Copertina
Autore Björn Larsson
Titolo Il porto dei sogni incrociati
EdizioneIperborea, Milano, 2001, Iperborea 97 , pag. 310, dim. 100x200x23 mm , Isbn 978-88-7091-097-1
OriginaleDrömmar vid havet
EdizioneNorstedts Förlag, Stoccolma, 1997
TraduttoreKatia De Marco
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe narrativa svedese , mare
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Pagina 11

1



C'erano giorni, sull'Atlantico, senza una nuvola all'orizzonte, in cui il mare e il cielo erano dello stesso azzurro profondo. In quei gioni un sole tagliente illuminava masse d'acqua in tumulto, le creste candide delle onde si strappavano in brandelli di schiuma, la nave rollava su quelle enormi montagne d'acqua e un vento implacabile sollevava un pulviscolo di spruzzi che accendeva fugaci arcobaleni attorno alla prua. Era quel genere di giorni per cui certe persone sarebbero pronte, sia pure in senso figurato, a dare la vita. Ma che la maggioranza darebbe qualsiasi cosa per evitare, non fosse altro che per paura della morte. O della vita.

Era in uno di quei giorni che passarono l'isola di Salvore vicino all'insenatura del Ría Arousa, dove finalmente trovarono riparo dal vento. Le ultime ore di navigazione erano state grandiose, ma anche stressanti. Il vento non aveva smesso di rinforzare a poco a poco, ma con costanza, per tutta la mattina, fino a diventare una vera e propria tempesta intorno a mezzogiorno. Le onde dell'Atlantico si erano gonfiate in mostri deformi che sballottavano qua e là la loro nave da tremila tonnellate come un tappo di sughero. Era una fortuna che viaggiassero a pieno carico, stivato e assicurato sottocoperta a regola d'arte. Se ognuno faceva quel che doveva, non c'era motivo di preoccuparsi.

Sundgren, il secondo, aveva pilotato la nave egregiamente. Mai una volta aveva commesso un errore di stima. La manovra per entrare nell'imboccatura del Ría Arousa era stata magistrale: netta, precisa, veloce, con quei colpi di timone dati esattamente al momento giusto tra due serie di onde particolarmente alte e ripide. Proprio per questo sarebbe stato ingiusto da parte di Marcel, il capitano, prendere il suo posto al timone ora che il peggio era passato. Doveva lasciare a Sundgren il tempo di sentire che aveva portato fino in fondo l'impresa di condurli sani e salvi in porto.

Erano quasi quindici anni che Marcel e Sundgren navigavano insieme. Marcel era stato perfino secondo di Sundgren, prima che questi, per propria richiesta, retrocedesse di grado. Sundgren era un marinaio di prim'ordine e raramente commetteva errori, per non dire mai. Ma a che prezzo? Un'assillante angoscia a ogni manovra e ogni decisione, una logorante inquietudine al pensiero di tutti i possibili incidenti o rischi a bordo e un'incessante tormento per tutto quello che poteva succedere in banchina o agli ormeggi. Un profano avrebbe potuto pensare che Sundgren fosse di quelli che si fanno carico di tutte le sventure di questo mondo, ma non era il suo caso. Gli incidenti veri, soprattutto quelli che capitavano a terra, li prendeva con molta filosofia. Era solo il possibile che lo riempiva di apprensione e di cattivi presentimenti. Sundgren era in grado di attraccare con la leggerezza di una piuma in qualsiasi porto del mondo e in qualsiasi condizione. Ma per la pace dell'anima preferiva che Marcel prendesse il suo posto nei momenti di massima responsabilità. Sundgren guardò Marcel come se lo vedesse per la prima volta. Aveva incontrato un'infinità di persone nella sua lunga vita sul mare, ma mai gli era capitato di conoscere qualcuno che avesse il distacco e la noncuranza di Marcel. Come diavolo faceva?

Era certo un ottimo capitano, e uno dei migliori, anche, ma si sarebbe detto che nulla facesse presa su di lui. Era come un bambino, quando i bambini sono come dovrebbero essere. I due figli di Sundgren, in effetti, erano piuttosto carenti dal punto di vista della spensieratezza. Ma forse non c'era da stupirsene. Non è che lui fosse mai stato proprio un buontempone.

"Prendi le cose troppo sul serio", gli diceva spesso Marcel.

"Forse hai ragione", gli rispondeva altrettanto spesso Sundgren. "Ma come si fa a non farlo?"

A questo Marcel non trovava altra risposta che basta non prenderle troppo sul serio, tutto lì. E in effetti era proprio quello che sembrava fare lui. Era capitano di lungo corso, con tanto di spalline e una posizione di responsabilità, ma sembrava non fargli né caldo né freddo, come se avesse potuto abbandonare il suo posto in qualsiasi momento per andare a vivere in una capanna su un'isola nei Caraibi, o in qualsiasi altro angolo sperduto del mondo. Sundgren non capiva Marcel e non sapeva quasi niente della sua vita o del suo passato, se non che era nato a Giacatta ed era mezzo olandese, ma lo stimava moltissimo. Senza Marcel a bordo non sarebbe stato altro che un fascio di nervi, un tiranno irritabile e insicuro, e si sarebbe odiato per questo.

Cos'aveva Marcel che mancava a tanti altri, si domandava Sundgren osservandolo mentre era in piedi sulla plancia, in maniche di camicia, per ormeggiare la loro nave nell'infuriare di una tempesta, senza il minimo segno di inquietudine o di nervosismo? Come diavolo faceva a prendere tutto così dannatamente alla leggera, come se la vita fosse un gioco, una bella storia da raccontare nel castello di prua? Sundgren non avrebbe saputo dirlo, e forse non voleva neppure saperlo. Da parte sua, preferiva una vita solida e prevedibile, conoscere il proprio posto e non cercare altro. Gli bastava e avanzava avere il privilegio di navigare con Marcel. Non aveva bisogno di essere come lui, per di più.



2



C'erano giorni d'inverno, a Vilagarcía de Arousa, in cui il mare sfogava tutta la sua rabbia e pareva volersi vendicare degli uomini che l'avevano requisito a proprio uso e consumo. In quei giorni il libeccio gemeva e ululava tra le case, le onde corte e ripide del ría si battevano in duelli furiosi per arrivare prime a rovesciarsi sulla spiaggia, e si aveva quasi l'impressione di sentire il frastuono assordante dei marosi che marterallano implacabili le scogliere a picco più a ovest.

In quei giorni Rosa Moreno veniva presa dalla paura. Al riparo dietro l'angolo di una casa, guardava fisso quell'acqua schiumante, e si chiedeva se avrebbe mai avuto il coraggio di partire. Se avrebbe mai osato vivere.

Per quanto indietro risalissero i suoi ricordi, aveva sempre avuto quel desiderio che le doleva dentro. Cos'era capace di fare? Due anni di studi di legge non erano granché. Al bar dove lavorava qualcuno sosteneva che somigliava a Ingrid Bergman, che lei, Rosa Moreno, aveva il sorriso di Ingrid Bergman.

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Pagina 72

"Perché le interessa così tanto Mama?" gli domandò Marcel.

Jacob Nielsen non sapeva bene cosa rispondere, ma disse che la cosa più importante doveva essere collegare le persone una all'altra, come su Internet. Non era questo che faceva Mama, anche se in modo più artigianale? Chissà quante persone erano collegate tra loro attraverso di lei, come Jens e Marcel. Pensare cosa si deve provare a essere il ragno di una simile rete!

Tornando a casa Jacob Nielsen continuava a rimuginare su quella donna che teneva un registro con migliaia di nomi e di persone. In effetti, Jacob Nielsen aveva un sogno. Quello di riuscire, dalla stanza senza finestre dove teneva il suo computer, a sconfiggere la sua stessa transitorietà. Il suo sogno più intimo e il suo desiderio più ardente erano di lasciare una traccia di sé in tutti i computer del pianeta. La sua idea era di poter comparire di colpo, lui, Jacob Nielsen, con tutte le informazioni che lo riguardavano e le sue opinioni sulla vita, su uno schermo al Pentagono o alla Banca Nazionale Danese. Jacob Nielsen avrebbe voluto diffondersi come un virus attraverso i conti correnti postali, le distinte delle ditte di spedizioni e le statistiche dell'Istituto Gallup.

Era cominciato come un gioco, ma a poco a poco Jacob Nielsen si era accorto di pensarlo sul serio. Una vita che si spegneva senza lasciare traccia, gli era venuto in mente un giorno, era assurda. Un uomo che alla sua morte sparisse completamente nell'oblio senza lasciare la minima traccia di sé, neppure nei suoi figli - Jacob Nielsen ne aveva due, nessuno dei quali si preoccupava del padre - un uomo così sarebbe vissuto letteralmente invano, o comunque senza essere di grande utilità. Se ne poteva al limite fare a meno, visto che, in un certo senso, non era mai esistito. Questo ovviamente valeva anche per lui. Era la conclusione cui era attualmente giunto.

La vita sono le tracce che lasciamo mentre siamo vivi. Era questo che importava. E Jacob Nielsen l'avrebbe gridato al mondo, sotto forma di virus, assicurandosi al tempo stesso di venire ricordato e di non sparire nel processo.


Quando accese il computer il suo nome riempì tutto lo schermo. «L'occhio di Jacob Nielsen sul mondo», c'era scritto, in lettere che cambiavano forma e colore fino a trasformarsi in un occhio che lo fissava vuoto e privo d'espressione. Ma poi arrivava un tremobo quasi impercettibile della pupilla, seguito da una complice strizzatina d'occhio.

Jacob Nielsen sorrise. Non si stancava mai di ammirare com'era riuscito a programmare quella strizzatina d'occhio che gli dava il benvenuto ogni volta che accendeva il computer, la sua fìnestra aperta sul mondo.

Si infilò gli occhiali tridimensionali e subito l'immagine acquistò profondità e prospettiva. A poco a poco la pupilla si trasformò in una spirale infinita che ruotava lentamente su se stessa. Nielsen si lasciò sprofondare nel vuoto. Era la realizzazione dei suoi sogni, lasciarsi scivolare senza rischi oltre l'orlo dell'abisso, librarsi libero, senza l'intralcio di quel suo corpo goffo che non faceva che diventare sempre più stanco e pesante ogni giorno che passava. Si lanciò a capofitto nelle profondità della pupilla, senza il minimo timore, perché sapeva cosa l'aspettava. Da qualche parte nella tortuosa voragine del frattale si sarebbe acceso un punto dai colori dell'arcobaleno, che avrebbe preso a splendere come il mare al tramonto. Atterrando in mezzo a quell'esplosione di infinite sfumature, si sarebbe l'attimo dopo ritrovato al centro di un paesaggio di Max Ernst, che lui stesso aveva scannerizzato e riempito di visi di donna, misteriosi e inaccessibili.

Non era stato difficile ottenere quello spettacolo, pensò mentre cadeva pieno di aspettativa. Con uno scanner e un buon programma di realtà virtuale, e con i soli limiti imposti dalla propria fantasia, si potevano mescolare realtà e finzione a piacimento. In quel nuovo mondo ci si poteva esporre a qualsiasi pericolo senza correre il minimo rischio. Aveva letto da qualche parte che la realtà virtuale era una nuova droga, ma chi l'aveva scritto non aveva capito la cosa più importante. In quell'universo si rimaneva sempre se stessi. Era il proprio io che aveva creato quelle immagini, quel mondo e quei paesaggi.

Ma nell'istante stesso in cui l'aveva pensato, Jacob Nielsen si accorse che c'era qualcosa che non andava. Continuava a cadere, ma sentiva degli strani brividi in tutto il corpo. Poi ebbe l'impressione di sentirsi ansimare, mentre avrebbe dovuto esserci assoluto silenzio. Doveva essersi guastata la scheda audio o le cuffie, perché sentiva il pulsare della vita quotidiana.

Ma no, non era nemmeno quello. Continuava a cadere sempre più veloce. E ancora di più. La spirale ruotava sempre più rapidamente. Cominciava ad avere le vertigini, come se fosse stato ipnotizzato. L'arcobaleno era sparito. All'improvviso pensò che avrebbe continuato a cadere per tutta la vita, che non avrebbe mai raggiunto il fondo. Sentì una mano che gli afferrava il cuore e lo stringeva. Aprì e chiuse gli occhi più volte per cercare di liberarsi dalla nausea e dalle vertigini, ma quando li riaprì vide soltanto quella spirale vorticante dal basso invece che dall'alto come prima. Lassù, in cima, vide con terrore una forma indistinta. Cos'era? Cosa diavolo voleva dire tutta quella storia? Una bocca, ecco cos'era, una fila di denti. No, un sorriso. E allora lo riconobbe. Era il sorriso del capitano Marcel. Il suo terrore svanì, il senso di vertigine e di nausea diminuirono, il respiro tornò a ritmi normah. Non lo sentì più.

La crisi era passata, pensò sollevato. Non era stata la realtà virtuale della macchina, ma solo la sua immaginazione che aveva rivolto il suo sguardo verso l'interno. Non aveva mai vissuto un'esperienza del genere. Si disse che non c'era niente, là dentro, che potesse fargli perdere l'equilibrio. Non era altro che realtà artificiale, la consueta finzione, come nei libri e nei film. Solo un paio di occhiali tridimensionali e un sistema binario di zero e di uno, impulso elettrico o meno, solo quello e nient'altro.

Stava per togliersi gli occhiali quando vide il sorriso di Marcel sparire a poco a poco attraverso l'imbuto, a una distanza infinita da lui. E poi si accorse con rinnovato terrore che la spirale riprendeva a ruotare e che il buco sopra di lui si restringeva come l'obiettivo di una macchina fotografica chiuso dall'otturatore. In un secondo era tutto finito. Era prigioniero tra due abissi, uno verso l'alto e l'altro verso il basso, privi del minimo riflesso di colore.

Con un ultimo sforzo cercò di strapparsi di dosso gli occhiali per sfuggire al senso di vertigine. Ma era troppo tardi.


Quando Jacob Nielsen riprese conoscenza era sdraiato sul pavimento, con gli auricolari ancora sulle orecchie. Se li tolse con un gesto rabbioso e si mise seduto. Sullo schermo vide due occhi che lo fissavano terrorizzati. Ci mise un po' a capire che erano il riflesso dei suoi propri occhi, dei suoi realissimi occhi.

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