mostra del suo talento a scuola, tutti avevano l'aria di conoscere i suoi trucchi. Quel Pertti dell'ultimo banco era scoppiato in una risata maligna quando le monetine che Sanna aveva nascosto nella manica erano tutte cadute in terra. Si era beccato un'ora di castigo, ma che cos'era, appena il ronzio di una mosca, rispetto all'umiliazione provata dalla bambina.

Così è l'infanzia, una parola fuori luogo, una risata, un insegnante con la luna storta a cui scappa un giudizio crudele possono cambiare il corso della vita di una creatura in boccio. Ammazzare la speranza, insinuare il dubbio.

Dopo essersi creduta migliore di quanto non fosse, Sanna Pommakka era approdata a una strategia più sicura, evitando di affidarsi all'immaginazione. Non si sarebbe più creduta niente. Non avrebbe più preso iniziative, sarebbe stata una persona qualunque, tranquilla e discreta, dai sette anni fino alla morte.

Messa da parte la magia, Sanna Pommakka si era concentrata sulla vita ordinaria, vale a dire la sopravvivenza. Aveva perduto la verginità tra le braccia del Pertti dell'ultimo banco, né troppo presto né troppo tardi. Pertti aveva continuato a ridere, e non per crudeltà, ma soltanto perché era un sedicenne chiaramente stupido, che nella sua borsa degli attrezzi sentimentali non ne aveva più di tre. Il riso, il pugno e il sarcasmo. Nessuna magia durante i momenti passati insieme.

Secondo i suoi insegnanti il sogno di Sanna di andare al liceo era irrealizzabile, per cui dalla scuola dell'obbligo passò direttamente a un magazzino di mobili.

Trascorse un anno.

Poi quattro.

Gli altri dipendenti avevano continuato gli studi o seguito corsi di formazione, mentre Sanna era rimasta lì, la sua paga quindicinale le bastava. Ogni tanto usciva con Pertti dell'ultimo banco, che era sempre disponibile e poi aveva una macchina con l'assetto ribassato, roba che lei non sapeva neanche cosa fosse, ma lui ne andava così fiero che aveva finito per trasmetterle l'entusiasmo.

Quando Pertti l'aveva tradita, Sanna aveva incolpato se stessa. Non era stata all'altezza. Il suo fisico, la sua intelligenza, il suo carattere non erano all'altezza. Evitava di parlare delle sue speranze e dei suoi sogni, perché temeva che gli altri la trovassero ridicola e finissero per allontanarsi. E un po' alla volta sogni e speranze erano morti. Con Pertti aveva rotto e non l'aveva più visto per tre anni.

Sanna Pommakka aveva continuato con le consegne di divani, tavolini da salotto e letti a castello. Più grande era il divano, più vita c'era nella casa. Culle per neonati, banchi per scolari, più raramente qualche sedia a dondolo per anziani le cui pareti di casa erano tappezzate di foto di figli, nipoti e pronipoti.

Un giorno Sanna e il collega che l'accompagnava dovevano consegnare un divano ad angolo nella villetta di un quartiere residenziale. Il bambino venuto ad aprire era la copia sputata di Pertti, e rideva come lui, perché si dava il caso che fosse suo figlio. Pertti, invece, non rideva più, aveva un pargoletto in braccio, la moglie sotto l'altro, ed era diventato un brav'uomo. Sanna Pommakka gli aveva allungato la ricevuta fissandolo negli occhi impietrita. Il peggio era che lui non l'aveva neanche riconosciuta, e lei era risalita senza fiatare sul furgoncino della ditta.

Le lacrime erano arrivate con un ritardo di sei ore, quando Sanna Pommakka non sapeva nemmeno più perché piangesse. Era sola sul divano, davanti al presentatore dalla criniera rossa di un talk-show in diretta il cui monologo d'apertura faceva ridere il pubblico.

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