Copertina
Autore Peppe Lanzetta
Titolo Racconti disperati
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2010, , pag. 136, cop.fle., dim. 14x21x1,2 cm , Isbn 978-88-7937-445-3
LettoreGiovanna Bacci, 2010
Classe narrativa italiana
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Pagina 7

Il camorrista


«'O Malacarne è nu guappo 'e cartone...». La voce arrivava dal televisore, apparecchio Sony a cristalli liquidi.

Il film era quello di sempre: Il camorrista. Anno di uscita: 1986. Da allora l'avevano consumato. Tutta la famiglia Scognamiglio l'aveva visto prima al cinema Fiorentini per dodici o tredici volte, poi in seconda visione e in tutte le altre sale piccole e provinciali dove lo proiettavano. Poi fittarono la cassetta, poi se la comprarono e lì non ci fu più pace. Il padre Tommaso, la moglie Rosa, i tre figli maschi, Gennaro, Ugariello e Sastiano (vezzeggiativo di Sebastiano), detto anche il Ridge di Teverola, quando si sedevano a tavola insieme al piatto mettevano il vhs di quel film, di cui conoscevano ogni parola, ogni scena, ogni sequenza, fotogramma per fotogramma.

L'unica che si dissociava dalla visione era Rosaria, unica figlia femmina, ora signorina ben fatta, praticamente donna, tosta, incazzosa, bella, selvaggia, che odiava la sua famiglia e odiava pure quel film di cui sentiva l'eco in ogni parete, in ogni cassetto, tra le lenzuola, negli armadi.

«Dicitincello a 'o prufessore ca ie nun l'aggio tradito, e mo facite ambressa...» e poi tutti all'unisono partivano con il motivo della colonna sonora, fatto con la bocca, con le mani, con il fischio, addirittura Sastiano lo faceva col pernacchio. Quasi vent'anni di proiezione. Troppi anche per il cinefilo più agguerrito, immaginarsi per una ragazza di paese cresciuta tra maschi, panze, partite di calcio, tressette, tre a chiammà, scommesse, clandestini, totosnai, ricevitorie, combattimenti di pitbull, aria di Caserta, Napoli vicina, sospesa tra Volturno e acque inquinate, mozzarelle, slang, neri, africani, droga, ecstasy, popper, kobrett, 'o Napule, 'o Napule, Maradona, serie A, serie B, serie C, tutto era cambiato o stava cambiando tranne quel film ora rigorosamente in dvd.

Sulla loggia Rosaria stendeva i panni e ascoltava Radio "Paese mio che stai sulla collina", che modulava sulla frequenza di 99.100 MHz e guai a chi si permetteva di occupare quella frequenza anche per sbaglio, succedeva il quarantotto. 'O Raiz, D'Alessio, Le Vibrazioni, Maria Nazionale, Avitabile, Zucchero e Cheb Mami, Franco Ricciardi, Moreno, Nardi, Afrika Bambaataa, il condominio musicale era affollato e occupato in ogni passaggio, stazioni su stazioni, suoni su suoni, musica su musica, pubblicità su pubblicità, vieni al Supermercato di don Antonio, vieni nel magazzino di Vicienzo 'o stuorto dove compri adesso e inizi a pagare fra un anno... che dico? due anni... Ho detto due anni?... Tre anni...

Rosaria sbatteva i tappeti della notte pieni di polvere e le lenzuola dove dormivano i maschi che sono sempre più sporchi perché sono maschi e la musica le bombardava nelle orecchie insieme al rumore della fabbrica di alluminio che stava nel seminterrato della loro palazzina e poi ogni tanto c'erano le liti tra gli extracomunitari, meglio noti come "'e nire", che abitavano un magazzino-casa proprio sotto di loro. Tommaso Scognamiglio, imprenditore caseario, non si poteva permettere una casa più agevole? «Ma che state dicendo? Io una villa mi posso fare, altro che stare qui a sopportare le liti dei neri e i rumori della saldatrice, la mozzarella che faccio io se la sognano da qui a Villa Literno, da Baia Domitia a Cellole, da Agropoli a Eboli, se poi ci vogliamo mettere pure la zona del Salernitano...».

«Papà vieni... è pronto 'o mangià», urlava il secondogenito; e lui: «Avite priparato 'o film?».

Coro: «Sììììì!». E lui entrando in casa fischiettava il motivo del Camorrista e Rosaria si chiudeva in bagno e si masturbava. Per rabbia. Per dolore. Per esasperazione. Per vendetta. «Tua figlia dove sta?», urlava Tommaso a sua moglie Rosa.

«E addò pò stà? 'nd' 'o cesso!».

«E chella sulo là pò stà», replicava infastidito lui e intanto Rosaria sognava.

George Clooney, una madre come Jennifer Lopez, un fratello come Andy García, un padre come Richard Gere... E si masturbava. E odiava il padre. Odiava la madre. Odiava i fratelli. Odiava quel film. Quell'ora del pranzo, quelle facce assorte e instupidite da quella visione sempre uguale, sempre la stessa, giorno dopo giorno.

Ormai le battute se le davano fra di loro: «Piccola creatura, la morte ti ha preso prima il papà e poi la mamma...». «Si sbrigassero a trovarlo... vivo o Morto...».

Ma su tutte rimbalzava la più gettonata, la più amata: «'O Malacarne è nu guappo 'e cartone».

Rosaria sognava di vederli schiattare per le troppe mozzarelle mangiate e mentre il latte debordava e fuoriusciva dalle bocche, dalle vene, dalle arterie, dagli stomaci rancidi e puzzolenti, lei prendeva il dvd di quel film, se lo metteva sotto i piedi e lo smaciullava e ripeteva urlando «Basta! Basta! E fernuto 'o film! Basta cu 'o Malacarne, cu piccola creatura, l'assessore Mesillo, 'e coltellate, 'o sanghe, sanghe, sanghe...», e intanto il sangue si mescolava alla mozzarella, al siero e bianco su rosso, rosso su bianco, non sbatteva più i tappeti Rosaria e nemmeno le lenzuola dei fratelli e la madre non la mortificava più dicendole che stava sempre chiusa nel cesso.

Il dottore di famiglia disse che la ragazza era anoressica e presentava anche delle sfumature di depressione. Ci voleva uno specialista.

«Ce vo' nu cazzo», sentenziò il padre.

I fratelli abbassavano la testa. La madre si faceva il segno della croce.

La faccia del Volto Santo nell'ingresso dell'appartamento faceva compagnia a quella di Padre Pio, della Madonna di Pompei e a una foto del Volo dell'Angelo di Casaluce.

Un tarchiato trentenne di Casapesenna fu il prescelto per accoppiarsi con Rosaria. Una Fiat Punto rossa, lo stereo con i cd di musica latinoamericana, i capelli stempiati, la panza, i calzini bianchi, i mocassini marrone, l'orrore più orrore che ci potesse essere per Rosaria che sognava George "no martini no party", e invece si ritrovò il tamarro che la portava a mangiare la pizza a Orta di Atella e poi in una cupa abbassava lo schienale e se la voleva fottere. Ma Rosaria non rispondeva. Zero. Zero su zero. E perfino il tarchiato di Casapesenna alzò i tacchi. «Chesta nun sta bona... ce vo' nu miedico!».

Mozzarelle, soldi, assegni postdatati, camion che caricavano e scaricavano, bufale, la villa che si dovevano costruire, il terreno già l'avevano trovato... «Ma come? Tommaso Scognamiglio non si poteva permettere una villa? Ma chi lo diceva, ah? Gli faccio vedere chi sono...».

E Rosaria si chiudeva nel cesso e si masturbava. E mangiava e poi si procurava il vomito. E poi per tre giorni non mangiava. E intanto quella colonna sonora del film le bombardava la testa, insieme alle macchine saldatrici, ai neri che litigavano, ai tappeti da sbattere perché la madre era fissata per la pulizia.

«'A capa 'e tua figlia nunn è bona», sentenziò Tommaso guardando sua moglie Rosa. «Era meglio ca me facive n'at'ommo...».

Erano le tre di notte di un sabato umido e di televisioni spente quando Rosaria avvelenò la sua famiglia nel sonno, cloroformio e cianuro, Teverola e Maradona, Caserta e mozzarella, bufale e anoressia, sogni e tappeti, lenzuola e George Clooney, radio e Volto Santo, sangue e mozzarella, siero e stomaci scoppiati, colonna sonora e voci impastate, fu una liberazione. La mattina dopo prese un autobus per Baia Domitia e nonostante il freddo si tuffò nelle acque fredde di quel mare che d'estate era inquinato e familiare.

«È pazza! È pazza!!», diceva la gente che s'era assiepata... Si tuffò una volta, dieci volte, cento volte e ogni volta ripeteva: «'O Malacarne è nu guappo 'e cartone...».

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Pagina 45

Il freddo di don Castrese


Don Castrese soffriva molto il freddo.

Dire la prima messa alle otto di mattina in quel gennaio freddissimo gli pesava molto.

Quando la governante lo andava a svegliare alle sei e mezzo, si faceva il segno della croce e poi esclamava: «Già m'aggi'ajzà? Ma comme vola 'a nuttata...».

Amalia gli preparava il caffè d'orzo, le fette biscottate e lo assisteva premurosa. Ormai erano più di trent'anni che faceva la governante del parroco.

Che soffriva il caldo ma non sopportava il freddo. Specialmente ora che aveva superato i sessant'anni. Dolori alle gambe, acciacchi, cervicale lo infastidivano molto e Amalia doveva tirarlo su con le molle, nonostante avesse quasi la sua età e quindi anche lei doveva averci i suoi problemi, ma non si lamentava. Non almeno con don Castrese. Che scendeva quindi a dire la messa delle otto di malavoglia, ma scendeva.

L'appartamento dove abitava insieme con la governante aveva un accesso diretto alla chiesetta, che gli consentiva quindi di non passare per la strada e soprattutto di non essere costretto a prendere freddo. Calzava le mutande di lana, don Castrese, e amava poco l'acqua. Le bizzoche erano là già dalle otto meno un quarto, sempre quelle, sempre le stesse, non più di sei o sette, e don Castrese manco più le guardava perché le conosceva meglio della sua tonaca. In verità sapeva tutti o quasi tutti i suoi parrocchiani. Non che ci volesse molto: il paesino era piccolo, la borgata dove c'era la chiesa di don Castrese era praticamente un morso, un fazzoletto di case anche se la città non era poi così lontana. Arrivava l'eco delle sirene, dei morti ammazzati, delle pubblicità, dei clamori. Ma don Castrese stava bene là dove stava e non aveva intenzione di immaginarsi in altro posto che non fosse quello.

Amalia approfittava della messa delle otto per dare aria alla casa. Spalancava il finestrone centrale e faceva uscire gli umori della notte prima che don Castrese rientrasse perché se no si infuriava: «Fa freddo, Amà, chiudete queste finestre».

E sì, perché nonostante si conoscessero da più di trent'anni don Castrese e donn'Amalia si davano il Voi. Ed era buffo sentirli parlare in quel modo, alla loro età, ma tant'era. Quindi lei furtivamente sbrigava quei mestieri primari della casa nell'arco di quei tre quarti d'ora che durava la messa. Quando lui tornava su doveva essere quasi tutto a posto. Quasi. Perché non sempre Amalia ce la faceva e allora arrancava.

Allora il parroco si chiudeva nel suo studio e ne usciva solo quando era sicuro che porte e finestre fossero chiuse perché temeva il freddo come una grande paura.

Manco la morte gli faceva paura come il freddo. Sperava solo che gennaio e febbraio passassero in fretta. Poi diventava un po' più docile, meno burbero, gli si poteva strappare pure un sorriso. Ma i suoi parrocchiani tutto questo lo sapevano e ormai non ci facevano più caso. Anche quando durante le confessioni lui spesso arronzava, stanco anche di sentire sempre e solo gli stessi peccati. Che poi non dovevano manco essere dei grandi peccati, ma la confessione era la confessione.

La sera che i ragazzini avevano acceso il cippo di sant'Antonio don Castrese s'era barricato in casa tuonando contro il fuoco, il fumo, le urla dei ragazzini del circondario e soprattutto sapendo che l'indomani avrebbe trovato davanti alla chiesa un mucchio di cenere, resti del focarazzo, e c'era da pulire e ogni anno lo doveva fare lui. Chissà perché poi. Perché aveva quest'abitudine da anni. Amalia premeva per farlo lei, ma non c'era verso, i resti del focarazzo erano di don Castrese che con una grande scopa di brusca spazzava e inveiva contro i ragazzacci pur sapendo che poi non avevano fatto niente di male. Ma era fatto così.

La messa di mezzogiorno della domenica era sempre quella più affollata. E per quella messa don Castrese si preparava sempre con maggior cura, in poche parole lo faceva capire che ci teneva in modo particolare alla messa di mezzogiorno della domenica. Anche se quella domenica era più fredda del solito, la notte aveva gelato e il parroco temeva che la gente disertasse la chiesa, e invece con gioia notò che quel morso di chiesa era piena.

Finita la messa delle dieci passava alle confessioni per la messa successiva. Un tour de force la domenica mattina. Anche se chi si confessava erano sempre i soliti. La comunione la prendevano quasi tutti, ma non tutti si confessavano.

Gli rimase subito impressa quella voce nuova, con quell'accento marcatamente di paese, un velo leggero in testa come si usava un tempo. Strano anche per la parrocchietta di don Castrese un velo in testa ad una bella donna vestita di nero.

Anche se si capiva che non era un nero di lutto.

Non passava inosservata quella donna che poteva avere un po' meno di quarant'anni portati benissimo, un volto che stonava tra quei parrocchiani che si conoscevano a menadito.

La voce, il ritmo delle parole, la cadenza, la sofferenza del tono, gli occhi belli, blu e abbassati e soprattutto quel velo nero leggero in testa turbarono don Castrese.

Ma soprattutto ciò che lei confessò a quel prete di borgata che stava per i fatti suoi, perso tra i suoi freddi, i suoi parrocchiani, le sue mutande di lana e il ragù che lo aspettava. Quel ragù che amabilmente Amalia aveva messo a cuocere appena sveglia, praticamente alle sei di mattina.

«Padre, ho scelto di venirmi a confessare in questa piccola chiesa dove non ero mai venuta prima e dove forse non verrò mai più... ma dovevo togliermi questo peso che mi pesa sul cuore e soprattutto sull'anima. Sono la moglie di un boss. So che mio marito ha dato ordine di far morire assiderati due fratelli, chiusi in una cella frigorifera, legati e imbavagliati in un vecchio macello... Lo so da una settimana e non ce l'ho fatta più... Lo stomaco mi dà nausea, sono piena di veleno, non ce la faccio più a tenermi quest'angoscia dentro, amo mio marito ma lo odio al tempo stesso per quello che fa, quello che ordina, quello che produce, sono prigioniera in un castello dorato dove ho tutto, dove non manca niente, eppure stamattina mi sono svegliata con questo pensiero... Ho girato in macchina per un'ora prima di perdermi e trovarmi davanti alla vostra chiesa... Accettate la mia confessione, padre, e perdonate i miei peccati».

Don Castrese le diede l'assoluzione con un filo di voce che non lasciava presagire niente di buono per chi lo conosceva. Ma la signora in nero non lo poteva sapere. E fu una strana e insolita messa quella che officiò don Castrese quel mezzogiorno. Sudava, sbagliava, arrancava, perfino il chierichetto che lo aiutava solo la domenica se ne dovette accorgere ma dovette pensare: "Forse è l'età".

Non alzò mai gli occhi, don Castrese. Forse per non scorgere quella donna. Forse per paura di incontrare quegli occhi, di rivedere quel blu abbassato, quel velo nero leggero, per non farsi passare di nuovo nella mente ciò che dalla sua mente invece non si era mai allontanato nemmeno un istante dopo quella confessione: due fratelli morti assiderati in una cella frigorifera. Sentiva freddo, don Castrese, tanto freddo, eppure sudava e il chierichetto gli guardò la fronte imperlata di sudore. Sentiva freddo lui che già normalmente odiava il freddo, lui che chiudeva porte e finestre, odiava gli spifferi, il gelo, la gelata di quella notte, la neve sciolta. Sentiva freddo pensando a quei due fratelli chiusi in quella cella frigorifera, eppure non poteva dirlo a nessuno perché c'era il segreto del confessionale, ma il freddo aumentava e la messa era appena cominciata.

Fu un attimo. Cadde su se stesso e con la testa andò a sbattere sul marmo antistante l'altare. Il chierichetto lanciò un grido. «È muorto don Castrese», urlò la gente. Sangue e sudore freddo sul suo volto gelato. «Chiammate 'o miedico, l'ambulanza». La chiesetta lentamente si svuotò, restarono una decina di fedeli. Faceva freddo, tanto freddo...

La signora in nero non c'era più. E nemmeno don Castrese...

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Pagina 81

Mickey Rourke


Mickey Rourke del film L'anno del dragone gli era andato in testa.

E aveva voluto chiamarsi come lui, come si pronunciava quel nome, Michirurche, quel capitano che voleva mettere sottosopra Chinatown in quell'America dove pioveva a strafottere, dove la mafia cinese faceva quello che voleva, dove bande di teppistelli portavano la morte su ordinazione per pochi fottutissimi dollari.

Ma lui stava da un'altra parte di mondo, dove altri pochi fottutissimi ragazzi lo stesso portavano la morte per pochi fottutissimi danari, dove eroina cocaina kobrett e altro mischiato a crack scadente fumava nella testa di altri fottutissimi ragazzi che si mettevano in fila per prendersi la loro fottutissima dose e andarsela ad inalare in una strafottuta sera di quartiere che non sapeva manco dove fosse Chinatown.

Era invece quella una città di carte e cartoni a strafottere per terra, dove i cumuli di immondizia otturavano i pori dei corpi obesi e rinsecchiti di quelli, tanti, tantissimi, che vi abitavano, dove si sparava per poco, per niente, dove ci sarebbero voluti secondo lui tanti capitani come quel michirurche di quel film che gli aveva abbagliato gli occhi, ma le cose lì andavano diversamente, ognuno faceva quello che gli pareva, dove chi non voleva vedere non vedeva, non sentiva, non parlava.

Aveva la faccia segnata il Mickey Rourke del rione ammassato su altri rioni, case su case, polvere su polvere, metallo su metallo, asfalto, ipermercati, offerte a prezzi stracciati, società finanziarie che promettevano soldi soldi soldi per rendere la vita più facile. Ma era difficile la vita da quelle parti, difficile e valeva poco, si consumava nelle scommesse e nei punti Snai, negli Strike che avrebbero potuto rendere più leggere quelle domeniche che invece si preannunciavano pesanti, noiose da far passare in fretta fra code d'aragosta al cioccolato pezzottato e fritto di pesce "vorrei ma non posso".

Angelina Jolie di Marianella amava quel capitano che voleva assomigliare a Michirurche e lui scommetteva, giocava, si indebitava, puntava, giocava, perdeva, vinceva e poi perdeva e si indebitava e usciva da una sala corse e andava in una sala biliardo e poi un punto Snai dall'altra parte di quella città piovosa come fosse una New York popolata di attori falliti, di attori in cerca di una scrittura, di un telefono che squillasse, ma non squillava mai quel telefono.

Erano tutti attori di un telefilm che sarebbe dovuto cominciare ma non cominciava mai. Eppure ognuno s'era dato un ruolo, ognuno s'era dato la parte di Michael Douglas, di Sharon Stone, Jennifer Lopez, Andy García, Penelope Cruz.

Michirurche sognava una casa in un nuovo parco di Melito con la sua Angelina Jolie, bella e radiosa, unica femmina fra sette maschi a cui doveva badare, fratelli segnati da ritardi di furti, scippi, dose, scuse, bugie, domiciliari, facce sospette, teste abbassate. E il capitano di periferia col suo stipendio non ce l'avrebbe mai fatta. E si dannava. Vedeva le cose storte e si dannava. Avrebbe voluto camminare dritto ma aveva anche capito che si sarebbe perso in una mediocrità che lo avrebbe condannato.

Sognava pure lui un ruolo, un ruolo da protagonista in quella vita tra alveari umani, tra frequenze postneomelodiche e arabe allo stesso tempo, facce grigie che non sapevano cosa fosse la Finanziaria, facce che tiravano avanti persi nei fotoromanzi soap opera telenovelas CSI Miami, la Squadra, Distretto di Polizia, telefilm su telefilm...

Lui invece aveva cercato di staccare tutti gli altri e diventare come quel capitano coraggioso di quel film e prendersi la sua Angelina Jolie di Marianella e farla vivere finalmente come avrebbe meritato. E scommetteva, giocava, perdeva, si indebitava, comprava soldi, pagava interessi, comprava, giocava, puntava, perdeva e poi non pagava...

E il telefilm annunciato si rimandava sempre e tutti gli attori stavano là fuori al bar Hollywood ad aspettare...

Che passasse un produttore, che si fermasse un regista, che arrivasse un grande direttore di fotografia amico di De Niro o di Harvey Keitel.

Passavano invece i giorni sulla testa del capitano di periferia perso nel vizio, nel gioco, nella droga, nelle scommesse e non pagava...

E Angelina era stanca di pensare sempre ai suoi fratelli e il suo corpo bello e radioso avrebbe voluto esplodere.

Ma esplose invece la macchina del capitano che voleva assomigliare a Mickey Rourke, insieme ai suoi sogni, le sue scommesse, al telefilm che avrebbe voluto interpretare, che poi era invece un grande film, con un mare di comparse pronte per un Ciak senza fine, un film che avrebbe unito la sua città piovosa con la pioggia di quella città fottutamente più piovosa della sua...

La radio della sua macchina finta americana cantava Another brick in the wall.

Una lenza di sole pacchiano tagliava la curiosità dei volti di quelli che avrebbero voluto guardare il corpo esploso in quella macchina.

Qualcuno chiedeva se fosse cominciato il telefilm, qualcun altro se ne andava alla chetichella, dei ragazzi giocavano a basket incuranti dell'orrore quotidiano...

E intanto il capitano non c'era più...

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