Copertina
Autore Stefano Lanuzza
Titolo Insulari
SottotitoloRomanzo della letteratura siciliana
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2009, Strade bianche della scrittura , pag. 184, cop.fle., dim. 12x17x1,3 cm , Isbn 978-88-6222-089-7
LettoreFlo Bertelli, 2009
Classe storia letteraria , regioni: Sicilia
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Indice


'A vucca parra e 'a menti studìa                  5
'A vuci passa e 'a scrittura rresta               8
Chi si fa 'nto 'nfernu? Si martiddìa             18
Cantava accussì 'u cirrincinciò                  26
Mégghiu mmìdia ca pietà                          30
Varda 'nterra e cunta 'i stiddí                  36
Cu òpira jùdica                                  40
Nun diri quantu sai, nun fari quantu poi         46
Vossiabbinidìca                                  49
Mégghiu acéddu di voscu c'acéddu di jàggia       58
Nun éssiri bannèra 'i campanàru                  71
Nìuru ccu nìuru nun tingi                        76
Quannu nesci 'u suli nesci ppí tutti             83
Si babbu o babbìi?                               87
Sùrfaru sugnu                                    92
Cca ssutta nun ci chiòvi                         96
Chi nnicch'e nnacchi?                           101
L'abbu 'rriva e 'a stima no                     108
Cu nesci arrinésci                              113
Unni tagghi sangu riesci                        115
Unni cc'è meli cùrrunu 'i muschi                119
Avìri un vrazzu longu e l'àutru curtu           124
Appréssu 'u picca veni l'assài                  130
Cu d'intra avi amàru nun po' sputàri duci       134
Munnu ha statu e munnu è                        137
D'u fruttu si canùsci l'àrvulu                  142
Pirchí? Pirchí dui nun fannu tri                147

Note                                            156


 

 

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A vucca parra e 'a menti studìa



Muovendo da un passato letterario non lontano, all'inizio è molta parte del Novecento: nobilitato, in Europa, principalmente da Proust (il primo volume della Recherche è del 1913), Kafka, Joyce, Musil, Beckett; e da Svevo, Pirandello, Gadda, Montale.

Rispetto a simili referenti d'eccellenza, la letteratura dei siciliani, dalla seconda metà del 1200 rimasta per secoli minoritaria, quasi un remoto controcanto nemmeno rischiarato dalla luce del canone letterario generale, è oggi, malgrado la sua disomogeneità d'universo frammentato e d'impervio bosco culturale, materia suscettibile di comparazioni, aggiornamenti e rinnovate analisi.

Senza suggerire percorsi vincolati a criteri cronologici né adombrare moduli didattici, specializzate storiografie o un'ordinaria manualistica, configurare in modo sintetico e, preliminarmente, a utile scopo conoscitivo i perigliosi percorsi letterari siciliani (quasi una biografia dell'Isola dove non si vuole definire un'identità psicologica, ma segnalare una 'distinzione'), saggiati per sincronici scorci e ibridazioni, in modi plastici, vari e con aperture al contesto europeo come alla contemporaneità extraletteraria, significa raccordarsi col complessivo svolgimento della vicenda italiana. Svolgimento nel quale il luogo insulare — la "profonda sfumatura siciliana che arricchisce la vita del nostro Paese" (E. Montale, Sicilia, "Il Mondo", 7 luglio 1945) – sovverte la propria periferica ubicazione divenendo materia d'una ricerca che attiva inusuali prospettive critiche: giustificando, ben oltre il quadro regionalistico, un policentrismo degli scrittori siciliani attribuibile non solo ai 'giganti' otto-primonovecenteschi Verga e De Roberto o ai novecenteschi maggiormente noti (i Nobel Pirandello e Quasimodo; con Brancati, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, D'Arrigo, Bufalino, Consolo, fino a Camilleri), ma anche a quelli sconosciuti al mercato come all'immaginario collettivo; e che, affrancati dalla difficile condizione dell'outsider, marcano e valorizzano l'irregolarità connotante tanta letteratura. Dove poi la valorizzazione, tarda o postuma, rappresenta una costante per tanti autori italiani 'inappartenenti', minoritari nel proprio tempo ma ben vivi e stabilizzati nelle crestomazie: a cominciare da Tasso e Galilei, da Leopardi, Belli e Carlo Porta, da Verga, Svevo, Tozzi, Campana, Savinio...


Del resto, più delle vicende storico-politiche, delle giurisprudenze e delle stesse istituzioni, è una crisi civile perdurante da secoli ciò che determina sia la mentalità siciliana – "così astratta, peraltro, così poco psicologica" osserva il critico G. Ficara ("Tuttolibri/La Stampa", 24 novembre 2007) –, sia il carattere composito e gli incerti destini del nostro Paese da sempre disunito socialmente e tuttora spaccato in opposte fazioni (Deux Italie titola il quotidiano francese "Le Monde", commentando le elezioni politiche italiane dell'aprile 2006). Un Paese vecchio, in declino economico-culturale (e, certo, morale se una maggioranza dei suoi cittadini, suggestionata dai dominanti poteri economico-mediatici e indifferente verso l'illegalità diffusa, può eleggere quali propri governanti anche pregiudicati e pluricondannati); pervaso, in fasce del settentrione, da spinte localiste o secessioniste: e ripartito in comunità regionali provinciali metropolitane spesso avulse l'una dall'altra. Con scissioni schizoidi (per la coscienza nazionale davvero deprecabili, pensando agli oltre 50.000 soldati siciliani sacrificati nella guerra del 1915-'18) fra il sud e un nord che, in un'Italia fintamente unitaria e per diversi aspetti nemica di se stessa, concentra nei propri territori l'attività economica e il grande capitale: abbandonando il meridione a un'endemica emergenza sfruttata dalle organizzazioni criminali con la complicità di alcune oligarchie politico-affaristiche.

Insomma, ancora più della situazione socioeconomica o d'un processo storico condiviso fra isolani e abitanti della penisola, più dello Stato unitario proclamato nel 1861, compiuto nel 1866 con l'annessione del Veneto (ma il 27 settembre dello stesso anno, al comando del generale Cadorna, migliaia di soldati del nuovo esercito italiano piombano a Palermo soffocando nel sangue una protesta popolare) e nel 1870 con la presa di Roma, è sull'ipotesi d'una integrazione culturale che si ravvisa il reciproco riconoscimento fra le collettività d'ogni parte d'Italia (già D. Gnoli, in un articolo sul "Giornale d'Italia" del 14 novembre 1912, sostiene "la necessità di cominciare dalla nozione e dall'esame delle letterature regionali a voler comporre in unità la storia letteraria della nazione").

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Cantava accussì 'u cirrincinciò



Malgrado la loro indubbia qualità, alcune delle più celebri prose e narrazioni di Brancati (Gli anni perduti, 1938; Don Giovanni in Sicilia, 1941; Il vecchio con gli stivali, 1944; Il bell'Antonio, 1949; Paolo il caldo, 1954: insieme a L'amico del vincitore, 1932; Singolare avventura di viaggio, 1934; In cerca di un sì, 1939) appaiono fissate ai dettagli d'un orizzonte ristretto e segregante. Con personaggi-maschera spesso ascritti a una Catania torbida e sanguigna oppure pigra e languida da parere agonica, infelicemente sessuomani più che libertini, pressapochisti o qualunquisti fino alla brutalità; e pervasi di quel 'gallismo' stolido e torvo, vanesio, narcisistico e burattinesco che riaggiorna, su fondali barocchi con accentuazioni, deformazioni o coloriture comiche non esenti da chiaroscurali malinconie, l'estenuato erotismo dannunziano.

Alquanto utilizzata dalle stilizzazioni d'una cinematografia che, inevitabilmente, finisce per introdurre sequele di caricature erotomani e al postutto autoderisorie, certa narrativa brancatiana, da non sovradeterminare attribuendole qualità palingenetiche piuttosto che smaccatamente satiriche, è una forse moralistica – ma un po' forzata e allucinatoria – messinscena di umori, assilli, feticci, ossessioni autistiche, desideri indeterminati o stagnanti e, in conclusione, furibondamente 'autoffensivi': altro dagli "astratti furori" di Vittorini per "l'umanità offesa".

Autore di testi teatrali (Questo matrimonio si deve fare, 1939; Le trombe di Eustachio, 1942; Nozze difficili, 1943; Raffaele, 1948; Una donna di casa, 1950; Don Giovanni involontario, 1954) e dello 'scandaloso' La governante (1952) – dramma sull'identità sessuale del personaggio di Caterina Leher e, durante gli anni del dopoguerra, un affronto al 'comune senso del pudore' (per questo, subisce il veto alla rappresentazione dell'allora sottosegretario a capo della censura Andreotti) –, liberatosi da vitalismi, malumori e idiosincrasie che ne guastano l'immaginazione, Brancati rivela doti di memorialista e pensatore mai banale; che, nell'intimistico I piaceri (1943), nel volume di articoli degli anni 1930-'54 Il borghese e l'immensità (1973) e nel citato Diario romano offre la misura del suo acume conoscitivo associato all'inattesa sensibilità poetica scoperta nei versi per i propri quarant'anni appena compiuti: "Sotto un rovescio gelido, è finita / Di giovinezza l'ebrietà. Era un sogno / Quel che al mattino chiamavamo vita".

Trascegliendo, vediamo come, nelle pagine diaristiche dell'anno 1947, l'autore stigmatizzi il machiavellismo di Togliatti e, nel 1948, il culto delle masse col cupo "servilismo intellettuale" dei demagoghi; nel 1949 "gli stupidi [che] s'annoiano" e, nel 1950, i letterati da sottobosco; nel 1951 le rivoluzioni che preparano la tirannia, nel 1952 l'indeterminatezza di certi scrittori dalle idee confuse o convinti di farsi accettare "strizzando l'occhio" al lettore e, nel 1953, le opinioni sul "Manzoni scrittore realista". Significativa, nel settembre 1954, pochi giorni prima della morte, è la rivendicazione del suo barocchismo: "Perché il barocchismo è alle radici del vero gusto di tutti i siciliani". Un gusto dell'improntare d'umano, di riscrivere intrecciare ridisegnare reinventare la natura e le cose che, per tanti aspetti, pervade la stessa europeità".

Nella prefazione alla ristampa, nel 1984, del Diario brancatiano, Sciascia tenta paragoni coi diari 'morali' di Alvaro, Cajumi, Longanesi, Pavese, Flaiano o Delfini; spingendosi a collocare l'opera tra i libri "più coraggiosi e necessari che in quest'ultimo secolo siano stati scritti".

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Nun diri quantu sai, nun fari quantu poi



Compiuta l'integrazione (VI sec.) della Sicilia con l'Impero d'Oriente, le prime espressioni letterarie siciliane risalgono al IX sec. seguite allo sbarco a Mazara, nell'827, dei musulmani: che presto muovono alla conquista dell'Isola surrogando con la loro cultura e lingua le parlate greche, bizantine e latine.

È il tempo dei poeti siculo-arabi, una moltitudine su cui risalta Ibn Hamdis, nato verso il 1055 non si sa se a Siracusa o a Noto, e fuggito dalla Sicilia nel 1078 prima dell'invasione dei Normanni che uniscono l'Isola all'Occidente cristiano per contrastare le influenze orientali.

Intanto, nell'esilio di Ibn Hamdis, che, dopo avere vagato in Spagna e Nordafrica, si ritira nell'isola di Maiorca e qui muore nel 1133, può già scorgersi quel sentimento di esclusione tradotto nello stato d'animo di quei siciliani che, divisi fra la coscienza della loro eredità culturale e la ricerca di nuovi spazi, finiscono per sentirsi stranieri ovunque. Privi, a causa della loro ibrida storia, della sicurezza d'una temperata identità, finiscono per assegnarsene una eccessiva o smodata: molteplice, contraddittoria, faticosa, ...pirandelliana. Apparendo ambigui e inafferrabili, causidici e sofistici, orgogliosi e turbati, fintamente umili e mentalmente crudeli; talora sensibili in modo patetico, ridicolo o patologico; estremisti, suscettibili, eccentrici; schivi e teatrali, mistificanti e omertosi; spesso nemici dell'autorità, dello Stato, degli altri e di se stessi. A conferma che, come suppone Pirandello nel Berretto a sonagli (1920), tre corde avrebbero nella testa i siciliani: la seria, la pazza e la civile. Mossi da questa triade in spasmodica tensione, L'uomo, la bestia e la virtù (1922) interpretano la sicula pantomima pupara dell'identità: anche – sembrerebbe a Gesualdo Bufalino – un turbato "eccesso d'identità" (La luce e il lutto, 1988) che – può aggiungersi – sempre s'inverte nel proprio opposto. Alla fine, il vuoto d'identità dei siciliani sanno più eloquentemente esprimerlo le parole d'un vecchio, anonimo canto popolare: Sugnu a li Giarri e non su' giarritanu, / sugnu 'n Catania e non su' catanisi, / sugnu 'm Palermu e 'n su' palermitanu, / mancu sàcciu unn'è lu me'paisi ("Sono a Giarre e non son giarritano, / sono a Catania e non son catanese, / sono a Palermo e non son palermitano, / nemmeno so dov'è il mio paese")...


L'identità? Ma, ove questa non fosse un ideale artificio, come potrebbero i siciliani averne una compiutamente formulabile se la loro giurisdizione invasa e colonizzata per secoli, oggi sconvolta dalla diffusa mafiosità, resta – nota ancora Fernandez – un coacervo "sicano, siculo, greco, cartaginese, romano, bizantino, normanno, svevo, angioino, spagnolo, piemontese"? Con la persistenza d'uno spagnolismo baroccheggiante che continua a permeare l'inconscio, la cultura e la stessa pulsionalità insulare. "Con il loro amore del fasto, della ricchezza e della festa," delucida Sciascia "il loro gusto per la dissipazione e la prodigalità ostentata, la loro tendenza alla grandiosità e alla pompa, gli spagnoli ci misero a nostro agio: eravamo più fastosi ancora di loro. Il termine 'spagnolesco' d'altronde è più adatto ai siciliani che non agli spagnoli" (La Sicilia come metafora, cit.).

Ne consegue che, nella siciliana sigla letteraria, spagnoleschi, cioè barocchi, appaiano il pensiero figurato, le estenuazioni cromatiche e le combinatorie fantasticanti o visionarie, gli attriti, innesti o intarsi lessicali, le mobili allegorie, le fluttuazioni e futilità immaginifiche, le prospettive anamorfiche, le discordanze e gli svariati emblemi. Hanno del barocco l'insistito, germinante, ostentato, mai asciutto e mai freddo sovrappieno verbale dei libri di Ripellino, D'Arrigo, Consolo e Bufalino; l'ellittica cosmologia di Bonaviri; le speculazioni estenuate di Brancati e Tomasi di Lampedusa; le morbidezze e luminescenze di Piccolo; le faville metafonetiche di Pizzuto e i cromatismi di Cattafi... Tali postulati, integrati da sottili sofismi e dialettiche illuministe, non escludono nemmeno lo Sciascia di Il Consiglio d'Egitto (1963), storia d'un falso storico (ambientata nel secondo Settecento all'epoca dell'Italia borbonica) e quasi una dissertazione sull'impostura, la truffa, la menzogna e l'inganno con apparenza di verità.

Espressione d'una crisi che nel Seicento strappa l'uomo dalle vecchie, 'umane-troppo-umane' illusioni, nella moderna e contemporanea Sicilia dove l'alterità prevale sull'identità il barocco appare una mimesi della tortuosa essenza siciliana.

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Vossiabbinidìca



Convogliando instabilmente in sé pluralità di razze, lingue e culture, di morali, religioni e ideologie, la 'sicilitudine' non è sinonimo d'identità unitaria, dunque. Al contrario – termina Fernandez –, i siciliani, "un popolo che dubita tragicamente di se stesso", avendo nell'animo "l'ironica consapevolezza di appartenere ad un amalgama di civiltà eteroclite" si portano addosso "un fatalismo muto, lucido e umoristico" che costituisce il fondo del loro carattere. In definitiva, quello dell'identità come nozione di un'appartenenza rivelatasi discontinua, provvisoria o impossibile resta "il dramma fondamentale della Sicilia".

Identità o maschera, persona o personaggio? È l'interrogativo esistenziale, affidato alle situazioni descritte, di Luigi Pirandello (Agrigento 1867 - Roma 1936): narratore, saggista, drammaturgo riformatore del teatro mondiale e tra i classici d'una modernità con segnacoli pirandelliani in Sartre, Camus, O'Neill, Brecht, Wilder, Eduardo De Filippo; fino a Beckett con le sue figure dalla devastata identità che soliloquiano e, fra essere e 'credere di essere', si 'sentono' e si 'guardano' vivere senza poter decidere cosa fare di sé.

"Quando uno vive," avverte Pirandello in un articolo sul "Corriere della Sera" (28 febbraio 1920) "vive e non si vede. Orbene, fate che si veda nell'atto di vivere, in preda alle sue passioni, ponendogli uno specchio davanti: o resta attonito e sbalordito dal suo stesso aspetto, o torce gli occhi per non vedersi, o, sdegnato, tira uno sputo alla sua immagine [...]; e se piangeva, non può più piangere; e se rideva, non può più ridere. Insomma, nasce un guaio per forza. Questo guaio è il mio teatro". Uguale guaio è il personaggio pirandelliano, fragile, languente, insicuro, in balìa d'ogni condizionamento e, fallito nei suoi tentativi di costituirsi come soggetto, protagonista soltanto della propria dissoluzione.

Nell'incerto teatro della vita, nel conflitto d'identità, nella guerra fra Io e super Io, vivi e fingi di vivere; o, se fingi di morire, vai col fantasma di Mattia Pascal a visitare la tua stessa tomba. E, nel "gioco delle parti", menti: perfino a te stesso. Perché la verità è qualsivoglia e il reale non è razionale. In definitiva, Così è (se vi pare) (1918) – chiosa Pirandello echeggiando quello Shakespeare (As You Like It, "Come vi piace") dall'oscura biografia e che, secondo quanto riportato dal quotidiano londinese "The Times" (8 aprile 2000), c'è chi suppone sia nato in Sicilia.


"In me son quasi due persone: tu ne conosci una; l'altra, neppure la conosco bene io stesso" scrive nel 1893 il giovane Luigi alla futura moglie Maria Antonietta Portulano, preannunciando l' "io non saprei proprio dire ch'io mi sia" di Il fu Mattia Pascal (1904)... Vorresti una soggettività, una più precisa percezione del tuo essere, della tua intima differenza; ma più spesso, prigioniero di farraginose dialettiche identitarie, non sai più chi sei ("Ed io che sono?" echeggia pure il Leopardi del Canto notturno). Dubiti di te e di tutto. Non ti confronti e ti trovi ad agire in totale solitudine. Hai una faccia tua o, di volta in volta, una e più maschere? E queste sono altro da quella? Tu sei tu, un'entità singola o, come ti vedono gli altri, sei tante cose? Sei chi vorresti essere o chi si vuole tu sia? Sei tu, sei un altro, sei vero e sei falso, sei questo e quello. Sei tu l'Altro?... Sei, alla fine, una consapevole/inconsapevole menzogna, un lacunoso "pupo" mosso dai fili del sentimento e trattenuto dai tiranti rigidi della ragione; infiammato o illuso dall'entusiasmo e sedato dalla prudenza, dal timore, dalla viltà, dalla non ragione. Sei chi talora t'abita e in te s'alterna, comparendo e sparendo; chi, sovente, contrasta la tua persona e la dissolve. Sei, perciò, "uno nessuno e centomila" irrisolto e vacillante, che in permanenza si chiede 'Chi sono?'; qualcuno assolutamente mobile o relativo e incomunicabile, con qualcosa di pesantemente comico non salvato dal pensiero umoristico: dall'estetica umoristica cui Pirandello informa la propria arte – aliena dalla retorica e dal sentimentalismo – di variazioni sul medesimo tema.

È, quella di Pirandello, un'estetica anticrociana – di 'cose' e non di 'parole' – che non separa il fatto espressivo dall'analisi, il naturalismo dal pensiero critico, l'impressione dalla riflessione, il particolare dal generale, l'apparenza dalla verità. E se Croce finisce per accusare lo scrittore di "puerilismo filosofico" è perché non vede che le filosofiche semplificazioni pirandelliane, sfocianti in un antidealistico esistenzialismo dove la filosofia s'annulla nella totalità conoscitiva, nascono sulla scorta del superamento della metafisica avviato da Nietzsche, caposaldo della formazione del Pirandello giovane studente in Germania.

Rileva l'autore nel rinomato saggio L'umorismo (1908), basilare nell'estetica e nella poetica pirandelliane: "Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti [...,] tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così [...] arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza fra il comico e l'umoristico".

Il notissimo esempio dell'anziana dama che s'imbelletta e tinge serve a Pirandello per delineare un rapporto dialogico tra il dato comico e quello umoristico, tra il 'distacco' spensierato della risata e il sorriso 'trattenuto' che sulla risata innesta tutta una serie di riflessioni talora coinvolgenti, col comico, anche il dramma, la tragedia e una sorta di filosofica parodia.

L'umorismo è, insomma, il lato sottile della pesante corporalità comica; è lo spettro trasgressivo proiettato dall'immaginazione creatrice che pone in attrito maschera e volto, microcosmo e macrocosmo. Esso non idealizza ma decostruisce, non cristallizza persone e cose ma ne scompone gli apparenti equilibri mostrandone le ombre. Così – scrive Pirandello –, se "l'artista ordinario bada al corpo solamente [...,] l'umorista bada al corpo e all'ombra, e talvolta più all'ombra che al corpo".

Poiché la vita sociale è prevalente finzione ("Niente" dice Gorgia, tra i maestri di Pirandello "esiste realmente"; e "anche se qualcosa realmente esistesse, non si potrebbe conoscerla"; e, ove la si conoscesse, "tale conoscenza sarebbe incomunicabile"), ognuno, per essere accettato e, ancor più, per accettarsi, s'adatta a camuffamenti che soltanto l'umorismo permette di svelare facendo comico il dramma e grottesca la tragedia; e denunciando la sorte menzognera di chi, per stare nel sistema, si costringe a fuggire da sé piegandosi a un'esistenza senza senso: coatta e deforme, dilacerata in più ruoli o convenzioni.

La chiave umoristica, soprattutto questa, potrebbe svelare i compromessi del vivere denunciando i dissidi, il disagio o il malessere d'un soggetto rimasto prigioniero dello sguardo altrui e delle maschere sociali.

Però, per sé, Pirandello non vuole maschere, ancora meno quelle pretese dal regime nel quale si trova a vivere; quando, per non essere sepolto 'in camicia nera', dispone che da morto lo s'avvolga nudo in un lenzuolo, lo si porti al crematorio "col carro dei poveri" e le sue ceneri siano disperse nel vento (curiosa la nota sulle ceneri di Pirandello riportata da C. Alvaro nel suo diario del 1936 incluso in Quasi una vita, 1950: "Annunziandomi che il 13 dicembre Luigi Pirandello è stato cremato, il figlio mi ha detto: Avessi visto; un pugno di cenere. Come se fossero passati mille anni'. Gli ho chiesto: 'E il cuore, la piccola pallottola del cuore che non si consuma alla fiamma, lo hai veduto?'. Risponde: 'No, niente. Cenere'")...

Affermatosi durante il fascismo (dapprima Pirandello – come lui stesso riferisce in "Quadrivio", 3 novembre 1935 – crede che il duce sia "un poeta che sa bene il fatto suo"), ma poi, sdegnoso delle pompose scenografie del regime e mai asservito (si pensi alle sue polemiche contro le censure fattegli dai direttori e caporedattori del "Corriere della Sera", cui collabora dal 1909 al 1936), il Nobel diviene un pungente critico delle ipocrisie perbeniste e un interprete della crisi dei valori illuministici sostituiti dalla retorica fumosa del tiranno che spersonalizza e schiavizza la collettività.

Del resto, lo stesso "Mussolini non poteva sopportare Pirandello" riferisce Alvaro nell' Ultimo diario (1959): "Gli era avverso perché aspirava lui stesso al premio Nobel, e al premio Nobel per la pace"(!). Un presupposto che spiega perché il fascismo non celebri in nessun modo il prestigioso riconoscimento ricevuto dal genio agrigentino, festeggiato solo da pochi amici in un'anonima trattoria romana. Un destino, questo, che perfettamente s'attaglia al Pirandello ricordato da G. Macchia in un articolo sul "Corriere della Sera" del 10 dicembre 1986: "Egli, fin dalla giovinezza, appartenne alla schiera sparuta, destinata a giacere nell'ombra, di coloro che in vita non cercarono altra fortuna se non quella che può regalare l'umile penna. Non ha preteso cariche, né successi mondani presso aristocratiche dame. Non ha frequentato i potenti, e, fuori del proprio mestiere, nessun tentativo d'imprese eroiche o scandalose. Assenza assoluta di strategia letteraria, ma un disarmato amore della solitudine".

Tra gli esegeti italiani – da Croce a Tilgher, da Serra a Tozzi, Momigliano, Debenedetti, Salinari, Contini, Russo, Petronio, Sciascia, Eco e numerosi altri –, sono due intellettuali non letterati ma politici, Gobetti e Gramsci, a sintetizzare in poche battute, coniugandolo con l'arte, il valore morale dell'opera pirandelliana. Per Gobetti, Pirandello è "il vero rappresentante del mondo moderno, poeta sicuro e commosso della tragedia della dialettica" ("L'ordine nuovo", 24 luglio 1921); e per Gramsci, del resto influenzato da Croce e non sempre tenero col Nobel di Girgenti, anche un antiborghese partecipe del programma trasgressivo delle avanguardie europee. Pirandello – precisa Gramsci nel VI dei suoi 32 Quaderni del carcere (che solo nel 1975 trovano una definitiva sistemazione filologica curata dallo studioso siciliano Valentino Gerratana) – ha "una fisionomia culturale cosmopolita".

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D'u fruttu si canùsci l'àrvulu



Seducenti libri di meraviglie barocche ed esercizi d'alto stile, frutti turgidi e macerati, squisiti antidoti alle metafisiche afflizioni sono quelli di Bufalino (Museo d'ombre, 1982; L'amaro miele, 1982; Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, 1984; Cere perse, 1985; L'uomo invaso, 1986; Saldi d'autunno, 1990; Quiproquo, 1991; Calende greche, 1992; Il Guerin Meschino, 1993; Tommaso e il fotografo cieco, 1996), che rigetta la lingua omologata della comunicazione a favore d'una vistosa e sapiente espressività; e col protagonista, malato di tubercolosi, del suo romanzo d'esordio (Diceria dell'untore, 1981: pubblicato a più di sessant'anni) può dire di potersi riscattare dopo un'esistenza anonima rendendo "testimonianza, se non delazione, d'una retorica e d'una pietà".

Formatosi su Leopardi, sul romanticismo tedesco, sul 'dandismo psicologico' di Poe e Wilde e sulla, da sempre prediletta fra gli scrittori siciliani, letteratura francese (specie – per Bufalino – Baudelaire, Proust e quella voluttuosa 'Bibbia' del decadentismo rappresentata da À rebours, 1884, di Huysmans), lo scrittore di Comiso, romanziere, traduttore, poeta, elzevirista e amaro aforista ("Questo luttuoso lusso d'essere siciliani", Il malpensante. Lunario dell'anno che fu, 1987), è dotato di sterminata, totalizzante cultura letteraria e d'un disincanto nichilista che lo estrania da qualsivoglia impegno ideologico.

Siciliano della provincia 'babba' o creduta 'ingenua' per un suo supposto esclusivismo umanistico (ma anche perché lungamente immune da costumi mafiosi), Bufalino scrive per blandire o tenere lontano il dolore e la morte, la compagna cattiva che, fin dalla giovinezza, lo attenta con la tisi finché lo coglie in un incidente stradale sul tratto di strada tra Comiso e Vittoria. Lascia incompiuto, edito fuori commercio (a cura di N. Zago) dalla Bompiani con la Fondazione Bufalino dell'Università di Catania, un romanzo intitolato Shah mat. L'ultima partita di Capablanca (2006), breve episodio della storia, tutta inventata o insondabile, del cubano José Raúl Capablanca, campione mondiale di scacchi negli anni Venti.

Squisito stilista, insidioso e struggente loico, malinconico anche nella gioia, barocco nel porre in tensione o esaltare i significanti e manierato nel distillare significati e metafore, lo scrittore concentra nelle proprie pagine il retaggio della cultura letteraria europea otto-novecentesca. Insieme alla tradizione, per usare un termine bufaliniano, dell' "isolitudine" sofferta da chi s'esilia in patria: isolitudine del sentimento mortuario e del compianto, delle moralità favolistiche e dei sortilegi, del soliloquio esistenziale e del ricordo 'immaginato', dell'elegia e della religiosità panica, della critica dell'esistenza e – si torna, inevitabilmente, a Pirandello – d'un "eccesso d'identità" (La luce e il lutto, cít.) rovesciato nel proprio contrario: "Noi, gli uomini, chi siamo? Siamo veri, siamo dipinti? Tropi di carta, simulacri increati, inesistenze parventi sul palcoscenico in una pantomima di cenere, bolle soffiate dalla cannuccia d'un prestigiatore nemico?" (Le menzogne della notte, 1988).

A Bufalino si deve infine il tentativo di fornire un ricercato identikit del "Siciliano Eccellente": nel quale prevalgono "la tendenza a surrogare il fare col dire, il pessimismo della volontà e non solo della ragione, lo spirito di complicità popolare contro il potere, l'orgoglio e il pudore in inestricabile alleanza, la sensibilità patologica (se non vogliamo chiamarla permalosità) al giudizio degli altri, la vanagloria virile, il sentimento dell'onore perduto, il sentimento della giustizia offesa, il sentimento della malattia come colpa e vergogna, il sentimento della proprietà come artificiale prolungamento di sé e sussidiaria immortalità... Difetti, per la maggior parte, ma soltanto in apparenza, perché attraverso una misteriosa alchimia essi finiscono col tramutarsi in guizzi d'intelligenza e d'umore e diventano, press'a poco, virtù. S'aggiunga, anche, la capacità quotidiana d'avvertire la vita come teatro all'aperto, con parti assegnate a ciascuno, come in un copione dell'opera dei pupi" (Sicilia vista da vicino, "Qui Touring", giugno 1987; poi, con varianti, in La luce e il lutto, cit.: dove, tra l'altro, l'aggettivo "Eccellente" è sostituito da "Assoluto").

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