Copertina
Autore Raffaele La Capria
CoautoreEmanuele Trevi
Titolo Letteratura e libertà
EdizioneFandango, Roma, 2009 , pag. 128, dvd, cop.fle., dim. 15x21x0,8 cm , Isbn 978-88-6044-107-2
LettoreLuca Vita, 2009
Classe biografie , critica letteraria , citta': Napoli
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Pagina 7

Vorrei iniziare dall'idea che ti sei fatto del destino individuale, o se preferisci della "sorte', come la chiami in un passo notevole dell' Armonia perduta. Te lo ricordo: "Essere napoletani", scrivi a un certo punto, "non solo non è un'evidenza, ma significa non aver concluso la propria sorte". In qualche maniera, questa mi sembra una condizione invidiabile! Tra l'altro, l' Armonia perduta uscì nel 1986, proprio mentre nel pensiero occidentale si diffonde a macchia d'olio l'idea di una specie di Fine della Storia. Forse si potrebbe dire che ci sono, da questo punto di vista della sorte, molti più 'napoletani' di quelli registrati all'anagrafe...

È una domanda da cui ci si possono aspettare un sacco di possibili risposte. In realtà l' altra parte (altra rispetto a Napoli), cioè quella di una Storia che si è svolta esaurendo tutte le sue potenzialità, non mi è nemmeno molto chiara. La storia che ha avuto in sorte Napoli (nella quale ho potuto riconoscere anche la metafora della storia che ho avuto in sorte io!), ad ogni modo, è caratterizzata da uno stallo. Nella "favola antropologica" che ho cercato di raccontare nell' Armonia perduta, ho fatto risalire questo stallo al 1799, l'anno della rivoluzione giacobina e della conseguente guerra civile, che ha separato Napoli dal corso ineluttabile degli avvenimenti che, nel resto dell'Occidente, costituiscono la modernità. Non ti devi meravigliare se sono andato così indietro nel tempo, alla ricerca di cause in grado di spiegare lo stesso nostro presente. Il fatto è che per me Napoli è sempre stata una specie di metafora. Intanto perché, un po' come la Sicilia di Sciascia, ciò che è accaduto nei confini della città illumina il carattere generale delle vicende italiane. Ma Napoli è anche la metafora di ciò che accade all'interno dei singoli individui: dove sempre esiste un conflitto tra personaggio e uomo, tra un'idea di sé astrattamente compiuta, da un lato, e l'inadeguatezza, la fatale insufficienza di questo progetto di personalità, dall'altro. Ecco perché, scrivendo l' Armonia perduta, ho dichiarato di parlare di me "per interposta Napoli". È una delle tante maniere in cui ho tentato di dar forma, di libro in libro, a quell'oggetto misterioso, e sostanzialmente indefinibile, che è l'uomo contemporaneo.


Sei nato, come Pier Paolo Pasolini, nel 1922. Sei dunque un perfetto coetaneo del fascismo. Ma forse sarebbe meglio dire, approfondendo l'indicazione cronologica, che sei coetaneo di un'affascinante anomalia storica, dai confini ben più ampi di quelli del ventennio nero: l'incredibile, inverosimile modernizzazione italiana, che hai indagato sia nei tuoi romanzi, che nella tua "autobiografia letteraria", False partenze. Proprio in quest'ultimo libro, mi sembra, tocchi un punto importantissimo, quando, in un'esilarante rassegna delle mode teatrali anteguerra, giungi al successo di Pirandello, che solo in apparenza assomiglia al successo di altri protagonisti dell'avanguardia (e di Pirandello stesso) nel resto d'Europa. A tuo parere, Pirandello è una specie di scorciatoia paradossale, offerta a una borghesia che vuole negare i fondamenti della sua cultura prima ancora di averli incarnati. Non ti sembra un bell'emblema della storia italiana, questo nichilismo senza oggetto, questo assalto al senso comune sferrato prima di aver verificato l'esistenza del senso comune stesso?

Certamente. In quelle pagine, infatti, paragono il teatro di Pirandello a quello di Ibsen, o di Shaw, che attaccavano i fondamenti stessi della loro civiltà, ben visibili a tutto il loro pubblico. Ora, nel caso di Pirandello, la situazione era paradossale, perché, senza alcun dubbio, quei fondamenti non esistevano: venivano attaccati, minati alle fondamenta, ancor prima di godere di un'esistenza certa e riconosciuta. Non solo: ma quella borghesia che veniva affascinata dal formalismo teatrale di Pirandello, avrebbe avuto, in realtà, da pensare a problemi molto più concreti, come i comportamenti civili, la riedificazione dello Stato, l'idea della convivenza civile, se ne andava per la tangente, inseguendo postulati metafisici che in pratica, con la realtà, non avevano più nulla a che fare. Era una strana evasione: nel sofisticato, nel complicato... Ma non c'era, non c'era mai stato il vero punto di partenza di quell'evasione! Lo stesso controsenso si era verificato anche riguardo al decadentismo di d'Annunzio. Perché non era assolutamente chiaro da che cosa si decadesse! Questi fenomeni io, nato in un mondo borghese per giunta molto marginale e culturalmente deperito come quello napoletano, li conosco bene, per esperienza diretta. Quando parlo della visione del mondo di quella borghesia, bisogna subito aggiungere che era di tipo inguaribilmente piccolo-borghese. È vero che a Napoli ci sono anche stati dei 'grandi' borghesi, come Benedetto Croce (già i suoi allievi, d'altra parte, rappresentavano spesso un'appendice deleteria, una provincializzazione del pensiero del Maestro), ma l'omologazione in basso era una forza invincibile. La stessa vita privata di Croce, messo da parte il suo pensiero, è lì a dimostrare questo assioma. Quanto a me, che vengo fuori da quell'ambiente di piccola borghesia, ne ricordo bene anche l'altezza delle aspirazioni, delle pretese. Ma, assieme, la fatale mancanza di mezzi, così ben stigmatizzata, in tempi più recenti, da Ennio Flaiano.


Da che famiglia provieni?

Mio padre era un commerciante abbastanza abbiente, prima della Grande Crisi del 1929. Quell'anno iniziarono le sfortune della famiglia, perché i suoi affari consistevano nell'importazione di grandi convogli di grano dall'America. In seguito, dovette ridimensionarsi, arrangiarsi per così dire. Divenne un impiegato dello Stato, un direttore del Consorzio Agrario. Mia madre (ne parlo in La neve del Vesuvio) aveva velleità più chic, ma anche lei proveniva dalla piccola borghesia calabrese, focolaio di aspirazioni dannunziane, e poi di astrazioni pirandelliane... In famiglia si conservava la memoria di mia nonna, che affacciata al balcone, decideva il prossimo pezzo di terra da vendere, o meglio svendere, per, comprarsi, magari, cento paia di scarpette nuove. Bada bene che, a quei tempi, la circolazione delle idee avveniva in maniera strana: a casa mia, ad esempio, non c'era nemmeno un libro. La prima biblioteca l'ho formata io, con i libri della UTET. Pensa che iniziai a leggere Edgar Allan Poe perché mi incuriosiva il nome! A dire la verità, tutto era molto casuale, e la lettura dei libri, di per sé, non era un fatto che arrecava automaticamente prestigio. "Guaglio, tu hai letto troppi libri"; mi diceva mio nonno, seriamente preoccupato per me. Fa parte della struttura intrinseca del mio modo di pensare il fatto che la mia cultura sia nata così, per caso e da dilettante. Il mio sapere non è mai stato organizzato, perché, quando io ero giovane, non erano facilmente disponibili né guide né autentici programmi di studio. Io mi sono, tra l'altro, iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza, non a quella di Lettere. Ecco perché il protagonista (metà fittizio, metà autobiografico) di False partenze si chiama Candido: perché non sa niente, perché è costretto a ricominciare tutto da capo.

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Vorrei insistere su questo periodo dell'immediato dopoguerra, perché finalmente si possono fare dei nomi di scrittori per te importantissimi e finalmente pubblicati e letti, appartenenti a quell'area anglosassone che, fino alla fine della guerra, è il campo del nemico. Uomini sui quali vi avrebbero insomma comandato di aprire il fuoco: Orwell e Spender, Isherwood e Auden...

Tra i nomi che mi hai citato, tutti per me importanti, per un verso o per l'altro, voglio soffermarmi su Orwell. Tra la cultura italiana del ventennio fascista e quella del dopoguerra, dominata anch'essa da rigidissime ortodossie, esistono dei sinistri elementi di continuità, e proprio l'incomprensione e l'ostilità riguardo ad Orwell di tanti nostri intellettuali mi sembra (come ho anche scritto in Il sentimento della letteratura) un indizio rilevante. Mi hanno sempre colpito la durezza e la chiarezza di questa frase di Orwell, che ti citerò testualmente: "La colpa di tutte le persone di sinistra dal 1933 in avanti è di aver voluto essere antifascisti senza essere antitotalitari". Ti prego di notare la data: 1933! Ecco, questa amara verità non è mai stata tenuta nel dovuto conto dal ceto intellettuale italiano dominante negli anni del dopoguerra e oltre. Quando ascoltavo i discorsi, molto onesti nei propositi, lo so, fatti in quegli anni da Vittorini e poi da Fortini, Pasolini, Tronti, devo confessare che pensavo che fossero affetti da una sorta di fatale incongruenza. Non si rendevano conto di quanto accadeva là, nell'idealizzato mondo comunista. Non si rendevano conto che il problema non era criticare dall'interno le storture di quel sistema, ma uscirne fuori completamente, in maniera definitiva e irreversibile. Come avevano fatto uomini capaci di portare sulle spalle tutto intero il peso della loro solitudine: Orwell, in primo luogo, e anche Koestler, e il nostro Silone. Da questa grave mancanza, io ho addirittura sviluppato una teoria, ovviamente del tutto empirica e soggettiva. Uno dei maggiori difetti degli italiani, non solo degli uomini comuni, ma anche degli intellettuali più generosi e raffinati, è quello di pensare in grande rimanendo, nonostante la grandezza dei pensieri, piccoli. E questa sfasatura di proporzioni non può non aver effetti sul pensiero stesso. Perché, in nome di un'ideologia, si riusciva con poche frasi a mettere a posto mezzo mondo, tralasciando la relatività e la complessità di tutte le cose che accadono.


Cose che ti dava più fastidio, in quel processo, per certi versi irreversibile, di allontanamento della cultura dalla verità?

C'è ad esempio un fatto molto poco analizzato, ma davvero imbarazzante. È la condizione di totale sicurezza all'interno della quale, qui in Italia, venivano tessuti gli elogi dello Stato totalitario comunista. Sono idee che sarebbero più comprensibili se formulate sotto la pressione di una minaccia: morte, galera, come accadeva in tanti luoghi del mondo. Orwell diceva: "Quando si vedono persone altamente istruite considerare con indifferenza l'oppressione e la persecuzione, ci si chiede cosa meriti maggior disprezzo, se il loro cinismo o la loro miopia". Orwell si riferiva agli intellettuali stalinisti inglesi, ma anche qui da noi si godevano tutti i vantaggi della detestata democrazia borghese (possibilità d'esprimersi, stipendi lauti, ruoli intellettuali prestigiosi), e nello stesso tempo si dichiarava la supremazia, politica e anche morale, del modello sovietico. Nessuno li fucilava, nessuno li mandava in un gulag, eppure loro dicevano delle sciocchezze immaginabili solo con una pistola puntata sulla nuca. E al contrario, in Unione Sovietica c'erano persone capaci di guardare in faccia la verità, a prezzo di indicibili rischi e sofferenze. È proprio alla luce di questa contraddizione che mi spiego anche molto bene la freddezza dimostrata nei confronti di uno scrittore come Orwell, per il quale la ricerca della verità storica procedeva di pari passo con la coscienza della propria posizione individuale. In questo quadro, che ho definito un po' folle, non va nemmeno sottovalutata l'importanza dei condizionamenti imposti dalla guerra fredda, dal "fattore K". Perché, ne sono convinto, assieme all'esaltazione dell'ideologia sovietica agiva anche, magari oscuramente, la certezza che qui da noi, in Italia, non ci sarebbe mai stato il comunismo, in conseguenza dell'assetto politico mondiale deciso a Yalta. Certo, dopo averti detto queste cose, a distanza di tanti anni, devo dichiarare subito che anche l'altro schema di pensiero, oggi molto in voga, dell' anticomunista di professione, è molto irritante. Viene il sospetto che parole come "comunista" o "anticomunista" abbiano funzionato, a prescindere da loro contenuto reale, come emblemi, come allegorie. Esprimono più che altro, all'interno della storia culturale italiana, una difficoltà a pensare le cose fino in fondo, senza cercare complicità, in solitudine insomma.


Quello che mi stupisce, ascoltando i tuoi ricordi, è la totale differenza tra la tua disponibilità e curiosità per l'esistenza e il tono fondamentale assunto invece dalla vita culturale 'ufficiale' del dopoguerra. Un tono molto più compassato, astratto...

Vedi, la possibilità di essere originale, di avere un'esperienza diversa da quelle comuni, a mio parere risiede nel dilettantismo. Io, ad esempio, non so nulla, ancora oggi, di molte cose che sanno gli altri, gli intellettuali di professione. Ignoro le varie epoche della letteratura italiana, così come sono descritte nei manuali universitari, e tante altre cose. Allora io dico che è proprio da queste mancanze, da queste grosse lacune colmate troppo in fretta, che proviene la mia libertà di intellettuale. E certo, da lì proviene anche lo strafalcione, che è il rischio perenne del dilettante. Comunque, aveva ragione Longanesi: "Tutto quello che non so", diceva, "l'ho imparato a scuola". Come me.


Sei molto onesto ad ammettere anche questa possibilità dello strafalcione. Nello stesso tempo, e c'è da essere pienamente d'accordo con te, il tuo giudizio sulla cultura 'professionale' (o 'professorale') è tutt'altro che ammirato.

Beh, non sempre, dipende. Non me ne faccio suggestionare, ma spesso quelli bravi li ammiro, e cerco di imparare, perché non sono un tipo presuntuoso, proprio no. Però, tornando sulla cultura italiana, troppe sono state le occasioni perdute, quelle in cui avrebbe dovuto pronunciarsi con più forza di quanto non abbia saputo o voluto fare. Quello che mi aspettavo io, ad esempio, dopo la guerra, era una vera elaborazione del lutto della sconfitta: perché non c'è nulla da fare, la guerra l'avevamo perduta! Accettando quel lutto, e ammettendo la sconfitta, avremmo tutti potuto capire tante cose che ci erano successe. E invece, come in una doccia scozzese, siamo semplicemente passati da una cosa all'altra...


Che cosa significa esattamente, "da una cosa all'altra"?

Significa: dal tono trionfalistico del fascismo al tono trionfalistico del dopoguerra. Senza passare per l'ammissione dei torti, che è la vera e unica garanzia per non ripetere le malefatte. Invece ci siamo raccontati una bugia: "Abbiamo vinto assieme agli Alleati!", collegata a un'altra bugia: "Abbiamo sempre sperato che vincessero loro!". Sì, ma in quanti erano a sperarlo? Non ha forse ragione Flaiano, quando dice che gli italiani corrono sempre in soccorso del vincitore? Sono qui le fondamenta di tanti equivoci, di tante mistificazioni, a partire dal sentimentalismo impegnato del Neorealismo. Il quale non poteva derivare che da questa mancata elaborazione del concetto di sconfitta. C'è in tutto questo una mancanza di serietà su cui si è poco riflettuto. È mancato (non mancò invece in Germania) un confronto brutale con tutto ciò che eravamo stati. E invece eravamo tutti buoni, tutti tesi ad essere come si doveva essere... E perfino i film veramente belli, come quelli di Rossellini, sotto sotto pagano anche loro questa mancanza, tutta italiana, di spietatezza critica. Ma lasciamo perdere il Neorealismo, che perlomeno può vantare dei capolavori. Il guaio vero inizia quando su questa mollezza, su questa mancanza di senso critico dell'esistenza, e dell'esperienza storica appena trascorsa, si innesta il lavoro dei partiti politici. Con le loro ideologie preconfezionate, da scegliere come sul bancone di un supermercato. Cosa prendo, l'ideologia cattolica o quella comunista? O magari quella socialista? Ma i criteri stessi di queste scelte, tra merci tutto sommato molto simili, erano sbagliati! Lo posso ben testimoniare io stesso, che scelsi il comunismo.

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Come se alcune idee non ce la facessero più a starsene lì, nella loro sfera disincarnata, e ti si trasformassero, allora, in personaggi. Come qualche giorno fa, quando sul Corriere della Sera ti sei messo a parlare di un asinello che avevi visto davanti al tempio di Karnak, in Egitto... che volevi dire?

Mi è sembrato di vedere in quel povero asinello bastonato il "male di vivere" della poesia di Montale. Come spesso mi capita nei miei brevi raccontini, o apologhi, mi imbatto in qualcosa che può essere considerato un simbolo: del nostro disagio e del nostro dolore, appunto. Ma nel caso dell'asinello il punto che mi interessa non è trovare un ulteriore pretesto per lamentarsi sulla nostra condizione. Vedi, il vero punto, la vera domanda è un'altra: questa sofferenza, viene o no riconosciuta da qualcuno? Perché se viene, in effetti, riconosciuta, allora può rientrare in un'idea più ampia di giustizia, come quella che propone la fede religiosa. La fede immagina che Qualcuno, proprio nel momento in cui il piatto della bilancia pende a mio sfavore, ne prenda atto, ne tenga conto... Ma se invece non c'è nulla, allora davvero il mondo è assurdo, è proprio difficile trovare ed esporre delle ragioni per le quali vale sicuramente la pena di vivere... nonostante Nietzsche e Camus. Degli amici che hanno letto l'articolo sul Corriere mi hanno un po' criticato per la maniera in cui lo concludo. Ad esempio, Ruggero Guarini mi ha detto: ma che ne sai tu dell'asinello, in realtà? cosa sai di quello che prova veramente quando viene battuto dal padrone? può darsi che tu te lo immagini così, in maniera troppo umana, ma in realtà è tutta un'altra cosa! Già, ma il bastone fa male comunque... Ma questo non ha in fondo rilevanza per il problema che mi sono posto: che è quello della sofferenza, da una parte, e della totale indifferenza del mondo, dall'altra.


Quando leggo i tuoi articoli mi sembra che ti ostini a credere nella possibilità di uno scambio, di un linguaggio comune da usare nel confronto tra individui differenti – o sbaglio?

Sì, esiste una forma di discorso, e soprattutto un modo di interrogare, che può fare da terreno comune al credente e al miscredente. Perché per entrambi, se la sofferenza è solo un caso... insomma entrambi vivono male se non riescono a inserirla in un qualche ordine di senso superiore! Del resto, se l'Olocausto è davvero l'esperienza, la questione centrale della nostra vita e del nostro tempo storico, pensa quanto sono diverse le singole persone, le singole vittime, i singoli asinelli che si sono posti la domanda, sono perlomeno arrivati sulla soglia di questo interrogativo... anche Giobbe se lo pone, ma lui, almeno, può rivolgerlo a Dio, perché Dio per lui è presente. Ma pensa a una sofferenza come quella dell'asinello che non può rivolgersi a nessuno!


Diciamo che è del tuo carattere provare simpatia e sentirla come una forma di conoscenza. Hai provato simpatia anche per un asinello bastonato, e ci hai ragionato sopra. Col passare del tempo, hai elaborato una specie di metodo di conoscenza aperto all'imprevisto, problematico. Nel tuo ultimo libro, proprio all'inizio, parli appunto di simpatia...

Per me il significato, la particolare accezione che può possedere questo termine è fondamentale. Noi, per abitudine, connettiamo la "simpatia" esclusivamente a un'idea, certo nobile, del bene, della possibilità di fare del bene agli altri... ma non si tratta solo di questo: la posta in gioco, infatti, è anche quella della propria salvezza, della possibilità di salvarsi. Capisci allora quanto può essere importante, attraverso il mezzo della simpatia, il gesto di proiettarsi verso l'altro, che essenzialmente significa: capire, quanto pesa il mondo sulle spalle dell'altro. Più capisco l'entità di questo peso, più mi salvo, allora, come stavo dicendo, perché lì vedo me, vedo il mio destino... Quando manca la capacità di fare questo salto, questa proiezione conoscitiva, allora possiamo dire che il mondo umano equivale alla follia. Tutto il conflitto arabo-israeliano, per esempio, potrebbe essere letto alla luce di questa deficienza conoscitiva, di questo mancato riconoscimento dell'alterità come criterio-guida del sapere qualcosa di se stessi. È un fatto che riguarda in pari misura l'individuo e le collettività, grandi o piccole che siano. Nel clima culturale di oggi, insomma, che è quello delle cosiddette "civiltà" che starebbero "in conflitto" tra loro, questa mancanza risulta con tragica evidenza... Anche a questo proposito, più che l'ambizione di mettere in campo idee brillanti e originali, a me preoccupa il richiamo alla logica elementare del mio amico Parise – il nostro mondo ne è atrocemente privo, le preferisce la logica bizantina della politica, degli interessi commerciali, degli interessi delle nazioni... E invece, proprio la logica elementare produce le più grandi rivoluzioni – io credo che nel vero rivoluzionario ci sia, ci debba sempre essere un ricorso sovversivo alla semplicità, alla sfida di pronunciare parolette da niente, come quando fu detto "ama il prossimo tuo come te stesso" o "gli ultimi saranno i primi", e quella forza semplice e diretta fa cadere imperi, imperatori e centurioni... Questa forza, indubbiamente, appartiene alle grandi religioni storiche: al cristianesimo e all'ebraismo, all'islam e al buddismo... ovviamente fino a quando anche le religioni diventano violente...

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È vero che certe cose le hai sempre pensate, ma diresti che l'età, o gli acciacchi della salute, ti hanno portato qualcosa di nuovo?

Guarda, fondamentalmente è come se a un certo punto uno si voltasse dall'altra parte. Rispetto al mondo che si vede in tv, alla politica, ai dibattiti, ai talebani e ai kamikaze, al nuovo presidente americano. Tu giri la testa... e ti trovi di fronte a un muro, sapendo di doverlo attraversare – questa è l'immagine che mi viene in mente. E al di là di questo muro, ci sono le persone libere, libere perché morte, e non più prigioniere del tempo, dello spazio, delle preoccupazioni. Tu mi potresti ribattere: ma che ne sai? Ecco, è solo un'immagine. Ma in fondo, anche tutta la teologia è fatta di immagini. Nessuno ha mai dimostrato una relazione certa tra ciò che si crede e ciò che esiste. Tu per esempio credi nella resurrezione, negli altri messaggi del Vangelo?


No, personalmente non credo in nulla – semmai, come te, sono affascinato dalle rivelazioni pur non credendoci. Secondo te chi non crede è privato di un conforto così essenziale?

Ti ho detto che mi sono voltato dall'altra parte. Ma non è che su quel muro posso leggere qualcosa di certo, in realtà non faccio che leggere le cose che la mia stessa immaginazione si inventa. Semplicemente, penso che il mondo si è allontanato da me, o io da lui. Ma non lo vivo come un fatto positivo, c'è sicuramente dell'egoismo in questo. Ma come si fa? Volente o nolente, ti trovi ingarbugliato nel destino personale. E non puoi fare a meno di constatare che, anche con le migliori intenzioni, c'è sempre una specie di partita doppia, la parte migliore di sé e il lavoro del suo contrario, del male. E non basta nemmeno giustificare tutto con l'amore, proiettarsi in questo sentimento in modo univoco per assolvere tutta l'esistenza. Nascosta dietro a questo splendente angelo dell'amore è in agguato anche un'altra entità, più oscura, meno facile anche da definire...


È il diavolo?

Possiamo dire di sì, ma sono solo parole, etichette. Uno lo chiama il diavolo, un altro preferisce parlare di depressione... che cambia? L'importante, semmai, è non fare mai finta che non esista. O, ancora peggio, ammetterne l'esistenza, ma fuori da sé, mentre è lì che vive, dentro di noi. Da questo punto di vista il diavolo è una figura ancora molto efficace per definire cosa accade nel nostro spazio interiore, perché cosa fa il diavolo? induce in tentazione, ci trascina nell'errore anche contro il nostro volere.


Continuiamo a usare queste figure un po' infantili, da catechismo. Se hai percepito il diavolo, magari hai sentito anche la presenza dell'angelo custode...

Ma mentre il diavolo è qualcosa di dotato di una sua personalità, l'angelo custode l'ho percepito come una disposizione, un assenso alla vita. Sai cosa è stato per me quest'angelo custode? Svegliarsi la mattina contento di esistere, di essere ancora lì. Una felicità che nasce dalle abitudini che ci sono più care, più che dall'avventura. E certo, quando una specie di istinto alla felicità ti sostiene così a lungo, finisci per pensare che sia in qualche modo abusivo. Insomma, è come se avessi preso un bellissimo treno senza pagare il biglietto! E questa non è solo una confidenza privata, perché anche molti miei personaggi letterari sono concepiti un po' come viaggiatori abusivi, beneficiari insomma di una felicità che non si sono meritati. A un certo punto, mi sono reso conto che il contenuto più profondo, e costante, del mio autobiografismo, un autobiografismo a volte addirittura ossessivo, è il desiderio di giustificarmi in qualche modo; di rendere conto del perché sono fatto in un modo invece che in un altro. Anche quando leggo i grandi classici moderni dell'identità, da Proust a Musil fino a Philip Roth, ci vedo questa urgenza di rappresentare e sottoporre a giudizio i rapporti tra l'io e il mondo. Quanto a me, se ancora scrivo, è perché penso di non essere arrivato, quanto a giustficazioni, alla fine della corsa. Sembra strano, ma quella specie di terzo occhio con il quale si guarda dentro se stessi, dopo gli ottant'anni, è diventato ancora più severo. Soprattutto quando vede che i desideri non corrispondono più alla situazione, alle condizioni del corpo e dello spirito.

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Domenico Starnone
Ferito a Napoli



Ho letto Ferito a morte proprio l'anno in cui fu pubblicato, nel 1961. Era raro, all'epoca, che potessi leggere libri appena usciti, non avevo soldi per comprarli. Ma proprio in quel periodo mi capitò un colpo di fortuna. Il padre di un mio amico, di mestiere poliziotto e per vocazione poeta, conosceva un libraio che gli dava in prestito libri freschi di stampa a patto che li restituisse nel giro di pochi giorni senza ditate, briciole di pane, angoli ripiegati. I libri li leggeva prima lui, poi suo figlio e infine, per generosità di entrambi, io. Avevo poco tempo per portare a termine la lettura, in genere un paio di giorni. Leggevo aprendo appena le pagine, mi pulivo spesso le dita sui calzoni e stavo attento a non far cadere sulle righe nient'altro che lo sguardo. Date le condizioni di lettura, a volte i libri non riuscivo nemmeno a finirli. Ferito a morte lo lessi tutto e mi cambiò ogni cosa intorno, cambiai io.

[...]

In seguito ho affrontato Ferito a morte con maggiore consapevolezza. Ho imparato che La Capria sapeva di Joyce, di Virginia Woolf, di Faulkner, di Eliot, di Robbe Grillet. Ho capito che il libro era stato possibile anche grazie a molti altri libri. Piano piano li ho letti, quei libri, ho imparato anche il vocabolario utile per parlarne: prolessi, analessi, ellissi, indiretto libero, flusso di coscienza, monologo interiore, polifonia, tempoolineare, tempo della memoria ecc. Di tanto in tanto, irrobustito da un mio maggiore allenamento di lettore, sono tornato a Ferito a morte, ma solo per accorgermi che, se i libri si fanno partendo dalla propria esperienza del mondo e dai libri che ci aiutano a raccontarla, il mistero di un testo riuscito non si svela né con l'esame della materia grezza con cui il testo è stato fabbricato né con l'individuazione puntuale degli echi libreschi, dei riusi espliciti, delle criptocitazioni. Ferito a morte è rimasto per me, negli anni, il frutto di una magia della quale il mago stesso, anche volendo, non saprebbe rivelare la parola magica.

Una volta ho cominciato a riordinare gli eventi narrati in uno schemino di questo tipo: "Capitolo I: Massimo De Luca, giovane napoletano, si sveglia nella meravigliosa casa dei suoi genitori che dà direttamente sul mare e su una giornata luminosissima. Ha appena fatto un sogno di caccia subacquea nel corso del quale ha mancato una grande spigola dalla testa corrucciata di maschera cinese. La spigola è il segnale onirico di un'altra occasione mancata: l'incontro d'amore con Carla Boursier, sessualmente fallito per disobbedienza del corpo. Intanto è già sveglio suo padre, il signor De Luca, e il gatto Mississippì. Il suo fratello minore, Ninì, sta questionando con la serva di casa Assuntina. Si sveglia anche la signora De Luca, da cui apprendiamo che Massimo partirà in serata per trasferirsi a Roma. Il giovane ripensa nel dormiveglia a Carla in una notte di Capodanno a Positano, nel 1949, e gli anni scivolano via in poche righe fino a una scena notturna di desiderio sulla spiaggia, e poi tornano indietro, all'accenno a un bombardamento, al tentativo di datare la nascita dell'amore, e infine irrompono gli amici e lei mette la maschera cinese del cotillon – la spigola sognata della prima pagina aveva appunto una testa di maschera cinese – per giocare con loro e spaventarli. La signora De Luca apre un finestrone e fa entrare aria e luce abbagliante nella stanza, Ninì chiama suo fratello per andare insieme in barca. Massimo non vuole andare, pensa alla partenza ma anche a ciò che fino a quel momento lo ha spinto a restare".

Basta. Il capitolo è finito ma manca gran parte di quello che ne fa una lettura seducente. Allora bisogna tornare indietro per vedere tutto ciò che è rimasto fuori. Il signor De Luca, che si lagna dei figli nullafacenti, ricorda di quando all'età di Ninì lavorava già nel mulino del nonno e faceva affari e al Circolo si giocava soldi suoi e non di altri. Menziona una signora Cotogna e un signor Fricelli con cui ora gioca a ramino, accenna a quel mascalzone di Pippotto Alvini che in due giorni s'è giocato i soldi altrui. Massimo butta lì una sua storia con una Flora, un Gaetano teorico della progressiva avanzata della Foresta Vergine, un Guidino Cacciapuoti con cui forse è stata Carla. Il signor De Luca apprezza l'odore della bella giornata, si parla di un Carmine che non è ancora tornato, appare un Totonno in barca remando. Per bocca della signora De Luca sappiamo di un Gennarino che si mangia i soldi di Assuntina, di Ninì che per la smania del gioco rischia di fare la fine di Pippotto Alvini (quale fine?), del signor De Luca che andava a giocare al Circolo anche sotto le bombe, della decadenza ormai del Circolo stesso, di quel Gaetano della Foresta Vergine colpevole di aver messo certe idee in testa a Massimo, idee che ora lo spingono ad andare via. E qui il capitolo sembra davvero finito.

Ma non è vero, ci siamo persi mille altre cose: il ruolo del mare, della luce, del tempo che passa irrimediabilmente, ecc. Tutto il libro è così, non solo le prime pagine. Il suo fascino durevole sta in questo: una sorta di non determinazione degli spazi, dei tempi, dei tratti fisici dei personaggi, dei loro sentimenti bassi, vischiosi o pensosi o rassegnati. Procedendo nella lettura, sapremo sempre meglio chi è e cosa è successo a Pippotto Alvini, chi è Gaetano e quali idee ha messo nella testa di Massimo, com'è andata con Carla e con Guidino Cacciapuoti, cos'è e cosa diventa il giovane Ninì, come si mette con Flora e con tanti altri 'soli nomi' che diventano quasi inavvertitamente corpo, persona. Ma ciò accadrà sempre e soltanto in una sorta di determinatezza indeterminata, un ossimoro che sollecita ombre mobili dietro un vetro smerigliato.

Il risultato non è diverso se si mette ordine nel tempo: tutto comincia nel 1954; si raccontano poche ore di una bellissima giornata fino al VII capitolo ma non si trascura un bombardamento del 1943, una notte di Capodanno del 1949, l'anno 1951; poi dall'VIII al X si riattacca dal 1960 ma continuando tuttavia a spostarsi in tempi e spazi diversi e lasciando che un segmento scivoli nell'altro, una diapositiva faccia posto alla seguente quando la prima ancora dura sulla retina. È inutile mettere in sequenza anni e fatti, si guadagna poco o niente. È inutile anche ragionare sulle sortite filosofico-etico-sociologiche: la vita come irrimediabile occasione mancata; la città stretta tra Storia e Foresta Vergine; l'esposizione alla Scena, alla Recita; l'indifferenza della Bella Giornata e così via. Sono cose importanti, danno al testo un respiro grande, concorrono a farne un libro bene inserito nella tradizione più viva italiana ed europea, permettono di sentirlo di volta in volta, a seconda del clima culturale, come un libro progressivo di fine anni Cinquanta o un libro scarsamente fiducioso nel motore della Storia o un libro lucidamente materialistico-leopardiano o un libro sull'irrimediabile fallimento storico della borghesia meridionale o un libro pre-postmoderno sulla fine della Storia o un libro che mette in scena l'unica materia vera di cui siamo fatti noi e il mondo: il Linguaggio. Ma resta sempre fuori lo stupore che si prova per come abilmente il tessuto pensoso del testo sia parte integrante del suo andamento narrativo, ne segua il flusso, vada in alto fino ad abbaglianti immagini liriche e poco dopo si svuoti nella chiacchiera sfottente. Non si tratta insomma di elementi risolutivi, si dimostra solo che anche la rete concettuale del libro ora si secca al sole, ora oscilla sul fondo marino. La Natura, la Storia, la Iubris, La Foresta Vergine, il bradisismo, Lauro, la minacciata Terza guerra mondiale fanno parte integrante, con naturalezza, di una narrazione che si sottrae ai suoi antecedenti letterari e vive in assoluta autonomia, nutrendosi di napoletanità ma cancellandone il provincialismo, mettendo in scena la sempre più terribile decadenza della città ma senza il miserabilismo neo-realistico o realistico o altro formulario affine, non incatenandosi a un registro espressivo, ma variando continuamente tonalità. Un libro insomma che tuttora è una sorgente che non si può imbrigliare. A me sembra il tentativo riuscito di raccontare la vita che succede prima ancora che diventi racconto, e la malinconia di raccontarla quando ormai lo è diventata.

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