Copertina
Autore Mariano José de Larra
Titolo Un condannato a morte - I taglieggiatori
EdizioneColonnese, Napoli, 2009, Civiltà 4 , pag. 72, bilingue, cop.fle., dim. 13x20,5x0,5 cm , Isbn 978-88-87501-99-5
OriginaleUn reo de muerte [1835] - Los barateros, o el desafío y la pena de muerte [1836]
EdizioneVidal, Barcelona, 2000
CuratoreAugusto Guarino
PrefazionePasquale Ciriello, Vittorio Dini
TraduttoreAugusto Guarino
LettoreGiangiacomo Pisa, 2010
Classe diritto , paesi: Spagna
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Indice


Prefazione
di Pasquale Ciriello                                     9

Il macabro proscenio dell'ingiustizia.
Mariano José de Larra e la pena di morte
di Augusto Guarino                                      13

Nota sul testo e sulla traduzione                       27

UN REO DE MUERTE                                        30
UN CONDANNATO A MORTE                                   31

LOS BARATEROS, O EL DESAFΝO Y LA PENA DE MUERTE         44
I TAGLIEGGIATORI, OVVERO I DUELLI E LA PENA DI MORTE    45

Civiltà del diritto e pena capitale
di Vittorio Dini                                        57


 

 

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Pagina 9

PREFAZIONE
di Pasquale Ciriello



Se provassimo a fare un esperimento, dando in lettura a un gruppo di persone casualmente assortite le brevi, ma sapide, pagine di Mariano José de Larra omettendo di dir loro chi ne sia l'Autore e in che epoca siano state scritte, sono convinto che ben poche dubiterebbero della loro assoluta attualità e modernità.

Si potrebbe opporre che il tema della pena di morte è, per certi aspetti, un "classico", uno di quelli intorno a cui l'umanità si arrovella da secoli, sostanzialmente rimuginando sempre intorno alle stesse argomentazioni.

Ma l'obiezione coglierebbe nel segno soltanto in parte, perché le riflessioni del nostro Autore trascendono la tradizionale angolazione sociologica per abbracciarne altre che – proprio oggi – sono al centro del dibattito pubblico.

E infatti, quando egli fa dire al personaggio del taglieggiatore: "non so se la vita è mia; uomini dotti hanno detto che la vita non è mia, e che secondo la religione non ne posso disporre. Ma se non è nemmeno mia, come può essere tua?", come non istituire un immediato parallelismo con tante odierne discussioni in tema di bioetica, il cui nucleo duro è rappresentato, proprio in materia di diritto alla vita, dal tentativo di individuare un "comune sentire etico", nella convinzione – da taluni oppugnata, ma da altri fieramente sostenuta – che il compito del legislatore non sia quello di forzare il mosaico delle diverse percezioni morali, culturali e religiose privilegiandone una a discapito delle altre, ma di accedere piuttosto alla lettura del diritto come "minimo etico" accettato all'interno di una comunità?

E quando al taglieggiatore la "società" risponde: "per il momento, ti impiccherò, perché non è arrivato il giorno in cui avrai ragione e in cui il suicidio e il duello saranno fuori della mia giurisdizione... Perché... non hai atteso che la legge fosse abrogata? Per ora muori... mio taglieggiatore", come non cogliervi una nitida gerarchizzazione dei comandi giuridici, correttamente collocati in una posizione subordinata rispetto ad una più generale visione politico-ideologica della società, e destinati a mutare e a evolversi al mutare del contesto socio-culturale di cui sono espressione?

Com'è noto, proprio in materia di pena di morte, il nostro Paese ha di recente conseguito uno – dei non molti! – successi sul piano della politica internazionale, ottenendo che il 18 Dicembre 2007 l'ONU votasse una moratoria delle esecuzioni capitali.

Così facendo, ha coltivato nel miglior modo possibile l'insegnamento di Cesare Beccaria che, già nel 1764, scriveva: "non è l'intensità della pena che fa il maggiore effetto sull'animo umano, ma l'estensione di essa, perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte, ma passeggero, movimento". Purtroppo, il Rapporto diffuso sul finire del Luglio di quest'anno dall'Associazione "Nessuno tocchi Caino" ha dimostrato che, pur in costanza di un trend discendente, le esecuzioni capitali nel 2008 non si sono affatto arrestate, se è vero che, solo in Cina, ne sono state consumate più di 5000, 346 in Iran, 102 in Arabia Saudita e così via.

Evidentemente la commistione fra punizione e vendetta rappresenta un nodo non ancora sciolto, che – peraltro – vede schierati fra i fautori della tesi più rigorosa teorici di indubitabile spessore quale, ad esempio, Immanuel Kant. Quest'ultimo, infatti, raccomandava che, proprio in nome del rispetto dovuto all'inalienabile dignità morale legata a ciascun essere umano, una società debitamente organizzata, prima di abbandonare per tema di un'incombente catastrofe il proprio insediamento, eseguisse la sentenza dell'ultimo fra i suoi membri condannato a morte.

Nella letteratura, viceversa, si avverte molto più spesso l'eco nostalgica o l'aspettativa gioiosa di uno stato di natura, di un'età dell'oro in cui si renda possibile liberarsi delle bardature del diritto.

Novalis diceva di sé stesso: "io sono un uomo completamente illegale; non ho il senso né il bisogno del diritto", per poi aggiungere subito dopo: "il dominio del diritto cesserà insieme con la barbarie".

E anche Cervantes fa dire a Don Chisciotte dinanzi allo spettacolo di una fila di galeotti in catene: "se la sbrighi ciascuno col suo peccato, non è bene che gli uomini onesti si facciano carnefici di altri uomini".

Per quel che vale, noi siamo con i letterati. Dalla stessa parte di Mariano José de Larra.

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Pagina 35

Ma ci allontaniamo troppo dal nostro oggetto; l'abitudine alla pena di morte, regolamentata e comminata per legge presso i popoli moderni con un inspiegabile abuso – posto che la società applicandola non fa che sopprimere dal suo corpo uno dei suoi membri –, fa sì che si senta con la massima indifferenza il fatidico grido che fin dall'alba risuona per le strade del grande villaggio, e che uno dei nostri amici ha opportunamente trasformato in un ritornello di un passaggio di una poesia romantica:


Per far bene a quell'anima
di colui che va a morire

Questo grido, preceduto in maniera immediata e costante dalla lugubre campanella, come il fumo che segue la fiamma e l'anima il corpo, questo grido che implora la pietà religiosa per una parte dell'individuo che sta per morire, si confonde nell'aria con le voci di quelli che vendono e rivendono per le strade quei generi che danno alimento e vita a coloro che quel giorno vivranno. Non sappiamo se qualche condannato a morte avrà fatto questa singolare osservazione, ma alle sue orecchie deve risultare orribile l'ultimo grido che è costretto a sentire della venditrice di cavoli che passa accanto a lui assordando la strada.

Letta e notificata al reo la sentenza, e l'ultima vendetta che su di lui esercita la società intera, in una lotta tra l'altro diseguale, il disgraziato viene condotto nella cappella, dove la religione si impossessa di lui come una preda ormai certa; la giustizia divina sta lì ad aspettare di riceverlo dalle mani di quella terrena. Lì trascorrono per lui delle ore mortali; deve essere una grande consolazione credere in Dio, quando è necessario fare a meno degli uomini, o meglio, quando sono gli uomini a fare a meno di te. In un tale momento, nondimeno, la vanità si fa strada nel cuore ed è difficile che il colpevole, superata la prima impressione, quando il sangue tenta di sfuggire per rifugiarsi nel centro della vita, non provi a simulare una serenità che raramente è possibile. Questa società tirannica esige qualcosa dall'uomo anche quando gli si nega completamente. Per quanto sia un'incomprensibile ingiustizia, riderà della debolezza della vittima. Sembra che la società, esigendo coraggio e serenità al condannato a morte, con le sue persistenti preoccupazioni, voglia fare giustizia di se stessa, stupendosi che non si disprezzi quanto poco essa vale e i suoi poveri difetti.

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Pagina 49

Il giorno sta per spirare, e i detenuti sono appena entrati nel cortile, dove ogni giorno intonano un Salve alla Madre del Redentore, un Salve sublime visto dall'esterno, impudente e burlesco sulle labbra di colui che lo intona e che sottovoce lo parodia. Al suono del cantico religioso i due uomini difendono i propri diritti, e in una lotta leale si assaltano e si avvinghiano. Uno dei due non avrebbe sentito la fine del Salve: appena un secondo dopo, con l'ultimo accento del cantico giunge ai piedi dell'Altissimo l'anima di un taglieggiatore.

Allora accorre la società, e dice a quello vivo:

— Io ti ho espulso dal mio seno e ti ho ritirato la mia protezione; io ti condanno prima di giudicarti con l'immondo carcere che ti ho inflitto. Tollero qui che giochi e taglieggi, perché il tuo gioco e il tuo taglieggio non turbano i miei sonni. Ma da questo consegue una disputa che non posso né voglio dirimere, e che mi si sveglia con il rumore del corpo che hai fatto cadere al suolo. Mi avvisano che quel corpo, al quale non avevo prestato più attenzione che a te, può contagiarmi con la sua putrefazione, per cui ordino che lo si seppellisca, e con esso il tuo, perché hai infranto le mie leggi, uccidendo un uomo, anche se le mie leggi non ti proteggevano. Perché le mie leggi, mio taglieggiatore, possono giungere a punire anche chi non intendono proteggere. Possono rinunciare a proteggere, ma non a vendicare; ciò che in esse c'è di buono per me non lo è per te, perché io ho giudici per te, ma tu non ne hai per me; io ho sbirri per te, ma tu non ne hai per me. Per questo io posso castigare il tuo omicidio e tu non puoi castigare la mia negligenza, la mia mancanza di protezione, che ne furono l'origine.

E il taglieggiatore:

— Fino a che punto la società ha dei diritti su di me? Non so se la vita è mia; uomini dotti hanno detto che la vita non è mia, e che secondo la religione non ne posso disporre; ma se non è nemmeno mia, come può essere tua? E se è più tua che mia, in cosa posso offendere la società se ne dispongo, come fa un altro uomo con la sua, di comune accordo, senza che ci sia danno per un terzo e senza mettere nessuno nelle nostre questioni?

E la società:

— Un giorno, mio taglieggiatore, avrai ragione. Ma per il momento ti impiccherò, perché non è arrivato il giorno in cui avrai ragione e in cui il suicidio e il duello saranno fuori della mia giurisdizione. Al giorno d'oggi la società non può che essere retta dalla legislazione vigente. Perché per batterti a duello non hai atteso che la legge fosse abrogata? Per ora, muori, mio taglieggiatore, perché ho in vigore una prammatica che così dispone. Non è ancora passata una luna da quando si è visto soffocato dalla mia mano un uomo che aveva vendicato quell'onore che la legge non riesce a vendicare...

E il taglieggiatore:

— E quante lune passano, mia società, in cui si vedono passeggiare tranquillamente per il Prado altri uomini che sono incorsi nello stesso errore che mi stai imputando, e io...?

E la società:

— Questo ti dimostra che se non potevi aspettare a che abrogassi la mia legge, cessando così di intervenire nei conflitti individuali che non danneggiano la corporazione, potevi almeno aspettare di essere benestante o onorato... o imparare nel frattempo a eludere la legge.

E il taglieggiatore:

— E l'uguaglianza di fronte alla legge, mia società...?

E la società:

— Mio popolano, l'uguaglianza di fronte alla legge esisterà quando tu e i tuoi simili la conquisterete; quando sarò una vera società e l'elemento popolare entrerà a far parte della mia composizione. Ora mi chiamo società e corpo, ma sono un corpo troncato. Non vedi che non ho che la testa, che è la nobiltà, e le braccia, ossia la curia, e una spada al fianco, che è la mia forza militare? Non vedi che mi manca la base del corpo, che è il popolo? Non vedi che cammino su di lui, invece che con lui? Non vedi che mi manca l'anima, che è la consapevolezza dell'essere, e che potrà derivare solo dalla completezza e dall'armonia, di ciò che ho e di ciò che mi manca, quando riuscirò a riunire tutto? Non vedi che non sono la società, ma un mostro di società? E di cosa ti lamenti? Non stai rinunciando ai tuoi diritti non reclamandoli? Non stai autorizzando qualsiasi cosa sopportando tutto? Se tu rappresenti i miei piedi, perché non prendi il tuo posto sotto di me e mi fai camminare a tuo piacimento, piuttosto che arrancare con le stampelle?

E il taglieggiatore:

— Perché non so ancora che rappresento i tuoi piedi, che faccio parte di te, perché non so che il mio compito è camminare e farti camminare, perché non comprendo...

E la società:

— Be', cerca di capire in fretta, e di sapere chi sei e di cosa sei capace, e nel frattempo sbrigati a farti soffocare, con la vile garrota, perché sei popolo e perché non comprendi.

E il taglieggiatore:

— Arriverà il mio giorno, società falsa, società incompleta e usurpatrice, e arriverà prima per colpa tua. Perché il mio cadavere sarà un libro, e ancora un libro quella vile garrota, sul quale i miei, che ora guardano stupidamente senza comprendere, impareranno a leggere. Sia fatta, nel frattempo, la volontà della forza; impicca ora i plebei che si battono a duello, colma di onori i signori che lo fanno, e mentre il popolo riscuote il suo guadagno, tu riscuoti il tuo, e fai in fretta!

E il taglieggiatore doveva morire, perché la legge è legge; e con lui quanti come lui si battono a duello, perché la legge è in vigore e chi la infrange merita la pena. Chi la fa l'aspetti!

E il taglieggiatore morì e, per quanto riguarda lui, soddisfece la pubblica vendetta. Ma il popolo non vede, il popolo non sa vedere; il popolo non comprende, il popolo non sa comprendere, e poiché il suo giorno non è arrivato, in silenzio il popolo si sottomise con rispetto alla giustizia di quella che è chiamata società, e la società andò avanti, e con lei continuarono i duelli, e restò vigente la legge, e altri taglieggiatori la eluderanno, perché non sono taglieggiatori del carcere, né del popolo, anche se guadagnano taglieggiando il popolo.

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