Autore Björn Larsson
Titolo Raccontare il mare
EdizioneIperborea, Milano, 2015, Iperborea 244 , pag. 188, cop.fle., dim. 10x20x1,4 cm , Isbn 978-88-7091-444-3
TraduttoreNicola Jacchia, Ester Borgese, Maria Laura Vanorio, Paola Polito, Katia De Marco
LettoreFlo Bertelli, 2015
Classe critica letteraria , storia letteraria , mare , viaggi












 

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Indice


Prefazione alle prefazioni                                7

Mare e letteratura                                       10

Lo specchio del mare di Joseph Conrad                    26

Sull'acqua di Maupassant                                 44

L'enigma delle sabbie di Erskine Childers                57

Giornale di bordo di Cristoforo Colombo                  70

Joshua Slocum: Solo, intorno al mondo                    79

Nei mari dei pirati di Nicolò Carnimeo                   98

Francesco Biamonti in attesa sul mare                   112

«Gli uomini più malvagi sono anche i romanzi peggiori.»
Riflessioni su Harry Martinson,
sulla letteratura e sul nomade del mondo                126

Le tribolazioni di Maqroll il Gabbiere.
Sui romanzi di Álvaro Mutis                             144

Postfazione alle prefazioni                             163


 

 

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Pagina 10

Mare e letteratura


Tra le svariate domande a cui mi è toccato rispondere nel corso degli anni, una ricorrente è come e in che misura il mare e la navigazione — a vela — abbiano ispirato la mia scrittura. Per qualche misteriosa ragione i lettori, giornalisti compresi, soprattutto quelli che non hanno mai messo piede in barca, attribuiscono al mare la facoltà di ispirare la creazione letteraria.

Non nego ovviamente che «il mare» mi abbia fornito qualche ritaglio di geografia, per esempio i porti dove ho attraccato. Dato che ho vissuto parecchi anni in barca e ne ho passati due navigando nell'Atlantico del Nord, sarebbe stata una scelta strana quella di evitare l'ambientazione del mare o delle coste. Nelle storie realistiche, cioè che raccontano quel che potrebbe succedere nel mondo reale, non vedo quale sarebbe il vantaggio di inventare luoghi fittizi in cui far agire i personaggi. E non nego neanche che qualche persona incontrata nelle mie peregrinazioni mi abbia fornito qualche loro tratto, per quanto questi incontri siano in realtà avvenuti a terra, e abbastanza di rado con marinai o navigatori. Ed è vero che per scrivere Il Cerchio Celtico mi sono direttamente ispirato alle mie traversate al largo della Scozia.

Ma mi sembra banale. Qualsiasi scrittore che racconti storie vicine alla realtà si ispira più o meno alle proprie esperienze e osservazioni, pur intrecciandole, trasformandole e fecondandole con l'immaginazione, la propria e quella di altri. Quel che è meno banale è invece cercar di capire da dove venga quest'idea che il mare in sé sia una fonte di creatività letteraria.

In primo luogo: di che mare si tratta? Il mare com'è realmente o quello rappresentato nella letteratura? Il mare seducente accarezzato da una brezza leggera d'estate o il mare che non perdona di una grande tempesta?

E il mare per chi? Per i terraioli che lo guardano da riva e si arrischiano tutt'al più a un bagno? Per i marinai e i pescatori che vi lavorano e si guadagnano la vita, col rischio a volte di perderla? Per i navigatori da diporto che vi trascorrono il tempo libero per puro piacere o, qualche volta, per prestigio sociale? O, ancora, per i regatanti che lo vedono come un campo di gara, uno spazio da attraversare il più veloce possibile?

Infine, di che letteratura si parla quando si dice che è ispirata dal mare? Qualsiasi generalizzazione su «la letteratura», buona o cattiva che sia, non è abusiva? Chi può pretendere di avere una conoscenza un po' precisa e sintetica de «la letteratura»? Anche solo in Europa, si pubblicano ogni anno decine di migliaia di romanzi.

Del resto, quali sono gli scrittori che raccontano realmente «il mare»? Se fosse vero che il mare rappresenta per la letteratura una fonte di ispirazione privilegiata, dovrebbe essere facile trovarne parecchi che utilizzano e mettono a frutto questo filone d'oro della creatività.

Per cercare di chiarire la questione, qualche anno fa ho cominciato una piccola ricerca sui rapporti tra mare e letteratura. Ovviamente per letteratura non intendo il genere di documentazione storica e tecnica normalmente designato con il termine di «nautica», che troviamo in grande quantità nelle librerie specializzate o sugli scaffali dedicati a «sport e divertimento» di quelle generaliste. Che esistano amanti del mare e di quanto lo riguarda, come di qualsiasi campo delle attività umane – guerre, storia, sport, antichità – non c'è ombra di dubbio. Davanti al porto a cui è ormeggiata al momento la mia barca, lo Stornoway, passano ogni giorno centinaia di navi da carico di ogni stazza e paese, e non è raro vedere sul molo gente – uomini – con macchine fotografiche puntate, pronta a immortalarle con impressionanti teleobiettivi. Ci sono boat-spotters quanto train-spotters o plane-spotters.

Ma è di questo interesse che si parla quando si vede il mare come fonte di ispirazione creativa? La letteratura di mare, nel senso letterario del termine, è letteratura d'immaginazione, prosa romanzesca, o più semplicemente romanzo.

Nella mia ricerca sono partito dalla rilettura di quello che, a giudicare dalle domande, ne sembrerebbe il testo fondante: l' Odissea.

Confesso di essere rimasto deluso. Non ovviamente dalle qualità letterarie dell'epopea omerica, ma dallo status di Ulisse come il marinaio vagabondo per eccellenza, origine di tutta la mitologia marinara. Quello che si dimentica, o si tace, è che Ulisse è condannato dagli dei a errare di isola in isola, di avventura in avventura, e in realtà di insuccesso in insuccesso perché, per quanto coraggioso, le sue competenze in fatto di navigazione lasciano piuttosto a desiderare. Ulisse in realtà non merita la sua reputazione di marinaio. È in primo luogo un soldato che vuole una sola cosa: tornare a casa. Lungi da lui il desiderio di vagare gioiosamente per il mondo senza meta precisa sulla cresta delle onde. Se anche non soffre di mal di mare, è affetto da una forma grave di nostalgia della sua isola e della moglie. Non sarebbe certo il tipo che, interrogato sulla sua provenienza, risponderebbe «Dal mare! Dal mare!» come i pirati dell'epoca d'oro, i quali, a sua differenza, non avevano patria, né porto di attracco, né luogo a cui tornare. Il loro destino era la fuga in avanti, per sempre.

La rilettura dell' Odissea mi ha insospettito: forse non c'erano tutti quegli scrittori di mare che si pretendeva. E ho dunque continuato il mio inventario di autori che parlassero realmente di mare, non in quanto simbolo più o meno metaforico della condizione umana e della libertà, di preferenza sognata, ma proprio come luogo in cui si vive e, soprattutto, si lavora.

Il raccolto è stato magro. A parte le eccezioni universalmente note, Conrad , Stevenson , London , Melville , ho trovato ben poco.

[...]




Nella sintetica analisi di questo tema dalle origini ai giorni nostri, nel suo saggio La letteratura italiana e il mare, Goffredo Fofi giunge alla conclusione che «Il mare non produce immaginario, o quanto meno non produce immaginario nei letterati». E continua sottolineando «il divario tra una fortissima presenza del mare nella storia della penisola Italia, e la sua scarsissima presenza invece in quella letteraria». Il luogo comune secondo cui l'Italia sarebbe «terra di santi, poeti e navigatori», potrebbe forse essere più veritiero sostituendo «poeti» con «calciatori» e «santi» con «politici», comunque sia, nella letteratura, fa sempre notare Fofi, «se i santi e i poeti hanno lasciato tracce scritte assai forti, i navigatori no». D'altra parte si potrebbe anche evidenziare il paradosso di parlare di «terra di navigatori», quando normalmente si presume che i marinai non abbiano patria. E infine Fofi sottolinea un'espressione rivelatrice che riguarda i pescatori, definiti a volte come «contadini del mare»: almeno in Italia, «il mondo dei pescatori e dei marinai doveva ancorarsi alla terra, decisamente, saldamente».

Certo, si può sempre sostenere che l'Italia e la sua letteratura siano un caso a parte, ma in realtà non è affatto il solo paese che, pur circondato dal mare, sia carente di tradizioni marinare. L'Irlanda, per esempio, terra di agricoltura e di patate. È noto che se gli Irlandesi avessero imparato a mangiare cozze e ostriche, per le quali provavano ribrezzo, centinaia di migliaia di irlandesi non sarebbero morti nella Grande Carestia del XIX secolo. O la Sardegna, altra terra circondata dall'acqua e rivolta verso il suo interno e le sue montagne. In compenso, ci sono regioni della Francia, come la Bretagna, o paesi come la Svezia, in cui sono radicatissime: in Svezia le statistiche dicono che, su nove milioni di abitanti, le imbarcazioni grandi o piccole sono novecentomila, ma quel che manca in entrambi i paesi è una tradizione marittima letteraria all'altezza di quella del mondo reale.

E che dire dell'Inghilterra, il paese della tradizione marinara per eccellenza, al punto che per tantissimo tempo il governo di sua maestà ha avuto un ministro della marina, il First Lord, posto occupato a un dato momento da Churchill. Ebbene, qualche romanzo di mare qua e là lo si trova, come Il capitano Singleton di Defoe , o Le avventure di Roderick Random di Tobias Smolett, la trilogia Ai confini della terra, che include Riti di passaggio, Calma di vento e Fuoco sottocoperta, di William Golding , o i romanzi di avventura di Hammond Innes, scrittore vissuto per qualche tempo a bordo della sua barca. Ma, a quanto ne so, di un grande romanzo che racconti di come l'impero britannico sia nato grazie alla sua marina, militare e commerciale, non c'è traccia. C'è stato, sì, un vero e proprio filone letterario che ha conosciuto un grande successo, e che potremmo designare come i «romanzi marittimi anglosassoni della guerra navale contro Napoleone» – di cui si conoscono di più gli eroi degli autori, Hornblower, Bolitho, Delauney e, più recente, Stephen Audry – che potrebbero cambiare radicalmente la situazione, se non fosse che questi romanzi si inscrivono in realtà in un'altra tradizione, quella della narrativa di guerra, che sia in mare o in terra.

[...]




Qualcuno potrebbe sostenere che la mancanza di interesse degli scrittori per il mare e le questioni marinare dipenda dalla mancanza di esperienza personale sul campo. Ma chiaramente non è un argomento che tenga: Balzac non ha vissuto le vite dei suoi tremila personaggi; Dostoevskij non è mai stato un assassino come Raskol'nikov; O'Brian, il celebre scrittore di storie di mare nella linea di Hornblower, non aveva mai messo piede su una barca a vela prima degli ottant'anni; Stevenson, anche se figlio di un costruttore di fari, ha navigato molto poco di persona, e certo non come pirata; Henri Queffélec, autore di alcuni buoni romanzi sui pescatori bretoni, non è mai andato per mare; e la lista potrebbe continuare. D'altronde non esisterebbe il genere del romanzo storico, se per scrivere si dovesse avere esperienze personali. Dire che bisogna aver vissuto quel che si vuole raccontare significa anche dimenticare che il difficile non è avere qualcosa da dire o una storia, vera o no, da narrare, ma è proprio il metterla per iscritto, nero su bianco, far sì che il lettore possa provare e sentire quello che gli viene raccontato. Non si diventa scrittori perché si ha avuto una vita interessante, ma semplicemente perché si sa scrivere. E se bastasse!

[...]




Non posso evidentemente parlare in nome dell'intera categoria degli scrittori, ma per quanto mi riguarda vivere in barca, navigare, è uno stile di vita, una fonte di sogni realizzabili, un lento distillare esperienze e osservazioni, qualcosa di eternamente mutevole, un luogo dove può essere bello vivere ma anche ogni tanto abbandonare, dove la partenza e l'arrivo sono più importanti del viaggio, dove ciò che si nasconde dietro la linea dell'orizzonte è la vera meta del viaggio, ma anche dove bisogna stare sempre all'erta, a rischio di non tornare più. Il mare in sé non significa nulla, non è in sé una fonte di saggezza o di etica. Ma può esserlo e lo sarà sempre in modo diverso dalla terra. In mare l'incertezza, la precarietà, l'effimero diventano certezze incrollabili con cui bisogna imparare a vivere.

Per me il mare, e qui mi troverò di sicuro in disaccordo con altri navigatori più avventurosi e sportivi, non è una sfida lanciata alla morte o alla vita. Non è una prova da superare. Sull'acqua la presunzione e la megalomania sono peccati capitali.

Il mare è soprattutto la possibilità di un incontro con l'altro, con lo straniero del posto, là. È poter vivere da nomadi, sul proprio piedà-terre fluttuante, senza essere visti come una minaccia all'arrivo da terraioli e proprietari. Nel momento in cui il marinaio scende a terra, come qualsiasi viaggiatore straniero che dichiari l'intenzione di restare, il mito seduttore si trasforma in realtà ingombrante. Il vantaggio di essere marinaio, in effetti, è che la gente dà per scontato che ripartirai. È la base stessa del mito. Il marinaio che mette radici perde presto il suo potere di sedurre e di far sognare.

Un po' come nella letteratura: quanti sono gli autori che nelle loro pagine viaggiano davvero, cioè sono capaci di raccontare l'altro, lo straniero? Quanti sono gli scrittori israeliani che tentano di calarsi nella pelle di personaggi palestinesi, o i francesi di immaginarsi inglesi o svedesi? E viceversa? Anche gli scrittori in esilio continuano in genere a raccontare la vita dei loro affini e del paese d'origine. Arriverei anche un po' polemicamente a dire che una letteratura che si barrica dietro le persiane, innalza muri di protezione, vede nell'altro una minaccia, smette di partire per terre straniere e rimane al caldo e al sicuro a casa non è vera letteratura. Non che io sia contro una letteratura più sedentaria e locale, ma non è quella che inseguo e sostengo, che è piuttosto a immagine della mia particolare visione del mare: come luogo in cui è possibile sperimentare altre vite, altri pensieri, altre identità, altre passioni, insomma mettersi in gioco.

[...]




Una letteratura che fa dell'oceano il simbolo di una visione dell'esistenza e di un'altra vita preferisce la ribellione al servilismo, lo sradicamento al radicamento, l'insubordinazione all'obbedienza, la blasfemia all'encomio, il nomadismo alla sedentarietà, l'eccezione alla triste normalità, la scoperta alla conferma, il cosmopolitismo alla tribù, il meticciato alla monocromia, l'anticonformismo al conformismo, il sacrilegio alla consacrazione. L'idea stessa di moda, stagione, collezione, ultimo grido, è antitetica alla letteratura. È bene ricordare, coi tempi che corrono, che la letteratura offre solo insicurezza, ma un'insicurezza salutare. Non c'è grande letteratura in difesa della pena di morte, né della tirannia, né tanto meno delle forze dell'ordine. La letteratura, semplicemente, non riconosce l'autorità di nessun capitano, sarà sempre dalla parte dell'equipaggio.

Per questo motivo rimane un appello alla libertà del lettore, anche dove racconta le peggiori atrocità commesse dall'uomo. Non può essere arrogante, sprezzante o meschina, ma al contrario una dichiarazione d'amore, e non una posta del cuore per rimediare alla propria piccola solitudine personale. L'autofiction e l'egocentrismo dovrebbero essere vietati. La letteratura è generosa o non è.

È chiedere molto, ma è a questo prezzo che la letteratura mantiene un senso, per lo scrittore e per i lettori.

Come essere umani, come restare umani, come non diventare disumani, sono queste le vere questioni della letteratura. Che parli o meno del mare, dei marinai o dei terraioli.

Ma prima ancora bisogna avere una storia bella e densa da raccontare, in una lingua affilata che manda scintille, senza di che semplicemente non c'è letteratura.

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Pagina 26

Lo specchio del mare di Joseph Conrad


Da dove deriva quell'interesse, mai in calo, che i lettori hanno per la vita dei grandi scrittori? È una domanda che vale la pena di farsi, perché se c'è una cosa che caratterizza gli scrittori di calibro è che la loro vita è molto meno interessante di quella dei loro personaggi. Anche quelli che a prima vista possono sembrare un'eccezione alla regola, per esempio Hemingway, si rivelano spesso dei mistificatori che si sono inventati la loro storia pubblica. Altri, la cui esistenza scandalosa o tumultuosa può dare in un primo tempo l'impressione di soverchiare l'opera, finiscono quasi sempre per dimostrarsi scrittori minori. Non c'è paragone tra la vita di Fedra e quella di Racine, come tra le vicende amorose di Stendhal e quelle di Fabrizio del Dongo. Possiamo certo restare affascinati dalla tenacia con cui lavorava Flaubert, ma se non fosse riuscito a creare Emma Bovary, la sua ostinazione a scrivere contro venti e maree apparirebbe più che altro l'anomalia di un eccentrico.

Sulla scia di Proust, molti autori hanno cercato di difendere l'autonomia dei loro eroi ed eroine dalla curiosità dei lettori. I critici, Roland Barthes in testa, hanno voluto tagliare i ponti tra gli scrittori e i testi per poterli interpretare a modo loro. Invano, si direbbe. La critica biografica dimostra una salute di ferro, le biografie degli scrittori sono successi editoriali e i lettori accorrono agli stand delle fiere del libro per aver diritto a qualche parola, a un sorriso, a un autografo dei loro beniamini, spesso, tra l'altro, senza averli letti.

Non è questo il luogo per interrogarci sui motivi di questo interesse. Ci basta constatare che non è nato ieri e che la situazione era sostanzialmente simile quando Conrad pubblicò Lo specchio del mare, nel 1906. A quell'epoca aveva già conquistato pubblico e critica con grandi romanzi, tra cui Il negro del "Narciso", Lord Jim e Nostromo. Inoltre era evidentemente vissuto lontano dai sentieri battuti: aveva trascorso vent'anni a solcare gli oceani sui mitici grandi velieri che facevano sognare aspiranti marinai come sedentari terraioli. Senza dimenticare che era un emigrato che scriveva capolavori in una lingua che non era la sua e che parlava piuttosto male, in ogni caso peggio del francese, che era la sua seconda lingua dopo il polacco. Come aveva fatto uno così a diventare un grande scrittore? Qual era il suo segreto? Da dove aveva preso personaggi indimenticabili come Lord Jim o il Negro del Narciso? Quale somigliava di più a Conrad? C'è da scommettere che nello Specchio del mare, il suo primo scritto autobiografico, i lettori si aspettassero di trovare la risposta alle loro domande.

[...]




Il mare è uno specchio perché riflette fedelmente la nostra immagine. In mare non vale la pena di fingere o salvare le apparenze. Finzione e millanteria sono presto punite. Conrad parla dei suoi anni in mare come di «quel genere di esperienza che insegna a poco a poco all'uomo a vedere e a sentire». Dire che il mare riflette fedelmente la nostra immagine e ci rivela a noi stessi equivale a dire che il rapporto tra Conrad e il mare è realistico e concreto, senza inutile romanticismo o idealismo. Per i terraiolí, si sa, il mare è soprattutto uno spazio di sogno e di miti. È il simbolo quasi parodistico della libertà e della partenza verso esotici lidi. Per il marinaio esperto, invece, il mare è un luogo che più concreto di così non potrebbe essere, un luogo di lavoro dove l'errore di giudizio, la negligenza e la leggerezza hanno la loro immediata punizione. «La puntualità è la parola d'ordine», scrive Conrad per la massima delusione dei romantici del mare. «L'incertezza che accompagna ogni sforzo artistico è assente da questa impresa regolamentata.»

[...]




Lo specchio del mare mi sembra prima di tutto una grandissima lezione di realismo per terraioli ignoranti e sognatori. Ma loro lo sapranno apprezzare nella giusta misura, questo realismo? Non è detto. Conrad evidentemente sa di cosa parla, tanto che a volte dimentica di spiegare cose che sarebbero forse essenziali per chi non ha esperienza personale del mare. Racconta per esempio di tre giorni di fuga in fil di ruota a bordo di un piccolo brigantino a palo di quattrocento tonnellate con un tempo pessimo, ma che restava ancora, come dice bene lui, «maneggevole». In un linguaggio esatto e suggestivo, evoca l'avanzare agile della nave con un ribollire di schiuma a livello delle impavesate nel mare agitato. È ben chiara l'immagine della nave che sale e che scende tra i flutti e quasi si avverte il fracasso delle onde che si abbattono sull'imbarcazione nel tentativo di ricacciarla indietro. Ma Conrad nota anche, en passant, un dettaglio che per il marinaio spiega tutto, ma che deve essere quasi incomprensibile per chi non ha conosciuto il mare grosso: «Sembrava che il brigantino a palo facesse la corsa con un mare lungo e regolare che non lo abbonacciava negli avvallamenti». Forse, solo chi ha vissuto l'esperienza allucinante di ritrovarsi per bonaccia tra due onde gigantesche può apprezzare l'importanza del fatto che la nave non «abbonacciasse», cioè non perdesse il vento. Era questa la differenza tra una navigazione grandiosa e una navigazione pericolosa in cui ogni avvallamento tra due onde poteva rendere la nave impossibile da manovrare e in cui a ogni frangente si rischiavano il ribaltamento e la morte istantanea.

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Pagina 95

Ma su un punto lo Spray si differenzia da tutte le barche su cui ho navigato o di cui ho anche solo sentito parlare: aveva una stabilità di rotta fenomenale e poteva navigare in autonomia per miglia e miglia, se aveva le vele ben regolate. Ecco cosa scrive Slocum dell'ultima traversata dell'Atlantico: «Era stata una navigazione deliziosa. In quei ventitré giorni non ho passato più di tre ore al timone, includendo il tempo impiegato a bordeggiare nel porto delle Keeling. Mi limitavo a bloccare la barra lasciando andare la barca. Non faceva differenza se il vento soffiasse al traverso o di poppa: l'imbarcazione teneva la sua rotta».

Roba da far morire d'invidia i navigatori del giorno d'oggi, che non possono lasciare il timone più di un minuto o due prima che la loro barca vada all'orza o peggio ancora alla poggia, a rischio di una bella strambata. Mi spingo anzi ad affermare che Slocum non avrebbe mai potuto portare a termine il suo giro del mondo, o almeno non in modo così felice e fortunato, se non fosse stato per la capacità dello Spray di mantenere la rotta. Lo skipper poteva sempre contare sul fatto che la sua barca se la sarebbe cavata da sola anche quando si ballava e che avrebbe proseguito dritta per la sua strada mentre lui riposava, si preparava da mangiare o tracciava la rotta.

Da allora sono state costruite parecchie repliche dello Spray, tentazione a cui ha ceduto, tra gli altri, anche un mio caro amico. Ma per quanto le repliche abbiano ereditato alcune delle sue qualità e la sua stabilità, nessuna, che io sappia, si è mai davvero avvicinata all'originale. Anche senza voler tirare in ballo le moderne barche con sovrastrutture grosse come caravan e la chiglia saliente, che hanno bisogno di autopiloti o timoni a vento per dare un attimo di tregua allo skipper e all'equipaggio, nemmeno le barche da viaggio a chiglia lunga sono esenti da questo difetto: alcune tendono tanto all'orza che dopo un paio d'ore al timone bisogna aiutarsi con il ginocchio per riuscire a opporre resistenza.

In inglese si dice che per essere adatte alle lunghe navigazioni le barche a vela devono avere due caratteristiche: devono essere sea-kindly e sea-worthy, letteralmente «gentili con il mare» e «degne del mare», ovvero, tradotto più liberamente, confortevoli in navigazione e marine. Per essere definite sea-kindly, devono avere il timone leggero, essere stabili di rotta e sapersi muovere con dolcezza tra le onde senza piantarsi. Per essere definite sea-worthy, non devono imbarcare acqua se qualche onda si abbatte in coperta, devono essere in grado di resistere a un arenamento senza perdere la chiglia e non disalberare in caso di vento forte o rovesciamento. Lo Spray possedeva entrambe le caratteristiche, e ad altissimo livello.

Forse però una qualità gli mancava, anche se Slocum non ne fa mai menzione, ovvero la bellezza. Ma progettare e costruire una barca che abbia tutte e tre queste caratteristiche è probabilmente impossibile. La barca a vela perfetta non esiste, così come non esiste il racconto di navigazione perfetto. Ma lo Spray e Solo, intorno al mondo arrivano comunque molto vicini alla perfezione. Ed è già tanto, anche se probabilmente il libro di Slocum non verrà mai considerato un capolavoro della letteratura.

Concludo con le ultime parole del libro, che riassumono così bene la sensazione che si ha leggendolo: «Sono stati sempre giorni felici, ovunque la mia barca veleggiasse».

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Pagina 138

Il rischio di essere letti banalmente come una fuga temporanea, innocente e immobile da una quotidianità grigia e triste, Martinson lo corre in compagnia di altri scrittori dello stesso genere, le cui opere vengono marginalizzate come nient'altro che racconti di viaggio o romanzi d'avventura. Molti hanno sostenuto che per descrivere l'uomo bisogna scavare dove si è e per essere un grande scrittore bisogna immergersi fino al collo nell'humus dei campi o essere avvolti da una nuvola di polvere industriale. Uno dei sostenitori di questo punto di vista è curiosamente George Orwell, nonostante lui di persona avesse molto viaggiato e ambientato spesso i suoi romanzi in paesi lontani: «Miller descrive l'uomo della strada, ed è un peccato, tra parentesi, che sia una strada piena di bordelli. Ma è il prezzo che si paga per aver abbandonato la propria patria, vuol dire mettere le radici in strati di terra meno profondi. L'esilio, probabilmente, danneggia più un romanziere che un pittore, o perfino un poeta».

È vero che molti capolavori sono nati dall'ambiente vicino all'autore, e che buona parte della letteratura di viaggio è esotica nel senso deteriore del termine. Ed è altrettanto vero che molti scrittori in esilio hanno dovuto pagare un prezzo alto – anche se ci sono brillanti eccezioni, come Beckett, Joyce, Ionesco, Nabokov e, perché no? anche Rousseau, per fare solo qualche esempio. Ma è falso dire che la verità sull'uomo si trova unicamente dalla parte dei sedentari e dei radicati. Esiste e deve esistere una letteratura che parla di chi, volente o nolente, viaggia davvero, di chi ha lo spostamento, il trasferimento, l'esilio come forma di vita: marinai, artisti circensi, zingari, nomadi ambulanti, vagabondi, rifugiati politici o meno, lavoratori stagionali, predicatori, missionari, diplomatici, pastori, ma anche rappresentanti e uomini d'affari. Harry Martinson non parla di viaggio per incoraggiare la gente a viaggiare, ma per dare voce a chi è in viaggio, chi non ha patria, porto d'attracco, famiglia. È vero che difende una filosofia in parte utopistica della vita fondata sul viaggio, come alternativa che controbilancia la paura che hanno i sedentari per tutto ciò che è straniero: «Io, che sottoscrivo la religione girovaga del contro-corrente, sono convinto della missione globalmente sociale dei nostri piedi, anche per la nostra salute mentale. Non credo neanche per un secondo a tutto ciò che è tagliato a fette pedanti, inciso staticamente. Credo solo all'organizzazione dinamica, a ciò che è vivo. Il giorno in cui il mondo avrà compreso quello che salverà il nostro pianeta, che prosegue ancora il suo cammino attraverso lo spazio come una testa di rapa cruda, quel giorno la specie umana sarà vicina alla perfezione: Il nomade sano e iperintellettuale».

Ma va notato che questo «nomade sano e iperintellettuale» compare di rado o mai nei libri di Harry Martinson. I viaggiatori che vi si incontrano sono quelli della vita vera, e anche loro hanno diritto a una propria letteratura; una letteratura senza frontiere nazionali, senza bandiere, senza porti di attracco e senza terre d'origine, ma con un orizzonte infinito, sotto il quale si nasconde la speranza di una vita migliore. È questa letteratura che offre Martinson, come uno dei rari scrittori che difende il diritto dell'uomo a spostarsi e a scegliere la propria identità, nella letteratura come nella realtà. Proprio quel diritto che ai nostri giorni vediamo sempre più ridotto e violato e che per questo va difeso, molto più del diritto di possedere la terra e proibire ad altri di approfittarne.

[...]




Se la lettura di Martinson è imprescindibile, è per la sua lingua che rinnova la lingua, dandole possibilità di espressione mai sospettate, perché dà voce a chi non ne ha e infine perché ha una visione tutta sua dell'essere umano e dell'esistenza. Di questa visione del mondo fanno parte il diritto e il desiderio di viaggiare, ma anche la vita come cammino della giusta via di mezzo di una costante aerazione. «A meno di trasformare piccole e grandi cose», scrive in Kap Farväl!, «saremo ridotti a vivere nel dolore, perché allora arriverà quel che è sempre arrivato: il vento glaciale delle ingiustizie, gli sbadigli dell'indifferenza, i tifoni delle guerre». Ma sosteneva anche che il mondo non può diventare vivibile se rimane irreconciliabile ed estremista. «Mai che si veda il giusto mezzo», scrive in Kap Farväl!. «I dementi del bellicismo e i re della Borsa non lo conoscono. Nel giusto mezzo risiede la ragione, e perfino l'estasi e i sentimenti più veri.»

Più oltre: «La cultura è coltivare i necessari compromessi, quelli che potranno costituire la base di estasi e felicità».

Già sento qualche critico combattivo gridare: «La cultura sarebbe il giusto mezzo?» Sì, proprio. Ma non il giusto mezzo inteso come normalità, come il grigio del mese di novembre, come né l'uno né l'altro. È questo il punto forte di Martinson. Alla fine di Kap Farväl! scrive:

Il nostro ideale non deve essere la calma piatta, che può trasformare il mare stesso in una palude, non l'uragano, ma gli alisei forti e potenti, pieni di vita, freschi e vivi; un eterno ricambio d'aria.

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Pagina 184

Ne aggiungerò, per finire, un'altra. Nel corso di una vita dedicata alla letteratura, in cui ho letto migliaia di romanzi, centinaia di saggi e decine di storie della letteratura, sono giunto alla conclusione che non solo i marinai, ma tutti i raminghi, i vagabondi, i viaggiatori, i pellegrini, i senza patria, i senza casa, i clandestini, gli stagionali, i nomadi, i migranti – tutti gli uomini o le donne «dalle suole di vento», per parafrasare il bel titolo rimbaudiano del saggio di Michel Le Bris – sono largamente lasciati fuori dalla storia della letteratura. Ma perché? È perché la letteratura, almeno quella scritta, è sempre stata affiliata al progetto dell'identità nazionale, religiosa o tribale, e gli scrittori senza rendersene conto non sono stati capaci di affrancarsene? O più banalmente, perché il fatto di scrivere in una sola lingua non può tradurre la realtà di coloro che sono obbligati a vivere in più lingue contemporaneamente, che sia l'inglese marinaresco, una lingua «creola» di cui più nessuno si cura, o più lingue scelte dal caso, ma nessuna sufficientemente padroneggiata? Quando vedremo il primo romanzo scritto in più lingue?

Non lo so. Ma è proprio a causa di quest'oblio per le genti di viaggio, nel senso più generale del termine, che trovo così commovente il racconto che fa Harry Martinson in Kap Farväl!. dell'uragano al quale sopravvive per un soffio il cargo S/S Ionopolis. Alla fine Martinson constata: «la nostra unica fortuna fu che eravamo al largo», e aggiunge:

Gli annegati nel corso della notte sono stati: il marinaio Criss Kalliosso, di Nicosia, il capomacchine Aros Cyperin, di Paikopolis, e il mozzo belga Peter Jan Vrievelde, di Adinkerke.


Citando semplicemente i nomi dei morti, che altrimenti avrebbero vissuto la loro vita senza che nessuno, a parte forse i congiunti, si accorgesse di loro, Martinson ci ricorda che tutti hanno diritto di esistere, non solo i grandi e gli importanti di questo mondo, ma anche quelli che vivono con discrezione alla periferia del turbine della storia, quelli che altrimenti sarebbero come la scia di una nave: la traccia che lasciano è visibile un fugace istante, per poi confondersi per sempre con tutti coloro che li hanno preceduti sull'oceano delle vite umane.

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