Autore Andrew Lang
Titolo Uomini e libri
EdizioneElliot, Roma, 2020, Antidoti , pag. 190, ill., cop.fle., dim. 14x21x1,5 cm , Isbn 978-88-6993-946-4
OriginaleBooks and Bookmen
EdizioneCoombes, New York, 1886
CuratoreMassimo Ferraris
TraduttoreMassimo Ferraris
LettoreRenato di Stefano, 2021
Classe libri , collezionismo












 

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Indice


Prefazione                               7
Nota alla traduzione                    11


UOMINI E LIBRI

Alla viscontessa Wolseley               15

Nota introduttiva                       17

Elzeviri                                21

Curiosità dei registri parrocchiali     33

I bibliofili a Roma                     47

I libri Rowfant                         55

A F.L.                                  57

Alcuni libri giapponesi di spettri      59

Fantasmi nella biblioteca               73

Falsi letterari                         77

Bibliomania in Francia                  95

Rilegature                             111

Antichi frontespizi francesi           121

Il purgatorio di un bibliomane         131

Ballata dell'irraggiungibile           141

Le signore che amano i libri           143


Note                                   155




 

 

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Pagina 17

Nota introduttiva



Mi è stato chiesto di scrivere qualche parola di introduzione a questa piccola raccolta di pezzi, il canto del cigno di un cacciatore di libri. L'autore non va più a caccia di libri: lascia questo sport ad altri, e con i cataloghi si accende una sigaretta. La selvaggina è diventata troppo scarsa; le riserve di caccia sono per i ricchi; le bancarelle di libri economici hanno poco di più di La morte di Abele o I sermoni del reverendo Josiah Gowles, o Carlo XII di Monsieur Voltaire. Ho smesso di sperare nella fortuna; lascio che uomini più giovani o più ottimisti inseguano il trattato tanto ricercato e il raro in-quarto. Posso passare davanti alla più modesta bancarella senza girare una pagina; sono troppo saggio per essere attratto da Elzeviri economici, quelle trappole per inesperti. Come il vecchio giocatore di cricket appende la sua mazza al chiodo e poi guarda «il gioco che non ha più la forza di giocare»; come il vecchio pescatore che per paura dei reumatismi si tiene lontano dal mare, così io ho imparato a evitare le aste, e Sotheby's non mi vede più. Adieu, paniers, la vendemmia è finita; non andiamo più in cerca di avventure per vicoli, cortili e stradine. Altri possono vagare, e indugiare, bighellonare, sperare e comprare. Da parte mia, la prima edizione del salterio di Tate e Brady è il mio unico acquisto quest'anno. Esso canta di semplici pietà ed è curiosamente rilegato in marocchino nero, con teste di angeli, raggi di sole e altri emblemi appropriati. I miei libri sono tutti trattati tedeschi di mitologia, solidamente rilegati in cuoio grezzo. Da quelli imparo a conoscere (come Cornelio Agrippa) «la vanità della scienza»; in quelli studio i capricci dei dotti, le follie dei saggi. Niente più marocchino per me, né fregi, né prime edizioni; sono tutte vanità e (di regola) cattive occasioni. Non abbiate fretta di comprare, giovani uomini e fanciulle, o i vostri scaffali, come i miei, saranno sovraffollati con il malinconico raccolto dell'inesperienza e del tenero desiderio.

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Pagina 47

I bibliofili a Roma



Quasi ogni città, è stato detto, possiede un proprio colore caratteristico, e si può aggiungere che ogni centro storico dell'umanità ha un suo sentimento, un suo peculiare modo di influenzarci nel complesso. Così ci sono città vive e città morte, e città che si possono chiamare mezze vive, se la loro quiete presente viene paragonata all'eccitazione della loro passata esistenza. L'interesse di queste è naturalmente un po' malinconico, ma varia secondo i luoghi, e si ricavano impressioni molto diverse da Venezia e da Atene.

Ma la città che ha il fascino più singolare e più ampiamente sentito è senza dubbio Roma. Lo spettacolo della città che una volta era, in un certo senso, misura del mondo fa appello all'immaginazione come lo spettacolo del mondo stesso, e a Roma leggiamo la lezione della vita scritta ín piccolo e da vicino. Non era senza significato se gli antichi scultori rappresentavano Roma con la coroncina di torri indossata anche da Cibele, la madre degli dei, tanto che non è sempre facile distinguere le loro statue.

Roma era infatti, come Spenser traduce du Bellay:


    Come la Dea Berecinzia luminosa,
    sul suo carro veloce, di alte torrette coronata,
    fiera di aver dato alla luce così tanti dei;
    tale era questa città nei suoi giorni gloriosi.



Lei proteggeva gli dei di tutte le nazioni, se non li generava, e il timore reverenziale causato dalla prospettiva del suo illimitato periodo di potere ispirò l' Eneide, e le procurò il culto di molte città dell'Asia e il nome di "Olimpo terreno" per il suo seggio sui sette colli.

Senza dubbio la prima e più eclatante impressione che si riceve da Roma è quella della scomparsa grandezza del suo passato e delle grandi costruzioni le cui rovine ingombrano il suo suolo. Così Roma si è dimostrata una prova per i pellegrini dotati di sentimenti in qualsiasi periodo dei tempi moderni l'abbiano visitata. Hanno detto, con il dotto Poggio, così come citato o parafrasato da Gibbon, che «il tempio è rovesciato, l'oro è stata saccheggiato, la ruota della fortuna ha compiuto il suo giro». Hanno sentito, come Clough, «che tutte le cose incongrue di epoche passate incompatibili sembrano essere custodite qui come un tesoro per rendere ridicoli presente e futuro». Ma questi sono gli errori dei sentimentalisti; il vero fascino di Roma sta nel fatto che, tra la polvere delle sue rovine, è ancora, ed è sempre stata, la fonte inesauribile di nuove forze. Dalle sue profonde fondamenta - «profondes jusques aux antipodes» dice Montaigne, anche se il signor Parker non ha spinto i suoi scavi così lontano - sino alle sale da guardia dell'esercito italiano, Roma è sempre stata signora piuttosto che schiava dei cambiamenti. Non possiamo mai dire con certezza che la ruota della fortuna ha compiuto la sua rivoluzione nella città che Mazzini chiamava «la guida delle nazioni e dell'umanità».

Così visitare Roma è una sorta di prova dello spirito e del coraggio degli uomini. Se sono semplici sentimentalisti saranno colpiti, come di fronte a mari o montagne, da un senso di impotenza e di fragilità umana. Se sono di animo più forte, si sentiranno incoraggiati dal pensiero della perseveranza dell'uomo nel persistente conflitto con il destino. E anche se saranno rattristati, nel complesso, dall'influenza di Roma, riconosceranno in lei una curiosa e inspiegabile sorta di attrazione.

[...]

Questo senso di forza e di conforto in presenza dei resti di forza e coraggio passati fu sentito da Goethe non meno che da Montaigne.

È stata una fortuna, forse, che Goethe non abbia visitato Roma troppo presto nella sua vita. Aveva scritto I dolori del giovane Werther e si era sbarazzato della parte più pericolosa dei sentimenti, prima di essere esposto alla prova di vedere «il monumento e il sepolcro del mondo».

Più di qualsiasi altro dei pellegrini che hanno lasciato una traccia delle loro emozioni, Goethe sembra aver provato a Roma il senso della ricchezza e della felicità dell'esistenza.

«Qui» scrisse «sono a mio agio, e lo sarò, sembra, per tutti i miei giorni». Di nuovo: «Non ho quasi nessun pensiero nuovo, non ho trovato nulla che non mi sia famigliare, ma le mie vecchie idee sono diventate così definite, così vivide, che potrebbero passare per nuove». A Roma egli entrò nella pienezza dei travagli del passato e nella pienezza della propria vita. È caratteristico di lui che, fra tutti i templi caduti, ne abbia trovato uno non ancora crollato:


    Ein einziger Tempel,
    Amor's Tempel.



Nella sua vecchiaia il ricordo non era rimpianto. «Solo a Roma» disse a Eckermann «ho sentito quello che significa davvero essere un uomo... Rispetto alla mia situazione a Roma, da allora non ho mai provato una vera gioia».

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Pagina 59

Alcuni libri giapponesi di spettri



C'è (o c'era in passato) una poesia per bambini di carattere piuttosto farisaico che era popolare nella scuola materna quando ero un bimbetto. Era qualcosa di simile a questo:


    Ringrazio la mia buona stella che sono nato
    piccolo bambino inglese.



Forse non erano proprio quelle le parole, ma quello era decisamente il sentimento. Guardate i neonati giapponesi, dalla matita del famoso Hokusai. Anche se non sono inglesi, ci sono mai state creaturine più allegre e più felici? Leech, o Mr du Maurier, o Andrea della Robbia hanno mai presentato una visione più deliziosa dell'infanzia innocente e compiaciuta? Bene, quei bambini giapponesi, se sono minimamente inclini ad essere timidi o nervosi, devono passare momenti terribili di notte, al buio, quando si avventurano in quell'inquietante "passaggio a nord-ovest" verso il letto attraverso la casa oscura di cui Stevenson canta i pericoli e le emozioni. Tutti noi che non abbiamo patito sotto genitori cresciuti con le opinioni di Herbert Spencer abbiamo affrontato nell'infanzia un bel po' di fantasmi. Ma non è nulla rispetto a ciò che devono sopportare i bambini giapponesi, poiché i nostri fantasmi stanno agli spettri del Giappone come il chiaro di luna sta alla luce del sole, o come l'acqua sta al whisky. Personalmente posso dire che poche persone sono state afflitte dal terrore che cammina nelle tenebre più di me. Alla tenera età di dieci anni i racconti dell'ingegnoso signor Edgar Poe e di Charlotte Brontë furono "messi nelle mie mani" da un cugino che aveva servito come basci-buzuk e non conosceva il significato della paura. Ma io sì, e forse anche Nelson avrebbe scoperto "cos'era la paura", o il ragazzo nel racconto norreno avrebbe "imparato a rabbrividire", se fosse stato lasciato solo a sfogliare Jane Eyre, e Il gatto nero, e La caduta della casa degli Usher , come me. Ogni notte mi aspettavo di svegliarmi nella mia bara, essendo stato prematuramente sepolto; o di sentire sospiri seguiti da leggeri e incerti passi sulle scale, e poi di vedere una signora avvolta in un sudario bianco macchiato di sangue e argilla barcollare nella mia stanza, vittima di una inumazione troppo rapida. Quanto all'idea che il mio rispettato parente avesse una moglie pazza nascosta nell'edificio, e che una zia lunatica, nera in volto di mania repressa, irrompesse nella mia camera, era una fantasia relativamente innocua e non particolarmente inquietante. Tra queste e Il nano giallo, che (anche se solo un'invenzione della contessa D'Aulnoy) poteva spaventare un infante nervoso fino a farlo diventare isterico, io personalmente ho avuto brutti momenti nelle mie veglie notturne come quelli a cui ogni felice bambino britannico è sopravvissuto.

Ma i nostri orchi non sono nulla rispetto agli spettri che rendono terribile non solo la notte ma anche il giorno ai diligenti bambini del Giappone e della Cina.

I fantasmi cinesi sono probabilmente molto simili ai fantasmi giapponesi. I giapponesi hanno preso in prestito dai cinesi la maggior parte delle cose, comprese apparizioni, fantastici folletti e macabri demoni, e le hanno poi migliorate rispetto ai modelli originali. Ora abbiamo un resoconto molto completo e orripilante degli harnts cinesi (come li chiamano i contadini del Tennessee) grazie a Herbert Giles, che ha tradotto decine di storie di fantasmi cinesi nei suoi Strange Tales from a Chinese Studio (De la Rue, 1880). I volumi di Mr Giles dimostrano che la Cina è il posto adatto per i signori Gurney e Myers, i segretari della Psychical Society.

I fantasmi non vivono una vita appartata in Cina, ma escono con audacia prendendo parte ai piaceri e agli affari della vita. Mi sono sempre chiesto se i fantasmi, in una casa infestata, appaiono quando non ci sono spettatori. Cosa fa uno spettro nella camera tappezzata quando la casa è vuota e non c'è alcun ospite nella stanza dove si seppelliscono gli estranei, la stanza infestata? Il fantasma mette il broncio lamentandosi che "non c'è pubblico" e si rifiuta di provare la sua piccola esibizione, in spirito coscienzioso e disinteressatamente artistico, quando è privato del vero piacere dell'artista, e cioè il risveglio di un'emozione partecipe nell'animo dello spettatore? Riserviamo pochi pensieri e compassione ai fantasmi che nei nostri vecchi castelli e case di campagna spesso non trovano nessuno a cui apparire da un anno all'altro. Solo di tanto in tanto un ospite viene collocato nella "stanza infestata". Mi piace allora immaginarmi la gioia della signora in verde o del ragazzo che emana raggi, o dell'uomo senza testa, o del vecchio gentiluomo in abiti color tabacco, quando lui o lei avverte la presenza di uno spettatore e si prepara a produrre i suoi migliori effetti nello stile consueto.

Ora, in Cina e in Giappone sicuramente un fantasma non aspetta che la gente entri nella stanza infestata: un fantasma, come una persona alla moda, "va ovunque".

[...]

L'aldilà per i cinesi pare essere il paradiso dei funzionari, dei brevetti, dei posti di lavoro, dei bottoni sui cappelli e delle code dei mandarini: in breve, il paradiso della burocrazia. Tutti i lettori civilizzati conoscono il racconto umoristico di Mr Stockton The Transferred Ghost. Secondo Mr Stockton, non sempre si ottiene un proprio fantasma; c'è una vigorosa competizione tra gli spiriti per scegliere il compagno adatto, e una grande quantità di intrighi e di partigianeria. Ci può volere molto tempo prima che uno spettro disincarnato diventi un fantasma, ma anche allora, se ha poca influenza, si deve accontentare di infestare l'ufficio del commercio o l'ufficio postale invece di "camminare" nel Ministero degli esteri. Uno spirito può aggiudicarsi un posto come Dama Bianca nel palazzo imperiale, mentre a un altro viene assegnata una posizione in una vecchia biblioteca universitaria o deve seguire le sorti di qualche squallido medium in pensioni e hotel di terza categoria. Questa è la visione cinese dei destini e delle fortune dei fantasmi. Quisque suos patimur manes.

In Cina, per farla breve e per citare un fantasma (che dovrebbe sapere di cosa stava parlando), «forze soprannaturali si trovano ovunque». Questo è il fatto che rende la vita così sconcertante e terribile per un bambino ingenuo e fiducioso. Questi spettri orientali non compaiono solo al buio, o solo in case infestate, o all'incrocio di strade, o in boschi oscuri. Sono ovunque: ognuno ha il suo fantasma, ogni luogo è infestato dal suo particolare demone, ogni fenomeno naturale ha il suo spirito dedicato; ogni stimolo, come la fame, l'avidità, l'invidia, la malizia, ha una forma visibile incarnata che si aggira intorno in cerca di ciò che può divorare. Dove la nostra scienza, ad esempio, vede (o piuttosto annusa) gas di fogna, i giapponesi scorgono uno spettro viscido, magro, mai sazio, che striscia per divorare la vita degli uomini. Dove noi vediamo una tempesta di neve, la loro fantasia più vivace vede un buffo fantasma della neve, uno strano vecchio sorridente sotto un grande ombrello.

[...]

Il primo ad attirare la nostra attenzione è, a quanto capisco, il fantasma comune, o simulacrum vulgare della scienza psichica. Su questo aspetto dobbiamo tutti convenire, secondo i migliori esperti giapponesi. Ognuno di noi contiene in sé «una specie di essere spettrale», come lo spettro descritto dal dottor Johnson: qualcosa come l'egiziano Ka, per il quale i curiosi possono consultare le opere di Miss Amelia B. Edwards e altri dotti orientaliste. Il più recente studioso francese di queste materie, l'autore dell' Homme posthume, è dell'opinione che non tutti noi possediamo questo doppio, con il potere di sopravvivere alla nostra morte corporea. Anche lui pensa che il nostro fantasma, quando sopravvive, solo raramente ha l'energia e l'intraprendenza per rendersi visibile o udibile dagli «uomini che hanno l'ombra». In qualche caso estremo il fantasma (secondo la nostra autorità francese, quella di un discepolo di Monsieur Comte) si nutre paurosamente dei corpi dei vivi. In nessun caso si crede che un fantasma possa sopravvivere molto più a lungo di cento anni. Dopo di che si trasforma in uno spettro e si scioglie nei suoi elementi, qualunque essi siano.

[...]

Con queste Instantiae contradictoriae, come le chiama Bacone, presenti alla nostra mente, non dobbiamo (nelle attuali condizioni della ricerca psichica) dogmatizzare troppo frettolosamente circa l'arco di vita assegnato al simulacrum vulgare. Molto probabilmente le sue possibilità di una prolungata esistenza sono in rapporto inverso al quadrato della distanza di tempo che lo separa dai nostri giorni. Nessuno ha mai nemmeno finto di vedere il fantasma di un antico Romano sepolto in queste isole, ancor meno di un Pitto o di uno Scozzese, o di un uomo del Paleolitico, per quanto benvenute sarebbero tali apparizioni per molti di noi. Così l'evidenza fa certamente ipotizzare che ci sia una sorta di prescrizione per i fantasmi, il che, da molti punti di vista, non è un accomodamento di cui dovremmo dolerci.

[...]

Il fantasma successivo, dall'aspetto così floscio e slavato con le mani e le braccia bianche, cadenti e gocciolanti, ci ricorda quella specie orribile di apparizione francese, la lavandière de la nuit, che lava la biancheria dei morti nelle pozze e nei fiumi al chiaro di luna. Se questo simulacrum sia da intendere come lo spirito del pozzo (poiché ogni cosa ha il suo spirito in Giappone) o se si tratta della larva di qualche mortale annegato nel pozzo non posso dirlo con assoluta certezza; ma il parere dell'erudito tende alla prima conclusione. Naturalmente un bambino giapponese mandato al crepuscolo ad attingere l'acqua lo farà con paura e tremando, perché quella molle e floscia apparizione potrebbe spaventare i più audaci.

[...]

Un'altra possibilità, forse ancora più soddisfacente per una mente paurosa o superstiziosa, è leggere in una casa solitaria a mezzanotte una storia chiamata Carmilla , pubblicata in Un oscuro scrutare di Sheridan Le Fanu. Quest'opera vi darà la genuina sensazione del vampirismo, produrrà una sudorazione gelida e ridurrà il paziente a una condizione in cui avrà paura di guardarsi intorno nella stanza. Se, in quello stato d'animo, qualcuno gli racconterà la storia di Augustus Hare di Croglin Grange, la sua formazione nella teoria e nella pratica dei vampiri sarà completa, e diventerà così un ben adatto e qualificato candidato del manicomio di Earlswood. Ci siamo accuratamente astenuti dal riprodurre il vampiro giapponese più terribile colto in flagrante con le mani rosse di sangue, un'orribile, bestiale incarnazione del macabro.

Poco più piacevole è lo spettro o strega che soffia dalla bocca un'esalazione malevola, un'incarnazione di stregoneria maligna e malefica. Il vapore che vola e si arriccia dalla bocca costituisce "un invio", nel gergo dei maghi islandesi, ed è in grado (in Islanda, in ogni caso) di assumere la forma di un qualche abominevole animale soprannaturale, evocato per uccidere un odiato rivale.

Nel caso del nostro ultimo esempio è davvero molto difficile capire qualcosa dello spettro rappresentato. Anfratti e fessure sono il suo dominio; attraverso quelli cala su di voi. È un fantasma allegro, ma non attraente o cordiale.

Dove ci sono tali "visioni" si deve supporre che i bambini, inclini a credere a tutte queste fantasie, abbiano una giovinezza pervasa da vari e intensi tormenti, che si presentano con particolare vigore all'ora di andare a letto. Ma guardiamo di nuovo la nostra prima illustrazione, e speriamo e confidiamo che i ragazzi e le ragazze giapponesi siano felici come appaiono quelle allegre creaturine.

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Pagina 73

Fantasmi nella biblioteca



Supponiamo, quando la casa è muta,
le luci sono spente e la cenere cade...
Supponiamo che gli antichi proprietari vengano
a reclamare il nostro bottino,
ahimè! Dentro la stretta sala
che folla strana si riunirebbe,
quanta gente famosa li inseguirebbe tutti,
gli in-ottavo, in-quarto, in-folio!

Il grande Napoleone posa la mano
su questa N a testa d'aquila,
che indica un pamphlet bandito
da tutti tranne da coloro che amano gli scandali -
un libello di qualche tana senza nome
di Francoforte - Arnaud à la Sphère,
in cui si sono rovesciate, con penna venale,
menzogne sugli amori di Molière.

    [...]

Ah, e con questi, altri cento,
í cui nomi e i cui atti son quasi dimenticati:
valorosi "Smith" e "Thompson" a decine,
scarabocchiati su molti "lotti" malandati.
Questo libro di giochi era la gioia di Pott -
Pott, per il quale ora nessun mortale si addolora.
I nostri nomi, come il suo, non saranno ricordati,
come il suo, svolazzeranno su ali di mosca!

Almeno in piacevole compagnia
noi fantasmi libreschi, forse, possiamo fuggire;
un uomo può voltare pagina e sospirare
vedendo il proprio nome, a pensarci bene.
Bellezza o Poesia, Saggezza o Arguzia,
possano aprire il nostro libro, e fantasticare per un istante
cadendo in un sogno improvviso,
come ora sogniamo, e ci svegliamo, e sorridiamo!

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Pagina 95

Bibliomania in Francia



L'amore per i libri in se stessi, per la loro carta, la stampa, la rilegatura e per le loro connessioni, in quanto distinto dall'amore per la letteratura, è una passione più radicata e diffusa in Francia che in qualunque altra parte d'Europa. In Inghilterra gli editori sono uomini d'affari, in Francia aspirano ad essere artisti. In Inghilterra la gente prende in prestito quello che legge dalle biblioteche e sceglie in base alla loro vistosità esteriore. In Francia la gente i libri li compra, e se li lega a sé con invenzioni pittoresche e aggraziate sulle copertine di pelle. I libri sono amici per tutta la vita in quel Paese; in Inghilterra sono gli ospiti di una o due settimane. I più grandi scrittori francesi sono stati collezionisti di edizioni rare, e hanno dedicato interi trattati all'amore per i libri. La letteratura e la storia di Francia è piena di aneddoti sulla buona e cattiva sorte dei bibliofili, sui loro affari, le loro scoperte, le loro delusioni.

In questo momento abbiamo davanti a noi una piccola biblioteca di libri che parlano di libri: il Bibliophile Français in sette grandi volumi, Les sonnets d'un Bibliophile, La bibliomanie en 1878, La bibliothèque d'un bibliophile (1885) e una dozzina di altre opere di Janin, Nodier, Beraldi, Pieter, Didot, grandi collezionisti che hanno scritto per l'istruzione dei principianti e il piacere di tutti coloro che si dilettano con la carta stampata.

La passione per i libri, come altre forme di desiderio, ha i suoi cambiamenti di moda. Non è sempre facile giustificare i capricci del gusto. La presenza o l'assenza di un centimetro di carta nel margine "intonso" di un libro può rappresentare una differenza di valore che varia da cinque scellini a un centinaio di sterline. Alcuni libri sono ricercati per la loro splendida rilegatura; su altri si scatena altrettanta bramosa competizione perché non sono mai stati rilegati affatto.

I non iniziati spesso commettono errori assurdi su queste distinzioni. Qualche tempo fa il «Daily Telegraph» rimproverò un collezionista perché i suoi libri erano "intonsi", da cui, argomentava il giornalista, era chiaro che non li avesse mai letti. "Intonsi", naturalmente, significa solo che i margini non sono stati ridotti dal rifilatore del legatore. È un motivo sentimentale amare i libri proprio come sono usciti dalle mani degli antichi stampatori, Estienne, Aldo Manuzio o Lodewijk Elzevier.

[...]

Così universale e ardente è stato l'amore per i libri di magnifico aspetto in Francia, che sarebbe possibile scrivere una sorta di storia della bibliomania di quel Paese. Tutti i suoi governanti, Re, cardinali e dame si sono dedicati al collezionismo. Senza andare troppo indietro, al tempo in cui Berta filava e Carlo Magno era un dilettante, possiamo fornire alcuni esempi di una storia aneddotica dell'idolatria francese per i libri, iniziando, com'è cortesia, da una signora. «Può una donna essere un bibliofilo?» è una questione di cui si parlò una volta al pranzo settimanale di Guilbert de Pixérécourt, il famoso amante dei libri e drammaturgo, il «Corneille dei Boulevard». La controversia scivolò in una discussione su «quanti libri un uomo può amare a un tempo»; ma esempi storici dimostrano che le donne francesi (e italiane, testimone la principessa d'Este) possono essere bibliofile di pura razza. Diana di Poitiers è la loro illustre protettrice. L'amante di Enrico II possedeva, nel castello d'Anet, una biblioteca contenente i primi trionfi della tipografia.

[...]

Una signora collezionista di libri dilettante di notevole reputazione, la contessa di Verrua, fu rappresentata nell'asta Beckford da una delle tre copie dell' Histoire de Mélusine, la fata dalla forma doppia antenata della casa di Lusignano. La contessa di Verrua, una delle poche donne che hanno veramente capito il collezionismo librario, nacque il 18 gennaio 1670 e morì il 18 novembre 1736. Era la figlia di Charles de Luynes e della sua seconda moglie, Anne de Rohan. A soli tredici anni sposò il conte di Verrua, che poco saggiamente la presentò, un fleur de quinze ans, come dice Ronsard, alla corte di Vittorio Amedeo di Savoia. Si pensa che la contessa fosse meno crudele del fleur angevine di Ronsard. Per qualche motivo la giovane dama fuggì dalla corte di Torino e tornò a Parigi, dove costruì un magnifico palazzo, ricevendovi la società più illustre. Secondo il suo biografo, la contessa amava la scienza e l'arte jusqu'au délire, e fece collezione dei mobili dell'epoca, senza trascurare le azzurre porcellane del luminoso Oriente. Conservava in librerie di ebano circa diciottomila volumi, rilegati dai più grandi artisti dell'epoca. «Senza cura per il presente, senza paura del futuro, facendo del bene, perseguendo il bello, proteggendo le arti, con il cuore tenero e la mano aperta, la contessa passò la vita, calma, felice, amata e ammirata». Ha lasciato un epitaffio su se stessa, che può essere così volgarmente tradotto:


    Qui giace, nel sonno serena,
    una donna incline all'allegria,
    che, per essere sicura,
    ha scelto il suo paradiso in terra.

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Pagina 121

Antichi frontespizi francesi



Nulla può essere più semplice, di regola, di un moderno frontespizio inglese. La sua unica bellezza (se ne possiede) consiste nella disposizione e nella "volumetria" dei caratteri di varie dimensioni. Siamo tornati quasi alla semplicità primitiva dei più antichi libri stampati, che non avevano alcun frontespizio in senso proprio e davano semplicemente, con estrema brevità, il nome dell'opera, senza il marchio dello stampatore, la data e il luogo. Quei dati erano riservati al colophon, se si riteneva opportuno menzionarli. Così, nell'esemplare in caratteri gotici della Storia di Troia di Guido delle Colonne, scritta intorno al 1283 e stampata a Strasburgo nel 1489, il frontespizio è vuoto a eccezione delle parole «Hystoria Troiana Guidonis», da sole in cima alla pagina. Il colophon contiene tutto il resto delle informazioni, «felicemente completato nella città di Strasburgo, nell'anno di Grazia MCCCCLXXXIX, per la festa di San Urbano». Non vengono nominati né stampatore né editore.

A questa iniziale semplicità ha fatto seguito nei libri francesi, a partire, diciamo, dal 1510, l'inserimento di un marchio di fabbrica dello stampatore, oppure, in libri a caratteri gotici, di una grezza xilografia che illustra la natura del volume. Le xilografie hanno talvolta una sorta di grazia maleducata, con un tocco del gusto classico del primo Rinascimento che sopravvive pur in estrema decadenza.

Un ottimo esempio è il frontespizio di Les demandes d'amours, auec les résponses joyeuses, pubblicato da Jacques Moderne a Lione, nel 1540. C'è una certa ampiezza e gioiosità pagana nella figura di Amore, e l'uomo col cappuccio ricorda i ritratti tradizionali di Dante.

C'è più umorismo, e una buona dose di abilità, nel frontespizio di un libro sui matrimoni tardivi e i loro disagi, Les dictz et complaintes de trop Tard marié (Jacques Moderne, Lione, 1540), dove vediamo l'anziana e tranquilla coppia seduta gravemente sotto il loro albero di fico.

Jacques Moderne era un tipografo incline a quei pittoreschi apparecchi, e li ha usati nella maggior parte dei suoi libri: ad esempio, in How Satana and the God Bacchus accuse the Publicans that spoil the wine ('come Satana e il Dio Bacco accusano i Pubblicani che rovinano il vino'), Bacco e Satana (uno esattamente come l'altro, come Sir Wilfrid Lawson non sarà sorpreso di sentire) stanno incoraggiando locandieri disonesti a cuocere nel proprio brodo su un enorme fuoco.

[...]

Probabilmente non c'è periodo migliore per i frontespizi, sia per l'ingegnosità dei simboli che per l'eleganza nella disposizione dei titoli, degli anni tra il 1530 e il 1560. Già nel 1562, quando fu pubblicata la prima edizione del famoso Quinto libro di Rabelais, gli stampatori sembravano pensare che gli emblemi fossero sprecati per i libri popolari, e il titolo dei capitoli postumi del Maestro è stampato abbastanza semplicemente.

Nel 1532-35 il gusto divenne più avventuroso, testimone il titolo del Gargantua. Questo bellissimo titolo decora la prima edizione conosciuta con una data del Primo libro di Rabelais.

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Pagina 131

Il purgatorio di un bibliomane



Thomas Blinton era un cacciatore di libri. Lo era sempre stato da quando, in tenera età, si era riscattato dai suoi errori sulla strada del collezionista di francobolli e monogrammi. Nella caccia al libro non vedeva alcun difetto; anzi, ne contrapponeva le gioie, in modo piuttosto farisaico, ai piaceri del tiro a segno e della pesca. Si rifiutò sempre di credere che fosse venuto il diavolo in persona per quel famoso amante delle lettere gotiche, G. Steevens. Dibdin stesso, che racconta la storia (con evidente ansia e paura), finge di non dare credito all'orrendo racconto. «Il suo linguaggio» dice Dibdin, narrando la fine del cacciatore di libri, «era, troppo spesso, la lingua dell'imprecazione». Questa è piuttosto buona, come se Dibdin pensasse che un gentiluomo potrebbe imprecare abbastanza spesso, ma non "troppo spesso".

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Pagina 141

Ballata dell'irraggiungibile



I libri che non posso sperare di comprare,
i loro fantasmi mi danzano e mi girano intorno,
passano davanti all'occhio sognatore,
prima che il sonno l'occhio sognante possa sigillare.
Una sorta di reel letterario
essi danzano; come brillano le rilegature!
La prosa non può dire loro quello che sento
i libri che non potranno mai essere miei!

Là saltellano allegramente edizioni rare e timide,
rivestite di marocchino da capo a piedi;
in-quarto shakespeariani; la commedia
quale prima scaturì da Richard Steele;
e il pittoresco De Foe su Mrs Veal;
E, signore della rete e dell'approdo,
il vecchio Izaak con la sua nassa da pesca,
i libri che non potranno mai essere miei!

Incunaboli! Per voi sospiro,
lettere gotiche, alle vostre fonti m'inginocchio,
vecchi racconti del vivaio di Perrault,
per voi me ne andrei senza mangiare!
Per i libri fatti da Aldo
e i rari Galliot du Pré io mi struggo.
Gli orologi della notte rivelano
I libri che non potranno mai essere miei!

Principe, ascolta l'appello di un bardo senza speranza:
inverti le regole del tuo e del mio;
rendi legittimo il furto
dei libri che non potranno mai essere miei!

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Pagina 143

Le signore che amano i libri



[...]

Caterina de Medici ottenne splendidi libri allo stesso modo in cui i pirati stranieri si procurano i romanzi inglesi: li rubò. Il maresciallo Strozzi, morto al servizio dei francesi, lasciò una nobile collezione sulla quale Caterina mise le mani. Brantôme dice che il figlio di Strozzi gli espresse spesso un'opinione sincera su quella transazione. Con la propria raccolta e quella del maresciallo Caterina possedeva circa quattromila volumi. Alla sua morte essi corsero il pericolo di essere sequestrati dai suoi creditori, ma il suo elemosiniere se li portò a casa, e de Thou li fece sistemare nella biblioteca reale. Purtroppo si pensò che fosse più saggio spogliare i libri delle copertine con il compromettente dispositivo di Caterina per evitare che i creditori potessero identificarli e portarseli via. Quindi, libri con il suo stemma e la sua cifra sono estremamente rari. Alla vendita della collezione della duchessa di Berry, un libro delle ore di Caterina è stato venduto per duemilaquattrocento sterline.

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