Copertina
Autore Adriano Labbucci
Titolo Camminare, una rivoluzione
EdizioneDonzelli, Roma, 2011, Saggine 178 , pag. 150, cop.fle., dim. 11,3x16,7x1,2 cm , Isbn 978-88-6036-628-3
LettoreGiorgia Pezzali, 2011
Classe salute , filosofia , sociologia , ecologia , viaggi , citta' , urbanistica , paesi: Italia: 2010
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Indice


  3 Premessa. Esistere è resistere


  7 Il gesto più umano

 17 Ora sai cosa sono le Itache

 27 Festina lente

 39 Imparare a lasciar andare

 57 Camminare ci rende liberi

 65 All'inizio della storia: Chatwin e l'alternativa nomade

 77 Alla fine della storia: Benjamin e il flâneur

 87 Tristi epiloghi

 97 Siamo liberi di camminare?

113 Una crosta di asfalto e cemento

133 Camminatori di tutto il mondo, uniamoci!


 

 

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Pagina 3

Premessa
Esistere è resistere



Avviso ai lettori. Lasciate stare.

Se cercate insegnamenti sul camminare ultima moda che spopola negli Stati Uniti con tanto di lezioni, corsi universitari e relativi professori oppure ricette sul camminare come cura di sé o infine paginate di resoconti di camminate che si perdono invariabilmente tra il noioso, l'elegiaco o il paranoico, ripeto a scanso di equivoci: lasciate stare. Questo libro non fa per voi.

Qui c'è una tesi: non c'è nulla di più sovversivo, di più alternativo al modo di pensare e di agire oggi dominante che il camminare. Punto.

Camminare è una modalità del pensiero. È un pensiero pratico.

Di questo il libro racconta: di pensieri, idee, categorie, miti. E di persone che camminando ci hanno aiutato a comprendere meglio il mondo, noi stessi e questo pensiero pratico.

Camminare realizza al meglio l'affermazione di Hofmannsthal: «L'uomo scopre nel mondo solo quello che ha già dentro di sé; ma ha bisogno del mondo per scoprire quello che ha dentro di sé».

Perché si cammina sempre in un contesto e questo fatto ci sollecita, ci spinge a porci domande; e ci impone di farne altre.

Esercizio inattuale e quindi prezioso in un tempo in cui tutti danno risposte senza più farsi domande.

A guidarci le parole di María Zambrano: «esistere è resistere, essere "di fronte", opporsi. L'uomo è esistito quando, di fronte ai suoi dei, ha offerto una resistenza».

Camminare rappresenta oggi questa forma alta di r-esistenza.

Questa è la tesi. L'antitesi è interna alla tesi stessa. La sintesi non c'è. Dialettica senza sintesi.

Resta tra tesi e antitesi una tensione che non può essere risolta, un conflitto che di tutte le cose è il padre.

D'altronde solo la smemoratezza e la cultura dell'inconsapevolezza che regnano sovrane hanno reso occulto ciò che sin dall'inizio dei tempi ci era stato ri-velato e che ora dobbiamo tornare a s-velare.

«Lekh lekhà (vattene)». Sono queste le prime parole che Dio rivolge all'uomo nella storia, ad Abramo: «Vattene dalla tua terra, dalla tua famiglia e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò», è scritto nella Genesi. Parole esigenti, di sconvolgimento, tutt'altro che rassicuranti o comprensive. Ha commentato Enzo Bianchi: «Lekh lekhà, espressione che significa letteralmente "va' verso te stesso", un invito dunque a partire, un invito al viaggio anche interiore, paragonabile in qualche modo al celebre ghôti sautón — conosci te stesso —, della tradizione sapienzale greca [...] obbedendo a quel "vattene" egli deve innanzitutto compiere tre precise rotture: con la terra di provenienza; con il mondo religioso idolatra; con la casa paterna, cioè con i legami di sangue». Mettersi in cammino, far muovere i piedi significa da sempre un rivolgimento, verso se stessi e il proprio mondo. E se restiamo agli inizi, ciò che per primo l'uomo imparò a leggere non furono le tavolette cuneiformi dei Sumeri o i geroglifici egizi, ma le orme sul terreno, quelle dei suoi simili e degli animali che cacciava o da cui fuggiva.

I primi quattro capitoli sono altrettante tappe. Poi una sosta per raccontarci una prima verità che porteremo con noi: ci servirà a continuare il cammino, a riflettere, fare associazioni e digressioni, stabilire nessi con idee e pratiche, a scoprirne altre di verità. Fuori e dentro di noi.

Prima di iniziare il cammino una preghiera laica ai nostri numi tutelari nonché protagonisti indiscussi perché ci sorreggano nell'impresa.


                        Elogio dei piedi

Perché reggono l'intero peso
Perché sanno tenersi su appoggi e appigli minimi
Perché sanno correre sugli scogli e neanche i cavalli lo sanno fare
Perché portano via
Perché sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi
    esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in
    linea retta
Perché sanno saltare, e non è colpa loro se più in alto nello
    scheletro non ci sono ali
Perché scalzi sono belli
Perché sanno piantarsi nel mezzo della strada come muli e fare
    una siepe davanti al cancello di una fabbrica
Perché sanno giocare con la palla e sanno nuotare
Perché per qualche popolo pratico erano unità di misura
Perché quelli di donna facevano friggere i versi di Puškin
Perché gli antichi li amavano e per prima cura di ospitalità li
    lavavano al viandante
Perché sanno pregare dondolandosi davanti a un muro o ripiegati
    indietro da un inginocchiatoio
Perché mai capirò come fanno a correre contando su un appoggio solo
Perché sono allegri e sanno ballare il meraviglioso tango,
    il croccante tip-tap, la ruffiana tarantella
Perché non sanno annusare e non impugnano armi
Perché sono stati crocefissi
Perché anche quando si vorrebbe assestarli nel sedere di qualcuno,
    viene scrupolo che il bersaglio non meriti l'appoggio
Perché come le capre amano il sale
Perché non hanno fretta di nascere, però poi quando arriva il punto
    di morire scalciano in nome del corpo contro la morte.

Perché i piedi non mentono.

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Il gesto più umano



Il nostro è un mondo dominato dalla tecnica.

La pervasività di questo fatto fa sì che non ce ne rendiamo neanche più conto, lo diamo per scontato considerandolo naturale.

La tecnica da mezzo è diventata fine, e il fine della tecnica è il suo incessante potenziamento, accrescimento.

È la tendenza fondamentale del nostro tempo.

Camminare rappresenta uno scarto rispetto a questo orizzonte dominato dalla tecnica.

Da tempo questa alterità è stata manifestata e portata alla luce da una significativa tradizione letteraria e di pensiero che come un fiume carsico ha attraversato la nostra cultura occidentale.

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Pagina 10

Si può pensarla come Giorgio Ruffolo: «Non è il progresso tecnico la causa del venir meno dei fini, ma è il suo asservimento all'accumulazione capitalistica. Non è vero che la tecnica prescrive di fare tutto ciò che è fattibile. Essa prescrive di fare tutto ciò che è profittevole. Il problema allora non è di sottrarsi alla tecnica, ma di sottrarre la tecnica alle leggi del mercato».

È un indirizzo e un atteggiamento politico e culturale apprezzabile e condivisibile, un antidoto a certe forme di rifiuto regressivo. Ma se vogliamo stare alla realtà nuda e cruda dei fatti non si può che ripetere ciò che scriveva oltre vent'anni fa un economista sui generis come Claudio Napoleoni: «La tecnica può servire fini buoni o cattivi a seconda di chi decide oppure la tecnica serve un fine solo, se stessa? Questione controversa però da un punto di vista concreto, empirico; ogni volta che si è voluto stabilire un condizionamento etico, valoriale questo non è riuscito, la tecnica è andata avanti».

Questa conclusione ha ricevuto ampie e ulteriori conferme. La tecnica è andata avanti e con essa la questione enorme che ci sta di fronte: il non essere in grado di prevedere e valutare le conseguenze di questa straordinaria potenza tecnica che è nelle nostre mani. Se gli antichi avevano un deficit di conoscenza, a noi compete un deficit sugli effetti.

Per questo ritorna centrale la domanda sull'etica, e allora: di quale etica parliamo quando parliamo del camminare? Di un'etica che parte da se stessi ma per aprirsi al mondo, che non mette barriere e non separa ma ristabilisce relazioni e collegamenti tra i propri passi e il contesto umano e naturale, perciò assai distante da quella che vige attualmente: frammentata, parcellizzata, che non risponde a una visione d'insieme ma agli obiettivi e alle finalità di ambiti settoriali e specifici.

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Pagina 13

Se vogliamo cercare qualcosa di nuovo, ma che nuovo non è, sta nel fatto che al fondamentalismo della tecnica se ne è affiancato un altro: il fondamentalismo religioso. C'è un ritorno di ortodossia che coinvolge anche il mondo cattolico, rimettendo al centro di tutto il corpo, con esiti, per quanto riguarda Santa romana Chiesa, paradossali e sconcertanti: dal rifiuto delle tecniche di fecondazione eterologa per coppie sterili con l'invito furbesco a non votare nel referendum del 2005, si è passati con disinvolta intransigenza alla richiesta opposta di utilizzo di tecniche mediche artificiali per tenere in vita persone contro la loro stessa volontà, come per Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro.

C'è un abisso di umanità e compassione tra ciò che abbiamo letto e sentito da parte di esponenti delle gerarchie vaticane e ciò che scriveva papa Paolo VI ai medici cattolici nel 1970, quando li invitava ad alleviare le sofferenze e a non prolungare con qualunque mezzo una vita quando non è più pienamente umana.

Si dice: la vita è sacra. La vita appunto, che è innanzitutto relazione con gli altri, reciprocità, scambio di affetti e di emozioni, dignità di sé. Allora che c'entra tutto questo con l'alimentazione e l'idratazione forzata per mantenere artificialmente un corpo che giace inerte in un letto? Questa vita non ha nulla di sacro né di «pienamente umano»; al contrario è idolatria che ha bisogno, per affermarsi, dell'idolatria della tecnica. Un doppio grave peccato. Succede purtroppo quando la vita delle persone in carne e ossa si trasforma in simbolo, oggetto astratto su cui combattere battaglie ideologiche o religiose.

Camminare è un antidoto a questa intossicazione ideologica o religiosa, e lo è «naturalmente»: camminiamo col nostro corpo. Questo semplice fatto ci consegna alla nuda vita, ai suoi elementi e bisogni più elementari: mangiare, bere e dormire, freddo e caldo, stanchezza e riposo, dolore e piacere; dove i nostri sensi sono tutti all'opera con una potenza e un'acutezza prodigiose che normalmente non sperimentiamo. Per questo chi cammina ritorna immediatamente consapevole di qualcosa che si è perso, di cui non siamo più consapevoli: le stagioni, il clima. Sono loro i protagonisti, spesso troppo ingombranti, dei racconti di viaggi a piedi; sono ancora loro la scoperta immediata e l'assillo costante di chi per la prima volta decide di affidarsi ai piedi rendendosi così conto, volente o nolente, della differenza sostanziale con tutti gli altri mezzi di spostamento che, in misura maggiore o minore, isolano o proteggono. A questo corpo che vive, pulsa, reclama i suoi diritti, che è tutt'uno con il camminare e a cui camminando chiediamo tanto, a questo corpo dobbiamo ciò che da tempo si è smarrito e che nessuna tecnologia o ideologia può sostituire: attenzione e ascolto per corrispondergli, null'altro che questo. Quando, per le circostanze più diverse, non ci è più possibile esercitare attenzione e ascolto, allora è la vita stessa a soffrirne irreparabilmente. Non dovrebbe essere difficile comprenderlo; in ogni caso basta far muovere i piedi e il resto viene da sé.

Ma siccome lo Spirito soffia dove vuole, mai disperare: può accadere che quelle sagge e misericordiose parole di Paolo VI vengano poi implicitamente riprese da una voce importante e autorevole, quella del cardinal Martini , capace di resistere a questa ondata integralista: «È importante riconoscere che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana [...] la vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto».

È la dignità della vita il valore da tutelare e garantire, un'idea ben più ricca di quella che riduce la vita al respirare. Si respira per vivere, non si vive per respirare.

E se facciamo nostre le parole di Roland Barthes , per cui camminare è il gesto più comune e quindi più umano, lo facciamo con riserva, perché a oltre cinquant'anni da quelle parole, soffocati da una motorizzazione selvaggia e smisurata, se camminare continua a essere il gesto più umano di certo non è il più comune. Sollevarci su due piedi è la nostra prima impresa, da lì inizia il nostro cammino nel mondo. È un gesto naturale quant'altri mai, che non ha bisogno di protesi, artifici, manufatti, tecniche particolari, ma solo delle nostre gambe.

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Pagina 17

Ora sai cosa sono le Itache



La nascita e lo sviluppo prodigiosi della scienza e della tecnica in Occidente sono legati all'idea che le matematiche siano un linguaggio, il linguaggio in cui è scritto il grande libro della natura. La matematica è quel sapere che è potere.

Inizialmente in armonia con i dettami religiosi, scienza e tecnica se ne emanciperanno non senza contrasti e tragedie, per giungere all'attuale paradosso: da fattori di decostruzione, di radicale messa in discussione dei fondamenti innanzitutto religiosi su cui l'uomo aveva innalzato il proprio universo fisico e mentale, siamo giunti oggi a un vero e proprio ribaltamento per cui scienza e tecnica sembrano aver sostituito la religione nel dispensare certezze, sicurezze, verità. Per dirla con Sergio Quinzio, esse sono «l'ultima forma assunta dal monoteismo».

Di qui la caratteristica dominante del pensiero occidentale: il suo essere pensiero calcolante, utilitaristico, strumentale. A cui dunque viene affidato il compito di misurare e calcolare tutto, di applicarsi a ottenere dei risultati, di rendere le cose e il mondo più efficienti.

Camminare supera questa relazione strumentale, questa scissione tra mezzi e fini perché non si misura sull'efficienza e l'efficacia. Camminare è contemporaneamente mezzo e fine, attraversamento e meta, in cui è predominante la dimensione del piacere e della curiosità come fine in sé, non strumento per qualche altra cosa.

Di questa doppia vita una poesia, come spesso accade, ha colto la verità più profonda raccontandoci un viaggio, il ritorno verso Itaca, archetipo di tutti i viaggi e mito fondativo della nostra cultura.


Quando esci per intraprendere il viaggio verso Itaca,
prega che sia lunga la via,
colma d'avventure colma di conoscenze.
I Lestrigoni e i Ciclopi,
l'irato Poseidone non temere!

Costoro per la tua via mai tu troverai,
se resta il tuo pensiero alto, se nobile
emozione l'avvicina al tuo spirito e al corpo.

I Lestrigoni e i Ciclopi,
il selvaggio Poseidone, non incontrerai,
se non li porti dentro, nella tua anima,
se la tua anima non li rizza davanti a te.

Prega che sia lunga la via.
Molti siano i mattini d'estate
in cui — con quale felicità, con quale gioia! —
entrerai in porti che vedrai la prima volta,
sosta negli empori fenici,
e i bei prodotti acquista, madreperle e coralli, ambre ed ebani,
e voluttuosi profumi d'ogni sorta, quanto più puoi,
    abbondanti e voluttuosi profumi,
in molte città egizie va',
impara e impara dai sapienti.

Sempre nel tuo animo abbi Itaca.
L'approdo, lì è la tua destinazione.
Ma non affrettare assolutamente il viaggio.
È meglio che duri molti anni;
e già vecchio attracchi all'isola,
ricco di tutto ciò che hai guadagnato per via,
senza contare sulla ricchezza che Itaca ti darà.

Itaca ti diede il bel viaggio.
Senza di essa non saresti uscito per via.
Ma non ha da darti altro.

Se anche la trovi povera, Itaca non ti ha ingannato.
Essendo diventato tu così sapiente, con sì grande esperienza;
non foss'altro perché ora sai cosa sono le Itache.

In questa poesia di Kavafis c'è quasi tutto quel che si può dire sul camminare: idee e pensieri, esperienze e stati d'animo, aspettative e promesse, timori e tremori.

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Pagina 20

Questa relazione complessa, che non è di riduzione a uno né di separazione, oggi si fa fatica a comprenderla, abituati come siamo a una logica binaria, omologazione o contrapposizione, in cui abbiamo smarrito i nessi, le interdipendenze. Invece connettere, stabilire nessi e collegamenti è propriamente ciò che connota l'intelligenza, ma se questa attitudine e capacità viene dimenticata o abbandonata, l'esito, di cui abbiamo prove e riprove quotidiane, è quello descritto da Edgard Morin: «I grandi problemi umani scompaiono a vantaggio dei problemi tecnici particolari. L'incapacità di organizzare il sapere sparso e compartimentato porta all'atrofia della disposizione mentale naturale a contestualizzare e a globalizzare. L'intelligenza parcellare, compartimentata, meccanicista, disgiuntiva, riduzionista, spezza il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato, unidimensionalizza il multidimensionale. È un'intelligenza miope che il più delle volte finisce per essere cieca».

È, non a caso, la stessa logica, la stessa dinamica che, come abbiamo già notato, regola la sfera etica. Saldate, formano la gabbia dorata dell'uomo moderno, l'uomo a una sola dimensione.

Ha scritto Umberto Galimberti: «Abitare l'età della tecnica significa educarsi e abituarsi a percepire il mondo come un'ininterrotta catena di utilità. La foresta diventa allora riserva di legname, il fiume energia idroelettrica, il suolo sottosuolo. Risolto in utilizzabilità, il mondo si offre non come paesaggio, ma come riserva. Heidegger dice "deposito" (Bestand), in virtù di un'utilizzazione di cui non si conosce gli scopi, perché la tecnica non se li propone. Suo compito è offrire pure e semplici disponibilità, nel modo più esteso e più rapidamente impiegabile. E, in assenza di fini che non si risolvono nell'immediatezza dell'impiego, vengono nel frattempo, ma questo "frattempo" è ormai l'unico modo di percepire il tempo, semplicemente impiegati».

Sia chiaro, tutto questo ha prodotto straordinari risultati rendendo più confortevole e per tanti aspetti migliore la vita in questa parte di mondo; ma è, o dovrebbe essere, altrettanto chiaro che oggi ne cogliamo sempre meglio il lato oscuro, la faccia nascosta, sia per gli effetti negativi che per i rischi e i pericoli incombenti a cui siamo esposti.

Dentro questa logica scompare inevitabilmente l'interrogarsi senza finalità immediate, il sottoporre le cose al vaglio critico, a considerare la qualità. Esattamente ciò che il camminare spinge a fare.

Da sempre infatti camminare ha avuto a che fare col pensare e con le domande fondamentali che sono alla base della filosofia: chi siamo, dove siamo, dove siamo diretti; poiché esprime come poche altre esperienze questa apertura al mondo e a se stessi.

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Pagina 26

Alla domanda su quale fosse il modo migliore di vedere un paese, Bruce Chatwin rispondeva: con gli scarponi.

Si cammina per vivere, non per essere già vissuti.

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Pagina 27

Festina lente



Nella civiltà delle macchine e nella cultura del macchinismo in cui siamo immersi la velocità è un valore assoluto.

Camminare è un atto di insubordinazione a questa ideologia, a questa tirannia.

Straordinari i comunardi quando, conquistata Parigi durante la Rivoluzione, cominciarono a sparare agli orologi. Pochi gesti nella storia dell'umanità hanno avuto un carattere così profetico, assoluto e trascendente, poche volte come in questo caso fu tentato per davvero l'assalto al cielo.

Significa fare nostro il motto di Gracián: «In tutte le cose cerca di portare il tempo dalla tua parte».

Camminare infatti è la sola esperienza in grado di comprendere la dimensione del tempo in tutte le sue implicazioni e sfaccettature.

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Pagina 29

Invece il mantra che ci viene ripetuto incessantemente ogni giorno, essere veloci nel produrre-consumare-competere, si riassume alla fine in una parola sola: crescita. Crescere sempre di più e sempre più velocemente è oramai un vero e proprio dogma di fede. Questo è il pensiero, si fa per dire, non unico ma fisso che ci sovrasta.

L'eterogenesi dei fini, che è una costante della storia umana, ha fatto sì che proprio da questo approccio insensato sia originata la più grave crisi economica e finanziaria degli ultimi ottant'anni, con produzioni, borse e consumi in caduta libera. Ha scritto Manuel Castells: «Per un momento è sembrato che il pendolo della storia avesse restituito allo Stato il ruolo di protagonista economico, con il salvataggio delle istituzioni finanziarie e delle grandi imprese in fallimento. Obama, il G20 e l'Unione Europea hanno riscoperto la necessità di regolamentare pubblicamente l'irresponsabilità privata [...]. L'indebitamento pubblico ha assorbito il debito privato e la politica si è impegnata per salvare quelli che avevano guadagnato di più con il capitalismo virtuale. Però ai governi è rimasto ben poco per continuare a finanziare le spese sociali in un'economia in ginocchio. Ecco quindi che il mercato non funziona più come prima e lo Stato non corre più in suo aiuto, ma anzi impone tagli alla maggioranza dei cittadini [...] così non funzionano né il mercato né lo Stato né i due insieme». È quello che sta accadendo, con la Grecia a fare da cavia. Uno scenario che fa porre a Jacques Attalì , ascoltato consigliere di diversi presidenti francesi, domande da lungo tempo inascoltate: «Giorno dopo giorno la democrazia arretra di fronte al mercato. E si prepara così una nuova crisi finanziaria, che potrebbe minare tutti gli sforzi di riduzione dei deficit di bilancio. E dopo? Che faremo? Niente, ovviamente, se non far pagare i contribuenti. In passato sono scoppiate delle rivoluzioni per molto meno».

Invece le crisi non andrebbero mai sprecate perché sono l'occasione, seppure difficile e dolorosa, di un ripensamento. Ancora Castells: «Quando le nostre idee sull'economia smettono di funzionare nella pratica ne cerchiamo delle altre, a volte nel profondo oscuro del nostro essere, altre nella nostra capacità di immaginare mondi diversi [...]. Una cultura di cooperazione che sostituisce la competizione, afferma il tempo della vita su quello del vivere per consumare e punta alla natura e alla disintossicazione da tutto ciò che è chimico. Sfrutta la crisi per ripensare l'insensatezza di una vita folle [...] la vita dopo la crisi dipenderà da quale cultura prevarrà».

Camminare prefigura questa nuova cultura. Ce lo ha mostrato in un illuminante intervento Alex Langer, smontando il famoso motto coniato per le olimpiadi moderne dal barone de Coubertin: «citius, più veloce, altius, più alto, fortius più forte, più possente [...]. Oggi queste tre parole potrebbero essere assunte bene come quinta essenza della nostra civiltà e della competizione della nostra civiltà: sforzatevi di essere più veloci, di arrivare più in alto e di essere più forti. Questo è un po' il messaggio cardine che ci viene dato. Io vi propongo il contrario, io vi propongo il lentius, profundius e soavius, cioè di capovolgere ognuno di questi termini, più lenti invece che più veloci, più in profondità invece che più in alto e più dolcemente o più soavemente invece che più forte, con più energia, con più muscoli, insomma più roboanti». Se pensiamo che l'anno è il 1994, ci rendiamo conto della provocazione intellettuale che questo discorso conteneva, della sua carica eversiva. Langer stesso mostra di esserne consapevole quando in conclusione significativamente assume proprio il camminare, l'andare a piedi, come riferimento: «Con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale, però forse si ha il fiato più lungo». Per continuare a camminare, per r-esistere. C'è un'evidente e voluta forzatura intellettuale nel ragionamento di Langer, al fine di renderlo più esplicito e diretto. Non si tratta infatti di sostituire al valore assoluto e all'ideologia della velocità quella speculare e contraria della lentezza, ma di riconoscere e dare valore all'intreccio, alla mescolanza di velocità e lentezza di cui sono impastate le nostre vite.

Chi cammina sa per esperienza diretta che saranno le circostanze o il nostro stato d'animo a suggerirci se essere più o meno veloci, non servono metafisiche. Siamo più ricchi, complessi; sì, anche più complicati, per poter essere rinchiusi in una sola dimensione. Nuovamente la lingua latina dotata del dono felice della sintesi ha racchiuso in due parole questa verità e questo argomentare: festina lente, affrettati lentamente.

Mirabile connubio in cui velocità e lentezza non si elidono ma sporgendosi l'una verso l'altra si toccano, restituendoci la verità delle nostre vite.

Sapevamo già da tempo di vivere in un pianeta che non è infinito ma finito, e che se si volesse estendere a questo nostro pianeta finito lo stile di vita americano quanto a produzioni e consumi servirebbero non uno ma sei pianeti terra di cui siamo, almeno pare, momentaneamente sprovvisti.

Sapevamo già da tempo della crisi climatica che stiamo vivendo. Alla fine riconnettere l'insieme dei fatti, che dovrebbe essere il vanto della specie umana, porta a una conclusione ben precisa: questa razionalità economica, ancor prima degli effetti nefasti che abbiamo tutti sotto gli occhi, ha distrutto la ragione.

Di qui l'emergere di un altro approccio, di un'altra prospettiva, di un'altra mentalità: «A rigore sul piano teorico si dovrebbe parlare di a-crescita, così come si parla di a-teismo, più che di de-crescita. In effetti si tratta proprio di abbandonare una fede o una religione, quella dell'economia, del progresso e dello sviluppo, di rigettare il culto irrazionale e quasi idolatra della crescita fine a se stessa [...]. Possiamo immaginare quale catastrofe provocherebbe un tasso di crescita negativo! Come non c'è niente di peggio di una società del lavoro senza lavoro, non c'è niente di peggio di una società della crescita in cui la crescita si rende latitante. Questo regresso sociale e civile è esattamente quel che ci aspetta se non cambiamo la nostra direzione di marcia. Per tutte queste ragioni, la decrescita è concepibile soltanto all'interno di una "società della decrescita", ovverosia nel quadro di un sistema basato su una logica diversa [...]. Il suo obiettivo è una società nella quale si vivrà meglio lavorando e consumando di meno».

Queste parole, scritte da Serge Latouche , il maggior esponente della decrescita, hanno un sapore profetico, perché non sono di oggi, ma del 2007. Se le consideriamo profetiche e scandalose dipende dall'amara constatazione dello straordinario balzo all'indietro che abbiamo fatto, sia politico che culturale.

Per comprenderlo appieno basta rileggersi un famoso discorso della fine degli anni sessanta di Bob Kennedy, candidato alla presidenza degli Stati Uniti e, come il fratello, assassinato in circostanze oscure: «Il prodotto interno lordo comprende l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgombrare le strade dalle carneficine del fine settimana. Include la distruzione delle sequoie e la perdita delle nostre meraviglie naturali. Include il napalm, le testate nucleari e i mezzi blindati usati dalla polizia per reprimere le rivolte delle nostre città. Include i programmi della tv che esaltano le violenze per vendere più giocattoli ai nostri bambini. Il prodotto interno lordo, però, non include la salute delle nostre famiglie, la qualità della loro educazione, non comprende la bellezza della nostra poesia, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non misura la nostra vivacità né il nostro coraggio, la nostra saggezza o il nostro sapere, la nostra compassione o la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America, tranne perché siamo orgogliosi di essere americani».

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Pagina 56

La leggerezza del camminare: ridurre all'essenziale; essere umili per accogliere il mondo che ci viene incontro; e fare il vuoto dentro di noi così da stupirci e meravigliarci ancora.

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Pagina 57

Camminare ci rende liberi



Sostiamo. A prender fiato e, come accade quando si cammina, a fare il punto.

Camminare: è il gesto più umano; lega mezzo e fine; dà tempo al tempo; si nutre di umiltà e leggerezza e ci riporta all'essenziale, così da consentirci di guardare dentro e fuori di noi.

Tutto questo si può riassumere in una parola, una parola sola: libertà.

Camminare è uno straordinario esercizio di libertà.

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Pagina 60

[...] Questo tipo antropologico, «il cittadino docile», statene certi non prenderà mai il cammino. Immobile, aspetterà che altri gli dicano se restare, e allora avvertirà con preoccupazione ciò che gli si muove intorno; o andare, e allora gli si metterà al seguito. Ebbene, chi cammina è l'opposto di questo tipo umano, esprime curiosità, intraprendenza, si sente e vuole sentirsi libero o libera di muoversi. Conosce non la docilità, che è un miscuglio indigeribile di chiusura e subalternità, ma la vulnerabilità, impasto di attenzione e disponibilità, termine più vero rispetto a quell'«indifeso» usato da Herzog. Della problematicità del rapporto tra libertà e democrazia Mario Tronti ci ha dato una chiave interpretativa potente e profonda: «Si tratta di scomporre e contrapporre i due termini "democrazia vs libertà" perché tanto la democrazia è identità quanto la libertà è differenza». Sta qui per Tronti il cuore del problema, la democrazia piega inevitabilmente e inesorabilmente verso l'identità, omologandoci; la libertà si fonda e si esplica nel suo contrario, nella differenza che in quanto tale non si fa omologare. Tra i due concetti non può esserci allora che un'irriducibile tensione. Il punto è che si fa fatica a tenere questo ordine e livello del discorso, perché, immediatamente calato nella realtà italiana, esso si imbastardisce e si perverte. Siamo infatti dominati e pervasi sempre più da una mentalità che è divenuta oramai un fenomenale marchio di fabbrica, il nostro più autentico made in Italy: la libertà come assenza di regole e di limiti. Ci piace raccontare noi stessi come un popolo di individualisti, ma è un'autoassoluzione benevola buona per il mercato estero che trova il tutto tanto pittoresco, salvo poi cambiare idea quando viene nel nostro paese. In realtà siamo un popolo di anarchici di destra dove inevitabilmente vige la legge del più forte, perché è proprio in questa assenza che si può far valere fino in fondo la propria forza. O del più furbo, variante italica per eccellenza, che per andare avanti non ha bisogno del sapere e della conoscenza ma delle conoscenze. Non a caso l'ineffabile Giulio Andreotti, per ben sette volte capo di governo, ebbe a dire che governare gli italiani non è complicato, è inutile.

La libertà di cui parliamo quando parliamo del camminare non ha nulla a che spartire con tutto questo, ha invece a che fare con l'autonomia e l'autodeterminazione della persona.

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Pagina 113

Una crosta di asfalto e cemento



Nel disinteresse generale il 2008 ha registrato un fatto epocale: per la prima volta nella storia dell'umanità la popolazione urbana ha superato quella extraurbana. Mai era accaduto prima.

Le conseguenze si faranno sentire. Se restiamo al nostro paese si sono già fatte sentire, e da lungo tempo. Infatti si è via via realizzato un modello urbano di tipo americano: enorme consumo di suolo e predominio incontrastato dell'auto privata; ci ha salvato solo la tutela e la conservazione dei centri storici, grazie a una legge ponte che come tutto ciò che da noi nasce provvisoriamente si è mantenuta nei decenni. Qualche dato per non sprecare troppe parole.

In Italia negli ultimi undici anni, periodo 1995-2006, sono andati distrutti più di 750000 ettari di superfici libere, cioè oltre 68200 ettari l'anno; in pratica in undici anni è stata ricoperta di asfalto e cemento una regione grande come l'Umbria, e ogni anno sparisce una città come Ravenna. Una follia.

Per capire di cosa stiamo parlando: in Germania una legge nazionale vincola il consumo di suolo agricolo a non più di diecimila ettari l'anno; in Inghilterra le nuove costruzioni debbono essere realizzate per il 70% in aree già edificate. Richard Rogers, uno dei massimi architetti mondiali, ha ricordato: «A Londra abbiamo avuto un incremento di popolazione di un milione di persone in dieci anni e non abbiamo toccato un solo metro quadro di green field, la campagna intorno Londra... Bisogna avere il coraggio di dire di no: chi vuole una seconda casa o una terza casa in mezzo alla campagna deve trovarsela tra quelle esistenti».

Esattamente il contrario di quanto avviene qui da noi con la politica totalmente subalterna in cui, come ha scritto Asor Rosa «non c'è nulla che sia stato bipartisan in Italia quanto l'alluvione cementizia". Venute meno le grandi distinzioni ideologiche [...] il ceto politico italiano, centrale o locale, ha ritrovato una sua inedita unità identitaria e d'intenti, abbracciando un'unica, corposa ideologia di nuovo stampo. Quella del mattone». Dietro questa ideologia ci sono gli interessi e la forza dei costruttori, la cui aspirazione irresistibile e travolgente, il cui massimo desiderio, che assume sembianze quasi sessuali, è penetrare e riempire le campagne di villette a schiera; magnificando poi su intere paginate di giornale, quasi sempre di loro proprietà, il verde, il silenzio, la natura che loro stessi stanno distruggendo. Mirabile esempio di pubblicità ingannevole! È questa ideologia del mattone che cementa, è proprio il caso di dire, gran parte del ceto politico-amministrativo; è questa connivenza, complicità con gli interessi della rendita fondiaria e della speculazione edilizia che ha portato allo scandalo e alla vergogna di non avere ancora una legge sui suoli, e che porta a non raccogliere le parole ragionevoli e di buon senso di Carlo Petrini: «Lasciate stare i suoli agricoli, sono una risorsa insostituibile, pulita, bella, produttiva. Sono il luogo che ci fa respirare, che riempie gli occhi, che ci dà da mangiare e che custodisce la nostra memoria, la nostra identità. Continuare a distruggerli, dopo tutto lo scempio che è già stato fatto, non è da Paese civile».

Il boom edilizio di questi anni è stato motivato con la mancanza di case, ma il paradosso è proprio questo: si costruisce in maniera forsennata e al tempo stesso aumenta l'emergenza abitativa. È uno dei più clamorosi ed evidenti casi di fallimento del mercato: tante case senza gente e tanta gente senza casa. Come mai?

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Camminatori di tutto il mondo, uniamoci!



Quanto raccontato e descritto nel capitolo precedente si può sintetizzare in una sola frase: il regno della quantità e della bruttezza.

Dietro, come sempre, c'è un'ideologia: lo sviluppismo. E lo sviluppismo porta con sé la bruttezza.

Una volta eliminata la domanda sul perché fare, sul cosa fare e sul come fare non resta altro che fare, come se questo fosse un valore in sé. Quante volte si sente dire con tono solenne e un po' tronfio in televisione, nei bar o da tribune varie: io sono uomo del fare. In genere, diffidate.

Occorre ricordare invece le sagge parole di Franco Fortini: sapere, far sapere, saper fare, fare. Sono infatti troppi quelli che fanno senza sapere, ma i danni, i guasti, quelli li paghiamo tutti.

Un altro sapere e un altro saper fare non solo è necessario, è possibile.

«Mantova, tu sarai ricca se avrai cura delle opere fatte; conserva per i posteri i preziosi vantaggi realizzati. Dà sempre lodi a codesti degni rettori; i successori imparino da tale esempio a fare bene ogni cosa». Così recita la targa del 1190 in memoria della costruzione del ponte dei Mulini.

Ho l'immotivata convinzione che queste parole abbiano benevolmente influito nella scelta del sindaco di Mantova Fiorenza Brioni — che sia donna forse non è casuale — di bloccare una lottizzazione della precedente giunta che avrebbe irrimediabilmente deturpato il paesaggio naturale e artistico vanto di quella città. Nel Chianti la regola dei contadini è una sola: si consuma solo ciò che si riforma. In questo modo hanno sviluppato un'economia di qualità e conservato un ambiente e un paesaggio apprezzati in tutto il mondo. Ha ricordato Salvatore Settis: «Si è data la priorità al guadagno, al fare presto e male anziché bene e più lentamente. Se la Toscana è la regione più bella, nonostante tutto, è perché qui si è ragionato nel corso dei secoli seguendo valori come la bellezza, la lentezza, l'idea che il paesaggio è anche l'anima di un popolo». Si può fare. Si possono rimettere in discussione gli interessi della rendita fondiaria e immobiliare che puntano a un'espansione come fine in sé; si può resistere a una logica di privatizzazione del paesaggio e degli spazi pubblici; si può affermare che città e paesaggio sono beni comuni di cui tutti possono godere rispettando le regole. Si può fare e vincere. Si può, ma a una condizione: che si abbia una concezione alta della politica come bene comune, che ci si ricordi che la politica nasce dalla polis, dalla città.

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Chi cammina ha tanti buoni e fondati motivi per non credere alle sorti magnifiche e progressive del futuro; impara ogni giorno a proprie spese a diffidare di quel delirio di onnipotenza che non vede e non pone limiti alle pretese, che ritiene che tutto gli sia permesso o concesso. Ne fa esperienza diretta nella distruzione del territorio, nelle ferite inferte al paesaggio, nell'assalto e nel saccheggio degli spazi e dei beni pubblici, tutti fattori che riducono, impediscono, cancellano ogni possibilità di camminare. Per questo chi cammina ha imparato a guardare e intendere in maniera diversa il concetto di conservazione, e non lo considera (più?) un residuo del passato ma qualcosa di valido per il presente e per il futuro.

Camminare è un pensiero pratico alternativo al modo di pensare dominante che ha dentro di sé una carica di conservazione. Per trattenere o evitare che il treno acceleri sempre più verso quella razionalità strumentale e quella destinazione tecnico-economica che conduce la natura e l'umano a un deragliamento post-naturale e post-umano.

Si cambia, e questa è legge di natura. Ma si cambia in meglio se si ha cura delle identità e delle storie, solo così trasformare reca con sé un beneficio; altrimenti ha un segno negativo, quello della dissipazione e della distruzione. Abbiamo bisogno di un «operare riguardoso» come ha scritto Roberto Peregalli. «Ascoltare i luoghi, stare loro accanto, senza una volontà dissennata di impadronirsene». Per poi concludere con amara e disincantata ironia: «l'importante è non avere buoni propositi, perché sono quasi sempre una sciagura».

Si può riportare la qualità e la bellezza dentro e fuori di noi a patto di ripartire dai piedi.

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