Copertina
Autore Björn Larsson
Titolo Il Cerchio Celtico
EdizioneIperborea, Milano, 2000, Iperborea 87 , pag. 411, dim. 100x200x28 mm , Isbn 978-88-7091-087-2
OriginaleDen Keltiska Ringen
EdizioneBonnies Förlag, Stoccolma, 1992
TraduttoreKatia De Marco
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa svedese , mare , paesi: Irlanda
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Era il 18 gennaio 1990. Un vento fresco, a tratti forte, soffiava da sud, portando con sé nubi cariche di pioggia.

Il viale della stazione di Limhamn era deserto, a parte qualche isolata automobile i cui fari si riflettevano nelle vetrine o sull'asfalto bagnato.

Con il vento alle spalle era facile camminare. Le raffiche più violente quasi mi sollevavano, spingendomi verso l'imbarcadero dei traghetti, dov'ero diretto. Ma non avevo alcun motivo di affrettarmi, un giovedì sera del primo mese dell'anno, quando i traghetti viaggiano mezzi vuoti e la sala d'aspetto invita a tutto fuorché ad aspettare.

E' vero che con il passare degli anni avevo imparato ad aspettare, e riuscivo almeno in patte a dimenticare che il mio tempo passava senza né gioia né profitto per nessuno. Ma benché non facessi che darmi da fare, non ero mai riuscito a vincere la sensazione che il tempo mi scorresse tra le dita. C'era sempre qualcosa da finire, qualcosa che non poteva aspettare né si poteva rimandare. Ed era sempre qualcun altro a decidere le scadenze.

In fondo era proprio per tentare di sfuggire a quel girotondo infernale che mi ero trasferito in Danimarca. Ma continuavo a lavorare in Svezia, e il cartellino da timbrare non aveva smesso di misurare il mio tempo. Non arrivavo mai a destinazione, non facevo che degli avanti e indietro.

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Quando esattamente mi sia affiorato il pensiero di andare di persona fino in Scozia non lo ricordo. Tutto è cominciato con una domanda: "Cosa potrebbe impedirmi di partire?" subito seguita da un'altra: "Cos'ho da perdere?" La risposta a entrambe le domande era la stessa: "Niente. Assolutamente niente."

Da tempo il Rustica era pronto per la partenza. Avevo dedicato anni e decine di migliaia di corone a prepararlo per il mare aperto. Avevo pagato tutti i miei debiti e avevo in banca più di ottantamila corone riservate al grande viaggio. In definitiva, ero io la causa del ritardo. Avevo aspettato a lungo quello che chiamavo il momento "giusto" per partire, ma avevo cominciato a temere che non sarebbe mai arrivato. Perché non ora? Loccasione si era presentata, anche se ero convinto che l'occasione fosse solo un pretesto. Dico questo per sottolineare che non sono partito per non tradire la fiducia di Pekka, anche se non avevo dimenticato lo sguardo, che aveva quando mi aveva dato il giornale di bordo. Né il suo sguatdo né le lacrime di Mary.

La cosa più importante però era la sensazione di non avere niente da perdere. Erano ormai diversi anni che portavo la cravatta e timbravo il cartellino per realizzare il mio sogno, e non conosco niente di più avvilente di dover timbrare un cartellino solo per guadagnare dei soldi. Era una cosa che aveva lasciato il segno. La mia gioia di vivere era in declino, e non avevo voluto partire senza di lei. Non volevo partire per sfuggire a una quotidianità insopportabile. Sarebbe stato un invito a nozze per le delusioni. Alla fine era diventato un circolo vizioso, e vivere sul Rustica era stata l'unica cosa che mi aveva permesso di resistere. Le scintillanti mattine d'inverno col ghiaccio che si accumulava sull'Öresund, le strida dei gabbiani e delle anatre selvatiche, il vento, il cielo, il mare e il cambiamento continuo offrivano un fondamentale contrasto con la vita a terra, vischiosa e prevedibile, eppure carica di incertezze.

Ma non era abbastanza. La mia paura di vivere e morire esattamente come tutti gli altri era reale e più che fondata. Era così facile, addirittura allettante a volte, accontentarsi di una sicurezza apparente. Nonostante tutto quello che è successo, in un certo senso devo essere grato a Pekka. Lui e il suo giornale di bordo mi hanno dato il brusco risveglio di cui avevo bisogno. Quando sono partito da Dragor, avevo trentasei anni e il tempo correva sempre più veloce a ogni minuto che passava. Ora almeno sono riuscito a fermarlo, temporaneamente.

Anche il fatto che le ricerche di Pekka riguardassero i Celti ha avuto il suo peso nella mia decisione. E' stato quel particolare a farmi ripensare al mio amico Torben. Tutta la mia biblioteca era in deposito a casa sua, e lui aveva senz'altro letto i miei libri sulla Bretagna, che dopo tutto era un paese celtico, non nel mio modo rapido e superficiale, ma a fondo e seriamente, come tutto quello che legge. Inoltre sapevo che per un certo periodo si era interessato ai druidi, i capi spirituali e intellettuali dei Celti, che considerava come una specie di ideale. Secondo Torben, la missione dei druidi era mantenere vive le conoscenze del mondo, e questo era più o meno lo scopo a cui anche Torben aveva dedicato la sua vita. Se qualcuno poteva capire di cosa parlava il giornale di bordo di Pekka, era proprio lui.

Avrei dovuto proporre a Torben di venire con me in Scozia? Il pensiero non era poi così assurdo. Conoscevo Torben da molti anni e avevo sempre considerato la sua amicizia come una scontata necessità. Non avevo dunque alcun timore al pensiero di passare diversi mesi insieme a lui a bordo di una piccola barca a vela - come invece capita con molti altro. Inoltre, Torben aveva sia la facoltà che la possibilità di mandare a monte qualsiasi progetto con il preavviso di un quarto d'ora. Sempre che avesse progetti che andavano oltre al giorno successivo.

A quarantadue anni non aveva ancora dovuto mai patire il giogo di un impiego fisso a tempo pieno. Era un assiduo visitatore delle librerie antiquarie di Copenaghen. Quando aveva bisogno di soldi, faceva un giro tra i negozi di libri usati o tra i disordinati scaffali dí libri delle case d'aste, e scopriva qualche prima edizione che rivendeva il giorno stesso a qualche antiquario del centro, con un guadagno sufficiente a coprire le sue esigenze più immediate. L'altra fonte di reddito di Torben non era altrettanto remunerativa, ma in compenso era decisamente più piacevole: faceva il consulente enologo. Torben era un intenditore e le sue papille erano così sensibili che alcuni rinomati importatori di vino gli affidavano le loro degustazioni. A volte veniva pagato in vino, altre in contanti. Lui preferiva quasi sempre il vino. Il denaro, secondo lui, era troppo astratto, oltre a rappresentare un credo collettivo che disprezzava e che accettava solo nella misura strettamente necessaria.

Per soddisfare in una certa misura la brama di ordine delle autorità - ma anche per interesse personale - Torben studiava russo all'università e poteva quindi, in caso di bisogno, classificarsi come studente. Ma i suoi studi ufficiali andavano a rilento. Sosteneva che l'università aveva trasformato la conoscenza in un mestiere, invece che in un modo di vivere. Lui studiava di tutto, ma a modo suo, con i propri ritmi e i propri metodi. Non avevo mai incontrato nessuno con una sete di sapere paragonabile a quella di Torben, senza che per questo provasse il minimo desiderio di vedere le sue conoscenze certificate o trasformate in fonte di reddito. Parole come carriera, ambizioni, prestigio, prospettive per il futuro o aspirazioni gli erano totalmente sconosciute. Quando qualcuno dei nostri conoscenti comuni mi chiedeva cosa facesse Torben, non sapevo mai cosa rispondere. Era disponibile al massimo grado, sia spiritualmente che fisicamente.

Di tanto in tanto avevamo accennato alla possibilità che mi accompagnasse per un po', il giorno che fossi davvero partito. Non era certo un marinaio, il che, nelle attuali circostanze, poteva essere sia un bene che un male. Un bene perché forse non si sarebbe reso conto di cosa significava attraversare il Mare del Nord in gennaio, almeno non prima che fosse troppo tardi per tornare indietro. E un male perché naturalmente avrei preferito avere a bordo un aiuto esperto.

Non ci ho messo molto a prendere una decisione. Sono andato alla cabina telefonica più vicina e ho chiamato Torben. Ha risposto immediatamente, come se stesse aspettando la mia chiamata. Dedicava sempre tutta la sua attenzione alla persona con cui stava discorrendo e ci si sentiva in un certo modo eletti e privilegiati a parlate con lui.

"Parto per la Scozia stasera", ho detto soltanto. 'Vuoi venire?"

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Quando sono uscito in coperta, ho visto le luci di Helsinborg e Helsingor brillare come se si trattasse di un'unica città su una lunga striscia di terra. Alle 4.30 abbiamo oltrepassato il profilo del castello di Kronborg, e da quel momento la nostra rotta portava al largo. Il termometro segnava -3°, il vento soffiava ancora leggero da poppa e il buio era sempre impenetrabile. Mancavano ancora parecchie ore prima del sorgere del sole.

Mi sono alzato e mi sono messo al timone per combattere l'insidiosa stanchezza che mi assaliva sempre prima dell'alba. Per tenermi occupato ho preso un rilevamento sul faro lampeggiante di Kullen. La carta nautica, sotto la luce rossa della bussola, era protetta da una foderina plastificata, e mi allenavo a prendere i rilevamenti senza goniometro. Con un po' di allenamento si possono fare a occhio con un'approssimazione di circa cinque gradi.

Alle otto ha iniziato ad albeggiare, impercettibilmente come sempre. Non si riesce mai a distinguere il momento in cui il buio lascia il posto alla luce. All'improvviso si indovina, più che vedere, una sfumatura di grigio nella notte, o in quella che fino a poco prima era notte. La luce dei fari e delle stelle impallidisce a poco a poco, finché è difficile distinguerli nel grigiore generale. Si fissa febbrilmente lo sguardo e si crede di vedere perché ci si convince e si desidera che sia giorno. In realtà non si vede niente nel passaggio tra oscutità e luce, tutto si confonde. E' per questo, credo, che l'alba porta con sé una specie di timore e di inquietudine. La notte è un bozzolo confortevole, l'alba è una terra di nessuno senza cielo né mare. In caso di tempesta, si trema al pensiero di vedere onde schiumanti, alte come torri, quando viene giorno. Se c'è bel tempo, si ha paura di scoprire i primi segni di un temporale che si avvicina. All'alba non si crede mai che la mattina sarà bella, calma e limpida. Non so perché, ma è così.

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"Cosa sai del Celti?" gli ho chiesto, sia per reale interesse che per distogliere i miei pensieri dalle burrasche e dal cigolio delle manovre.

Mi ha guardato incuriosito.

"E tu cosa sai di loro? Non ha senso raccontare cose che si sanno già."

"Non molto. Che erano un popolo potente che dominava l'Europa settentrionale alcuni secoli prima di Cristo. Che i druidi, che erano allo stesso tempo i sacerdoti, i giudici, gli insegnanti e i bibliotecari dei Celti, avevano una grande influenza sulla vita del popolo. Che Cesare mise fine alla dominazione dei Celti quando sconfisse Vercingetorige ad Alesia, ma che la tradizione celtica sopravvisse in Bretagna, in Irlanda, in Galles e in Scozia. E che questi popoli stanno tornando a interessarsi alla loro eredità celtica. Ho letto qualcosa a proposito sul National Geographic. E poi naturalmente ho sentito parlare della leggenda di re Artù, in diverse versioni, e ho letto alcune saghe irlandesi."

"Tutte scritte e distorte da monaci cristiani", ha detto Totben con un'ombra di riprovazione, come se quei monaci l'avessero personalmente privato della possibilità di leggere le saghe irlandesi in versione originale.

"E' proprio questo il problema", ha proseguito. "La maggior parte di quello che sappiamo sui Celti proviene dai Romani, e in particolare da Cesare, che naturalmente consideravano i loro nemici come barbari incolti. La seconda fonte non è certo migliore: le saghe celtiche raccontate dai monaci cristiani che hanno fatto di tutto per far rientrare le vecchie tradizioni negli insegnamenti cristiani. Per di più una delle caratteristiche più interessanti dei Celti è che non scrivevano mai niente d'importante. Avevano un alfabeto, ma tutto l'essenziale veniva tramandato oralmente. Gli unici documenti scritti che sono arrivati fino a noi sono frammenti di parole su monete e qualche iscrizione su pietre. Soprattutto, non hanno mai scritto nulla sui loro riti e i loro culti, né su quella che ora chiameremmo la loro religione. Molti sostengono che i Celti credessero che quel che veniva scritto moriva. E in un certo senso avevano ragione. Se tutte le conoscenze devono essere tenute nella memotia dell'uomo e comunicate oralmente, devono essere mantenute vive. Questo era senz'altro uno dei motivi per cui i druidi avevano una così grande influenza ed erano considerati pari ai re. In breve, i druidi possedevano tutta la sapienza dei Celti. Si calcola che ci volessero vent'anni di preparazione per diventate druido. E cosa imparavano? Probabilmente a ricordare tutte le conoscenze che erano degne di essere preservate. Erano davvero allo stesso tempo delle biblioteche e delle università viventi."

Torben ha avuto un attimo di pausa, e ho visto una specie di nostalgia nel suo sguardo. Il concetto che tutta la conoscenza debba essere costantemente accessibile e viva esercitava una forte attrattiva su di lui. Non era difficile capire perché si fosse tanto interessato ai druidi.

"Forse è per lo stesso motivo", ha ripreso, "che non costruivano chiese o templi. Si accontentavano di boschi e fonti sacre. I Celti non riuscirono mai a creare uno stato o una nazione. A differenza della maggior parte degli altri popoli, vivevano in federazione con altri re della stessa condizione sociale. Jean Markale, un'autorità nl campo della storia celtica, sostiene che la cultura celtica si oppone a confini fissi o prestabiliti, sia geografici che d'altro genere, e che un concetto come stato o nazione è del tutto estraneo alla mentalità celtica. Per esempio, è indicativo che fino al 1532, quando perse la sua indipendenza, la Bretagna fosse governata da un duca. Nessuno osava proclamarsi re, perché avrebbe rischiato di attirarsi lo scontento del popolo. Le antiche lingue celtiche non hanno nemmeno una parola che indichi il concetto di "patria", come la patrie francese o il Vaterland tedesco.

Inoltre ponevano il potere religioso, spirituale, al di sopra di quello temporale. I druidi non erano soltanto pari ai re, erano loro superiori. Nessun re faceva nulla senza prima consultare i druidi. Forse è per questo che furono sconfitti dai Romani, nonostante Vercingetorige avesse un'armata di mezzo milione di uomimi. I soldati celti combattevano nudi perché avevano ricevuto la benedizione dei druidi e perciò credevano di essere invulnerabili. Ma credevano anche in una vita dopo questa, nel sid, un paradiso che si trovava da qualche parte a ovest dell'Irlanda, dove tutto era pace, giovinezza e amore, e dove il tempo non esisteva.

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Torben è rientrato seguito da un ragazzo sulla ventina in montgomery e berretto. Si è guardato attorno con curiosità e si è seduto vicino alla stufa senza aspettare di essere invitato. Non era timido.

Senza tanti giri di parole ci ha raccontato la storia della sua vita. Viveva in un paesino non lontano da lì e veniva spesso a pescare sul lago. Soprattutto di notte, perché non poteva permettersi di pagare la licenza di pesca. Era disoccupato, perciò aveva un sacco di tempo per pescare e bere birra con gli amici al pub. L'unico problema era sua moglie, una ragazza che aveva messo incinta l'anno prima e che aveva sposato. Non faceva che lagnarsi perché non tornava mai a casa in orario. Tre volte l'aveva già lasciato chiuso fuori. Ma non c'era da preoccuparsi, per il resto se la passava bene. La Scozia era un bel paese. Un ottimo paese.

Ha raccontato con fervore la storia della regione, partendo da parecchi secoli prima. Gli ho chiesto come mai conosceva così bene la storia scozzese. Leggeva molto?

"Mai", ha risposto. "Non apro mai un libro."

"E allora dove hai imparato tutte queste cose?"

"Sono cose che si sanno. Le sanno tutti. Puoi chiecere a chiunque."

Poi siamo arrivati a parlare di Invergarry Castlee, e Torben ha detto che era un peccato che fosse bruciato.

"Ma che peccato e peccato!" ha esclamato Tom - così si chiamava il ragazzo - con evidente disprezzo. "Lo avevano costruito i MacLeod, un clan di fuori che non aveva alcun motivo di essere qui. Dovrebbe essere raso al suolo."

Sia io che Torben facevamo fatica a capire come potesse scaldarsi tanto per una cosa successa trecento anni prima. Ma la sua rabbia repressa era tale che non abbiamo osato suggerire di lasciar cadere il crimine in prescrizione.

Per cambiare discorso gli ho chiesto se venivano molti turisti.

"D'estate è pieno di stranieri. Americani, soprattutto. Dovrebbero impedirlo. Sono una banda di stronzi. Quasi come i francesi e tutti gli altri meridionali. Una volta sono stato a Parigi, per vedere una partita di calcio. Cazzo, che paese! Ma qui non ci devono venire. Altrimenti se la vedranno brutta."

Tom ha passato in rassegna tutti i popoli che non gli andavano a genio. Condiva i suoi giudizi con storielle spiritose e ironiche, ma sotto sotto era serio. Dopo i "meridionali", è stato il turno dei tedeschi, che tutti sanno che razza di gente sono. Poi gli inglesi, ma a questo punto il suo disprezzo era tanto profondo che è scomparsa ogni traccia di ironia. In Scozia gli inglesi erano detestati, soprattutto quelli della ricca Inghilterra del sud, e per prima la Thatcher, ha detto. Per esempio, sapevamo che la Tatcher aveva mandato dei reggimenti scozzesi in Irlanda del Nord? Ma non l'avrebbe scampata ancora per molto. Guardate l'attentato di Brighton. Aveva pianto quando aveva saputo che la Tatcher era sopravvissuta.

Dopo gli inglesi, è stato il turno dei Lowlanders, che avevano venduto la Scozia agli inglesi. E alla fine, oltre ad alcuni clan che sembravano aver perso il diritto di esistere, anche il paese vicino prima o poi avrebbe dovuto prendersi una bella lezione. Ma non era poi così grave. Una bella scazzottata ogni tanto era la cosa mighore per tenersi in forma. Restava soltanto il paese di Tom e alcuni stranieri che venivano tollerati se si comportavano da gente civile, vale a dire come gli scozzesi. Era un patriottismo senza pari, ma non sembrava avesse molto a che fare con i confini nazionali. Quando Tom ha concluso la sua arringa, gli ho chiesto se c'era qualche popolo che gli andasse bene.

"Gli irlandesi", ha risposto senza esitazioni.

Erano "puri", come gli scozzesi. Cosa significasse esattamente "puri" non siarno riusciti a capirlo, come non abbiamo mai saputo cosa pensasse degli scandinavi, che forse non aveva menzionato per delicatezza.

"E i Celti?" gli ha chiesto Torben. "Sei celtico?"

Per la prima volta Tom è sembrato riflettere, non tanto per la domanda in sé, quanto perché esitava a rispondere.

"Sono scozzese", ha risposto alla fine. "C'è un tizio, in paese, che dice che siamo prima celti e poi scozzesi."

"Perché?" ha domandato Torben.

"Come perché?"

Tom sembrava non capire.

"Ma sì", ha spiegato Torben, "non basta essere scozzesi?"

"E' quello che pensavo anch'io", ha detto Tom. "Però quel tiaio in paese dice che la Scozia dovrebbe essere indipendente, ma non da sola. Dovremmo formare una federazione con l'Irlanda, il Galles, la Bretagna e la Galizia, credo. Anche se io non capisco perché dovremmo metterci con quei meridionali. Laggiù non c'è più nessuno che parla la lingua celtica."

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"Pari siamo", ho detto. "Io ho incontrato Maty e tu sei stato ammesso nel Cerchio Celtico."

"Non esattamente, ma quasi. Dopo l'agenzia di viaggi sono andato in giro a cercare librerie e negozi di libri antichi. Mi sono reso conto che in effetti non ero entrato in una libreria da quando avevo lasciato Copenaghen, e il solo pensiero mi ha fatto venire una crisi d'astinenza. Naturalmente pensavo anche di trovare un mucchio di libri sui Celti che non si possono trovare in Danimarca. Ed è andata così nei primi due posti in cui sono entrato. Ma nel terzo, un angusto negozio di libri antichi in una stradina secondaria, non ho trovato nemmeno un libro sui Celti. Nemmeno uno! Ero sul punto di chiedere spiegazioni al commesso, quando mi sono ricordato di un negozio di libri antichi in Rádhusplatsen, a Copenaghen. Lì hanno una sezione speciale dedicata alle logge massoniche. Per avervi accesso bisogna dimostrare di essere membri della loggia. Non so se abbiano una tessera o una parola d'ordine, ma so che bisogna dare qualche tipo di prova. Perché non poteva essere la stessa cosa a Fort William, mi sono chiesto? Sarai d'accordo anche tu che era strano che sugli scaffali non ci fosse neanche un libro sui Celti."

Ho annuito.

"La questione era dunque sapere che tipo di prova bisognava fornire. E cosa doveva provare, poi? A cosa si doveva appartenere per poter vedere i libri, sempre che ci fossero dei libri da vedere? Puoi crederci o no, ma tutto si è risolto quando il commesso mi ha chiesto se stavo cercando qualcosa di particolare. Sì, ho risposto, sto cercando il Cerchio Celtico. C'era una possibilità su mille, ma immaginati la mia sorpresa quando il commesso mi ha indicato la porta del retrobottega, un'intera stanza dedicata ai Celti. Non era affatto strano che non avessi visto prima l'apertura, perché era una libreria che scorreva di lato. Mi ha fatto entrare in una stanza lunga e stretta dove non erano certo i libri di autori celtici che mancavano. Mi ha lasciato solo e lo scaffale si è richiuso alle mie spalle."

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[...] Non dovevamo allontanarci troppo dalla sua punta settentrionale. La corrente ci trascinava verso nord-est, e dalla parte di Scarba c'era una secca che dava origine a un vortice dal quale una barca a vela non sarebbe mai nuscita a venir fuori. E nel quale saremmo rimasti bloccati mentre le onde avrebbero continuato a frangersi su di noi. Ma era difficile trovare dei riferimenti, o addirittura vedere qualcosa. La schiuma polverizzata nell'aria come fumo diminuiva la visibltà e gli occhi mi bruciavano per il sale. Il fragore era assordante.

Di colpo, senza nessun preavviso, il nostro viaggio era diventato una questione di sopravvivenza. Stavamo attraversando un muro d'acqua. Ho ricevuto un violento colpo sul petto che mi ha sbalzato sulla coperta a poppa, sopra alla barra dei timone che spuntava dallo specchio di poppa. Solo la sagola di sicurezza mi ha impedito di essere catapultato fuori bordo. Per qualche istante il Rustica, Torben e io ci siamo ritrovati sott'acqua. Prima ancora della paura, in quel calderone infernale è calata una specie di pace, grazie all'improvviso silenzio. Ma poi mi sono sentito soffocare. Era andato tutto così in fretta che non avevo fatto in tempo a prendere un bel respiro. Un attimo dopo ho ritrovato l'aria e sono tornato ansimante nel pozzetto dove ho afferrato il timone per rimettere la barca sulla sua rotta. Lentamente il Rustica si è risollevato e si è liberato di gran parte dell'acqua. Torben era ancora seduto al riparo della cabina. Vegeto, anche se bagnato fradicio, e sputava e tossicchiava per riprendere fiato. Aveva appena fatto in tempo a rendersi conto che era ancora vivo, e che era aria quella che lo circondava, quando è stato di nuovo innaffiato da un paio di secchi d'acqua che si erano raccolti nelle pieghe dei terzaroli della randa. Avevamo dunque avuto almeno un metro e mezzo d'acqua sopra le nostre teste.

L'istante dopo era tutto finito. Avevamo attraversato the Race tra Eilean Mor e Eliean Beagh, il secondo isolotto all'imboccatura della baia. Ora Eilean Beagh era a poche gomene dalla nostra prua e ci mostrava un volto spaventoso. Ho afferrato il timone, ho virato a dritta, ho cazzato le scotte e ho lasciato che il Rustica entrasse dolcemente a Bagh Gleann nam Muc.

Torben è scoppiato in una risata liberatoria carica di goia di vivere quando ha visto che ce la saremmo cavata. Mi sono lasciato trascinare, anche se in quel momento non sentivo poi tutta quella gioia di vivere. Sapere di essere passati così vicino all morte non rendeva la mia vita più degna di essere vissuta. Piuttosto il contrario. Ma ben presto siamo entrati in acque tranquille, e questo era quel che contava. Tutto il resto non aveva alcuna importanza. Neppure il peschereccio dove vedevamo MacDuff gesticolare sul ponte.

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Quando siamo saliti a bordo del Sussi, il crepuscolo aveva già cominciato a calare. MacDuff era stato abbastanza previdente da accendere le luci di fonda per darci un punto di riferimento. Già a metà strada il buio era così compatto che non riuscivamo più a distinguere il profilo del Rustica alle nostre spalle. Le luci accese dimostravano anche che MacDuff era sicuro che nessuno l'avrebbe trovato.

Torben e io non ci siamo detti una parola nei dieci minuti di traversata. Il rombo di Corrywreckan rendeva inutile qualsiasi tentativo. Ma la tempesta non aveva più la stessa forza di prima. Tra qualche ora, quando la corrente avrebbe di nuovo girato, sarebbe forse stato possibile lasciare Bagh Gleann nam Muc, la nostra rassicurante prigione. Mi domandavo se MacDuff avesse ancora ntenzione di andare a Kerrera. Non era un vighacco, ma se finiva tra le mani di Dick e O'Connell con Mary a bordo, gli ci sarebbe voluto qualcosa di più del coraggio. D'altra parte anche Mary aveva dimostrato una determinazione che non si piegava davanti a niente, tranne forse alla forza di volontà e all'amore di MacDuff.

Quando siamo saliti a bordo, MacDuff ci ha accolti con calore. Non riuscivo a capire come avesse potuto scacciare completatnente la tensione che c'era stata tra noi solo qualche ora prima.

Che Mary invece non fosse affatto distesa ce ne siamo accorti non appena scesi in cabina. Portava ancora i segni di un'emozione che non si era del tutto sopita. Ma ci sorrideva con un'ospitalità disarmante che mi ha messo in imbarazzo. La cosa strana era che non sembrava affatto finta o forzata, ma appariva come dettata da una reale sollecitudine umana. Per qualche ora è stato come se il mondo esterno non esistesse. Anche Torben si è abbandonato a uno stato di pace e benessere. La sua serenità traspariva chiaramente dal suo volto e da tutto il suo corpo. Aveva una tale capacità di mostrarsi contento di se stesso e della vita in generale da risultare quasi offensivo, al limite dell'impudenza.

Abbiamo evitato tutti gli argomenti delicati. MacDuff e io abbiamo chiacchierato molto di barche e di mare. Sentirlo parlare delle sue avventure in mare è stato uno dei momenti di ascolto più preziosi della mia vita, e mi ha fatto capire che la mia esperienza personale non era che un frammento di un tutto di cui non immaginavo nemmeno l'esistenza. Per MacDuff il mare non era solo uno stile di vita, era il fondamento stesso del suo rapporto con la realtà. Era imparare a vivere in continuo movimento, a non dare mai niente per scontato, a cercare una sempre maggiore umiltà e rispetto per ciò che l'uomo non domina, e a vivere pienamente ogni istante. In mare si coglie la vera dimensione e il vero valore dell'essere umano.

A terra si crede sempre di essere più importanti di quanto si è in realtà, diceva MacDuff. Si cerca di lasciare le proprie tracce, sia nella coscienza degli altri che nei confronti dell'eternità. In mare si sa che non serve a niente. Quando la scia di una barca si dissolve, tutto torna esattamente come prima del passaggio.

Per MacDuff, il mare non era solo una forma di educazione che indicava il modo migliore per affrontare la propria esistenza. Era molto di più. Quello che insegnava il mare era né più né meno di un'etica che dovrebbe regolare le relazioni con gli altri esseri umani.

Abbiamo parlato anche di Erskine Childers, l'unico essere che MacDuff sembrava ammirare. Se avesse potuto scegliere avrebbe voluto vivete la vita di Clilders.

"Compresa la sua fine violenta?" ho chiesto.

"Proprio per quella, arzi", ha risposto MacDuff. "La sua morte ha avuto una tale eco che lo tiene ancora in vita."

Nel fratternpo Torben e Mary discutevano di storia celtica, di druidi, bardi e saghe irlandesi. Su quello che stava accadendo intorno a noi non hanno detto nemmeno una parola. Parlavano di una realtà di oltre mille anni prima. Non ho capito molto dei loro tentativi di interpretazione e delle loro ipotesi. Ero troppo preso dalla mia conversazione con MacDuff. Ma di tanto in tanto sentivo qualche sprazzo isolato, come quando Torben ha chiesto a Mary cosa ne pensasse della descrizione dei Celti da parte di Cesare, che sta alla base della moderna visione dei Celti e dei druidi. Secondo Mary, Cesare era probabilmente il più affidabile tra gli autori che avevano scritto del suo popolo nell'antichità.

"Anche a proposito del culto delle teste e dei sacrifici umani?" ha domandato Torben.

"Certo", ha risposto Mary senza esitazione.

Più avantí ho sentito Torben chiederle perché i druidi avessero praticamente regalato il loro potere ai monaci cristiani.

"Soprattutto in Irlanda", ha aggiunto Torben, "proprio dove i Celti erano più forti perché non avevano mai dovuto vivere sotto la dominazione romana."

"Non è stato un regalo", ha detto Mary. "I druidi non hanno ceduto niente."

"Scusami, ma non capisco", ha detto Torben.

"I druidi non hanno certo regalato un'eredità millenaria da un giorno all'altro", ha spiegato Mary. "Hanno semplicemente capito che, nel prevedibile futuro, la cristianità avrebbe dominato il mondo. Nella loro intelligenza e lungimiranza non hanno voluto combattere una battaglia persa in partenza. Hanno al contrario preparato il terreno per la vittoria dei monaci aiutandoli a prendere il potere. In compenso hanno preteso che í monaci tramandassero l'eredità dei Celti, fino al giorno in cui il cristianesimo sarebbe insterilito e scomparso. Perché altrimenti i monaci avrebbero dedicato tanta energia a copiare le saghe irlandesi? Il primo vescovo d'Irlanda, Fiacc, consacrato da san Patrizio, era un druido. Lo sappiano con certezza. Molti naturalmente sostengono che i druidi hanno rinunciato alla loro infinita sapienza quando si sono convertiti al cristianesimo. Ma non è così. I druidi che sono diventati vescovi erano la garanzia che la loro fede avrebbe continuato a vivere nel recessi segreti del cristianesimo, di generazione in generazione, fino al giorno in cui un popolo celtico avrebbe potuto proclamarla. Nella chiesa cristiana ci sono sempre stati preti che erano anche druidi. Il 27 giugno 1970, l'arcivescovo della chiesa celtica, Iltud, ha ordinato il primo monaco dell'ordine di Avalon. Lo ha fatto, ha detto, in nome di un diritto ereditario risalente ai primi preti-druidi della Chiesa. Ma Iltud ha commesso un grave errore. Ha cercato di riportare in vita i druidi troppo presto. Un simile errore non verrà ripetuto.»

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Ci avvicinavamo rapidamente a Eilean Mor. Era sorta la luna che gettava un riflesso strano sulle cascate d'acqua di Corrywreckan. Credo che MacDuff si orientasse col suono dei frangenti e un rilevamento sulle sue stesse luci di fonda. Non si è girato a controllare la rotta nemmeno una volta. Ha ormeggiato in una baia invisibile, al riparo dalle onde che si erano ingrossate in maniera preoccupante. Ci siamo arrampicati fin sulla cima dell'isolotto, dove ci siamo trovati di fronte una vista grandiosa e spettrale. Alla debole luce delle stelle e della fosforescenza del mare, i frangenti sembravano brillare di luce propria, come esseri viventi che salivano e scendevano, sparivano e ricomparivano in un turbine incessante. Mi sembrava di essere in un altro mondo, e forse ho capito quanto potesse essere facile, per gli antichi Celti, abolire il confine tra realtà e finzione. Per loro, gli uomini e gli animali, la natura e la civiltà non erano che due facce della stessa medaglia. Anche i loro strumenti avevano un'anima. Gli artigiani più abili erano ammirati come divinità. Per noi che non possiamo vivere senza tracciare confini tra verità e menzogna, tra certezza e fede, è difficile capire un popolo che viveva soltanto di verità e di certezza. Nelle decine di migliaia di versi conservati negli antichi manoscritti irlandesi, non si parla mai, nemmeno una volta, di qualcuno che abbia detto una menzogna. Quella parola non esisteva nemmeno, così come i Celti non avevano un termine per indicare il concetto di favola.

"Per uno spettacolo come questo vale la pena di vivere un'intera vita", ha detto MacDuff.

Siamo rimasti a lungo in silenzio. Poi è stato MacDuff a spezzare l'incantesimo.

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"Potresti iniziare con lo spiegarmi perché qualcuno deve moríre per i Celti."

MacDuff ha fissato a lungo nel buio, prima di rispondere.

"Me lo domando anch'io", ha detto. "Non passa giorno senza che me lo domandi."

"E la risposta?"

"Non c'è. In Irlanda, nel secolo scorso, sono morte di fame un milione di persone. L'Inghilterra avrebbe potuto evitarlo. Perché non l'ha fatto? Perché si è lasciato che accadesse? Non si può spiegarlo nemmeno col denaro. Da un punto di vista economico l'Inghilterra non aveva niente da guadagnare a lasciar morire di fame la gente, eppure neanche quello ha impedito la loro politica di pauperizzazione. Migliaia di persone sono morte quando l'Irlanda ha ottenuto l'indipendenza. L'Inghilterra avrebbe potuto impedire anche questo. Perché non l'ha fatto?"

"Gli irlandesi avrebbero potuto fare a meno di prendere le armi", ho obiettato.

"Davvero? E' proprio questa la domanda. Chi può dirlo? A Dublino, ancora nel 1920, si potevano vedere inglesi che per cercare manodopera appendevano cartelli con scritto 'Gli irlandesi e la gente di colore non si prendano la briga di rispondere'. Sai perché le case antiche non hanno finestre, in Irlanda? Perché gli inglesi, nella loro fanatica caccia a qualsiasi modo di taglieggiare gli irlandesi, avevano introdotto una tassa sulle finestre. In Bretagna fino al 1950 i maestri di scuola, che naturalmente erano francesi purosangue assunti dallo stato francese, avevano l'abitudine di picchiare i bambini che osavano dire una parola in bretone, la loro lingua, o di appendere loro una specie di stella di David, sotto forma di un vecchio zoccolo di legno. I bretoni erano trattati come immigrati. Nel 1969 un'agenzia di collocamento ha scritto a diversi datori di lavoro per offrire manodopera, pregando le aziende di precisare a quale categoria di lavoratoti fossero interessati: 'bretoni, italiani, spagnoli, portoghesi o marocchini'. Perché credi che la Francia non abbia mai sottoscritto la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo? Per un unico motivo. La Dichiarazione obbliga i suoi firmatari a riconoscere e sostenere le proprie minoranze linguistiche. Nel 1870 il governo inglese ha promulgato una legge che diceva che tutti i bambini che avessero usato il gallese a scuola o durante la ricreazione sarebbero stati obbligati a portare un cartello con la scritta 'Niente gallese'. All'inizio del Novecento, il Times scriveva che quanto prima si fosse estirpato il gallese, meglio sarebbe stato. Potrei continuare all'infinito. Mi chiedi perché gli irlandesi hanno preso le armi. Non ho risposta. Si può fare una domanda a uno stato, a un dittatore o a un governo. Si può fare una domanda a un individuo. A un popolo non si possono fare domande. Ma l'Irlanda è diventata libera."

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